1900 – Domenico Alaleona e l’errore dell’Enciclopedia
Canti di Natale ovunque in questo periodo; pastorali davanti al Presepe; ninne-nanne, cornamuse, zampogne. Oltre alle ninne-nanne di autori molto conosciuti, vi sono ninne-nanne e pastorali di alto valore musicale, composte da artisti nostrani.
Qualcuno le ha messe in onda in occasione del Presepe vivente di Altidona, cui i mass media non hanno dato il risalto dovuto, mentre è stata una manifestazione superlativa, una vera e propria rivelazione. Taluno addirittura ha posto l’equazione: “Altidona sta alla Natività come Oberammergau sta alla Passione di Cristo”. Come è noto, Oberammergau è un villaggio tedesco, dove ogni dieci anni si rappresenta il dramma della passione e gli attori (come in Altidona) sono gli abitanti del villaggio.
Ma torniamo alle ninne-nanna e alle pastorali. Fra quelle che hanno allietato il Presepe di Altidona, c’era la Ninna-Nanna di Domenico Alaleona, musicista poco conosciuto, ma validissmo, di Montegiorgio dove nacque nel 1881 e dove morì il 28 dicembre 1928. Ieri ricorreva l’anniversario: il sessantaseiesimo. Dicevamo “poco conosciuto”, o me¬glio misconosciuto. La Enciclopedia Treccani che ne parla (vol. II pag. 162), lo dice morto alla vigilia di Natale del 1928. Noi che non ci fidiamo e controlliamo sempre, siamo andati a consultare gli atti di morte del Comune di Montegiorgio e abbiamo visto che è deceduto il 28 dicembre 1928 e non alla vigilia di Natale.
Musicista e compositore, l’Alaleona si formò al liceo musicale di Santa Cecilia di Roma, diplomatosi nel 1906. L’anno dopo si laureò all’università di Roma, con la tesi: “Studi sulla storia dell’oratorio musicale in Italia”. Dal 1905 al 1911 insegnò canto corale nella scuola nazionale di musica e dal 1916 ricoprì la cattedra di estetica e storia della Musica nel Conservatorio S. Cecilia di Roma. Primo in Italia ad intuire e studiare certi aspetti della musica più moderna, fu pure il primo a cniare e introdurre alcuni termini musicali, come dodecafonia, entrati nell’uso dell’arte musicale. Compose “Mirra”, rappresentata con successo al Costanzi di Roma nel 1904. “Albe”, sei canti per voce e pia¬noforte; le “Melodie Pascoliane” (sono 15) per canto e orchestra. “Canzoni italiane”, per archi, flauti e trombe; “L’Alleluia” per coro a quattro voci; “Il cantico di Frate Sole” etc. Vasta la sua opera, in gran parte inedita e ancora da scoprire e valorizzare.
Anno 1906 – Il Conte Sacconi e Fermo
Ricorrono quest’anno 90 anni dalla scomparsa di Giuseppe Sacconi, l’artefice del “Vittoriano”, maestosa bianca mole che simboleggia a Roma l’unità d’Italia.
Giuseppe Sacconi nacque a Montalto Marche nel 1854; a soli 6 anni, ritornando da Loreto dove lo aveva condotto la madre, ritrasse mirabilmente in un disegno la facciata della basilica, non trascurando alcun particolare.
La sua famiglia abitava nella natia Montalto e, felice coincidenza, nella stessa casa dove tre secoli prima aveva dimorato il suo conterraneo Felice Peretti, poi Sisto V.
Oggi, sulla facciata di tale casa, una lapide ricorda che da qui ascesero alla gloria ed alla fama due figli di Montalto: Sisto V e Sacconi; l’uno, il primo, che alzò al cielo, monumento di fede, la cupola di S. Pietro; l’altro, il Sacconi, che eresse il monumento di italianità, il Vittoriano.
Nel 1866 Sacconi si trasferisce con la famiglia a Fermo e vi frequenta il Convitto Nazionale (odierno IPSIA), quindi il Ginnasio Liceo, poi l’Istituto d’Arti e Mestieri (odierno Istituto Industriale).
Terminati gli studi a Fermo, su consiglio di Giovan Battista Carducci, famoso Architetto fermano, si iscrive all’Accademia delle Belle Arti a Roma dove, aiutato dal Pio Sodalizio dei Piceni, percorre tutto il curriculum degli studi divenendo ben presto famoso. Sua è la Cappella Espiatoria a Monza eretta per “espiare l’infame delitto dell’uccisione di Umberto I”; suo il progetto del S. Francesco di Force (1883); il progetto dell’Altare della Cappella di S. Giuseppe nella Basilica di Loreto, l’Arco di Traiano, etc.
A Fermo intervenne nella facciata della chiesa di S. Francesco, operò pure per la chiesa parrocchiale di Monturano, le Tombe al Pantheon a Roma, etc., ma la sua gloria maggiore è il Vittoriano, con l’Altare della Patria a Roma.
Se è vero come è vero che i due grandi, Sisto V e Sacconi, sono ascesi da Montalto alla gloria ed alla fama, è vero anche che entrambi nel loro soggiorno, a Fermo hanno temprato le ali e da qui spiccarono il volo: Peretti dopo esservi stato Vescovo dal 1571 al 1577, mentre Sacconi come alunno nelle istituzioni scolastiche di Fermo.
Se Wellington asseriva che la battaglia di Waterloo fu vinta grazie alla preparazione nella scuola di Eton, se la Germania per lunghi anni proclamò che la battaglia di Sadowa fu vinta dal maestro di scuola prussiano (Der Preussische Schulmeister hat die Schlacht bei Sadowa gewonnen) per sottolineare quanto sia importante la formazione della scuola, senza ombra di esagerazione, possiamo dire, specie per il Sac¬coni, che a Fermo si formò la loro umanità e la loro professionalità.
Una lapide posta nell’atrio di ingresso all’ex Convitto Nazionale lo ricorda ai posteri.
Essa recita: “Il Conte Giuseppe Sacconi, grande e modesto, ebbe qui i primi studi ed onori; a Roma cariche, titoli, gloria, fama eternale; fu deputa¬to al Parlamento per 6 legislature. Insignito di molte onorificenze, inscritto a dotte società italiane e straniere. Nell’architettura portò valore uguale ad ogni altissima impresa, armonia di linee; semplicità di stile, gusto e critica insuperabilmente finissimi. Visse tutto ardente per il bello, per il vero; tutto inteso allo studio della natura, de’ classici modelli e degli antichi monumenti che illustrò in grande numero: l’Arco di Traiano, la Loggia dei Mercanti in Ancona, la Basilica di Loreto alla primitiva forma; ridusse di nuovi splendori; accrebbe, fece l’Altare Papale nel Duomo di Ascoli Piceno; disegnò la facciata di S. Maria degli Angeli a Roma e la Cappella Espiatoria a Umberto I in Monza, spettacolo di ammirazione all’universo. Lasciò il monumento a Vitto¬rio Emanuele II, famedio de’ suoi successori ove con sapienza creatrice affermava la grandezza e la nazionalità dell’arte con la grandezza e la nazionalità della patria in giovane età. Dell’italico risorgimento rifulse Architetto sovrano, autore e martire della scienza nova. X giugno MCXVI”.
Anno 1909 – Padre Giuseppe Gianfranceschi
È trascorso il centenario della nascita del Prof. Padre Giuseppe Gianfranceschi e nessuno, per quanto ci consta, ne ha commemorato la ricorrenza.
Nato ad Arcevia (Ancona) il 21 febbraio 1875, il piccolo Giuseppe frequentò le elementari nel suo paese natio, indi proseguì, nelle Marche, gli studi ginnasiali e liceali, conseguendo la maturità classica. Si iscrisse poi all’università Statale di Roma, ma al quarto anno, sentita la divina chiamata entrò nella Compagnia di Gesù pur hs continuando gli studi universitari. Ben presto si laureò in Fisica, Ingegneria e Matematica, oltre a Filosofia e Teologia. Insegnò alFUniversità Statale di Roma e fu docente di Fisica ed Astronomia all’Università Gregoriana; nel 1919 rinunciò all’insegnamento nell’Università Statale, e, nel 1921, sotto il Pontificato di Benedetto XV, fu eletto presidente dell’Accademia delle Scienze, carica in cui fu riconfermato da Pio XI, il quale gli affidò la restaurazione dell’Accademia predetta. Nel 1930 venne chiamato a dirigere la stazione radiotelegrafica del Vaticana, dotata da Guglielmo Marconi dei più perfetti mezzi di trasmissione. Di tale stazione, il giorno undici febbraio 1931, la parola del magistero divino “già diffusa per venti secoli dal Pontefice Romano attraverso il mondo venne per la prima volta percepita contemporaneamente su tutta la superficie della terra”.
La stazione vaticana non solo servì alla diffusione della parola del Sommo Pontefice, ma anche alla radiodiffusione di lavori scientifici e di nuove invenzioni, grazie al giornale parlato chiamato da P. Gianfranceschi: “Scientiarum Nuncius Radiophonicus”.
Intanto, la fama di Gianfranceschi come scienziato, cresceva e si diffondeva in Italia ed all’estero, grazie alle sue valide pubblicazioni. Esse assommano a circa 140, senza contare lavori inediti. Sono scritte in italiano, in latino, in inglese, in lingua spagnola. Tra esse sono da ricordare: “L’errore dell’ortogonalità nella scrittura dei moti periodici” e “Sopra la velocità dei joni prodotti da una fiamma” accolta all’Accademia dei Lincei. È dal periodo del suo assistentato all’Università Statale di Roma, un gruppo di lavori sull’acustica tra cui emergono: “Su l’errore della scrittura dei moti periodici”; “Scrittura e vibrazioni acustiche mediante l’elettrometro bifilare di Wulf “ e “Sopra lo studio delle curve vocali”, presentato al I congresso di fonetica sperimentale, tenutosi ad Amburgo nel 1914. Importante è il lavoro sul “Corista campione dell’ufficio centrale italiano”, del quale determinò il coefficiente di raffreddamento e quello di temperatura; inoltre “Prova meccanica della rotazione assiale della terra, ottenuta mediante le misure di deviazione dei gravi in caduta”. In tale lavoro, ebbe precursori e predecessori illustri quali Galileo (Dialogo dei massimi sistemi) e Newton.
