Anno 1608 – La Natività viaggiò fino a S. Pietroburgo
Mentre le festività natalizie volgono al termine, piace accennare ad un capolavoro del Rubens anche perché ha “addentellati” con la Russia, oggi alla ribalta della cronaca intemazionale.
Si tratta di un dipinto di alto valore, olio su tela (cm. 300×192) rappresentante la Natività, opera del fiammingo Pietro Paolo Rubens (1577-1640). Esso fu eseguito nel 1608 su commissione del fermano padre Flaminio Ricci, che dopo la morte di S. Filippo Neri (1595) era diventato superiore dei Filippini. Il dipinto raffigura la Vergine nell’atto di sollevare il velo che ricopre il Bambino disteso sulla paglia. San Giuseppe appare in penombra, col viso rivolto in alto. Dal Bambino si sprigiona una luce vivissima che conferisce risalto ai pastori adoranti e ad un gruppo di tre angeli che irrompono dal cielo. Nella pala vi è una gigantesca figura, un’irruenza pittorica che ricorda Michelangelo, mitigato dal Correggio. “Di particolare finezza sono le cadenze coloristiche e il giuoco luministico” (Dania).
Il bozzetto dell’opera si trova a Leningrado (meglio S. Pietroburgo) al museo deH’Ermitage. Di recente alla mostra del Rubens (25/3 – 31/5/90) sono stato presenti e il quadro di Fermo e il bozzetto dell’Ermitage. Felice incontro dopo secoli!
Rubens morì dopo 32 anni dall’esecuzione del mirabile capolavoro, ma la paternità rimase a lungo ignorata. Ne parlano il Gionchini nel 1810 e il Maggiori nel 1832, ma solo nel 1846 la si ascrive al Rubens da Francesco Papalini nelle sue Effemeridi Fermane, Loreto 1846. Roberto Longhi, accademico dei Lincei, nel 1927, afferma che tale Natività è opera di P.P. Rubens {Vita Artistica n.10 del 1926). Solo il 3 ottobre 1953 nell’archivio arcivescovile di Fermo venne rintracciato il documento probatorio. È il contratto stipulato tra il Rubens e P. Flaminio Ricci: “Io Pietro Paolo Rubenio (sic), ho ricevuto da R. p. Flaminio Ricci, Rettore della Congregazione dell’Oratorio di Roma, scudi venticinque de moneta. Sono a buon conto e per arra di un quadro della Natività di N. S.re, di altezza di palmi 13 e larghezza 8 per servizio della chiesa dei Preti dell’Oratorio di Fermo… Et sarà di valore di 200 scudi di moneta… computatici li detti scudi 25… Volendo di più che questa mia poliza abbia valore di pubblico istrumento con tutte le clausole et obbligazioni… l’ho sottoscritta di mia propia (sic) mano questo di’ 9 marzo 1608. Io Pietro P. Rubenio / Io Fabiano Giustiniani presente a quanto sopra. Io Deodato van der Mout qui presente come sopra”.
Fortunose le varie vicende di tale quadro! Sfuggito alla requisizione del Trattato di Tolentino (19/2/1797) stipulato tra Napoleone e i delegati di Pio VI, nel 1944 durante l’occupazione nazista fu accanita- mente ricercato da ufficiali tedeschi; il Rubens però era al sicuro nella rocca di Sassocorvaro, in quel di Pesaro; da questa, passò poi in Vaticano! Ultimamente è stato esposto in varie mostre di prestigio.
Trasportato dalla chiesa di S. Filippo sua sede da secoli, campeggia ora nella pinacoteca cittadina, ammiratissimo da pittori, studiosi e critici d’arte di tutto il mondo.
Anno 1608 – La splendida tela del Rubens
In questi giorni “Famiglia Cristiana” che conta quattro milioni di lettori, ha proposto due fascicoli di supplemento: “Un Natale d’arte”. In essi si illustra in dodici capolavori la Natività di Cristo. Vengono passate in rassegna le Natività di Giotto (1337). del nostro Gentile da Fabriano (1370c-1427), Gherardo delle Notti (1590-1656), Correggio (1534), Tiepolo (1770), Botticelli (1510), Tintoretto (1594), Reni (1642), etc. “scelti e commentati da Federico Zeri”.
A nostro modesto avviso, si poteva anche parlare della Natività di P.P. Rubens (1577-1640) commissionata dal fermano P. Flaminio Ricci, successore di S. Filippo Neri. Il contratto venne firmato il 9 marzo 1608 ed il lavoro proseguì subito speditamente.
“Io Pietro Paolo Rubenio ho ricevuto dal R. p. Flaminio Ricci, rettore della congregazione dell’Oratorio di Roma, scudi venticinque di moneta. Sono a buon conto ad Arra di un quadro della Natività di N. S.re di altezza di palmi 13 et larghezza 8, per servizio, come egli dice della Chiesa dei Preti dell’oratorio di Fermo...”.
Così l’inizio del contratto. Una volta terminato, il quadro fu portato a Fermo e collocato nella chiesa di S. Filippo sita a fianco dell’attuale palazzo di Giustizia, ex convento dei Filippini. Qui rimase alla venerazione dei fedeli fino al 1860, anno in cui il governo di Vittorio Emanuele confiscò i beni ecclesiastici. Ora la Natività campeggia nella Pinacoteca comunale nel Palazzo dei Priori. Visitatissima, specie da studiosi stranieri, è il gioiello delle opere d’arte conservate a Fermo. Sfuggito alle requisizioni napoleoniche dopo il trattato di Tolentino (1797) ed alle “asportazioni” durante l’occupazione tedesca nel 1944 (era al sicuro nella rocca di Sassocorvaro) e poi in Vaticano è, come detto, il fiore all’occhiello non solo di Fermo, ma anche della Regione, in quanto è il solo esemplare esistente in Italia.
Il suo costo fu di 200 scudi (misura m. 3×1,90) e la sicura paternità di Rubens fu documentata dai carteggi esistenti nell’archivio arcivescovile. Il bozzetto della grande tela si trova al museo dell’Ermitage a S. Pietroburgo; alcuni disegni preparatori al Museo Fodr di Amsterdam e nella collezione del conte Seilem di Londra. In tale Natività vi è la stessa irruenza pittorica e quel giganteggiare di figure che risente di un substrato michelangiolesco. “Di particolare finezza – asserisce il prof. Luigi Dania – sono le cadenze coloristiche e il giuoco luministico”. La Vergine è raffigurata a destra nell’atto di risollevare il velo che ricopre il Bambino disteso su un giaciglio. San Giuseppe appare dietro la Vergine, a braccia conserte, viso rivolto all’alto. Dal Bambino si sprigiona una luce vivissima, che conferisce risalto ai pastori adoranti e ad un gruppo di tre angeli che irrompono in volo in avanti. Tonalità di marrone cupo prevalenti, sono interrotte dalla luce che irraggia dal Bambino “sgranando in pastosità bianco dorate i rossi, i gialli, i verdi delle vesti e Tincarnato delle figure”.
Fu più volte esposto in mostre famose (Milano 1951), Bruges (1915), Venezia, Roma e di nuovo Roma (1956 e 1980) ed è gelosamente conservato nella civica biblioteca, dove fra l’altro è stato ammirato da Burchard (1927), Valentiner (1946), Van Puyvelde (1947), Veld (1951), Morassi (1954), Jaffè (uno degli scopritori del contratto), Serra, Sutton, Molaioli e ultimamente anche da Sgarbi. Speriamo che “Famiglia Cristiana” nel prossimo anno, con o senza Zeri, voglia parlare di questo gioiello.
Anno 1614 – L’Auditorium e i Gesuiti
Chi in questi giorni ha potuto visitare ed assistere a concerti e manifestazioni d’arte nell’Auditorium di S. Martino è rimasto lietamente sorpreso dalla magnificenza della struttura, dalla policromia dei marmi e dalle pitture stupende che costellano le pareti sopra gli ex altari. È una scoperta o meglio una riscoperta dei tesori architettonici ed artistici di Fermo.
L’Auditorium era l’ex chiesa dei Gesuiti con l’annesso collegio (attuale Liceo Classico) in funzione fino al 1860, quando dai “liberatori” piemontesi vennero confiscati. Immediatamente furono cacciati i Gesuiti ed il collegio, adibito ad ospedale per ospitarvi i feriti di Castelfi- dardo. Dopo tale battaglia (18-9-1860), i soldati piemontesi dilagarono nelle Marche del sud e parte del collegio fu adibito a caserma e truppe ivi alloggiate, con le baionette sfondarono le botti del vino della cantina dei Gesuiti e, come primo atto di valore, presero una così solenne sbornia che dormirono parecchie ore, rischiando di essere bollati come disertori perché, data la sbornia, non si presentarono alla sfilata in piazza. Si pensò addirittura a rappresaglie e rapimenti “da parte della esecrata tirannide teocratica”…
Ma torniamo al nostro S. Martino, eretto nel 1614, dopo la demolizione di una preesistente chiesa dedicata a S. Salvatore. I Gesuiti erano venuti a Fermo chiamati dal Card. Bandini che li richiese al preposto generale Claudio Acquaviva, oriundo di queste parti ed amico di Fermo. In principio vi furono difficoltà ricettive per la “pecunia”; ma fu imposta una tassa sul sale venduto a Fermo e nel Fermano e si ebbe un lascito ad hoc di 3.000 fiorini da parte di un cittadino fermano; la spesa fu ripianata. A detti padri fu affidato l’insegnamento e cominciò per Fermo quel periodo di splendore culturale che vide in questa università luminari famosi tra cui padre Boscovich che a Fermo pubblicò anche l’opera “Sulla proiezione dei Gravi”, Fermo 1735.
Il collegio, costituito dal palazzo Euffreducci, venne acquistato dai padri della Compagnia di Gesù (tale è il nome “tecnico” dei Gesuiti). Venditrice: la vedova Caterina Matteucci, che ne era la proprietaria. Nelle Marche vennero eretti altri collegi della Compagnia di Gesù: Macerata, Loreto, Ancona, Monte Santo (Potenza Picena), Ascoli che però non era loro gradito tanto che un loro superiore, Francesco Puccinelli (velata refero), definì la città: “angolo di semi-Turchia”.
La temperies culturale creata dai Gesuiti dopo una prima cacciata da parte di Napoleone non si spense, ma si affievolì… Di essi, restano la fama ed il ricordo dei severi studi nell’Università da loro tenuta e la creazione di opere architettoniche come quella d&W Auditorium di cui stiamo parlando. Qui ora si stanno dando convegno manifestazioni culturali di alto livello, che arieggiano e ricordano il culto per l’arte e per la cultura dei Gesuiti, culto mai smentito nei secoli. Checché se ne dica, per Lermo fu una fortuna aver accolto tali padri e la loro cacciata, passati i bollori risorgimentali ed anticuriali, si rivelò dannosa per la città.
In ogni caso, siamo loro debitori di quella stupenda struttura che è S. Martino, ora rinnovata e in veste policroma, dove Lermo, in attesa della riapertura del teatro dell’Aquila, può godere sinfonie e declamazioni, musica e poesia, gustare in una parola tutte le manifestazioni delle arti belle.
Anno 1631 – Ospitalità degna di una futura regina
Sono passati 360 anni da quel 1631, quando Anna Maria di Spagna con la sua corte, proveniente da Grottammare si fermò nella nostra città… “Viso lungo, occhi a palpebre bianche, gote alquanto rimosse, labbro di sotto un poco mosso… il suo vestire era di broccato turchino e fondo d’argento con una bottonatura avanti di bottoni d’oro, con diamanti ed un gioiello in petto, a mo’ di rosetta, parimenti di diamanti. Sul collo le pendeva una collana di vetretti lunghi di colore negro e di color avorio, che raddoppiato in modo che apparisse in fuori dall’una e dall’altra parte di quella, la faceva apparire molto bella e vaga. La acconciatura della testa era molto semplice e vaga con una fettuccia turchina e col ciuffo alto davanti all’usanza spagnola”.
