Mausoleo romano in ruderi a Belmonte Piceno

I RUDERI DI UN MAUSOLEO ROMANO a BELMONTE PIECENO

         L’osservatore che contempla il panorama di Belmonte Piceno dal Belvedere Europa, guardando verso il mare, si scorge un gruppo di piante, sul colle delle Morrecini, a metà percorso della strada verso Grottazzolina. Tra queste, i ruderi del monumento funebre sorto in epoca romana, al tempo dell’imperatore Augusto.  Una visita sul luogo fa notare che mancano le epigrafi che, un tempo, indicavano i nomi dei defunti ivi sepolti. Le intemperie e i terremoti fecero cadere le lapidi, vuotarono le nicchie. La corrosione effettuata dalle gelate ha staccato i pezzi del mausoleo. Ogni anno bisogna rimuovere le sterpaglie che abbondantemente vegetano e nascondono le parti dei ruderi tanto da far pensare ad un unico muraccio.

          La contrada attorno è detta ‘Castel Arso’. Doveva esserci non lontano qualche edificio andato a fuoco i cui i muri superstiti possono essere stati riutilizzati e più non vi vedono. Gli agricoltori del secolo passato, durante l’aratura del campo a nord-est di questi muracci, si imbatterono a cinquanta centimetri di profondità in un muro arcuato e trovarono lì sotto un cunicolo, una vera galleria sotterranea murata ad arco dell’altezza di un uomo. Forse un drenaggio o un deposito di acque o altro non si sa. Certamente questo corridoio sotterraneo aveva fatto immaginare il nascondiglio di un tesoro antico, mentre in realtà non c’era niente. In tutti i comuni si tramanda qualche leggendaria storia di tesori nascosti con chioccia e pulcini o telaio d’oro .

          Alcune “ville” romane furono costruite in questa contrada dopo l’assegnazione delle terre ai veterani degli eserciti di Pompeo Magno e di Giulio Cesare, al tempo del loro successore Ottaviano Augusto. Questa assegnazione di terre favorì la costruzione di grandi abitazioni , dette ville che erano dotate di tutti i servizi per abitare, immagazzinare, deporre attrezzi, allevare animali domestici e altre esigenze. Gli immigrati romani crearono un sensibile incremento delle produzioni in agricoltura, nell’artigianato e nel commercio di vari prodotti.

             I monumenti sepolcrali  da loro costruiti erano il segno della stima e riconoscenza verso gli antenati. Li costruivano in modo che durassero nei secoli, solidamente, con conglomerati di calce, rena, schegge di pietra, detti ‘opus cementitium’. I blocchi sovrapposti  formavano un monumento coronato in sommità con artistici cornicioni. Morregine o Morrecini è un toponimo esistente in molte regioni, tra l’altro denomina una contrada di Montegiorgio. Anche ad Ortona,  con Morrecine si indica un poderoso blocco di conglomerato cementizio ad uso di monumento sepolcrale. In Puglia Morrecine è un muretto fatto a secco con pietre. In Internet si trova Morrecine persino come antico nome personale.

          Il monumento belmontese delle Morrecini è ridotto a tre spezzoni di muri con le nicchie che formavano i  loculi in cui si ponevano le ceneri delle persone cremate. Questi antichi cippi funebri erano diffusi in ogni parte, nei territori dell’impero romano, tra l’altro a Piane di Falerone. Sono i resti che esprimono un piccolo quartiere dell’Impero Romano occidentale.  Le Morrecini a Belmonte si trovano vicine al bivio che  lungo la strada collinare  immette nella strada verso il fiume Tenna. La strada è segnata nelle topografie dei secoli passati.  Infatti i monumenti funebri venivano costruiti dai Romani lungo le vie per farli notare dai passanti. I massi di pietra cementata avevano un rivestimento architettonico in marmi. Le epigrafi apposte alle nicchie, con i nomi, erano a gloria dei defunti le cui ceneri erano nei vasi cinerari.

   Lo spazio attorno veniva delimitato perché considerato come un’area sacra, dedicata ai trapassati ivi sepolti, e chiamati Mani come divinità protettrici. “I diritti dei Mani sono sacri”, proclamò la prima delle più antiche 12 leggi romane: “iura manium sancta sunto”. Inviolabile i sepolcri.  Le ombre dei defunti abitavano nell’oltretomba ma erano presenti spiritualmente ed ispiravano le menti riflessive dei loro cari discendenti che si soffermavano a meditare e ricordare davanti al sepolcro.

    Generalmente i cippi monumentali erano innalzati presso i confini dei campi assegnati a singole proprietà, ed avevano dei “segni caratteristici” del limite, per indicare i confini. Gli elementi che contraddistinguevano i confini, secondo le norme, erano cenere, carbone, cocci, pezzi d’osso e pezzi di vetro, grumi di calce e di gesso e qualche vasetto di terracotta posto in fondo ad una buca.

       C’è una poesia delle rovine. Il visitatore che arriva alle Morrecini belmontesi, nota le nicchie in blocchi rovesciati. Alza lo sguardo e scopre di stare affacciato da un balcone collinare che sparte le due vallate, una del Tenna e l’altra dell’Ete. Appena che uno si lascia cullare dal sussurro del vento che fa stormire le fronde, gode del verdeggiare dei campi e dell’ascendere matturino del sole ridente che sperde le nebbie dagli ameni colli, e crea un cielo splendido. Al calar del sole, nel silenzio, si coglie il momento magico, in cui l’umano ed il divino si sfiorano. Nell’avvicendarsi continuo degli accadimenti umani, la serenità infonde gli ideali della civiltà dell’itala gente dalle molte vite. Proprio nell’epoca  in cui venivano erette queste isolate costruzioni a lodevole memoria degli antenati,  il massimo poeta latino, Publio Virgilio Marone esaltava la vita rurale, nel poemetto delle Georgiche e compiva nell’Eneide la rivisitazione degli antenati.

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