Altra sua importante opera, è “Proiezione sul piano orizzontale della velocità istantanea della terra”. Risalgono al 1909 i suoi studi sulla relatività e la sua traduzione dal tedesco del lavoro di Minkowski “Spazio e Tempo”. Altre sue opere sono: “Disintegrazione e degradazione della materia”, “Teoria dei quanti”, “La costituzione elettronica degli atomi”.
Con i lavori: “Distribuzione dell’energia nello spettro normale”, in cui fra l’altro ribadisce il concetto che i corpuscoli vibratori non posseggono tutti identicamente la stessa frequenza e “Teoria della relatività”, pubblicato da Vita e Pensiero di Milano, “Strutture dell’atomo e inerzia della materia”. “The perthurbation of electronic orbits”, “Lo spazio l’energia e la materia”, “In pondere et mensura”, “Sulle frontiere della nuova fisica”, tutti scritti tra il 1905 e il 1934, si acquistò fama mondiale.
Assolse importanti missioni all’estero con dignità e rara competenza: a Cambridge nel 1912 per il congresso di matematica; a Ginevra nel 1929, presso la Società delle Nazioni; a Parigi, nel 1923, per il centenario di Pasteur; di nuovo a Parigi nel 1932, per il congresso intemazionale di elettricità. Nel 1924 fu a Toronto per il congresso di matematica e, nello stesso anno, a Filadelfia (Stati Uniti) per il centenario di Beniamino Franklin. Nel 1927 si recò a Lovanio ed a Londra, per i centenari delle rispettive università; nel 1928 partecipò alla spedizione polare di Umberto Nobile. Lo troviamo a Madrid nel 1932, alla conferenza intemazionale di radiotelegrafia e radiotelefonia. Nel 1933 è a Lucerna, per la conferenza europea delle telecomunicazioni.
Ciò, senza contare le missioni scientifiche nelle varie città italiane come a Taranto nel 1914, a Reggio Emilia nel 1918, al centenario di Padre Secchi a Como, al congresso di fisica nel 1927 etc.
Chiamato – come detto – a dirigere la stazione radio della Città del Vaticano, fece eseguire in essa “sin dal 1932, trasmissioni di immagini col metodo di Belin, mediante un’apparecchio originario donato a Pio XI dal Belin stesso”. Questa notizia, annunciata nella commemorazione di P. Gianfranceschi, tenuta alla Pontificia Accademia dei Lincei dal Prof. L. Lombardi il 18 novembre 1934, oggi a distanza di anni, riempie di ammirazione e stupore.
Dalla medesima Stazione Radio, l’anno dopo, vennero eseguite esperienze di collegamento tra la Città del Vaticano e l’Australia.
Morì a Roma il 9 luglio 1934, per un male all’esofago. Ai funerali, parteciparono Ministri, Cardinali, Ambasciatori italiani ed esteri. Di lui parlarono Radio Austria, la Radio Svizzera, la National Broadcasting Company di New York, Radio Spagna, Radio Portogallo, la Radio tedesca, francese.
Le università di Tolosa, Pisa, Varsavia, Bologna, Bari, Madrid, Modena, Berlino, Saragozza, Pavia, Milano, l’Università Cattolica di Milano, il generale Umberto Nobile, ed il celebre Enrico Fermi, lo commemorarono in tornate accademiche od in sessioni speciali. Lo stesso fece lo “Smithsonian Institute” negli Stati Uniti d’America.
Guglielmo Marconi ebbe a dire di lui: “Ebbi agio per frequenti rapporti personali di apprezzare in tutta la loro ampiezza le doti di mente e di carattere di Padre Gianfranceschi ed alla stima che nutrivo per lui, si aggiungeva una profonda amicizia”.
Pio XI lo ebbe sempre in specialissima predilezione, ed a varie riprese, gliene diede pubblica manifestazione.
P. Gianfranceschi superò la freddezza dello scienziato, godè del privilegio della poesia intima e naturale. “Lo splendore delle bellezze naturali, la quiete e verde dolcezza dei campi, parlarono al suo spirito non meno che possentemente che la voce della scienza”. Per iniziativa dei suoi concittadini, la salma il 23 maggio 1936, fu riportata nella natia Arcevia e la traslazione fu un trionfo. Con Angelo Rocca (fondatore della Biblioteca Angelica di Roma) con il letterato Giovanni Crocioni, ed il lessicografo Fernando Palazzi, è lustro e vanto del paese natio.
Nella casa dove trascorse la fanciullezza, una lapide così lo ricorda ai posteri:
“Nella vicina collegiata di S. Medardo / gli arceviesi vollero tra¬sportarla,/ la venerata salma del loro illustre concittadino: P. GIUSEPPE GIANFRANCESCHI S.J. : n. in Arcevia il 21 febbraio 1875 – m. a Roma il 9 luglio 1934 / che in questa casa trascorse la fanciullezza gioconda / Perspicace indagatore di scientifice verità / illustrate in dotti studi sommariaftiente pregiati / fu docente e rettore dell’Università Gregoriana / Presidente della Pontificia Accademia dei Nuovi Lincei / Fondatore della Vaticana Stazione Radio / Cappellano della spedizione polare italiana del 1928 / Particolarmente diletto al Sommo Pontefice Pio XI / che gli affidò alte missioni di religione e di scienza / caro a Guglielmo Marconi e a quanti pregiano le virtù eccel¬se / che perpetuano la memoria degli uomini insigni / 23 maggio 1936.”
Nel suo loculo, nella collegiata di S. Medarlo di Arcevia si legge: “Alla religione ed alla scienza / consacrò l’alto impegno e la nobile vita / il Padre Giuseppe Gianfranceschi S. J. / Rettore dell’Università Gregoriana / Presidente della Pontificia Accademia dei Nuovi Lincei / di scientifiche verità genialmente intravviste / assertore ed illustre sapiente / n. in Arcevia il 21 febbraio 1875 – m. a Roma il 9 luglio 1934 / Per unanime volere dei suoi concittadini / qui compianto riposa / 23 Maggio 1936”.
Anno 1910 – Romolo Murri e tre grandi piceni
Fervore di celebrazioni in questi giorni nel Fermano. Si commemora Augusto Murri, il grande clinico; si ricorda il centenario della nascita di Osvaldo Licini e il cinquantesimo della scomparsa di Romolo Murri, avvenuto a Roma il 12 marzo 1944, pochi giorni prima dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Nato a Monte S. Pietrangeli nel 1870, ben presto entrò nel seminario di Fermo, percorrendo brillantemente gli studi.
Ordinato sacerdote nel 1893, si iscrisse all’università di Roma dove frequentò le lezioni di Antonio Labriola. Oratore forbito e vivace, si inserì nel mondo studentesco, pervaso da violente competizioni dottrinali e politico-sociali. Insieme a G. Salvatori, F. Ermini, F. Crispolti e G. Semeria, gettò le basi della Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana).
Fu uno dei pionieri della Democrazia Cristiana e collaborò con don Luigi Sturzo. Ebbe ben presto screzi politici con la gerarchia cattolica che degenerarono in screzi religiosi. Progressivamente Murri maturò una concezione più articolata dei rapporti tra fede e politica, tra Chiesa e Stato, tra azione politica e gerarchia ecclesiastica. Propugnò addirittura un partito aconfessionale, indipendente, nella sua azione politica dalla S. Sede, sebbene ispirato ai valori sociali del cristianesimo.
Pio X preoccupato dell’unità della fede e delle tendenze autonomistiche del laicato, dopo varie vicende e dato l’atteggiamento ribelle del Murri, nel 1907 lo sospese a divinis e due anni più tardi lo scomunicò (1909). In questo stesso anno, Murri fu eletto deputato nel collegio di Montegiorgio; depose l’abito ecclesiastico: e si unì in matrimonio con Ragnhild Lund, che gli sopravviverà 17 anni.
Il problema del modernismo di Murri è stato molto discusso. Il Prof. Guasco nel suo recente volume Romolo Murri ed il Modernismo ha chiarito molte posizioni storiche. L’accusa di “modernismo politico-sociale” fatta al Murri, consisterebbe nella negazione di ogni autorità della Chiesa nel campo temporale e nella rivendicazione dei cristiani di una autonomia piena nel campo politico. Tuttavia, afferma Pietro Scoppola, profondo conoscitore del pensiero del Murri: “Il distacco del nostro dalla Chiesa è da attribuire più a questioni disciplinari che a posizioni dottrinali. Un vero e proprio modernismo non c’è negli scritti di Murri, anche se ci sono delle tesi piuttosto avanzate e vicine a quelle dei modernisti”.
È sepolto a Gualdo, paese dell’archidiocesi di Fermo, dove viveva lo zio don Vincenzo e dove si recava da Roma per ritemprare lo spirito. Volumi e volumi sono stati scritti sul nostro Murri e un articolo giornalistico non è certo sufficiente a lumeggiarne la vita e le opere.
A Gualdo, sulla sua tomba si legge “Qui posano i resti mortali di / Romolo Murri / Non ebbe nome né posto / nelle gerarchie mondane / non cercò onori o ricchezze / ma credè fermamente in Dio / Dio volle / e considerò ufficio e pregio della vita / servir lui nel prossimo. 27 agosto 1870 – 12 marzo 1944”.