Non è un cronista del tempo che così ce la descrive, ma addirittura un vescovo, quello di Atri e Penne, Esuperanzio Raffaelli. Tale regina, si recava sposa a Ferdinando III d’Austria. Le nozze erano state celebrate per procura e lei, da Madrid, era partita per raggiungere lo sposo a Presburgo. Era sbarcata a Genova, ma anziché attraversare l’Italia settentrionale, aveva evitato la Lombardia per la peste di manzoniana memoria ed era scesa a Napoli, accolta con tutti gli onori, per poi risalire dalla parte della costa adriatica.
Attraverso l’Abruzzo, coperto di neve, risalì il litorale adriatico; giunta a Grottammare si recò a Fermo, accolta con onori degni di una sovrana.
“Il Magistrato andò a riceverla alle porte della città, essendosi mandati avanti anco giovani de’ principali con torce accese (era di sera ndr) e avendo sua maestà mostrato di gradire il complimento per una chinata di capo, seguitando il suo viaggio giunse al palazzo preparatole per un alloggiamento e conforme alle comodità che in quella città erano maggiori che non alle Grotte, fu anco trattata più regiamente”.
Dopo essersi soffermata e riposata nella città, dopo un giorno ripartiva alla volta di Macerata. Per l’occasione, il Papa aveva provveduto alla salvaguardia della regale ospite (essendo tutta quella campagna ripiena di soldatesche pontificie). Dopo una sosta a Loreto, si imbarcò in Ancona alle 4 del mattino, salutata dalla salve dei cannoni delle navi che si trovavano nel porto.
Nel libro delle Riformanze (cioè delle deliberazioni consiliari) di Montembbiano 1626-1634, al foglio 138 verso, si legge che quel Comune deliberò di mandarle incontro “una compagnia di soldati al comando dell’alfiere Angelo Secreti, che le facesse da scorta al di là del fiume Aso, fino alla città di Fermo”. Tale compagnia aumentava così il numero dei soldati che accompagnavano la regina, numero che superava le diecimila unità.
Anno 1633 – Fermo, i barbari e… i Barberini
Quasi tutti abbiamo sentito ripetere, e spesso, la frase “Ciò che non hanno fatto i barbari lo hanno fatto i Barberini” (Quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini).
Questo per dire che i Barberini famiglia cospicua di Roma, spesso, per costruire palazzi, templi e monumenti asportarono materiali e bronzi dai monumenti eretti dai Romani. Caso tipico, le colonne dell’altare papale, o della Confessione, in S. Pietro a Roma. Tale altare con baldacchino, fu inaugurato il 28 giugno 1633. Posto sotto la cupola di Michelangelo, è composto di quattro colonne tortili in bronzo. Per la sua fusione e realizzazione furono asportati i bronzi che rivestivano il Pantheon risparmiati dai barbari: da qui il detto famoso messo in bocca a Pasquino, e che ha fatto il giro del mondo. Ma chi è la famiglia Barberini? Oriunda dalla Toscana col cognome primigenio di Tafani, si trasferì in Ancona dove si arricchì con i commerci. Cambiò il cognome da Tafani in Barberini ed ovviamente cambiò le vespe dello stemma gentilizio in api, api che vediamo scolpite in molti monumenti di Roma ed appaiono nell’altare stesso di S. Pietro. Famiglia marchigiana, quindi, i Barberini e ce lo documenta anche il Pastor (Storia dei Papi, voi. XIII) e la Enciclopedia cattolica (s.v. Barberini).
Da questa famiglia, salì al soglio pontificio Urbano Vili o meglio Maffeo Barberini, che pontificò dal 1623 al 1644. Memore delle sue origini marchigiane, Urbano Vili elevò al grado di città la cittadina del Pesarese, Urbania, che per questo motivo porta tale nome. Rigido nel combattere eresie e gli abusi del clero, Urbano partecipò alla guerra dei 30 anni. Unì il Ducato di Urbino allo Stato Pontificio; fondò il Collegio di Propaganda Fide e fu un “impenitente” nepotista. Uno dei suoi nipoti, Francesco, figlio del fratello Carlo, fu creato Cardinale a soli 26 anni, e dopo soli tre giorni dalla incoronazione dello zio. Fra varie cariche conferitegli dallo zio papa, ebbe l’incarico di essere governatore di Fermo, rientrando nella serie dei Cardinali nepoti del Papa regnante. Infatti, Fermo stanca, delle continue lotte intestine, dal 1550 aveva chiesto di essere governata direttamente dal più stretto famigliare del Papa. Francesco, che fu l’ottavo governatore in ordine cronologico, fu preceduto dal Cardinale Ludovici ed ebbe per successore il principe Camillo Panfili nipote di Innocenzo X, cioè Giovanni Battista Panfili (1644-1655). Fedele al “motto”, anch’egli fece asportare materiale, bronzi e marmi dai monumenti di Roma per costruire lo stupendo Palazzo Barberini, iniziato per suo volere nel 1625 su disegno del Mademo. Gran parte del materiale fu asportata dal Colosseo e dal Pantheon.
Una curiosità: di recente è stato rintracciato l’autore del motto che per l’esattezza è: “quod non fecerunt barbari Barberini fecerunt (anziché fecerunt Barberini)”. Fu messo sì in bocca a Pasquino, ed è ormai entrato nella storia e nell’aneddottica; ma il vero autore fu tale Carlo Castelli di Mantova. In ogni caso, la frase o meglio la satira, si addice non solo a Papa Urbano Vili ma anche e soprattutto al nipote Cardinale Francesco Barberini, “governatore di Fermo a nome e per conto della Santità di Nostro Signore Papa Urbano VIII”.
Anno 1648 – Una disperata rivolta sotto il sole di luglio
Il sole di luglio, specie quello della prima quindicina, picchia sodo e spesso stravolge “gli intelletti umani”. Ce lo ricordano: la rivolta di Masaniello del 7 luglio 1647, la presa della Bastiglia e l’attentato a Togliatti avvenuti rispettivamente il 14 luglio 1789 e 1949 e, per quanto riguarda la nostra area, l’assedio e l’incendio di Acquaviva Picena ad opera di Sciabolone (6 luglio 1798) e la sollevazione di Fermo contro Uberto Maria Visconti, avvenuta il 7 luglio 1648.
Il copione è più o meno lo stesso: quando c’è di mezzo la fame, sia a Milano, sia a Fermo, gli avvenimenti seguono un cliché identico. Ma- lesuadafames: la fame è cattiva consigliera. Ma l’“addetto ai lavori”, o meglio il Vicario di provisione di Milano, fu alquanto più furbo del milanese Uberto Maria Visconti, Vicario di Camillo Pamphili, governatore di Fermo.
Di milanesi, ce ne sono stati diversi al governo di Fermo. Ricordiamo Giovanni Visconti d’Oleggio (+1366) che fu un bravo e savio governatore (sono conservate nel Duomo la sua tomba e in biblioteca, in apposita urna, le ossa); il Conte Francesco Sforza, Galeazzo Sforza V Duca di Milano, nato nella zona davanti alla Cattedrale nel 1444; S. Carlo Borromeo ebbe qui mansioni amministrative. Molti degli Arcivescovi di Fermo vengono da Milano. Uberto Maria Visconti però non fu abile governatore. Durante il suo governo, vi fu grande carestia e il popolo chiedeva a gran voce: pane. Roma a sua volta, chiedeva grano alle Province e Mons. Uberto Maria Visconti fece incetta di 4.000 rubbi di grano per la Camera Apostolica. Erano cioè undicimila e duecento quintali, stando ad una relazione dell’epoca. Il Visconti fece venire a Porto S. Giorgio una nave da carico e chiamò da Montalto 500 soldati corsi (provenivano dalla Corsica; avevano per lo pii! mansioni di ordine pubblico) per proteggere l’imbarco. Il popolo appena lo seppe proruppe in tumulti; piazzò artiglierie contro il palazzo del governatore; invase la piazza. Le campane suonarono a stormo, furono accesi i fuochi per richiamare col fumo l’attenzione dei paesi vicini; i tamburi rullarono rabbiosi per la città; grida e minacce ovunque.
Visconti, nonostante fosse stato consigliato a non tenere la linea dura, non cedette. Il popolo continuò ad urlare e ad imprecare: “Vogliamo quel tiranno, quel cane!”. Impauritosi, Visconti si rifugiò nelle carceri, ma fu raggiunto dalla folla inferocita e trafitto da 12 colpi di arma da taglio e da fuoco. Il cadavere, spogliato e seviziato, fu lasciato sulla piazza fino a notte inoltrata. Un suo stalliere montò a cavalcioni del cadavere, schiaffeggiandolo; un sedizioso mise sulla punta delle armi le calze di seta di Visconti. Il Visconti, a richiesta della folla tumultuante, aveva prima licenziato i 500 soldati corsi sperando di aver salva la vita. Ma invano; il colonnello Adami, che aveva esortato la folla alla calma, morì, raggiunto da un colpo d’arma da fuoco. La rivolta era stata grave. La vendetta di Roma non tardò a farsi sentire, sebbene mitigata dal Cardinale fermano, Decio Azzolino della Curia Papale.
La sentenza scaturita dal processo che ne seguì, decretò impiccagioni, decapitazioni, anni di galera, lavori forzati, confische di beni, tratti di corda, strascinamenti a coda di cavallo, risarcimenti di danni. Il Comune di Fermo dovette sborsare 2.000 scudi per i danni arrecati al palazzo del governatore. Tutto ciò avveniva nel luglio 1648 quando il sole picchia sodo sugli “intelletti umani”, rendendoli… disumani.
Anno 1654 – La Regina di Svezia amica del Cardinale Azzolino
Non sempre sono disponibili Regine o teste coronate che abbiano avuto od abbiano relazioni con Fermo o con alcuni suoi cittadini illustri, ma stavolta abbiamo addirittura la Regina di Svezia, Maria Cristina, nata a Stoccolma l’8 dicembre 1626. Eletta Regina di Svezia a soli sei anni, a diciotto prende l’effettiva direzione della cosa pubblica e, due anni più tardi, nel 1646, sarà incoronata regina. Siamo nel periodo della Guerra dei trent’anni. La colta, dinamica e sagace regina, ci sa fare tanto, che al tavolo della pace riesce ad avere notevoli compensi territoriali e quindi potenzia ed eleva la sua corte ad una fastosità e ad una sfarzosità senza pari. Né si deve credere che trascuri la componente culturale; anzi si circonda di personalità di fama come Cartesio, Ugo Grozio, giurista olandese, Salmasio etc. L’influenza di Cartesio provoca in lei una crisi religiosa; ben presto la supera, abbraccia la religione cattolica; ma la sua nazione è luterana e lei non esita ad abdicare in favore del cugino Carlo Gustavo. Roma l’affascina e viene in Italia, ma prima di varcare le Alpi, ad Innsbruck, proclama ufficialmente la sita abiura al protestantesimo, abiura che viene ufficialmente notificata alle case regnanti d’Europa. Giunta a Roma, viene accolta con tutti gli onori da Papa Alessandro VII. In seguito, vi sarà un piccolo screzio con la corte papale. La Regina Maria Cristina (si era riservata una porzione di territorio per non essere privata del titolo) vuole essere cattolica, ma non bigotta. Non fu fortunata in politica, le sue aspirazioni sul Regno di Napoli e sulla Polonia vennero frustrate. Cercò allora nelle lettere e nella cultura quelle soddisfazioni negatele dalla politica. Conosceva il greco, il latino, il tedesco, lo spagnolo e in modo speciale l’italiano, il che le consentì di entrare in amicizia con il Cardinale Decio Azzolino jun. nativo di Fermo ed “eminenza grigia” nel vero senso della parola alla corte papale. I “dotti conversari” con lui e l’ascesa dell’Azzolino a segretario di Stato di Clemente IX (non di Innocenzo X come vorrebbe il Touring Club Italiano, voi. Marche, pag. 580 di cui fu segretario della cifra) la resero sempre più influente alla corte pontificia e nelle relazioni con le corti europee. Il fermano Decio Azzolino “bello, colto, brillante”, seppe tanto conquistare il favore della Regina che lo nominò suo erede universale. Un altro fermano illustre nell’entourage di tale Regina è il dottor Romolo Spezioli che fu suo medico personale, da lei altamente apprezzato. Il 19 aprile 1686 Cristina muore; dopo due mesi l’8 giugno 1689 muore anche il Cardinale Azzolino.
Un particolare da ricordare: nel salotto della Regina Cristina sbocciò l’Arcadia che si sviluppò e fiorì grazie anche ad un altro grande marchigiano, Mario Crescimbeni. È sepolta nella basilica di S. Pietro. Quest’anno ricorrono i tre secoli dalla morte di Cristina di Svezia e del fermano Decio Azzolino.
Anno 1658 – Giacinto Cornacchioli
Vi sono personaggi illustri nati a Fermo e poi emigrati in Ascoli ed altri nati in Ascoli ed emigrati a Fermo; artisti ascolani che hanno operato a Fermo e viceversa. Un fermano, Giuseppe Maria de Marzi, (+1936), sindaco di Ascoli, fu il riordinatore e potenziatore della pinacoteca ascolana.
Attualmente Fermo ha un sindaco di provenienza ascolana.
Candido Augusto Vecchi, il famoso patriota che aiutò Garibaldi nell’impresa dei Mille ospitandolo nella sua villa ligure, era nato a Fermo, si trasferì poi con la famiglia in Ascoli, dove è annoverato tra gli uomini illustri.
Oggi però vogliamo ricordare un musicista: Giacinto Cornacchioli, nato ad Ascoli nel 1590 circa, e spentosi a Fermo nel 1658.
Egli fu celebre nel fervore musicale del Seicento, quando la potenza della novità si aggiungeva al fascino irresistibile della musica su spiriti raffinati.
Ben presto divenne organista del Duomo di Ascoli; passò poi a Roma presso i Principi Barberini, per perfezionarsi negli studi musicali. Si recò quindi a Vienna. Nel 1635 lo troviamo maestro di cappella e musico della Corte di Monaco di Baviera. “Diana Schernita – Favola boscareccia – Posta in musica da Giacinto Cornacchioli d’Ascoli – E rappresentata in casa dell’Illustrissimo Sig. Gio Rodolfo Baron di Hohen Rechberg – con privilegio, etc. e dedicata al Principe don Taddeo Barberini, Roma 1629”, consacrò la sua fama.
Dopo tante glorie e tanti onori, tornò in patria, ma se ne distaccò ben presto, perché nominato maestro di cappella del Duomo di Fermo, accolto con stima e deferenza dall’Arcivescovo Cardinale Carlo Gualtieri. A Fermo fu altamente apprezzato e stimato. Qui coronò la sua prestigiosa e luminosa carriera e vi morì nel 1658.
Anno 1663 – Collegio invidiato
Dall’Illirico, uscirono Vescovi e scienziati
Fra i vari collegi ed istituti culturali che nel sec. XVII fiorivano a Fermo (l’Università, il Collegio Marziale, il Seminario Arcivescovile, le varie Accademie Letterarie ecc.) v’era anche il collegio per alunni provenienti dai territori dell’attuale ex-Jugoslavia e paesi vicinori. Era il Collegio Illirico. Aperto il 20 maggio 1663, accoglieva studenti aspiranti al sacerdozio provenienti dai “territori soggetti al dominio dei Turchi, cioè Albania, Dalmazia, Serbia, Macedonia, Bosnia, Bulgaria”.
In un primo momento si era pensato di farlo sorgere a Ragusa, odierna Dubrovnic, sede ideale e ponte con l’Italia (con molte nostre caratteristiche, tanto che venne chiamata la Firenze dalmata), ma poi sorsero divergenze con la Repubblica di Venezia e non se ne fece nulla.
Si decise allora per Fermo, dal clima temperato, posizione incantevole e località importante della Marca. Fu una scelta fortunata e provvidenziale, perché Ragusa, dopo quattro anni, esattamente il 6 aprile 1667, fu rasa al suolo da un violentissimo terremoto ed oltre la metà degli abitanti morì nelle macerie. A Fermo, all’inizio, il collegio ebbe varie sedi; la definitiva, attorno all’area della chiesa dei Padri Filippini.
A Loreto sorse un altro Collegio Illirico, questo gestito dai Gesuiti, mentre quello di Fermo era tenuto dai sacerdoti dell’archidiocesi. Ben presto, visto che il collegio fermano prosperava, si manifestarono le gelosie di Loreto e si tentò più d’una volta di screditarlo presso la Santa Sede, come poco adatto e confortevole. Insorse allora il Cardinale Arcivescovo di Fermo, stigmatizzando e smontando le accuse.
I collegiali, all’inizio erano sulla quindicina; ma ben presto il loro numero salì a settanta. Ben nutriti ed alloggiati, vestivano un’uniforme con mantellina rossiccia (fulvi coloris). Il Rettore ed il maestro avevano lo stipendio di 40 scudi ciascuno; un collegiale, veniva a costarne 30.
Come detto, sorgeva nei pressi della chiesa dei Filippini che serviva loro per le pratiche di pietà. Ma nel 1745, i Filippini richiesero i locali dati in affitto all’llirico, perché volevano costruire la Casa della Congregazione, dato che la precedente era insufficiente. Cominciarono i lavori in esecuzione del progetto del celebre Architetto Pietro Augustoni da Como e nel 1756, come si legge nella Chronica dell’arcivescovo Borgia, l’edificio era terminato. Ciò comportò lo “sfratto” del Collegio Illirico che, per disposizione della Congregazione di Propaganda Fide, venne trasferito a Roma.
Sebbene la permanenza a Fermo di tale collegio non superasse gli 85 anni, pure espresse personalità del mondo della cultura e della religione.
Anno 1676 – Fermo e il Cardinale Nepote
Era il mercoledì quel 18 novembre 1676 quando Fermo spedì a Papa Innocenzo XI un importante memoriale. Era morto da pochi mesi (22 luglio) Clemente X, un romano ottantaseienne, eletto dopo un sofferto conclave; durato cinque mesi. In precedenza era stato Vescovo di Camerino e conosceva le “cose” di Fermo. Gli era succeduto, dopo due mesi di interregno, Innocenzo XI, un Odescalchi di Como in precedenza governatore di Macerata. Anch’egli conosceva intus et in cute Fermo.
Questa città, ininterrottamente da 126 anni godeva del privilegio di avere come Governatore il Cardinale nipote del Papa regnante od il parente più stretto. Ora si rinnovava al nuovo pontefice l’istanza di avere un Governatore della famiglia del pontefice (de stirpe pontificis). Scrive pertanto al Papa una lettera che riportiamo in forma agile, evitando l’ampollosa lingua del tempo.
“Beatissimo Padre, la città di Fermo, umile serva e suddita della Santità Vostra, riverentemente fa presente che fino all’anno 1550 elesse sempre e da se stessa i propri governatori, ma avendo poi in detto anno supplicato Papa Giulio III di santa memoria… si fosse compiaciuto concedere alla richiedente ed al suo Stato un governatore della sua eccellentissima casa, ne ottenne benignamente la grazia con l’eiezione fattane dalla Santità Sua”.
Giulio III accordò tale privilegio e diede a Fermo come primo governatore Giovanni Battista de’ Conti di Monte S. Savino, suo nipote. La richiesta di Fermo elenca poi tutti i governatori, nipoti dei Papi che si erano succeduti a Fermo nel suo Stato composto di 48 castelli e pone l’accento sul “Cardinale Sfrondato nipote di Gregorio XIV (+1591) il quale nominò vice governatore Monsignore Giorgio Odescalchi (si noti che il nuovo Papa era un Odescalchi) la cui riverita memoria” – dice la richiesta fermana – “vive presso la Città per le singolari doti sue”.
Con psicologia sopraffina, Fermo toccava un ricordo che avrebbe dovuto senza meno perpetuare la concessione che durava da 129 anni. Lei sola, in tutto lo Stato Pontificio, godeva di tale privilegio. Ma Papa Innocenzo XI (che verrà poi beatificato il 7 ottobre 1956, cioè dopo quasi tre secoli) volle, come suo primo atto, abolire il nepotismo.
Scompariva quindi la figura del Cardinal nepote e Fermo ne restava senza. Tuttavia, con singolare predilezione verso la Città, Innocenzo nominò una Congregazione Particolare presieduta dal Segretario di Stato Cardinale Cybo e composta dai Monsignori Agostino, Fano, Al-tovito, Pilastro, Luca.
In seguito, Alessandro VIII (nel 1689) ristabilì il nepotismo e Fermo riebbe come governatore della città, e del suo Stato, il Cardinal nepote che fu l’Ottoboni.
Nel 1691, ad opera di Innocenzo XII, venne ristabilita la Congregazione presieduta anche qui dal Segretario di Stato Cardinale Spada. Tale Congregazione fu confermata da Benedetto XIV nel 1746 e fu poi abolita nel 1791 da Clemente XIII.
Oltre a quanto sopra, il ,iS Novembre ricorrono altri eventi: la morte di Pico della Mirandola (1496) famoso per la sperticata memo¬ria e la scomparsa di Marcel Proust (1922), celebre per il romanzo “À la recherche du temps perdu”.
Sia la ricorrenza dell’episodio di cui sopra memoria viva dell’antica importanza di Fermo e dei suoi 48 castelli e la nostra rievocazione non costituisca una vacua ricerca del tempo perduto, ma tempo ritrovato (Le temps retrouvé) come ha per titolo altro romanzo di Proust.
Anno 1725 – Alessandro IV Borgia: 14-2-1764, Arcivescovo e Principe di Fermo
Borgia, cognome famoso e deprecato; famiglia oriunda dalla Spagna, poi trapiantata in Italia, che ci diede Alessandro VI (papa Borgia) di costumi dissoluti come lo erano i figli Cesare (alias Duca Valentino) e Lucrezia Borgia.
Cesare ebbe parte anche nella storia di Fermo; ne fu signore, dopo aver ucciso a Senigallia il 31 dicembre 1502 Oliverotto da Fermo. Ce lo narra e con dovizia di particolari Machiavelli ne II Principe (cap. Vili). Vi sono stati però altri Borgia, tra cui un santo: S. Francesco Borgia, nipote del dissoluto Alessandro VI; il Card. Gaspare Borgia (1635); Giovanni Borgia (+1503) e Stefano Borgia (1804); entrambi Cardinali di costumi irreprensibili. Tuttavia, il “trio” di cui sopra, Alessandro-Cesare-Lucrezia, ha alimentato una letteratura truculenta e fantasiosa, spesso esagerando. Ciò accadeva nel ’500. Più tardi, dopo due secoli, spunta a Velletri un altro Alessandro Borgia (da non confondere con Papa Borgia) che sarà Arcivescovo e Principe di Fermo e sarà anche protagonista della storia fermana di quel periodo. Nunzio pontificio a Colonia e nel Belgio, spettatore ed attore del trattato di Utrecht (1714), tornato in Italia ebbe il governatorato di Assisi.
Nel 1716 divenne Vescovo di Nocera Umbra e fu candidato visitatore apostolico in Cina, ma questa legazione non ebbe luogo, per malattia.
Eletto a Fermo, dove fece il solenne ingresso il 24 febbraio 1725, ricostruì il Palazzo arcivescovile; resta una incisione che attesta tale opera. Restaurò la Cattedrale e la Torre con le bianche pietre d’Istria; pose la statua di bronzo dell’Assunta nella nicchia, sulla cuspide del portale del Duomo, dove ora fanno vistosa cornice i bronzi di Aldo Sergiacomi di Offida.