A fianco riposano la moglie e don Vincenzo Murri (+1917). Immensa fu la sua cultura; travolgente la sua eloquenza. Fermo, nel 1970, in occasione del centenario della nascita, gli tributò un convegno di studi che ebbe risonanza nazionale. Macerata oggi gli fa eco nel cinquantesimo della morte.
Con Augusto Murri di Fermo, Osvaldo Licini di Monte Vidon Corrado forma la triade dei grandi piceni degnamente oggi ricordati e celebrati.
Anno 1918 – Il soldato elpidiense per primo a Trieste
Panta rei (tutto scorre) ammoniva la filosofia antica e Foscolo ricorda che “involve tutte cose oblio ne la sua notte”… E per questo, che vorremmo ricordare o far conoscere un episodio dell’ultimo giorno della prima guerra mondiale (2 novembre 1918) che portò alla ribalta della storia e della gloria un umile marinaio-aviere di Porto Sant’Elpidio. Si chiamava Giuseppe Pagliacci (anzi per l’esattezza anagrafica: Pagliaccio) e fu poi medaglia d’argento al valor militare. Fu il primo sol¬dato italiano ad entrare a Trieste, prima dell’arrivo delle forze regolari dell’esercito.
Pagliacci, con la sua squadriglia partecipava ad un volo esplorativo sulle coste istriane con il preciso compito del Comando Supremo di gettare su Pola e Fiume, e specialmente su Trieste, manifestini multicolori annunzianti il prossimo arrivo delle truppe italiane. A Trieste, i cittadini, resisi padroni della situazione, erano assiepati in Piazza Grande ed avevano sollecitato l’arrivo delle truppe italiane, anche per evitare possibili sorprese croate. Ad un tratto, appaiono nel cielo aerei italiani che, volando a cerchi concentrici, si abbassano gettando manifestini. Un urlo frenetico e deliranti applausi si levano dalla folla. Migliaia di mani sono protese a salutare. Richiamata dal rombo dei motori, la folla diventa sempre più fitta. Gli avieri, anche loro entusiasti, volano sempre più in basso per salutare.
Ad un tratto il nostro marinaio-aviere Pagliacci che componeva la squadriglia, vinto da quel delirio, non seppe resistere e con perfetta, impeccabile manovra compì l’ammaraggio nello specchio di mare antistante Piazza Grande, che da allora venne chiamata Piazza dell’Unità. Il comandante del porto, lo rimorchiò subito a terra. La folla lo portò in trionfo fino al Palazzo del Governo, senza fargli mettere piede a terra sotto una pioggia di fiori, tra due fitte ali di popolo delirante ed acclamante. Tutti volevano abbracciarlo, tutti volevano stringergli la mano, tutti gli chiedevano qualche cosa di suo, anche un pezzetto di stoffa per ricordo del primo italiano entrato a Trieste.
Il gesto non era nei disegni del Comando Supremo che voleva riservare quell’onore ad un alto personaggio. Per questo, dal balcone del Palazzo del Governo, Pagliacci aveva detto ai triestini che si aspettava di essere punito per quella “trasgressione”, anzi avrebbe accettato volentieri la punizione, perché amava Trieste e la sua gente. Era però fiero, lui, popolano di Porto Sant’Elpidio, di aver messo piede, per primo, sul suolo triestino.
Ripartito e rientrato con la squadriglia a Venezia, andava sereno verso la punizione; fu invece portato in trionfo dal suo comandante e dai suoi compagni di volo. Seguì una breve licenza ed anche a Porto Sant’Elpidio Giuseppe Pagliacci ebbe deliranti accoglienze. In seguito emigrò in Canada, rispettato ed onorato dai nostri connazionali e qui morì con vivo il ricordo della patria e di Trieste redenta alla causa italiana.
Anno 1918 – Un fermano con D’Annunzio nello squillante raid su Vienna
Settantasei anni orsono, il 9 agosto 1918, si compiva la più bella ed ardimentosa
impresa aerea della prima guerra mondiale. Bella, perché non causò lutti né rovine; ardimentosa, perché fu un raid di oltre mille chilometri, di cui ottocento in territorio nemico. Era il volo su Vienna di otto aerei italiani al comando di Gabriele D’Annunzio; era il sussulto della rivincita dopo l’infausta rotta di Caporetto, ma era anche il preludio della squillante vittoria, che avrebbe arriso alle armi italiane, dopo soli tre mesi dal raid dannunziano.
Tra gli otto, v’era un apparecchio pilotato da un tenente fermano, Ludovico Censi, il quale fu il primo ad atterrare dopo il glorioso evento seguito dall’apparecchio di Gabriele D’Annunzio, pilotato dal capitano Natale Palli. Tutti gli apparecchi erano partiti al mattino del 9 agosto, dopo breve ‘orazione’ di D’Annunzio, che incitava gli otto ardimentosi piloti. Alle 9,20 erano giunti sul cielo di Vienna; si abbassarono allora a quota sotto gli 800 metri, lanciando un diluvio di manifestini inneggianti all’Italia ed all’immancabile vittoria delle armi italiane. “Sulle vie della città era chiaramente visibile l’agglomerato della popolazione”. Così il comunicato ufficiale che proseguiva: “I nostri apparecchi, che non vennero fatti segno di alcuna reazione da parte del nemico, al ritorno volarono su Wiener-Neustadt, Graz, Lubiana e Trieste. La pattuglia partì compatta, si mantenne in ordine serrato lungo tutto il percorso e rientrò al campo di aviazione alle 12,40”. A sua volta, il comando dell’Aeronautica comunicava: “Uno stormo di valorosi aviatori al comando del Maggiore Gabriele D’Annunzio, la mattina del 9 corrente ha raggiunto Vienna, percorrendo in gruppo compatto oltre mille km. di cui più di 800 sul territorio nemico, per ripetere sulla stessa capitale nemica la nostra parola di fede e di sfida. Mai vitto¬ria fu più completa e più nostra, perché italiane sono anche le macchine che hanno permesso agli ardimentosi aviatori di compiere la magnifica impresa. Con orgoglio di Capo addito i loro nomi: Magg. Ga¬briele D’Annunzio; Cap. Natale Palli; Ten. Antonio Locatelli; Ten. Aldo Finzi; Ten. Pietro Massoni; Ten. Ludovico Censi; Ten. Giordano B. Granzarolo; Sotto Ten. Gino Allegri; alla riconoscenza ed all’emulazione di tutti i soldati dell’aria”.
Tre mesi dopo Censi, il 2 novembre 1918, un altro eroe del Fermano sarà il primo aviere italiano ad atterrare a Trieste portato in trionfo dalla folla delirante e gioiosa: Giuseppe Pagliacci di Porto S. Elpidio.
Anno 1919 – Novelli e la Fenice
In questi giorni, nonostante la crisi di governo, in Italia non si parla d’altro che del “Teatro La Fenice” di Venezia, andato in fiamme il 29 gennaio e ovunque, coerentemente al mito dell’uccello che risorge, si parla della sua ricostruzione. Ben si addice, quindi, il motto che la Mitologia dava alla Fenice: ex flammis resurgo (risorgo dalle fiamme).
La Fenice, come è noto, era un uccello sacro e favoloso degli Egizi e degli Arabi; veniva descritto come una grande aquila dal piumaggio a vari colori; la sua vita durava cinque secoli, trascorsi i quali si preparava una pira con foglie ed erbe aromaniche, esposta al sole cocente, e così moriva bruciata.
Dalle sue ceneri rinasceva un’altra Fenice. La leggenda ben si addice al teatro omonimo, costruito dall’Arch. Antonio Selva, e posteriore al nostro Teatro dell’Aquila. La Fenice!
Tutta l’Italia è mobilitata alla sua ricostruzione ed anche dall’estero giungono aiuti. E pensare che la Fenice non è il più grande e famoso Teatro. Il più grande è il Teatro Massimo di Palermo, con 3.200 spettatori; seguono La Scala di Milano e il S. Carlo di Napoli, entrambi con 3.000 spettatori; quindi vengono il Regio di Torino e il Nuovo di Parma, con 2.000 spettatori.
La Fenice è più in giù in… graduatoria. Ma La Fenice ha grande risonanza per via della cornice artistica: la città di Venezia. E siamo ben felici che, conformemente a quanto detto sopra, La Fenice risorga (come nella Mitologia) dalle ceneri… Teatro: edificio destinato alla rappresentazione di drammi, di commedie, di tragedie di opere musicali; palestra e pedana per la fama di attori.
Proprio nello stesso giorno in cui la Fenice periva (29-1-1996) ricorrevano 77 anni esatti dalla morte di un grande attore, cittadino onorario di Fermo: Ermete Novelli. Questi era nato a Lucca in un giorno fatidico: il 5 rnaggiò, (ma dopo 30 anni esatti dalla morte di Napoleone, ossia il 5 maggio 1851) da Alessandro e dalla fermana Giulia Ga- lassi.
Fra le molte interpretazioni restò famoso ed ammirato per “Il mercante di Venezia” e “Il burbero benefico”, il primo di Shakeaspeare, il secondo di Goldoni. Alfredo Testoni scrisse apposta per lui la commedia “Il Cardinale Lambertini”. Si spense a Benevento il 29 gennaio 1919. Ermete Novelli conobbe la Galassi a Fermo e la storia d’amore sbocciò nel Teatro dell’Aquila in una occasione che assomiglia ad una finzione scenica più che alla realtà della vita
Ermete Novelli, il Teatro dell’Aquila. Coincidenze del destino ? Resta però un fatto, che il Teatro La Fenice risorge subito, dalle ceneri, ma il Teatro dell’Aquila, dove sbocciò l’amore tra i genitori di Ermete Novelli, quando risorgerà ?