Effettuò tre sinodi diocesani (1726-1738-1752) ripresi oggi, sopo un lungo lasso di tempo, dall’Arcivescovo Cleto Bellucci; si oppose con tutte le energie contro le ballerine e le contorsioniste femminili nei teatri dello Stato Fermano. Oggi avrebbe certamente ‘scomunicato’ Pippo Baudo and company, nonostante “Madonna”…
Salvò la popolazione del Fermano dalle rapine spagnole ed austriache i cui eserciti scorrazzavano dalle nostre parti commettendo estorsioni ed uccisioni ed insegnando, come ci ricorda Manzoni, “la modestia alle fanciulle ed alle donne del paese e accarezzando di temp o in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre”.
Egli si impose al generale comandante Lobkovic, il quale minacciava gravi rappresaglie per non aver trovato viveri per i suoi soldati. Lo affronta; lo riduce alla ragione e salva così Porto S. Giorgio ed i suoi abitanti. Alessandro Borgia ha anche il merito di aver riordinato agli Archivi della Curia, fonte preziosa per la storia di quel tempo.
Scrisse anche la Chronica in elegante latino, in cui “fotografa” le vicende storiche dalla Marca meridionale dal Tronto ad Ancona. Paladino e vindice dei diritti dello Stato di Fermo, si spense in questa città il 14 febbraio 1765. Oggi si compiono.229 anni dalla sua scomparsa.
Anno 1735 – Quel grande astronomo dalmata
Fatti ed eventi dell’opposta sponda adriatica ci toccano da vicino. “Se brucia la casa del vicino – dice un proverbio latino – devi stare all’erta”. Marche e Dalmazia sono state nel corso dei secoli in stretta relazione.
La Dalmazia ci ha dato Luciano di Laurana, Architetto del Palazzo Ducale di Urbino e della Rocca di Pesaro; S. Girolamo, nativo di Stridone; Nicolò Tommaseo da Sebenico. Ragusa (ora Dubrovnik) ha avuto molte relazioni commerciali con Fermo. Zara poi sin dal sec. XIII ha stipulato molti trattati commerciali con Fermo.
Ma un grande dalmata, Ruggero Boscovich, famoso geodeta, astronomo, matematico, pose a Fermo il suo quartier generale per le misurazioni dell’arco dei meridiani tra Roma e Rimini. Nativo di Ragusa, a 15 anni entrò fra i Gesuiti e prima ancora di essere sacerdote, insegnò grammatica e matematica al Collegio Romano. Il fratello Bartolomeo, insegnò teologia a Fermo, dove, è bene ricordarlo, esisteva anche un Collegio Illirico per gli studenti della Dalmazia e della Slovenia. Ruggero Boscovich nel 1735 stampò e pubblicò a Fermo il volume Sulla proiezione de’ gravi. Del suo soggiorno a Fermo, il Boscovich parla, nel volume De Litteraria expeditione perpontificiam ditionem, Roma 1755. De¬scrive Fermo come città famosissima, di antica nobiltà, sede di università e pingue sede arcivescovile; Urbem celeberrimam nobilitate veteri… pingue archiepiscopatu.
Scienziato di altissimo valore, fu chiamato a Londra, a Parigi (dove soggiornò per un decennio) a Costantinopoli, Varsavia, Vienna dove pubblicò nel 1758 Theoria Philosophiae dando ancora una volta prova di un ingegno poliedrico e vivissimo. Lavorò come dirigente nell’osservatorio astronomico di Brera, privilegiando le opere astronomiche sulle meccaniche. Amò e predilesse Fermo. Qui, insieme ad un altro scienziato gesuita inglese P. Maire, effettuò molte rilevazioni geografiche. Nello stesso periodo i due si recarono a Monterubbiano (Colucci, Antichità Picene, XXXI), S. Elpidio a Mare, Montalto Marche, Civitanova. Ruggero Boscovich nato 280 anni or sono, morì a Milano il 13 febbraio 1787.
Egli, che si interessò di astri e di stelle, sia stella propizia di pace per la sua diletta Ragusa e Dalmazia tutta, ora in preda a sconvolgimenti etnici e bagliori di guerra.
Anno 1752 – Ai castelli dipendenti un “monitorio” del 1752 detta le condizioni per partecipare
Si sta avvicinando la Festa dell’Assunta e di conseguenza la celebrazione del Palio e della Cavalcata, i più antichi in questo proliferare di manifestazioni consimili.
Come è noto, il Palio di Fermo è documentato sia dal 1182 (Arch. di Stato Fermo perg. 1933) anzi da ricerche effettuate dallo scrivente, si hanno documenti che lo fanno risalire al 1149 (Acta Diversa Firmi 1449).
È sempre interessante sfogliare atti e documenti antichi e vedere nel corso dei secoli come venivano scanditi la Cavalcata e il Palio. Talvolta, come nel 1447, imperversava la peste e quindi nessuna manifestazione; tal’altra, arde la guerra; anche qui nulla. In alcuni anni le manifestazioni non hanno luogo per non oscurare il compleanno e l’onomastico di Napoleone Bonaparte, che cade proprio il 15 agosto. Ciò si verificò dal 1808 al 1814.
Scartabellando, abbiamo trovato un editto del 9 luglio 1752; Fermo invia a tutti i castelli dipendenti un “monitorio” intimando l’invio di cavalieri in solemnitate Sanctissìmae Assumptionis. “Ricorrendo il 15 agosto prossimo la solennità della Santissima Assunta, ricordiamo per mezzo di questa, di mandare li Cancellieri per l’accompagnamento della Cavalcata vestiti decentemente, con Cavallo (C maiuscola) fornito di finimenti propri e con la solita offerta (sottolineato nel testo), poiché in caso contrario non saranno ricevuti e sin d’adesso resta a voi intimata la pena del Birro ad standum per l’uno e per l’altro conto”.
L’intimazione prosegue raccomandando anche le lettere credenziali come le raccomanda in altro monitorio di un mese dopo il 6 agosto 1752 che fra l’altro recita: “Magnifici nostri Carissimi, sul riflesso del¬lo stato deplorabile degli Stendardini, che in occasione della solenne Cavalcata, che ogni anno suol farsi in questa città per la Festa gloriosissima dell’Assunzione di Maria Vergine, si è degnata la Sacra Congregazione Fermana di ordinare la loro rinnovazione, commettendo a questo Nostro Monsignore Illustrissimo Governatore (…) che indilatamente ne sia fatta la spesa e la Tassa di essa premessane la uniformità e la condizione eziandio di poter riportare ciascuna Comunità il proprio a casa sua sicché, in questo stato di cose, abbiamo procurata la sunnominata rinnovazione”.
La lettera prosegue precisando che ogni Comune deve pagare scudi 4,90 più altre “spesette”, ma ribadisce che tale somma deve essere as-solutamente versata “li 14 corrente vigilia di detta Festa affinché si possa con essi e le altre somme dell’altre Comunità soddisfare il Mercante” (…) “mentre nell’atto istesso del pagamento, verrà consegnato lo stendardino”.
Le due lettere furono spedite dal Palazzo Priorale di Fermo. Ogni comunità doveva pagare inoltre al Messo bajocchi cinque.
Anno 1769 – Torre di Palme, Porto di Fermo e Fermo in un diario di due secoli or sono
Non è facile trovare diari di viaggiatori illustri che apportino nuova luce suH’urbanistica, sulla storia e sulla edilizia delle nostre città, in quanto le conosciamo bene o presumiamo di conoscerle. C’è il “Viaggio in Italia 1844-1845” di Teodoro Mommsen, in cui parla di Ancona, Loretto (sic! ). Fermo. San Benedetto, Ascoli, ma quello di G.G. Carlè di molto anteriore e dal titolo “Memorie di un Viaggio fatto per l’Umbria, Abruzzo e Marche”, viaggio durato dal 5 agosto al 14 settembre 1765, ci dà alcuni ragguagli che hanno l’effetto di una vecchia e rara fotografia, forse scolorita, ma sempre interessante perché ci riguarda.
L’autore parla di Torre di Palma, piccolo castello poco sopra la strada. Sotto di esso si mirano i vestigi di un buon Porto antico, quando il mare era più alto.
Porto di Fermo “adesso nobile terra”. Al 2- miglio si trova la Collegiata di S. Maria a Mare, donde sono tre mi(glia) p(er) Fermo. Il porto, propriam(en)te, è una spiaggia; quanto alle fabbriche merita piuttosto il titolo di città. La parte antica è circondata di belle mura e munita di una fortezzina… ha alcuni buoni palazzi e fabbriche basse. Vi sono delle ricchezze ed ogni giorno cresce la popolazione”. Come si vede, già da allora Porto S. Giorgio appariva come località in pieno sviluppo, tale da meritare il nome di “città”.
Descrivendo Fermo lautore precisa “…è situata nel declivio di un monte, e le fabbriche lo circondano quasi per 3/4. È piuttosto grande… gode una superba veduta da tu(tt)e le parti. Vi è gran nobilità, ma non molte ricchezze… Bel sangue e spiriti svegliati. Vi è l’Università e la presente buon concorso di scolari e lo studio pratico della Legge vi fiorisce più che a Macerata (…). Nel cima del monte è situato il Duo¬mo… tutto di belle pietre quadrate. Avanti al Duomo è la chiesa dei Cappuccini”… Qui abbiamo il riscontro che l’Università di Fermo era più importante di quella di Macerata, che chiesa e convento dei Cappuccini non erano altro che la odierna Villa Vinci, ristrutturata ed arricchita. I Cappuccini passarono poi sul colle dove sono attualmente, e fa piacere vedere che allora come oggi il quadro di S. Lorenzo di Federico Zuccari e S. Francesco del Pomarancio campeggiavano in detta chiesa. Ma c’è di più: il diario parla della “Venuta dello Spirito S(anto)” di Giovanni Lanfranchi e della “nascita di N(ostro) Sig(nore)” di Paolo Rubens, etc. Ciò testimonia che già da allora l’attribuzione al Rubens, era di pubblico dominio.
Anno 1770 – La città trasformata dal cardinale
Chi a Fermo dalla Piazza del popolo, vigilata dal burbanzoso Sisto V, si reca al Girfalco, deve necessariamente imboccare viale Mazzini, cui in alto, fa da sfondo la statua di S. Savino, compatrono della città. Viale ampio, in salita, che conduce alla spianata dove, imponente e mae¬stosa si erge la cattedrale. Ma prima del 1771 non era così! Ce lo ricorda una lapide in forbito latino, ora seminascosta dalla folta vegetazione, quasi alla fine di detto viale, prima della svolta per la Casina delle Rose.
La lapide dice che il “Senatus Populusque Firmanus” per opera del Cardinale Arcivescovo Urbano Paracciani venne aperta dalla piazza al colle (a foro ad jugum) una nuova via. Ciò per dare risalto alla maestà del luogo e degna cornice alla Basilica Metropolitana, abbattendo i ruderi dell’antica fortezza degli Sforza e sistemando il colle con opere di contenimento. Dopo cinque anni, sull’ampio paramento dove spicca la statua di S. Savino, opera di Stefano Interlenghi, fu posta un’altra lapide a “San Savino patrono, il Senato ed il popolo di Fermo”.
Il Cardinale Paracciani, nel periodo in cui fu Arcivescovo di Fermo (13 anni) fondò l’Orfanotrofio, il Brefotrofio, diede degna sede al se¬minario come ci attesta tuttora una lapide sulla ex sede, a fianco del Carmine. Anzi fece del tutto per farsi assegnare dalla sede apostolica la bi¬blioteca dei Gesuiti (vennero soppressi nel 1773), per poi passarla al seminario che fino al 1955 ebbe sede a fianco della chiesa del Carmine. Potenziò inoltre la cappella musicale della Basilica Metropolitana; effettuò nel 1773 il Sinodo. Visitò la vasta diocesi, imprimendo un ritmo di convegni del clero. Favorì inoltre i pescatori di Porto S. Giorgio eso¬nerandoli (cosa mai accaduta in precedenza) dal fermo biologico, che proibiva la cattura di talune qualità di pesce. Nel periodo in cui fu Arcivescovo di Fermo si verificarono molte carestie, ma la Diocesi non ne risentì, data la sua preveggenza e la sua provvidenza. Altro suo merito è quello di aver riordinato l’archivio arcivescovile, immensa miniera di atti e documenti relativi non solo ai centri della vasta diocesi, ma anche di Tortoreto, Colonnella, S. Benedetto del Tronto, Acquaviva Picena, Ripatransone, Montelupone etc. Ancor oggi il più importante ed attrezzato delle Marche, e visitato e consultato da studiosi italiani e stranieri specie tedeschi. I primi documenti risalgono al sec. IX.
Paracciani morì il 2 gennaio 1777 (oggi ricorrono 216 anni!) rimpianto da tutti, la lapide posta sulla sua tomba, puntigliosamente precisa: volò al cielo all’età di 61 anni, mesi 10, giorni 25”. Era nato a Roma nel 1716; venne a Fermo quale Arcivescovo nel 1764. Due anni dopo, Papa Clemente XIII (1758-1769), lo creò cardinale. Per non lasciare la sua Fermo, chiese ed ottenne dal Papa che la berretta cardinalizia gli fosse imposta qui nella Basilica Metropolitana, anziché in S. Pietro a Roma.
Anno 1773 – Clemente XIV
Nel febbraio del 1769. a Roma si riunisce il conclave per l’elezione di un nuovo Papa, dato che 13 giorni prima era morto improvvisamente Papa Clemente XIII.
I Cardinali entrarono in conclave il 15 febbraio 1769. e le votazioni per eleggere il nuovo pontefice furono ripetute per ben 179 volte, protraendosi dal 15 febbraio al 18 maggio di quell’anno, cioè per oltre tre mesi. Alla fine, venne eletto, con 46 voti su 47, il Cardinale Giovanni Vincenzo Antonio Ganganelli.
Era nato a Sant’Arcangelo di Rimini da famiglia marchigiana di Sant’Angelo in Vado. Nella iconografia dei Papi è indicato come Clemente XIV vadensis, cioè da Sant’Angelo in Vado. Quindi nessun dubbio sulla sua marchigianità.
Il padre, come detto, era di Sant’Angelo in Vado e si era trasferito a Sant’Arcangelo per esercitarvi la professione di medico.
Ben presto Giovanni perdette la madre e, dopo aver compiuto gli studi nei collegi di Urbino e Fano, a 18 anni entrò tra i Frati Minori Conventuali dedicandosi agli studi di filosofia e teologia nei conventi di Fano, Pesaro e Recanati. Forbito oratore e brillante docente, insegnò filosofia e teologia a Fano, ad Ascoli Piceno, a Bologna, a Milano.
La sua intelligenza e la profondità della sua dottrina lo distinsero talmente da essere inviato a perfezionarsi a Roma, nel collegio di S. Bonaventura, di cui, nel 1741, divenne rettore. Papa Benedetto XIV ne apprezzò le qualità morali e lo nominò nel 1746 consultore della Con-gregazione del S. Ufficio. Gli diede inoltre, prova di alta stima, al pun¬to di considerarlo suo amico e consigliere particolare.
l 24 settembre 1759, Clemente XIII lo creò Cardinale. Per rico-noscenza, quando Ganganelli fu eletto pontefice volle assumere il titolo di Clemente XIV. (Per inciso ricorderemo che altri “Clementi” fu¬rono marchigiani: Clemente VIII nato a Fano, morto nel 1605 e Cle¬mente XI di Urbino morto nel 1721).
Clemente XIV seguì nel suo pontificato l’alto esempio di Benedetto XIV, che considerò sempre suo maestro di vita. Il primo proposito del nuovo pontefice, fu la riappacificazione della Santa Sede con i governi cattolici; a tale scopo, allacciò rapporti amichevoli coi principi non solo cattolici ma anche protestanti. Soppresse i monitori e si astenne dal pubblicare l’annuale bolla In coena Domini. In tale contesto, s’inquadra il fatto – che gli diede un rilievo particolare nella storia della chiesa – della soppressione dei Gesuiti.
Il momento era molto grave per il papato, che si trovava a fronteggiare una situazione forse la più difficile della sua storia. L’opposizione contro il temporalismo si concentrava contro i Gesuiti. Gli Stati Europei, soprattutto le corti Borboniche, ne reclamavano la soppressione. Clemente XIII aveva tentato di resistere. Ma la Francia, per protesta, aveva occupato Avignone. Napoli si era impadronita di Benevento e di Pontecorvo, possessi papali.
La Polonia minacciava di ridurre i poteri del Nunzio Apostolico; il Portogallo, uno scisma autonomo. Vienna minacciava leggi persecutorie contro gli ordini religiosi in particolare contro i Gesuiti, che erano già stati cacciati, nel 1767, dalla Spagna, da Napoli, da Pavia e da Piacenza. Venezia fremeva in attesa di vederli espulsi dalla sua Re¬pubblica.
Clemente XIV allora, dopo profonda meditazione e matura riflessione, non senza grande amarezza, in vista del bene supremo della cattolicità, decreta la soppressione della congregazione, facendo sì che l’ordine di tale soppressione, apparisse venuto da Roma non da altri. Si dice che in tale grave frangente, volle consigliarsi con S. Paolo della Croce. Per tal motivo andò personalmente a visitare l’umile religioso per chiedere consiglio. Ne ritornò assicurato – multo quam venerat hilarior – si legge in Miscellanea Francescana (pag. 60, anno 1934).
Profondamente convinto che per ridare pace e tranquillità alla Chiesa non c’era altra via, elaborò segretamente il breve di soppressione Dominus ac Redemptor e il 17 agosto 1773, lo comunicò ai Gesuiti.
Il suo operato fu sottoposto a critiche aspre e spesso ingiuste che lo rattristarono profondamente. Il Theiner, in riferimento a giudizi poco obiettivi, ha ribadito che “fu grande, puro, senza macchia ed anzi ammirabile non solo nel conclave, ma ben anche e soprattutto nella questione dei Gesuiti, e per tutto il tempo del suo pontificato”. L’ele¬vata sensibilità artistica lo spinse ad interessarsi all’arte: iniziò infatti la raccolta del Museo Vaticano dementino e abbellì Roma; curò anche opere di utilità pubblica come, ad esempio, il restauro del porto di Ancona e di Civitavecchia. Ricorderemo, inoltre, che è suo merito la ricostruzione avvenuta nel 1772, cioè due secoli or sono, di Servigliano (Ascoli Piceno), con razionale e per allora insuperabile disposizione urbanistica. Gli abitanti in suo onore vollero cambiare il nome di Servigliano con quello di Castel dementino. Solo all’avvento del regno di Vittorio II fu ripristinato nel 1863 il nome di Servigliano. Non si può inoltre non rilevare la gravità di costumi irreprensibile, l’inno¬cenza della sua vita e la mansuetudine ammirabile, che ne fanno una persona di altissima umanità.
Morì il 22 settembre del 1774, in seguito all’aggravarsi della malattia dopo una serena agonia, consolato da S. Alfonso che gli apparve e prese a parlare con lui delle cose celesti “per consolarlo delle amarezze che gli avevano fatto trangugiare i suoi nemici nel tempo della sua santa vita… per rallegrare la sua anima, mostrandogli l’aspetto anticipato di Colui del quale egli aveva sì degnamente occupato il posto sulla terra…” (Theiner).
Le spoglie mortali furono deposte in S. Pietro e vi rimasero fino al 1802, anno in cui furono trasportate nella Basilica romana dei Dodici Apostoli, sede della Curia Generalizia dei Francescani Conventuali, dove il Cav. Carlo Giorgi, fece erigere a Colui che aveva apprezzato con tanta sensibilità l’arte, un magnifico mausoleo opera di Antonio Canova.
Anno 1783 – Festa delle donne e la festa ai mariti
Una dozzina di giorni fa, è stata celebrata la Festa della Donna, istituita, come è noto, nel 1910 nella conferenza intemazionale di Copenaghen.
Domenica ha avuto luogo la festa del papà per cui i due “poli” della famiglia: padre o marito e moglie hanno avuto i loro riconoscimenti. Ma nel corso della storia, abbiamo esempi di mogli che uccidono i propri mariti e viceversa. Sia che l’uccisore sia la moglie, sia il marito, tale delitto è chiamato uxoricidio (da uxor: moglie).
Anche l’unione di un uomo e una donna, confermata dalla legge (e per i cattolici elevata a sacramento) si chiama matrimonio (da mater: madre). Come si vede, è sempre la donna ad avere la meglio e ad essere vincitrice anche quando si tratta di “matrimonio di patrimoni”. Quando non vi è guerra aperta o battaglia frontale, ma scontro subdolo, quasi sempre vediamo la donna vincitrice, come lo furono Laura Crispoldi, Geronima Spana, Graziosa Farina, Maria Spina e tale Giovannina che si faceva chiamare la “strollaca”. Esse, in combutta, giurarono di “far fuori” i propri mariti ed essere poi “libere”… “realizzando così tali partiti / per ogni donna aver cento mariti”.
Ce lo racconta un manoscritto della ricchissima biblioteca comunale di Fermo. E un poemetto in versi non disprezzabili, che narra di uxoricidi tentati o perpetrati dalle sullodate femmine. Altro che festa della donna. Qui sono le donne che “fan artifici, acque diaboliche e mortifere, sortilegi e pozioni, ma alla fine, scoperte, vennero appese alla forca”.
Il curioso manoscritto, donato alla biblioteca fermana da tale Aldebrando Gioni nel 1783, è opera di Francesco Assione. “Canto de cinque femine li scorni / che con lor acque di veleno ignoto / faceano terminar all’uomo i giorni / pria che il tempo tagli lo stame a Cloto / e perché di giustizia i raggi adorni / non può mai chiuso star fallo remoto / dirò come fur prese e carcerate / ed a una forca in angoli appiccate…”
Il poema preceduto da una protasi od invocazione alla Musa che riecheggia quella della Gerusalemme Liberata, fra l’altro recita: “… che con la spada e la bilancia eguale li boni assolvi in terra e i rei condanni / tu spira ai versi e dà vigore tale / mentre a lode di te spiego i miei vanni / acciò che cinti di giustizia interni / alla futura età restino eterni”.
Eterni sono restati i loro nomi. Ed oggi all’indomani della festa della donna (l’altra metà del cielo come dicono i cinesi) la lettura del poemetto non conferisce certo prestigio alla “metà del cielo”. Anzi la sua immagine va in discesa, o meglio a picco, come la lira.
Anno 1789 – Così nacque la Marsigliese
La cantarono più volte a Fermo i soldati francesi; la cantarono in varie località del Dipartimento del Tronto in occasione delle solennità, e del 15 agosto compleanno ed onomastico di Napoleone; ed ancor oggi la si canta nelle celebrazioni patriottiche della Repubblica Francese. È la Marsigliese, che quest’anno compie due secoli; la ricordiamo oggi data “fatidica” della presa della Bastiglia, venuta il 14 luglio del 1789.
La vera storia della Marsigliese è dissimile da quella narrata da Lamartine (allora aveva appena due anni) nel vol. XVI della Hìstoire des Girondins. Studi recenti hanno portato nuova luce. Rouget del Lisle, l’autore di essa, la sera del 25 aprile 1789 (data della dichiarazione di guerra dell’Austria alla Francia) era stato invitato a cena dal sindaco di Strasburgo, Frédéric Dietrich. Questi, invitò Rouget a comporre un nuovo inno. Rouget de Lisle si schermì, dicendo che non era all’altezza e tracannando il vino del Reno e facendo gli occhi da triglia alla figlia del sindaco Dietrich, finì la cena uscendo insieme ad Ignazio Pleyel suo commensale. Girarono per la città, anche per smaltire i fumi del vino. A Rue de Mésange, videro dei manifesti in cui si leggeva testualmente: Aux armes citoyens! Formez vos battaillons. Erano le prime righe: ne seguivano altre infuocate. Rouget le lesse, le scrutò meglio. Si ricordò di Dietrich, della figlia ora inconsapevole musa ispiratrice. Salutò Pleyel, tornò nella sua casa; afferrò la penna d’oca e scrisse: Aux Armes citoyens. Formez vos battaillons. Ricordando poi un’ode di Boileau… et leurs corps pourrìs dans nos plaines n’ont fait qu’engrasseron nos sillons, cioè e i loro corpi che imputridiscono nei nostri campi non fanno che concimare i solchi, continuò. L’inno ormai c’era! Mancava il primo verso. Rouget, che comandava il battaglione il celebre, travolgente inno, era nato! Ignazio Pleyel, che era maestro di cappella della cattedrale, musicò l’inno giacobino.