Anno 1920 – Silvestro Baglioni: grande figura di uomo e di scienziato
Oltre a quello di Giacomo della Marca, ricorre quest’anno il centenario di un altro illustre marchigiano: Silvestro Baglioni nativo di Belmonte Piceno (un paesino vicino Fermo), culla della civiltà picena come ci attestano i numerosi reperti archeologici ivi rinvenuti. Dopo gli studi classici, Baglioni si iscrisse all’Università di Roma laureandosi a pieni voti e lode in medicina e chirurgia. Ciò all’età di soli 26 anni. Dopo essere stato assistente in Germania nelle Università di Jena e Gottinga, insegnò nelle Università di Sassari, Napoli, Pavia; fu socio dell’Accademia dei Lincei di Roma, presidente dell’Accademia Medica di Roma, dell’Accademia Imperiale Germanica, dell’Accademia di Stato Sanitario della Società fonetica ungherese, dell’Accademia Medica svedese, Accademia d’Italia e così via. Partecipò col grado di maggiore medico alla prima guerra mondiale, ed effettuò studi sull’alimentazione del soldato, di psicofisiologia di volo, per rilevare l’attitudine psicofisica e effettuare la selezione attitudinale dei candidati piloti.
Attaccato a Belmonte, suo paese natio, vi ritornava spesso nelle brevi pause di riposo e, grazie al suo interesse, il paese venne risparmiato dalle ire teutoniche nell’ultima guerra. I suoi studi furono parti¬ colarmente incentrati sulle proprietà fisiologiche dei centri nervosi. Il Baglioni rilevò che si può avere la stimolazione chimica di parti circoscritte del nevrasse per mezzo di sostanze che elevano o deprimono l’eccitabilità centrale. Tale affermazione introduceva qualcosa di rivoluzionario nel campo della neurofisiologia, poiché gli studiosi erano pienamente d’accordo nel ritenere che la sostanza nervosa centrale non fosse eccitabile con stimoli artificiali.
Baglioni, invece, attraverso un suo esperimento consistente nell’applicazione locale di deboli soluzioni di acido fenico sulla superficie dorsale delle regioni postero-laterali del cervello di rana, dimostrò il contrario.
Risultò, dopo un periodo di latenza, che si aveva una reazione da parte dell’animale che si manifestava con un grido. Il professore concluse quindi che l’acido fenico agisce specificamente elevando l’eccitabilità di determinati centri corticali. Proseguendo negli studi giunse anche a dimostrare che due diversi veleni, la stricnina ed il fenolo, pur avendo in comune la proprietà di provocare eccitabilità, determinano due tipi di eccitamento completamente diversi. Eseguì, questa volta, l’esperimento sul midollo spinale di rana e costatò che l’avvelenamento da stricnina, provocava dei crampi tetanici a tutti i muscoli del corpo, abolendo ogni movimento coordinato, mentre, con il fenolo, l’esecuzione dei movimenti, si ha tramite scosse rapide, per cui l’animale presenta continui accessi di tremori localizzati nei diversi muscoli. Diverso quindi il veleno, diversa la zona attaccata e le reazioni. Veniva, con queste ricerche, attuato un nuovo metodo di differenziazione dei meccanismi gangliari.
Il Baglioni, per ampliare le sue esperienze, abbandonò la rana, indirizzandosi al sistema nervoso centrale di invertebrati e specialmente al “preparato centrale Baglioni”, che è un preparato di midollo spinale di rospo completamente isolato ed allontanato dallo speco vertebrale, ma rimasto in connessione con i muscoli degli arti inferiori. Di esso si servì per dimostrare l’azione elettiva centrale della stricnina e dell’acido fenico e la differenziazione farmaco-dinamica dei centri midollari sensitivo-coordinatori da quelli motori. Poté, altresì, con tale metodo catalogare le diverse sostanze chimiche in due categorie, a seconda degli effetti che producono, se applicate sulle aree eccitabili della corteccia. L’acido fenico, acetico, appartengono alla prima categoria; essi non esplicano alcuna azione sull’eccitabilità faradica delle aree sopra citate, soltanto quando sono concentrati deprimono l’attività dei centri. La stricnina e la picrotossina, facenti parte della seconda categoria, anche in piccole dosi fanno aumentare l’eccitabilità faradica delle aree stesse, dopo un brevissimo periodo latente, provocano dei movimenti che si ripetono ritmicamente in forma di tic caratteristici. Ciò portò a far capire al professor Baglioni, che gli elementi gangliari della zona motrice corticale non si possono identificare con gli elementi motori spinali, ma sono da avvicinare agli elementi delle coma posteriori del midollo.
l periodo più fecondo dell’attività del professor Baglioni, andò dal 1900 al 1909, in cui si ebbe la parte più originale della sua produzione scientifica. Egli compì studi anche su altri campi di non minore importanza quali: la natura dei processi fisiologici degli organi elettrici; la fisiologia dei centri nervosi e degli organi di senso degli animali marini; il complicato meccanismo respiratorio della rana; la fisiologia dell’udito e della voce; la fonetica sperimentale; la meccanica respira¬toria dell’uomo; la genesi centrale della scrittura speculare con la ma¬no sinistra e tanti altri studi che hanno dato vita ad oltre trecento pubblicazioni.
Silvestro Baglioni morì a Roma nel 1957, lasciando un grande vuoto nel campo scientifico, ma specialmente per gli abitanti di Belmonte Piceno, in particolare per quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e di apprezzarlo.
Anno 1926 – Fusa a Fermo la Campana delle Laudi
Domenica scorsa tutta l’Europa ha potuto assistere in Eurovisione al convegno di Assisi, dove, dalle più disparate aree geografiche, sono convenuti i capi religiosi a pregare insieme al Papa, per la pace. La situazione nei Balcani, nell’Europa ed altrove è tutt’altro che rosea. Unica speranza per una pace giusta e durevole, è riposta in Colui che è in alto, nei Cieli! Forse per questo Dante parlando di Assisi e di S. Francesco esclama: “… non dica Ascesi (= Assisi) ché direbbe corto / ma oriente se proprio dir vuole”. Arieggiava, padre Dante, il versetto biblico “ci visitò apparendo dall’alto” Visitavit… nos oriens ex alto. L’Oriente è Cristo, che è luce e pace.
Assisi e Francesco, binomio inscindibile, noto a tutto il mondo. Vi sono persino città fondate in onore di S. Francesco (ricordiamo per tutte S. Francisco di California), ed altre fondate da personalità di nome Francesco, come Le Havre in Francia, fondata da Francesco I.
Sabato e domenica scorsa, i mass media di tutto il mondo hanno nuovamente portato alla ribalta Assisi e il suo Santo. Milioni di spettatori hanno visto (o rivisto) la stupenda basilica. Gli affreschi di Giotto sono apparsi nel loro fulgore davanti agli occhi di tutti. Giotto, come Francesco, è ormai patrimonio comune a tutti i popoli. Ma chi ha voluto e commissionato queste stupende pitture è un frate, nato nella nostra diocesi, padre Giovanni da Morrovalle, vissuto al tempo di Bonifacio VIII e di Duns Scoto. Fu ministro generale dei francescani, cardinale, teologo. Egli chiamò Giotto e lo incaricò di dipingere le 32 scene della vita del Santo.
I telespettatori hanno potuto ammirare anche il coro della basilica inferiore, opera di Apollonio da Ripatransone (1471) e quello della basilica superiore, dovuto a Domenico Antonio Indivini di S. Severino Marche (1501). Ma a Fermo spetta un altro grande merito: quello di aver fuso nel 1926 la Campana delle Laudi, uscita dalla fonderia Pasqualini e offerta da tutti i Comuni d’Italia ad Assisi, in occasione del settimo centenario della morte di S. Francesco. Campana melodiosa ed armoniosa del peso di 4.000 Kg. Il suo viaggio da Fermo ad Assisi costituì un vero trionfo. Leggendo le cronache del tempo, si ha l’impressione di un evento altamente significativo e ce lo conferma un documentario, riesumato nel 1985 e proiettato a Fermo, in occasione della ricorrenza. Re Vittorio Emanuele III, alla presenza delle più alte dignità ecclesiastiche, inaugurò la famosa campana.
Vi sarebbero altri episodi che mostrano e documentano le strette relazioni tra Assisi, S. Francesco ed il Fermano. Francesco per andare a predicare alla “presenza del Soldan superba” (Dante) si imbarcò ad Ancona. I Fioretti sono sbocciati nella Diocesi di Fermo esattamente a Montegiorgio per opera di Frate Ugolino. I più devoti e fedeli seguaci di S. Francesco sono (come si legge nei Fioretti): Giovanni della Verna (cap. 49, 3,53) nato a Fermo; Giovanni da Penna S. Giovanni (cap. 45); Umile e Pacifico da Montegranaro (cap. 46); Pellegrino da Falerone; Riczerio da Muccia, ecc.
Anno 1928 – L’autore di “Ladri di Biciclette” sposo a Porto S. Giorgio
Tartassati come siamo da Isi, Iciap, lei, Iva, Ilor, Irpef, Tickets, una tantum (che si risolve spesso in una semper), frastornati dal cataclisma delle tangentopoli, referendum ed annessi e connessi, non abbiamo più il tempo per leggere, riflettere, ricordare.
Tuttavia, non possiamo fare a meno di rievocare due eventi di un incisore e scrittore marchigiano, Luigi Bartolini, nato a Cupramontana (Ancona) nel 1892 e morto a Roma il 16 maggio 1963. Gli eventi sono: il suo matrimonio e il trentennio dalla scomparsa.