Oggi 14 luglio anniversario della presa della Bastiglia, ricordiamo l’evento. Proprio da Fermo, capoluogo del Dipartimento del Tronto e sede del Prefetto (ne dipendevano le vice-prefetture di Ascoli e Camerino), venivano impartiti gli ordini, ogni qualvolta tale inno doveva essere pubblicamente e solennemente cantato.
Anno 1791 – Il teatro dell’Aquila oggi ‘compie’ due secoli
Duecento anni or sono – per l’esattezza il 18 agosto 1791 – dopo alcuni controlli riguardanti il funzionamento dei meccanismi essenziali, veniva inaugurato a Fermo il Teatro dell’Aquila. L’atteso avvenimento fu celebrato col dramma sacro di Giuseppe Giordani, detto il Giordanello (morì a Fermo il 4 gennaio 1798): “La distruzione di Gerusalemme” per la prima volta rappresentato al S. Carlo di Napoli nel 1787. Per la curiosità dei nostri lettori, ricordiamo la partecipazione di quei primi interpreti, capostipiti di una lunghissima serie di attori: Francesco Gibelli, Luigi Benedetti, Giovanni Spagnoli, Ubaldo Cavalieri, Antonio Merchini, Filippo Sagripanti. L’opera venne affidata a Cosimo Morelli di Imola (1732-1812) che ricostruì parzialmente anche il Duomo di Fermo. Di lui ci piace ricordare il giudizio che appare nel volume “Teatri e scenografi”, edito dal Touring Club Italiano: “La più significativa realizzazione di Cosimo Morelli nel campo dell’architettura teatrale è rappresentata dal teatro dell’Aquila di Fermo. Opera della piena maturità dell’architetto imolese, fu inaugurato nel 1791.1 canoni di sobrietà e ra¬zionalità imposti dal gusto neoclassico sono pienamente rispettati”.
Detto teatro è stato uno dei più noti d’Italia. Fu costruito 13 anni dopo quello della Scala di Milano; un anno prima della Fenice di Venezia, due anni prima di quello di Bologna, 55 anni prima del Ventidio Basso di Ascoli. Vi si avvicendarono Giulia Marziali Passerini; Ludovico Graziani per cui Verdi scrisse la parte di Alfredo nella Traviata; Enrico Fa¬gotti, Enrico Petrelli di Palermo, Giuseppina Vitali Augusti (vi cantò nel 1878), Beniamino Gigli, Ermete Novelli, nato a Lucca da madre ferma- na (1851-1919), Giacomo Lauri Volpi, Renata Tebaldi, Isaia Bidè, Mario Del Monaco, Anna Moffo, etc. Ha anche il vanto di aver tenuto a battesimo, per la prima volta in Italia, il dramma “La morte civile”, di Paolo Giacometti. Fra gli spettatori ebbe anche Giuseppe Garibaldi (17/1/1849).
Sul suo podio si sono avvicendati i migliori direttori d’orchestra; sotto la grande volta dell’Olimpo sono risuonate le melodie dei più celebri musicisti di ogni epoca.
Oggi noi dobbiamo commemorare due secoli di vita col solo pensiero. .. Tra chiacchiere e progetti vari, il celeberrimo teatro giace fra la polvere e lavori a metà.
Nella più completa inerzia, nel più squallido abbandono. .. Fino a quando??? E pensare che il Teatro dell’Aquila è sorto sin dal 1791 preceduto soltanto da Macerata (1767). Ascoli lo ebbe nel 1846 cioè dopo 55 anni; Pesaro nel 1815; Ancona nel 1826; Jesi nel 1798; Fabriano nel 1863; Urbino nel 1853.
Anno 1796 – Giuseppe Colucci, storico delle Marche
Nei vari congressi, o convegni storici, a carattere sia regionale che nazionale, quando si parla della Marca d’Ancona o delle Marche Pontificie, nell’articolarsi della sua storia dal 1000 fino al 1800, Fermo campeggia come protagonista “nella” e “della” storia picena.
Come già visto, Pier delle Vigne, colui che tenne “ambo le chiavi del cor di Federigo”, per dirla con Dante, ai suoi tempi la descriveva come la città più importante delle Marche quae cunctas civitates in Marchia praecellebas… (Epistole, Coll. Vat.).
Quando il Cardinale Egidio Albomoz, delegato dal Papa che era in Avignone, recuperò alla Sede Apostolica l’Emilia Romagna e le Marche, divise la città delle Marche in maggiori, grandi, mediocri e minori.
Fra le città maggiori, cioè le più importanti, collocò Fermo, seguita da Ancona; quindi, nell’ordine, da Camerino, Ascoli e Urbino. Pesaro e Macerata seguivano tra le civitates magnae.
Ben si avvide di ciò uno storico, di cui oggi si ristampano le Antichità Picene, cioè Giuseppe Colucci, nato a Penna S. Giovanni il 19 marzo 1752, morto a Fermo il 16 marzo 1809, cioè 186 anni or sono. Sacerdote nel 1767, si laureò il Legge nell’Università di Fermo dove in seguito insegnò. Attratto dalla maestosità delle rovine di Falerone (nei cui pressi gli Italici nel 90 a.C. sconfissero Pompeo Strabone) compose numerose opere storiche esordendo con “Delle antiche città picene, Falerio e Tigno”, Fermo 1777; “Cupra Marittima antica città del Piceno” (1778); “Dei primi abitatori del Piceno” (Fermo 1781). “Dei vari confini del Piceno, ivi 1785”; “Delle varie Metropoli del Piceno”, Fermo 1785. Ma L’opera poderosa e grandiosa che diede fama all’autore sono le “Antichità Picene”, 32 volumi stampati a Fermo tra il 1786 e il 1796. Il primo volume venne dedicato a Pio VI, il quale lo apprezzò moltissimo ed ordinò ad ogni Comune delle Marche di prenderne copia. Purtroppo, gli invasori francesi rovinarono ogni cosa e la pubblicazione fu forzatamente interrotta.
Colucci sperava di poter continuare, ma nel 1800 fu nominato vicario generale del Cardinale C. Brancadoro (suo amico) che era stato nominato Vescovo di Orvieto.
Promosso poi il Brancadoro alla sede arcivescovile di Fermo nel 1803, confermò Colucci, vicario generale della vasta Archidiocesi che comprende anche oggi Penna S. Giovanni, paese natio di Colucci.
La Biblioteca Comunale di Macerata nel 1932/1933 ha rilevato il fondo principale dell’archivio e biblioteca da Colucci che comprendeva e comprende altri 20 (venti) volumi ancora inediti delle “Antichità Picene”.
Un epitaffio nella Cattedrale di Fermo ricorda il grande storico, non a torto
considerato il “Muratori delle Marche”.
Anno 1797 – I delegati di Fermo davanti a Napoleone
Era il 24 febbraio 1797; cinque giorni prima, a Tolentino Napoleone Bonaparte ed i plenipotenziari di Pio VI avevano firmato la pace, passata alla storia come pace di Tolentino.
Con essa, per la prima volta nella storia, il patrimonio di S. Pietro veniva decurtato di parte del suo territorio. Infatti Napoleone pretese: Avignone, il Contado Venassino, le Legazioni di Bologna, Ferrara, delle Romagne, l’occupazione di Ancona, 31.000.000 di lire, la cessione di opere d’arte, manoscritti, preziosi ecc.
Pochi giorni prima, dopo la rotta dei pontifici sul Senio, Napoleone, vittorioso, era calato nelle Marche e si era soffermato in Ancona. Aveva mandato commissari di finanza in varie città compresa Fermo per imporre contribuzioni, richiedere buoi, cavalli, vestiario, scarpe etc. Tali commissari vennero a Fermo in due riprese; uno (il commissario d’Antien) si comportò da gentiluomo. Il 21 febbraio venne un altro, scortato da sei dragoni. I Fermani insorsero, però Napoleone era ad portas; pre¬sto o tardi i suoi soldati sarebbero venuti a Fermo e preceduti com’erano dalla fama di dissacratori, ladri, rapinatori “a Dio spiacenti” perché contro la religione, ne avrebbero commesse di tutti i colori. Si pensò quindi di inviare ambasciatori a Napoleone per chiedere scusa a nome della città e dello Stato, complimentarsi con lui per le folgoranti e sfolgoranti vittorie, e scansare la venuta dell’esercito francese a Fermo.
Napoleone era tornato da poco a Tolentino; se ne stava seduto davanti al caminetto a Palazzo Torri. Quando gli fu annunciato l’arrivo dei delegati fermani, che erano il conte Giacomo Brancadoro e il conte Vincenzo Porti, li accolse bruscamente. I due delegati al cospetto di Napoleone, appena ventottenne e al culmine della gloria, furono presi da timore reverenziale al punto che (narrano le cronache) balbettarono solo alcune parole.
Al ritorno, a bordo delle loro carrozze, si imbatterono nelle truppe del generale Rusca che, alla testa dei soldati francesi, saliva verso S. El- pidio. Gli elpidiensi tesero degli agguati; si ebbero scariche di fucileria, i ribelli si asserragliarono nel convento dei cappuccini; furono assediati e si ebbe una carneficina. Dei due delegati fermani, il Conte Porti riuscì a fuggire; e riuscirono pure a fuggire altri due delegati, il conte Eugenio Savini e Vincenzo Cordella che Fermo, non avendo più notizie dei primi due, aveva mandato di rincalzo per scongiurare la venuta dei francesi.
Nella confusione e nella mischia, il conte Brancadoro, scambiato per giacobino, venne ucciso dagli insorgenti, tra i quali alcuni suoi contadini; gli altri, come detto, riuscirono a salvarsi. Molte furono le vittime da entrambe le parti nella battaglia di S. Elpidio. E pensare che solo 5 giorni prima era stata firmata la pace!
Il corpo del conte Brancadoro fu portato a Fermo e sepolto in S. Francesco. Una lapide ricorda che per scongiurare il pericolo della venuta dei francesi era andato in Ancona (et imminens Gallorum copias reconciliationis causa Anconam adiisset) e fu poi ucciso dagli Elpidiani. I suoi funerali costarono scudi 113.65; la lapide scudi 15.20. Il Generale Rusca, dopo lo scontro di S. Elpidio, chiese a Fermo in risarcimento 2.000 zecchini, ma poi si convenne per l’esborso di 1.500 colonnati, cento doppie papali, oltre a 1.112.38 scudi. Ma per cibarie, viaggi, buoi, cavalli, stivaletti, scarpe, biade, la somma totale per Fermo lievitò a scudi 3.902.44.
Anno 1798 – L’accanita battaglia di Torre di Palme
Torre di Palme, paesino stupendo a picco sul mare, gioiello d’arte e di storia che ha ispirato poeti, pittori e ultimamente ha strappato la commossa ammirazione anche a Dario Zanasi. Sotto, in pianura, si estende Marina Palmense, attraversata dalla ferrovia, dall’autostrada, dalla Statale 16 e sede di un campo di fortuna dal quale, durante l’ultimo conflitto, partivano gli aerei alleati per i bombardamenti al nord.
Ma in questa amena pianura, al cospetto dell’“adriaco mare” il 28 novembre 1798, cioè quasi due secoli or sono, ebbe luogo un’accanita battaglia tra francesi e cisalpini comandati dai generali Rusca e Casabianca e le truppe napoletane comandate dal generale Micheroux. Fu una battaglia memorabile. Ecco cosa dice in proposito Pietro Colletta nella “Storia del Reame di Napoli”: “Il generale Micheroux giunto ne’ dintorni di Fermo con 9000 soldati, vi trovò schierate a battaglia in preparate posizioni, le squadre francesi rette da’ generali Monier, Rusca e Casablanca; e venute le parti a combattimento, non fu la prova né dubbia né lenta, perché i napoletani agguagliati di numero, superati d’arte, mal diretti, sconfidati, si diedero alla fuga, lasciando sul campo alcuni morti, molti prigionieri, artiglierie e bandiere. I resti della colonna si riparavano tra i monti dell’Abruzzo, e pochi francesi li contenevano con la paura, giacché i molti andavano a rinforzare il centro e l’ala diritta alla linea…”.
A sua volta, il grande scrittore Alessandro Dumas nel volume “I Borboni di Napoli”, ivi 1845, vol. I, pag. 148, narra: “L’ala destra dell’armata napolitana, composta di 9000 uomini, sotto i generali Saint Philipe e Micheroux dovea prendere posto fra Ancona e Roma e rompere così le comunicazioni. Essi incontrarono improvvisamente i francesi presso Fermo, i quali avevano circa 3000 uomini. In questo frattempo i francesi si erano avanzati ed erano faccia a faccia coi napolitani. Micheroux fuggì per primo e fu seguito da tutta la fanteria, e se non era il buon contegno di due reggimenti di cavalleria, tutto sarebbe stato annientato. Il timor panico fu tale che cannoni, tende, bagagli, casse mi¬litari fu abbandonato a’ francesi.
Credereste voi, è la verità, che tutta questa gran disfatta ebbe per risultato appena la morte di 40 uomini? Dopo aver loro preso tende, cannoni, bagagli, i francesi non si curavano nemmeno di inseguire un’armata tre volte più forte della loro. Vari fuggiaschi erano così animati dalla paura che corsero circa 30 miglia, non fermandosi che a Pesaro!...”.
La battaglia fu un duro colpo per i napolitani. Però anche allora vi furono vittime civili e non furono né di Torre di Palme né di Marina Paimense, ma di Lapedona. Si trattava di un curioso che andò ad assistere allo scontro e vi morì.
“Emili Gaetano fu Gaetano nato il 10 maggio 1770, muori (sic) nel¬la battaglia sucessa tra le truppe napoletane e francesi lungo il lido del nostro mare… Lì 28 novembre 1798 ivi andato per sua curiosità” (così nel Liber Mortuorum della Parrocchia di S. Lorenzo in Lapedona, pag. 20, famiglia 16). Come si vede, il malcapitato aveva appena 28 anni! Grazie anche alla vittoria di Torre di Palme (sia Dumas che il Colletta parlano di vicinanza a Fermo, infatti Torre di Palme ne è frazione), il 23 gennaio del successivo 1799, il generale Championnet potè proclamare a Napoli la Repubblica Partenopea che però ebbe via effimera; durò fi¬no al 20 giugno dello stesso anno: 5 mesi in tutto.
Il 6 luglio 1799 ad Acquaviva Picena, i francesi e i loro adepti subirono un tremendo assedio con molte uccisioni ad opera di Sciabolone, uno dei capi degli insorgenti.
Anno 1799 – L’assedio degli Insorgenti alla rocca di Acquaviva
Acquaviva di Fermo: non è un’espressione topografica campanilistica, ma tale era la denominazione fino al 1827. Infatti, dipendeva da Fermo sin dai primordi della sua storia e cessò per una “commutazione territoriale” tra Fermo ed il Presidato di Montalto, in quanto quest’ultimo ebbe da Fermo, Acquaviva, S. Benedetto (del Tronto), Carassai, ma cedette a Fermo, Ripatransone e Cossignano.
Tale denominazione, spicca in un rame a didascalia “castello di Acquaviva di Fermo”, esposto ben visibile nei locali della Cassa Rurale ed Artigiana di Acquaviva ed in analogo rame, posto negli uffici comunali di S. Benedetto del Tronto.
Esattamente il 6 luglio 1799 e nei due giorni seguenti, ad Acquaviva di Fermo ebbe luogo un violento assedio da parte degli Insorgenti, contro i Giacobini del Cantone del Tronto. Questi, privati del supporto delle truppe francesi, si erano asserragliati nella Rocca di Acquaviva, pronti ad ogni evento. Li comandava il conte Pacifico Boccabianca e tra essi, cioè tra i “giacobini”, vi erano alcuni sacerdoti, tra cui Don Vincenzo Boccabianca, fratello del comandante. Gli Insorgenti, in numero soverchiante (taluni parlano di 400 unità, altri di mille) diedero l’assalto, appoggiati da due cannoni. Dall’alto della rocca un cannoncino sparava a tutto andare sugli Insorgenti, che venivano presi di mira anche dai cecchini.
Quell’“inferno”, durò tre ore e cessò solo perché gli Insorgenti riu-scirono, penetrando da un pertugio, ad aprire la porta. Sciabolone alla testa degli assedianti, vi penetrò, saccheggiando le case; uccidendo i difensori; appiccando incendi. Il saccheggio si potrasse dal 6 al 9 luglio 1799, dopo di che, Sciabolone, caricato il bottino su 18 bestie da soma, si avviò a Lisciano, sua patria. Da qui proseguì per Fermo, dove si incontrò con il generale La Hoz. Insieme si diressero alla volta di Ancona. Ma La Hoz, istituì prima di ciò, la Imperiale – Regia – Pontificia Provvisoria Reggenza, con Fermo capitale. Molti dei giacobini, non ebbero pace; nemmeno dopo la morte. Ad alcuni fu negata la sepoltura in luogo sacro e seppelliti fuori dalle mura, sotto la rocca. Negli anni 1873/74 allorché fu spianato il campo della fiera, riemersero molte ossa umane. Le uccisioni ed i saccheggi continuarono ad Acquaviva ancora per diversi giorni anche se con minore virulenza.
Anno 1799 – Analogie e contrappasso. Napoleone e due pontefici
Domenica scorsa, 18 giugno, tutti i mass-media hanno rievocato il 1802 anniversario della battaglia di Waterloo, che segnò la definitiva sconfitta di Napoleone. Oggi 27 giugno, anche se la stampa non ne parla, ricorrono 196 anni dalla fine del primo periodo di prigionia a Briangon di Pio VI che, preso prigioniero da Napoleone, dopo averlo spogliato dei suoi Stati col trattato di Tolentino (19 febbraio 1797), lo portava verso Parigi. Pio VI ebbe a Brianzoli la sua prima fase di prigionia: dall’11 floreale al 9 messidoro, cioè dal 30 aprile al 27 giugno 1799!
È storia viva; è storia attuale! La famiglia di Napoleone Bonaparte cui la storiografia attribuisce origini ascolane, emigrata quindi in Toscana e poi in Corsica, salì con Napoleone alla ribalta della storia. Avendo rilevato tempo fa su questo giornale i giorni fausti di Sisto V, mi sono divertito a ricercarne consimili in Napoleone, ma mi sono su¬bito incontrato con un sorprendente contrappasso. Napoleone prende il Papa prigioniero due volte (Briancon fa parte della prima volta), egli è due volte prigioniero all’isola d’Elba e a S. Elena. Napoleone fa viaggiare il Papa prigioniero per 153 giorni. Per lui si verifica altrettanto! La prigionia dei Papi Pio VI e Pio VII dura per sette anni, quella di Napoleone pure. A Tolentino (presente anche una delegazione di Fermo) inizia la gloria napoleonica (17-2-1797).
A Tolentino, il 3 maggio 1815, è sconfitto l’ultimo napoleonide Gioacchino Murat
Il 14 fu invece giorno propizio per Napoleone. Contrassegna il passaggio del Gran S. Bernardo, la battaglia e la vittoria di Marengo (14-6-1800); di Elchingen (14-10-1805); di Iena e Auerstadt (14-10- 1806); di Friedland (14-6-1807); di Raab (14-6-1809); la pace di Vienna (14-10-1809), etc. Il 5 maggio 1810, il Prefetto del Dipartimento del Tronto, che ha sede a Fermo impone ed ordina il canto del Te Deum in tutte le chiese per celebrare la nascita del Re di Roma.
Il 5 maggio 1821, a S. Elena, muore Napoleone! Chi avrebbe detto che a distanza di undici anni da quel Te Deum, si sarebbe recitato il De Profundis. Coincidenze? Contrappasso? Riscontri? Casi fortuiti? “Ai posteri l’ardua sentenza”.
Anno 1808 – Il ‘complotto dei tredici’ fallì e Napoleone li fucilò
Vicenda “Gladio”, proclami del Cocer, voci di insurrezioni, di col pi di Stato, tali sono i titoli dei giornali e dei mass media di questi giorni. Ma, niente di nuovo sotto il sole! Anche durante il dominio nelle Marche di Napoleone Bonaparte, ed esattamente nel 1808, scandito in date ricorrenti: 8 settembre, 8 novembre e 8 dicembre, ebbe luogo un complotto di 13 cittadini di Altidona contro il colosso napoleonico. Almeno così il comando napoleonico, stanziato a Fermo, sede capoluogo del Dipartimento del Tronto, voleva far apparire un evento di modeste proporzioni, causato dal malcontento contro il regime napoleonico, che fra l’al¬tro imponeva arruolamenti e leve forzose. E così tredici cittadini di Altidona (per la storia: Antonio Tulli. 22 anni, contadino; Giuseppe Parranzani. 30 anni, contadino: Domenico Marzetti. 26 anni, fabbro: Vin¬cenzo Capriotti, 23 anni, contadino; Agostino Lamponi, 19 anni, contadino; Girolamo Marini, 23 anni e Gaetano Vallesi, 48 anni, entrambi contadini; Giovambattista Gazzoli, 24 anni, fornaciaio; Filippo Del Monte, 36 anni, bottaio residente a Fermo; Giuseppe Ercoli, 21 anni; Domenico Lupacini; Ciriaco Lupacini, 26 anni; Angelo Borghè, 19 anni, fabbro) furono accusati di voler “invadere Fermo, impossessarsi della polveriera, della Cassa di Finanza; trucidare le autorità civili e la Truppa ivi stanziata”. Per la verità, tali giovani insofferenti delle costrizioni obbligatorie e delle angherie del comando napoleonico, istigati da Filippo Del Monte, sposato ad un’altidonese, si sollevarono contro le autorità di Altidona “arrestando il sindaco, il balivo ed atterrando lo stemma reale”. Il comando francese di Fermo, saputa la cosa, effettuò una spedizione punitiva mettendo il castello di Altidona al sacco. Documenti di archivio evidenziano ruberie, depredazioni, incendi e arresti. Il comandante della truppa tuttavia, promise il perdono purché i colpevoli avessero deposto le armi, che del resto non adoperarono; lo fecero; vennero rilasciati; richiamati più tardi a Fermo con falsi pretesti, vennero processati. Infatti, la “Commissione Militare Speciale sedente in Fermo”, nominata ai sensi della Legge di S.M.I.R. (Sua Maestà Imperiale e Regia) del 17 messidoro, anno 10, condannò quasi tutti alla pena di morte in esecuzione dell’art. 1 della Legge del 16 termidoro dell’anno V. Detto articolo recitava: “Ogni cospirazione o complotto tendente a turbare la Repubblica con la Guerra Civile, armando i cittadini o gli uni contro gli altri o contro l’esercizio dell’autorità legittima, sarà punito di morte”.