Bartolini, il famoso autore di “Ladri di biciclette”, da cui venne tratto l’omonimo film di De Sica, si sposò a Porto S. Giorgio il 29 agosto del 1928. Il Concordato tra lo Stato e la Chiesa, che riguardava anche i matrimoni religiosi con effetti civili, verrà stipulato un anno dopo, per cui Bartolini e la sua sposa contrassero matrimonio davanti all’ufficiale dello stato civile di Porto S. Giorgio. Nell’atto trascritto al numero 20, parte L, del registro degli atti di matrimoni dell’anno 1928, si legge che: Luigi Bartolini, nato a Cupramontana e residente a Caltagirone (Catania), e Zambon Adalgisa, Albina, Enrica, nata a Pola, di anni ventuno, residente a Pola, il giorno 29 agosto 1928 contrassero matrimonio davanti all’ufficiale dello Stato Civile del Comune di Porto S. Giorgio, commendator Angelo Silenzi, delegato dal commissario prefettizio.
A quanto pare, il 29 dei mesi estivi è propizio agli imenei dei grandi scrittori nel dolce clima di Porto S. Giorgio. Infatti, il 29 luglio 1883 vi iniziano la luna di miele Gabriele D’Annunzio con la duchessina di Gallese e, dopo 45 anni, il nostro Bartolini con la Zambon.
Ora c’è una rivalutazione di Bartolini e, come detto, quest’anno ricorre il trentennale della morte. Incisore e scrittore, dedito a ricerche illuministiche, si avvicinò a moduli della grafica espressionistiva, utilizzando tratti spessi e decisi. Sue acqueforti di gran pregio sono esposte nelle gallerie d’arte di Roma, Milano, Torino, alla Bibliothèque Nationale di Parigi e altrove.
Collaboratore della rivista “Il Frontespizio”, “L’Italia Letteraria”, eccetera, conseguì numerosi e qualificati premi. Nel 1935 alla “La Quadriennale” di Roma ebbe il primo premio: nella “23a Biennale” di Venezia riportò il primo premio per l’incisione. mentre nella 25a Biennale, sempre di Venezia, il primo premio per la pittura. Conseguì anche il pri¬mo premio Marzotto per la letteratura insieme a Dino Buzzati e il primo premio assoluto per la pittura, sempre al Marzotto.
Il nostro, che come si è detto si sposò a Porto S. Giorgio, è conosciuto come pittore, scrittore ed incisore, ma è soprattutto famoso per l’opera “Ladri di biciclette”, che gli diede fama mondiale.
Anno 1930 – L’inno del fermano per le nozze di Umberto e Mari Josè
In questi giorni si fa gran parlare dei componenti di Casa Savoia, del loro rientro in Italia. Le posizioni delle forze politiche, sono le più disparate. Ormai tutti i protagonisti della prima metà di questo secolo, sono scomparsi. Con essi Vittorio Emanuele III e Umberto II che, nel 1925, visitò Fermo con Maria Josè del Belgio. Ed è a questo matrimonio celebrato a Roma dal Cardinale Pietro Maffi, Arcivescovo di Pisa e uno dei porporati più in vista negli anni Trenta, che oggi ci riferiamo.
L’anno prima, era stata firmata la Conciliazione tra lo Stato Italiano e la Chiesa e tale celebrazione voleva quasi essere un suggello di questa pacificazione. Fasto e feste, quindi, quell’8 gennaio 1930, quando il Principe Umberto di Savoia impalmava Maria Josè del Belgio. Le cronache del tempo riportano con particolari le varie fasi di tali sponsali, ma anche (ed è questo che ci interessa) i canti folkloristici delle varie regioni e province d’Italia.
La provincia di Ascoli, venne rappresentata dal “Gruppo corale del Dopolavoro di Porto S. Giorgio e di Fermo”. L’inno fece furore. I nostri, vestiti in costumi delle campagne fermane, entusiasmarono tutti; il ritornello divenne subito patrimonio musicale dell’intera nazione.
“.. .0 principessa sposa / Sete la benvenuta / l’Italia ve saluta / con ’nna granfiala (= grandine, ndr) ’ doro sa / co’ ’nna grannala de fiori / Canterine e cantatori”e poi, l’impennata squillante, travolgente: “Fiori Fiori a Mari Josè”. L’inno non solo era diretto a “Mari Josè”, ma anche ad Umberto: “Le fate che se ’ncontra pe’ la sera / non è mejo de voi così belline. ’Nna festa sete de vellezze fine / più de ’nna mammoletta a primavera / Vicino a voi ce sta lo sposo amato l V avete scendo bello lo marito / ve se re guarda tutto ’ntenerito / lo fijo de lo nostro Re sordato..
Gli autori? Cesare Trevisani alias: Cesare d’Altidona, autore fra l’altro di opere fortunate fra cui la Guida Storico-Artistica di Porto S. Giorgio. Il musicista è Nino Mercuri di Montefortino. Mari Josè ha ora 90 primavere! Se toma, forse ricorderà l’inno bellissimo, entusiasmante, travolgente.
Anno 1933 – Cento anni vissuti a servizio degli altri
Nel 1892 Italo Svevo (1861-1928) pubblicava il suo primo romanzo: “Una vita’’, nel 1892 nasceva alla vita a Montefiore dell’Aso, Vincenzo Vagnoni, un bimbo destinato a raggiungere i cento anni: 1892/1992.
Fra qualche giorno, in piena lucidità mentale ed in ottima salute, compirà un secolo di vita. Un secolo! Si fa presto a dirlo. Ma quante vicende, quante vicissitudini, gioie, dolori, speranze, quanti eventi! Gli americani “malati” di statistiche avrebbero subito precisato: 20 lustri; 1.200 mesi; 36.525 giorni; 876.600 ore (anni bisestili compresi).
Ma al di là e al di sopra di tali fredde cifre, sono cento anni di vita intensa, dedicati alla chiesa, alla società, ai fratelli. Sì, perché Mons. Vincenzo Vagnoni, professore di filosofia e teologia, giornalista, scrittore, cultore dell’arte, ha dedicato una vita intera alla sua missione di sacerdote, di formatore di anime, di leviti, di uomini.
Non li cercò con la classica lanterna di Diogene, ma li formò, li plasmò, guida illuminata e sicura. Se fosse possibile fare una statistica dello spirito, vedremmo che quei molti giorni, quei tanti mesi ed anni, so¬no stati tutti spesi per ideali nobili, per raggiungere traguardi luminosi. “Che tu mi siegua ed io sarò la tua guida”, cantava il poeta e molte generazioni debbono tanto, talvolta tutto, a questa “guida”. Sono passati cento anni!
All’inizio del centesimo anno, ne demmo notizia e ci giunsero da più parti inviti a ricordare, a suo tempo, il compimento del secolo. Fedeli alla missione giornalistica di informare, ne diamo ora tempestiva notizia, con un certo margine sulla data effettiva: 31 luglio 1892-1992. In tale data, nel 1808 venne eletto Re Gioacchino Murat e nel 1954 fu conquistato il K2 da Compagnoni e Lacedelli.
Non è sempre vero che “virtù viva sprezziam lodiamo estinta“. Spesso date e ricorrenze vengono fatte passare sotto silenzio, perché non c’è il “menestrello” che le ricordi.
Abbiamo detto che Mons. Vagnoni, vicario dell’archiodiocesi più vasta delle Marche, nella sua lunga esistenza, ha visto molti eventi. Ha visto anche l’abolizione del latino nella liturgia della Chiesa; ma noi possiamo fare a meno di augurargli con Orazio: “Possa tu tardi tornare al cielo ed essere sempre col popolo”. Anzi, perché abbia maggior valore e forza augurale glielo ricordiamo in latino: “Serus in coelum redeas diuque laetus ìntersis populo”.
Ad multos annos ancora, Monsignor Vagnoni! E questo l’augurio dei suoi estimatori, del popolo del Fermano e di tutti quelli che hanno apprezzato ed apprezzano la sua bontà, il suo altruismo, la sua generosità incondizionata. Oggi non è la storia che racconta, ma Mons. Vagnoni che racconta la storia.
Anno 1944 – L’abbazia di Montecassino fu ricostruita da un’impresa fermana
Ricorreva l’altro ieri mezzo secolo dalla distruzione di Montecassino. Ben 227 fortezze volanti alleate, a ripetute ondate, si accanirono contro la celebre abazia, scaricando su di essa tonnellate e tonnellate di bombe. Periva così un celebre monumento, culla della civiltà occidentale, segnacolo di arte, di religione, di storia.
Era questa la quarta distruzione della sua storia millenaria, ma la più terribile. Molti i morti, specie tra i profughi. Miracolosamente si salvarono i pochi monaci rimasti, rifugiati in un angolo dei sotterranei, insieme al loro abate. Il bombardamento fu ripetuto il 17 ed il 18 febbraio, senza che gli Alleati ne sapessero trarre vantaggio, perché mancò un immediato attacco di fanteria. Anzi, ciò favorì i tedeschi che trasformarono ogni rudere, ogni muro, in un insidioso fortino, continuando a spiare dall’alto ogni movimento alleato.
Solo il 19 maggio successivo, grazie a una manovra avvolgente delle truppe polacche, la cima venne espugnata. Ma enormi furono i danni. Fortunatamente molte opere d’arte, archivi e libri erano stati messi in salvo e trasferiti a Roma.
Dalla distruzione si salvarono mille codici; quarantamila pergamene; duecentocinquanta incunaboli ed altre opere a stampa. I monaci in un primo momento, avevano avuto l’ordine di sgombero, ma poi i tedeschi, lo revocarono, assicurando l’abate Diamare che nessun ordigno bellico sarebbe stato installato nei pressi dell’abazia, per una fascia intorno ad essa di varie decine di metri.
Ma gli anglo-americani (5a e 8a armata) erano convinti che vi fossero asserragliati i tedeschi. La realtà era ben diversa; si ebbe però il feroce bombardamento.
In tanta distruzione si salvarono molte delle lamine del portale della basilica, lamine in bronzo costruite tra il 1087 ed il 1107, dove sono descritti i possessi dell’Abazia.
Fortunatamente, tra esse, vi sono la lamina sesta e la settima del battente di destra. La prima, recita che Montecassino “possedeva nell’area di Fermo, il monastero di Santa Maria in Leveriano e la chiesa di S. Giovanni di Garzania, il castello di Barbolano, inoltre (e qui inizia la lamina settima) la chiesa di Santa Maria e S. Biagio”.
San Biagio è quel cocuzzolo sito in territorio di Altidona, a sinistra guardando il Camping Mirage. Su di esso sorgeva appunto la chiesa di S. Biagio ed il castello che poi andò distrutto; il titolo della chiesa fu portato nella parrocchiale di Altidona.
E così a Montecassino, sulle porte della celebre abazia da secoli e secoli, il visitatore può leggere: “In civitate Firmana Monasterium S. Marie loco Leveriano et ecclesia S. Joannis de Garzania et Castellimi de Bubalano cum ecclesia S. Marie et S. Blasi cum pertinentiis eorum”. La chiesa di S. Giovanni di Garzania era nel castello di Altidona nel cui territorio erano S. Biagio e Barbolano (contrada ancor oggi esistente), mentre Leveriano era presso l’Aso.
Oggi monumento di fede e di civiltà la risorta abazia, nana anche che la sua ricostruzione è opera di imprese fermane. Infatti chi la ricostruì fu la ditta Breccia-Fratadocchi, come indicato in una lapide.
Anno 1947 – Quando Flaiano scriveva alla sua vecchia maestra
Al Festival del Cinema di Venezia, è stato presentato nella sezione “Venezia Notte” il film “Tempo di uccidere” con il bravissimo Ricky Tognazzi regia di Giuliano Montaldo, che ha ottenuto un grande successo. “Tempo di uccidere” è un romanzo di Ennio Flaiano, uno scrittore entrato già, e a buon diritto, nella storia della letteratura italiana del Novecento. Flaiano era nato a Pescara nel 1910, ma trascorse l’infanzia a Fermo. I critici si accorsero del suo valore solo dopo la sua morte. La sua scrittura “nitida, limpida, forbita e formalmente perfetta…”, lo rende oggi uno dei più validi scrittori del Novecento italiano.
La sintesi della sua produzione potrebbe essere quella di “una lunga lotta dell’intelligenza contro la morte. A quella lotta egli dava forme argute, allegre, cangianti, dall’aspetto effimero, apparentemente indolori”. Ma di essa, era sostanziata la sua vita e la sua opera.
Vasta la sua produzione letteraria: oltre “Tempo di uccidere” ricordiamo “Un marziano a Roma”, “Un bel giorno di libertà”, “Diario notturno”, “Melampo”, “La guerra spiegata ai poveri” etc. Ma sorprende la sua produzione come soggettista e sceneggiatore di film famosi. Suo capolavoro è la sceneggiatura de “La dolce vita”, il momento più felice della collaborazione con Fellini col quale lavorò anche in “Luci del varietà” (1951); “Lo sceicco bianco” (1952); “I vitelloni” (1953); “La strada” (1954); “Il bidone” (1955); “Le notti di Cabiria” (1957); “Otto e mezzo” (1963); “Giulietta degli spiriti” (1965). Ma non fu solo soggettista e sceneggiatore con Fellini, collaborò nel 1942 al film “Pastor Angelicus”, regia di Marcellini; “La barca del fuoco”, regia di Simonelli (1943); “Inviati speciali”, regia di Zampa (1945); “La freccia nel fianco”, regia di Lattuada (1945); “La notte di Pagherò” (1948); “Fuga in Francia”, regia di Soldati (1948); “Cintura di castità”, regia di Mastroianni (1949); “Parigi è sempre Parigi”, regia di Emmer (1951); “Guardie e ladri”, regia di Monicelli (1951); “Destini di donne”, regia di Pagliari (1953); “Dov’è la libertà”, regia di Rossellini (1953); “Vacanze romane”, regia di Wyler (1953); “Colpo rovente”, regia di Zuffi (1970) e molti altri. Il soggetto “L’uomo di Nazaret” fu scritto da Flaiano per Zeffirelli e depositato alla Siae nel 1971.
Flaiano, a sette anni, col fratello Nino, frequentò le elementari a Fermo. Egli ricordava questo soggiorno con simpatia e nostalgia. Il 13 luglio 1970, cioè dopo cinquanta anni, precisamente due anni prima di morire, così scriveva alla sua maestra: “Gentilissima Giuseppina, la chiamo così anche se è stata la mia maestra. Ho molta nostalgia di rivedere Fermo, dove non sono più tornato dal 1921. Ma un giorno voglio rivedere le Marche, dove ho trascorso parte della mia infanzia a Fermo, Camerino, Sinigallia (sic!). Spesso ricordo quel sant’uomo del rettore Don Tordini (era questi il rettore del Convitto Sacconi che ospitava Flaiano e suo fratello, n.d.r.). Egli fu per me un secondo padre… L’abbraccio affettuosamente e ancora grazie”. Ma oltre a Fermo, come visto, Flaiano ricorda altre località marchigiane Camerino, Senigallia e Recanati, dove si trovava la famiglia di una delle sorelle.
Anno 1947 – Ancora di Flaiano
Ora che le spoglie mortali di Fellini sono tornate a Rimini ed il silenzio sta per scendere sulla sua tomba, sia consentito ricordare, accanto al “mago del cinema”, un altro grande suo collaboratore: Ennio Flaiano.
Egli fu, per Fellini e con Fellini, soggettista, scenografo, ispiratore di moltissimi films. Flaiano, pur essendo nato a Pescara, studiò a Fermo.
I migliori films di Fellini vedono, come detto, Flaiano soggettista, ispiratore, sceneggiatore, eccetera. Il titolo del film “I vitelloni” ad esempio, è stato dato da lui. “In Abruzzo – scriveva – il termine vitellone era usato ai miei tempi per indicare un giovane di famiglia modesta, magari studente ma fuori corso, sfaccendato…”.
Troviamo Flaiano soggettista in “Luci del varietà” (regia di Fellini – Lattuada) del 1950. Due anni dopo è sceneggiatore de “Lo sceicco bianco”, regia di Fellini. Nel 1953 soggettista e scenografo de “I vitelloni”. Nel 1954 esce “La strada”; anche qui sceneggiatura di Flaiano insieme a Fellini e Pinelli. Gli stessi li troviamo nel film “Il bidone” del 1955.
Ne “Le notti di Cabiria” ancora una volta c’è la triade Fellini-Flaiano-Pinelli come soggettisti e sceneggiatori. Ne “La dolce vita” del 1959, di nuovo soggettisti e scenografi: Fellini-Flaiano-Pinelli. Ne “Il Boccaccio”, pure (1961). “Otto e mezzo” (1963) vede sceneggiatori Fellini – Flaiano. “Giulietta degli spiriti” è sceneggiata da Flaiano-Fellini-Pinelli-Rondi. Dopo il film “Otto e mezzo” i rapporti di collaborazione tra Fellini e Flaiano si affievoliscono (“con Fellini ho sospeso dopo Otto e mezzo”, scrive il nostro!). Tuttavia il grande riminese per questo non cessò di stimare e ammirare Flaiano. Da parte sua, Flaiano non era da meno.
Abbiamo accennato sopra a “La dolce vita”. Chi scrive, dopo due anni dall’uscita di tale film, si trovava in USA con una borsa di studio girando per tutti gli Stati Usa e, visitando moltissime città, ricorda le interminabili file e le code davanti ai cinema dei cittadini americani per assistere alla proiezione di tale film, che veniva proiettato in italiano con i sottotitoli in inglese. Dovette più volte fungere da interprete. Non era facile per loro capire cosa significasse “paparazzo”, “fregarsene”, eccetera. grande la sua fierezza di italiano nel constatare all’estero la fama e la grandezza di Fellini. Tornato in patria scrisse al Fellini in proposito. Fellini, commosso, ringraziò con una lettera autografa e con l’invio con dedica del volume di Angelo Solmi: “Storia di Federico Fellini”.
Emozione e commozione, mentre scrive, nel rileggere la lettera, rivedere la grafia felliniana e la dedica del grande “poeta del Cinema”.
Anno 1962 – Licini: nell’arte o nella vita lo spezzavi, ma non lo piegavi
Noi marchigiani siamo poco conosciuti, ma noi stessi non sappiamo farci réclame. Lo asseriva anche Giorgio Umani nella sua poesia “Il Marchigiano…”: …“pigli il pennello / e ti chiami Gentile / e ti chiami Raffaello / Pure c’è un’arte / che tu dal ceppo / che diede il Bramante / che diede Spontini / Leopardi e Rossini / non saprai mai / vendere bene/ la merce che hai”… Ed è vero! Se altre Regioni avessero avuto un Bramante, esulterebbero e celebrerebbero con fasto i 550 anni della nascita, dato che nel 1944 era impossibile, causa la guerra, celebrare il quinto secolo. Però siamo anche dimenticati e “snobbati”. Basti pensare che la recentissima Guida di Roma uscita appena nel dicembre 1993, nel descrivere la sala Nervi in Vaticano, non nomina affatto il nostro Pericle Fazzini (+1987) né la sua Resurrezione che, come abbiamo già detto, è conosciuta in tutto il mondo. Oltre Bramante, Raffaello, Gentile da Fabriano, Rossini, Leopardi, Spontini, Pergolesi, Sacconi, Annibai Caro, etc. c’è anche un pittore, assurto a fama intemazionale, di cui in questo 1994, ricorre il centenario della nascita. Si tratta di Osvaldo Licini di Monte Vidon Corrado, paese del comprensorio fermano. Licini, vi vide la luce, esattamente il 22 marzo 1894. Dopo i primi studi nel paese natio si iscrisse all’Accademia delle Belle Arti di Bologna, dove conobbe Giorgio Morandi con il quale operò per lo svecchiamento del linguaggio pittorico, mirando al cubismo e al futurismo. Poco più che ven¬tenne partì volontario per la guerra. Ferito e mutilato, tornò poi a Parigi, dove era già stato sin dal 1915 prima del conflitto. Qui conosce Modigliani ed entra in amicizia con Apollinaire, Dino Campana, Jean Cocteau. Nel 1917 toma al paese natio e, da allora insegna nelle scuole medie di Fermo. Si reca spesso a Firenze e nel 1926 sposa la pittrice svedese JNanny Mellestrom e toma definitivamente a Monte Vidon Corrado, dove in volontaria solitudine, continua a dipingere. Dal 1946 al 1954, è sindaco di Monte Vidon Corrado e quattro anni dopo vince la Biennale di Venezia, esponendo 41 opere tutte acquistate da un gallerista di Bergamo. È la “ consacrazione” della sua fama! Oggi, le sue opere sono esposte nelle Gallerie d’Arte moderna di Roma, Milano, Torino, Parigi (Jeu de Paumes) e Mosca.
A Fermo, ha ancora parenti ed amici e qui vive il dott. Carlo Ferrari che fu suo segretario comunale. Questi nel descrivere la semplicità quasi francescana del grande artista, racconta che in occasione di una ventilata visita del Prefetto di Ascoli al sindaco di Monte Vidon Corrado, cioè a Licini, il paesino non era in grado di offrire una degna ospitalità. Al detto dott. Ferrari che glielo faceva presente, Licini, allargando le braccia disse: “Se viene gli posso offrire mezzo litro da Cuti” (era il Florian del luogo). Quando dopo dieci anni di sindaco perse le elezioni, a Vito Concetti, alias “Cerchia”, il factotum del paese, affezionatissimo a Licini, e addolorato per la sconfitta, mostrando i suoi sigari, Licini disse: “Vedi Cerchià? Questi si possono spezzare, non piegare. Così io mi spezzo ma non mi piego”.
Piccole cose, grandi geni! Non so se Licini fosse al corrente che il grande poeta latino Orazio, già prima di Cristo, aveva incontrato ed in un’osteria durante il suo viaggio a Brindisi il grande Virgilio, Mecenate e Vario (Sat. 1,5) e non so nemmeno se fosse al corrente che la frase “ mi spezzo ma non mi piego” era stata coniata dallo stesso Orazio: Frangar nonflectar (Odi III, 3). Tuttavia qui abbiamo la prova che, a distanza di luoghi, di secoli, anni e millenni, vi è identità di vedute e di “ filosofia” tra poeti e pittori. Del resto, non lo aveva detto lo stesso Orazio? La pittura è come la poesia: ut pictura poesis.
Anno 1973 – Provincia “scippo”che non Scotti troppo. ( si riferisce al Ministro dell’Interno del tempo)
Si nota in questi giorni un vivace scambio di “idee” per la ricostituendo érovoncia di Fermo, soppressa nel 1860 dal governo di Vittorio Emanuele II ed unita a quella di Ascoli meno popolata, meno ricca, meno colta, meno importante. Fermo e Provincia contavano 110.000 abitanti contro i 90.000 di quella di Ascoli. La provincia di Fermo aveva 54 Comuni quella di Ascoli 52.L’estimo catastale di Fermo era si 19.137.848 lire; di Ascoli12.929.333. Fermo aveva 46 cultori di scienze, lettere ed arti; Ascoli solo quattro. Medici, farmacisti, levatrici di Fermo erano 251; di Ascoli139, etc. Fu un vero e proprio “scippo” ai danni di Fermo!
Ma anche nel 1373 ci fu un tentato “scippo” da parte di Macerata che voleva per sé la Curia Generale delle Marche, togliendola a Fermo. Il pericolo era grave e se be dovetteoccupare addirittura Papa Gregorio XI (1370-1378) che si trovava ad Avignone. Reuterate, intense e martellanti erano le richieste e le pressioni di Macerata, per impadronirsi della Curia Generale, che era stata posta a Fermo dal Cardinale Egidio Albornoz in quanto “luogo più nobile e più sicuro per la conservazione dello Stato di Santa Romana Chiesa.
Fra traslochi, beghe con i Cardinali francesi, con Re di Francia erc. Il Papa da Avignone non può occuparsi personalmente della questione Fermo-Macerata. Incarica perciò oò Cardinale Ugo di Santa Maria in Portico, che scrive al Rettore della Marca d’Ancona Pietro, Vescovo di Oxfprd, al tesoriere e a tutti i dirigenti della curia che quel trasferimento non s’ha da fare. Il passo della Bolla, redatto in un latino politi ed armonioso, recita tra l’altro “…. La città di Macerata vuole che venga colà trasferita la Curia Generale della Marca, cioè il Supremo Tribunalem ora esistente nella città di Fermo …. ma il Papa non vuole ed espressamente si oppone. Noi – prosegue la bolla – in considerazione dell’idoneità del luogo, della salubrità dell’aria, della comodità di accesso e di soggiorno, i Porti Marittimi dello Stato di Fermo, e l’abbondanza di ogni sorta di viveri e vettovaglie, rigettiamo la richiesta di Macerata, facendo presente che nessuno di voi osi tentare di favorire tale richiesta di trasferimento senza un ordine espresso da parte della Sede Apostpolica”. …. “Nessuno di voi pertanto, cioè Rettore, Tesoriere, officiali e componenti tutti della Curia, si muova da Fermo e non osi favorire le richieste di Macerata”
Morto Gregorio XI (che nel frattempo era tornato a Rome 1376), subentrò Papa Bonifacio IX, il quale non solo confermò la permanenza della Curia Generale, ma nominò suo fratello Andrea Tomacelli “signore di Fermo e suo Stato”. Ciò avveniva di questi giorni, nel gennaio del 1398, cioè 594 anni or sono. Una curiosità: nella bolla del Cardinale Ugo si indicano i Porti Marittimi, per la conaca, scritti con l’iniziale maiuscola (Portibus Maritimis).
Sarà un auspicio perché l’”iter” della ricostituendo o meglio restituendo provincia fermana giunga in “porto”. Allora il Papa e Cardinali si interessarono di Fermo, oggi i nostri Reggenti se ne infischiano. Attenzione che la faccenda, poi non “scotti” troppo!
Anno 1975 – La “Resurrezione” di Fazzini dimenticata dalla guida di Roma del Touring Club
È Pasqua, la festa più importante per i cristiani; la festa che incentra in sé l’epilogo della vita di Cristo. “È risorto! Alleluia!”. Riecheggiano in questi giorni i canti della liturgia e mi sono andato a rileggere quella stupenda ode Victimae Paschali Laudes. Che poesia! Che alto lirismo! “La morte e la vita hanno combattuto una battaglia tremenda. Il duce della vita è morto, ma regna vivo! Che hai visto o Maria? Gli an¬geli, il sudario, la veste! È risorto”. Anche se è stato abolito il latino, e i meravigliosi Exultet, il Resurrexi ed il citato Victimae Paschali sono svaniti, ora (come è noto) c’è un revival del gregoriano e lo prova il grande interesse per i compact e il boom delle vendite dei dischi relativi. Gregoriano e Vangelo: È troppo bello; troppo verace!: “Era l’alba e molli in viso / Maddalena e le altre donne / fean lamento sull’ucciso / Ecco tutta la Sionne / si commosse la pendice / e la scolta insultatrice / di spavento tramortì /. Un estraneo giovinetto / si posò sul monumento / Era folgore l’aspetto / Era neve il vestimento / a la mesta che le chiese / die’ risposta quel cortese / E risorto, non è qui!”.
Pasqua di Resurrezione. Per Fermo e dintorni, la storia ci narra che nel 1137 l’imperatore Lotario II, accorso in aiuto del Papa e cacciati dal¬la Marca Fermana i Normanni, passò qui le feste pasquali. Carducci nelle Rime Nuove, canta che Cristiano, Arcivescovo di Magonza (che l’anno dopo, 1176, distruggerà Fermo) si trovava accampato vicino Alessandria, sempre rapace e crudele (.. .e il magontino arcivescovo: accanto / de la mazza ferrata io porto l’olio santo / Ce ne’ è per tutti. Che almeno foste dell’Alpe ai varchi / miei poveri muletti d’italo argento carchi!!!!)”. Anche allora (1174), come farà per Fermo, saccheggerà ori e argenti.
Pasqua di Resurrezione. Quanti si sono commossi nel vedere in TV “Gesù di Nazareth” di Zeffirelli. Ebbene il soggetto col titolo “L’uomo di Nazareth”, è opera di Flaiano, che fu studente qui a Fermo col fratello.
Pasqua di Resurrezione. Non la conosce (o non la vuole conoscere) l’ultima Guida di Roma del Touring Club Italiano uscita qualche mese fa. Parlando della Sala Nervi (capienza 12 mila persone) non menziona affatto la Resurrezione del nostro conterraneo Pericle Fazzini di Grottammare (1913-1987) e sì, che tale Resurrezione è conosciuta in tutto il mondo; i giapponesi l’adorano.
Pasqua di Resurrezione. Ricordi dell’uovo a scoccetta; di capriole allo scioglimento delle campane, di quei due altissimi pioppi a fianco della fontana del paese natio; nella mia ingenuità di bambino pensavo che arrampicandomi su di essi, potessi giungere a toccare il cielo. Ora è piccola gioia constatare che sono più lontano dal cielo, di quando ero bambino.
Pasqua di Resurrezione. Sia questa Pasqua l’inizio della Resurrezione della nostra patria. Anche Egli, il Risorto, amò la sua e pianse per le sfortune di Gerusalemme.
Buona Pasqua.
Anno 1989 – Nella biblioteca del Papa
Il volume S. Benedetto del Tronto – Storia Arte e Folklore, sta mietendo successi ed è stata approntata la seconda edizione (Arti Grafiche D’Auria – Ascoli Piceno), che sarà prossimamente consegnata alla sede della Cassa di Risparmio di Ascoli, sponsor ed editrice di esso.
Esauritasi in breve la prima edizione, con le copie per i sambene- dettesi e clienti della Cassa, istituzioni scolastiche, culturali, etc., si è poi avuto un boom di richieste da parte di “addetti ai lavori”, università, biblioteche: da Aosta a Gorizia, dal Trentino alla Sicilia, sono piovute e piovono richieste, ma quello che più conta, consensi, positive valutazioni di tale opera, che pur con qualche menda tipografica, è comunque apprezzata e positivamente valutata. Ultimamente, una copia è stata do¬nata al Presidente del Consiglio on. Andreotti, nella sua recente visita a S. Benedetto e nella stessa occasione, è stata donata pure all’on. Merlo¬ni. Dall’estero sono pervenute richieste dal Canada, Usa, Germania, Spagna, Francia, Jugoslavia, segnatamente dalle città dalmate di Sebenico, Spalato e Ragusa. Sul tavolo della direzione della Cassa di Ri¬sparmio di S. Benedetto e su quello della Presidenza di Ascoli, giungono lusinghiere lettere di ringraziamento e di alto apprezzamento.
Un professore dell’università di Liverpool, Ch. H. Elough, venuto in Italia per un ciclo di conferenze, si è recato appositamente a Fermo per conoscere personalmente l’autore principale e il coordinatore del¬l’opera, il Prof. Nepi. Ma ciò che riempie di gioia l’animo degli autori, dei realizzatori e dello sponsor è il fatto che tale volume è giunto fino a Mosca dove lo ha richiesto il titolare dell’antica Diocesi di Truentum, l’Arcivescovo Francesco Colasuonno (è venuto a S. Benedetto quando è stato presentato il volume). Egli è forse la personalità di maggior spic¬co nei rapporti tra il Vaticano e i Paesi dell’Est, l’artefice delle riallacciate relazioni tra la Russia e il Vaticano! Ma gli autori debbono esultare per un’altra prestigiosa affermazione. Il giorno 8 ottobre il curatore e coordinatore dell’opera, Prof. Gabriele Nepi, trovandosi per ricerche in Vaticano, ha avuto la fortuna di poter consegnare personalmente a Pa¬pa Giovanni Paolo II tale volume e proprio mentre il Papa usciva dalla seduta del Sinodo dei Vescovi di tutto il mondo.
Ora nella biblioteca del S. Padre dove non sostano che volumi di éli¬te, l’opera S. Benedetto del Tronto preceduta da una originale dedica del Prof. Nepi, che ha fatto anche i nomi dei collaboratori e della Carisap, fa bella mostra di sé. Ce lo assicura una preziosa lettera di ringraziamento pervenuta al Prof. Nepi e comunicata immediatamente al presidente, avv. Vincenzo Aliberti. Ora non resta che il Presidente Cossiga.
Anno 1992 – Un monumento ai Caduti
Domenica scorsa, sulla sommità del Girfalco, spettatore e attore delle vicende storiche di Fermo, si è inaugurato il monumento ai Caduti. Fermo era forse l’unica città d’Italia a non averlo. Vi erano sì delle lapidi, ma non un monumento che accendesse “a egregie cose il forte animo”.
È stato innalzato emblematicamente nel giorno di S. Francesco, patrono d’Italia, a suo tempo anch’egli soldato a difesa della sua Assisi. Lo scultore Aldo Sergiacomi, dall’alto dei suoi 80 anni, ha il merito di avere innalzato sull’alto colle del Girfalco due monumenti: uno alla Patria (quello di oggi) e uno alla Religione (le magnifiche porte di bronzo della Cattedrale). Due monumenti topograficamente vicini e cari al cuore dei Fermani.
Fermo si distinse nel corso dei secoli per il suo valore militare. Prima colonia, poi alleata di Roma, fornì a questa armi ed armati nelle guerre puniche; i suoi soldati combatterono a Canne e nelle altre battaglie contro Annibaie. Tenne fede a Roma nella guerra sociale e per l’aiuto precipuo dei Fermani, Gneo Pompeo Strabone, da assediato divenne as¬sediarne, espugnò Ascoli capo della rivolta e vinse gli italici insorti. Ci-cerone chiama i Fermani fratelli (Epist. 8 libro IV) per l’aiuto prestato. Ma in precedenza, i soldati Fermani si erano già imposti al rispetto e all’ammirazione di amici ed avversari. Plutarco nelle Vite Parallele nel narrare la vita di Catone, esalta il valore dei Fermani nella guerra con¬tro Antioco Re di Siria (193 a.C.). Qui un manipolo di soldati Fermani fu determinante per la vittoria romana. Tito Livio (Dee. V lib. IV) narra il valore di una coorte fermana nella guerra macedone contro Perseo nel 168 a.C. Più tardi si ebbero episodi di valore fermano nella guerra contro Marco Antonio (45 a.C.). Cicerone ne parla ancora nella Filippica VII, esaltandone le virtù militari.
Sarebbe troppo lungo elencare gli atti di valore da Carlo Magno a Pipino (che vinse Grimoaldo Duca di Benevento grazie al valore dei Fermani); da Leone IX, che contrastò l’invasione normanna della Marca Fermana grazie al valore di Fermo; dallo Sforza, a Lepanto, ai caduti del periodo napoleonico e a quelli delle guerre d’indipendenza, fortu¬nate e sfortunate.
Il monumento, quindi è simbolo di tanto valore! “Beatissimi voi che offriste il petto alle nemiche lance”, cantava Leopardi e proseguiva: “Prima divelte in mar precipitando / spente nell’ imo strideran le stelle / che la memoria e il vostro amor trascorra o scemi”… Il monumento servirà a ricordare ad ammonire… In quest’ora tragica e cruciale per la Patria, suoni, diana di riscossa dei valori civici e di amor patrio e, nel marasma della dilagante disonestà, sia faro che indichi la via delle antiche virtù.
È questo l’invito imperioso che inviano da Fermo all’Italia tutta, i caduti di tutte le guerre. “A egregie cose il forte animo accendono l’urne dei forti… o Pindemonte!”.
Anno 1996 – La Diocesi di Fermo, prima in graduatoria
Più che “la Storia racconta”, oggi dobbiamo dire “la Storia precisa e documenta”. In seguito ad un articolo apparso in concomitanza della recente promozione del Vescovo Chiaretti da S. Benedetto alla sede arcivescovile di Perugia si è parlato di una
possibile (?) soppressione delle Diocesi di S. Benedetto e di Fermo per unirle ad Ascoli, dato che l’articolo 16 del Concordato tra Stato e Chiesa dell’11-2- 1929 prevederebbe ciò.
Infatti tale articolo recita: “le parti contraenti procederanno d’accordo a mezzo di commissioni miste a una revisione nella circoscrizione delle Diocesi, allo scopo di renderla possibilmente rispondente a quella delle province dello Stato”.
Ma allo stato dei fatti, la realtà si è dimostrata del tutto diversa da quanto deciso a tavolino. Tornando all’articolo 16, integrato dal successivo articolo 17, che prevede eventuali riduzioni, a mano a mano che la sede da “accorpare” si rende vacante, per S. Benedetto del Tronto c’è subito la “smentita” vaticana, in quanto, con decreto 30 settembre 1986 è stata eretta capoluogo della Diocesi S. Benedetto del Tronto-Ripatransone-Montalto.
Attualmente, la graduatoria delle Diocesi ad Archidiocesi marchigiana è: prima assoluta Fermo che, da sola, ha 290.550 abitanti; seconda è Ancona-Osimo con 209.100 abitanti; terza è Macerata-Tolentino- Recanati-Cingoli-Treia con 133.500; quarta è Fano con Fossombrone- Cagli-Pergola con 133.392; quinta è Senigallia con 118.340; sesta è Pesaro con 114.021; settima S. Benedetto del Tronto con 113.500, che precede Ascoli con 107.100 abitanti. Seguono poi nell’ordine: Jesi (76.000), Camerino-S. Severino (60.000), Urbino-Urbania-S. Angelo in Vado (49.000), Fabriano e Matelica (52.000). Fermo è sede arcivescovile metropolitana ed ha come suffraganee le Diocesi di Macerata, Tolentino, S. Severino, Recanati, Cingoli, Treia, S. Benedetto del Tronto, Ripatransone, Montalto Marche.
L’erezione dell’Arcidiocesi risale al 1589. È sede del Tribunale ecclesiastico per le cause matrimoniali, l’unico per tutta la regione, ma che abbraccia anche taluni comuni dell’Abruzzo, in quanto giurisdizione di Diocesi marchigiane.
Alla luce di quanto sopra, non sembra che S. Benedetto e tanto meno Fermo possano essere soppresse ed accorpate ad altre Diocesi minori. Riguardo all’attuazione del Concordato del 1929, le clausole del nuovo accordo tra la Santa Sede e il Governo Italiano, firmato a Villa Madama il 18-2-1984 ed entrato in vigore il 25-3-1985, non prevedono quanto stipulato in quello del 1929, anzi il nuovo recita testualmente che le disposizioni del Concordato Lateranense “non riprodotte nel presente testo sono abrogate”.