La sentenza, pronunciata 1’8 novembre 1808 a Fermo, ebbe esecuzione la sera stessa alle ore 20. i “rei” furono fucilati sul Girfalco. È curioso notare che la sentenza fu stampata e divulgata con appositi manifesti (in tutto 600, cm. 70×35) “a spese de’ condannati” i quali furono “solidamente condannati al rimborso presso il Pubblico tesoro delle spese del Processo”. L’8 dicembre 1808, le famiglie, nascostamente, fecero memoria dell’eccidio di questi sventurati, umili untorelli che non avrebbero certo né spiantato, né potuto spiantare l’impero napoleonico.
Anno 1809 – Napoleone cancellò la Cavalcata fermana
Nei giorni del Palio e della Cavalcata, erano severamente proibite le opere servali. Ma la saggezza dei governanti fermani permetteva delle eccezioni: il trasporto del corredo per le ragazze che dovevano sposarsi e il lavoro dei tintori di stoffe.
Sfogliando le “Riformanze”, ossia le deliberazioni del Consiglio comunale di Fermo, dal 1300 alla fine del Governo pontificio nelle Marche (1860). le festività del Palio e della Cavalcata fanno da filo conduttore della storia di Fermo e del suo Stato. Si ha così notizia che nel 1381 passano ìe truppe di Alberico da Barbiano e “danno fastidio” allo svolgimento dei festeggiamenti. Dopo cinque anni imperversa la soltadaglia di Boldrino da Panicale: nel 1406 altri grandi passaggi di truppe (transitus gentium armorum) nel 1446 a furor di popolo viene distrutta la Rocca del Girfalco. dove si erano annidati gli Sforza. Le macerie e le distruzioni non favorirono uno svolgersi ordinato e solenne della festa.
L’anno dopo, scoppia la peste, che aveva fatto già tante vittime nel 1348 e seguenti: sono messe delle sentinelle alle porte della città, perché non entri nessuno e non si propaghi il contagio. Ma fra i periodi di splendore e di ombra. Palio e Cavalcata prosperarono, specie nel sec. XVII, attirando folle di visitatori e sarei per dire “turisti”, come potevano essere quelli di tale secolo.
Venuto Napoleone Bonaparte. tutto si fermò. Egli non voleva che nel giorno del suo compleanno e del suo onomastico, che cadevano appunto il 15 agosto, avessero luogo manifestazioni di folklore religioso. Ne avrebbe scapitato il suo nome e la sua gloria. Per tale motivo, abolì il Palio e Cavalcata, permettendo altre manifestazioni e divertimenti ma in un’ottica napoleonica. Dopo il Congresso di Vienna (1815), Palio e Cavalcata tornarono in auge fino alla venuta dei “liberatori piemontesi”, che proibirono tali manifestazioni.
Anno 1810 – Napoleone e il decreto sui camposanti
Oggi, 2 novembre, è la giornata tradizionalmente dedicata alla visita dei camposanti che, contrariamente a quanto si attribuisce a Napoleone Bonaparte, esistevano e da molto tempo. Il decreto di St. Cloud del 1806, che vietava i “sepolcri fuor dei guardi pietosi”, non dice nulla di diverso di quanto sancivano già le XII Tavole di Roma (non si deve cremare né seppellire alcun cadavere entro le mura cittadine). Giustiniano (sec. V) già da allora, prescriveva le sepolture fuori delle mura delle città e nel 1278 cominciava ad esistere il camposanto di Pisa. Ma, senza andare tanto lontano, a Porto S. Giorgio, a fianco della chiesa omonima, sin dal 1761 fu costruito un cimitero con la scritta significativa: Revicturis, cioè: ‘a quelli che vivranno di nuovo’. Scritta piena di fede che richiama quella: Resurrecturis (‘a coloro che risorgeranno’) ed altre analoghe. In Germania, in un cimitero di guerra ho letto questa lapide: Invictis, victi, victuri: ‘Agli invitti, coloro che sono stati vinti, ma che vinceranno’. Icastica e tacitiana bellezza, se non fosse per quel sentimento di rivincita…
Tornando alle sepolture fuori dall’abitato (il nostro codice prescrive almeno 200 metri), Napoleone ha avuto il merito di avere stabilito in tutto il suo impero che venissero costruiti cimiteri, abolendo così l’andazzo che si era verificato. Nonostante le leggi in vigore, infatti, prima si seppellivano in chiesa prelati e duchi, conti etc. e poi a poco a poco tutti. Il divieto imposto da Napoleone fu recepito, dopo la sua caduta, dai governi che parteciparono al Congresso di Vienna. Del resto era dettato da norme igienico-sanitarie. Nel Fermano, Altidona fu uno dei primi castelli a costruire il camposanto. Fermo lo costruì nel 1813, quanto era ancora capoluogo del Dipartimento del Tronto. Successivamente, nel 1852 e dal 1882 al 1950, vi furono eretti i loggiati; da tale data fino ad oggi, il cimitero fermano venne ampliato ed arricchito di opere architettoniche. Vi dormono il sonno eterno i cittadini, illustri e non. Tra quelli, ricordiamo qualche nome: il celebre clinico Augusto Murri, il Card. De Angelis, i Bernetti, i Fracassetti, Colli, ecc. Ma l’occasione della solennità odierna ci dà lo spunto per accennare alla lapide, o meglio al distico latino che campeggia sulla porta laterale d’ingresso (quella che dà sulla superstrada Fermo-Porto S. Giorgio). Fu dettato quando si studiava davvero il latino e i ministri non commettevano errori di congiuntivo. Il latino che era, ed è, l’anima di ogni cultura, così recitava: Imperai hic dolor, hic breviter mors pallida re¬gnai / Improbus bine Erebos, bine petit astra plus; cioè: ‘Qui impera il dolore, qui regna ma per poco la pallida morte; il malvagio da qui va all Inferno; il buono in Cielo’. Ne è autore Carmine Galanti, dantista e poeta latino, nato a Cossignano nel 1821, morto a Ripatransone nel 1890. Egli venne spesso a Fermo; fu amico del Card. De Angelis e del card. Malagola, del Prof. Fracassetti; del Sacconi; di Ippolito Fan- glois. Per loro, o in loro onore, scrisse epigrammi e dediche.
Anno 1810 – Un dì felice ma Napoleone voleva far festeggiare solo il suo compleanno
Folle plaudenti, squilli di chiarine, scampanio festoso, rullo di tamburi, sparo di tonanti, gloria di sole, di fiori, di colori. È la festa dell’Assunta oggi, la festa del Palio e della Cavalcata. L’euforia è alle stelle: è questa una tempesta festosa. Ma in tale dta è bene rievocare anche “i dì che furono”.
La Cavalcata ed il Palio, festa unica nata nel 1182 o meglio, come abbiamo dimostrato, nel 1149, festeggiatissima nei secoli, proprio per volere di Napoleone Bonaparte quando Fermo era capoluogo del Dipartimento del Tronto (1798-1799 e 1808-1815) fu messa da parte. In quel giorno infatti, 15 agosto, ricorreva l’onomastico ed il compleanno di Napoleone Bonaparte.
“Per superiore disposizione resta prescritto che nel giorno 15 andante debba, in tutte le Chiese, Cattedrali e Parrocchiali del regno, cantarsi l’inno ambrosiano, per festeggiare la nascita di sua Maestà l’Augustissimo Nostro Imperatore e Re. Dovendo quindi un’epoca così lieta, essere accompagnata colle maggiori dimostrazioni di giubilo, sono invitati tutti gli abitanti di questo Comune, d’illuminare con decente pompa, nella sera di domani, le facciate esterne delle loro case, per dimostrare la loro devozione ed amore verso il proprio Sovrano”. Così un ordine del podestà di Fermo in data 14 agosto 1810.
Analogo manifesto quello del Prefetto del Dipartimento del Tronto, Comalia, agli abitanti di tutto il Dipartimento. Questo consisteva nell’attuale Provincia di Ascoli e buona parte di quella di Macerata. Comprendeva infatti Camerino, Samano, Pieve Torina, Pioraco, S. Ginesio, Gualdo, S. Giusto etc. Fermo, come detto, ne era il capoluogo e prefettura. Ascoli e Camerino le due vice-prefetture.
Tuttavia anche se “mortificata” era la festa dell’Assunta, Napoleone credeva alla Madonna. In altri dispacci ed ordini del Prefetto si invita la popolazione a pregare l’Assunta per la nascita del futuro Re di Roma il figlio di Napoleone, per le sorti dellTmpero e per la salute della Casa dell’Imperatore. C’è anche un ordine in data 5 maggio 1810.
Il Podestà di Fermo, Porti (segretario Abelle), comunica “il già seguito imeneo (matrimonio) di sua Maestà l’imperatore e Re nostro, con sua altezza imperiale l’arciduchessa Maria Luigia di Austria”.
Si ordina alla cittadinanza di recarsi in Cattedrale dove “alle undici e mezza antemeridiane”, verrà cantato un solenne Te Deum. Come detto era il 5 maggio 1810. Curiosità storica: Napoleone morirà a S. Elena il 5 maggio 1821.
Ma tant’è! Oggi Napoleone compirebbe 223 anni. “Vergin di servo encomio e di codardo oltraggio” gli inviamo i nostri auguri ed egli da là dove si trova “in più spirabil aere”, li accetterà, sia perché nonostante tutto volle bene a Fermo, sia perché i suoi antenati erano piceni come docunterebbero anche quotate pubblicazioni francesi.
Anno 1812 – Quando il Viceré nominava i “sindaci”
Come è noto, la legge elettorale vigente, prevede l’elezione diretta del sindaco da parte dell’elettorato. Al tempo di Napoleone, per il Regno d’Italia da lui istituito, le nomine erano addirittura effettuate dal viceré: nel 1812, esattamente il 31 marzo, vennero nominati nuovi podestà nei vari Dipartimenti, ossia nelle circoscrizioni territoriali che alla maniera francese prendevano il nome dai fiumi, e in genere avevano una estensione maggiore delle attuali province italiane. Furono nomi¬nati nuovi podestà nei Dipartimenti dell’Alto Adige, Alto Po, Brenta, Metauro, Mincio, Tagliamento ed altri.
Ovviamente, non poteva mancare il Dipartimento del Tronto, di cui Fermo era capoluogo. Il decreto di nomina, pomposo, ampolloso e direi “roboante”, recita: “Napoleone per grazia di Dio e delle Costituzioni Imperatore dei Francesi, Re d’Italia, protettore della Confederazione del Reno e mediatore della Confederazione Svizzera...”, etc. Come si vede, Napoleone doveva governare vasti, anzi, immensi territori; dominava su quasi tutta l’Europa per cui, per il Regno d’Italia, aveva nominato Viceré il figliastro Eugenio Beauhamais il quale, ad un dato punto, si inserisce nella stesura del decreto che così prosegue: “Eugenio Napoleone di Francia, Viceré d’Italia, Principe di Venezia, Arcicancelliere di Stato dell’Impero francese a tutti quelli che vedranno le presenti, salute! Noi in virtù dell’autorità che ci è stata delegata dall’altissimo ed augustissimo Imperatore e Re NAPOLEONE (tutto maiuscolo nell’originale, ndr) nostro onoratissimo padre e grazioso sovrano, abbiamo decretato ed ordinato quanto segue: Sono nominati podestà degli infrascritti comuni di seconda classe i seguenti individui: Filippo Segreti, podestà di Monterubbiano; Antonio Seri, podestà di Mogliano; Pietro Paolo Neroni, podestà di Ripatransone; Zaccaria Giorgetti di Porto di Fermo.
Come si vede, vi è anche Mogliano ora in provincia di Macerata, ma che allora faceva parte del Dipartimento del Tronto. In precedenza, il 19 luglio 1811, lo stesso Eugenio, con le ripetute sperticate lodi al patrigno che egli chiama “padre”, aveva nominato i membri del consi¬glio comunale di Montalto “per la parziale rinnovazione, riferibile al 1811”. Essi erano: Natale Guidotti, Vito Cilini, Giovanni Angelini, Giuseppe Guidotti, Fortunato Orlandi. Oltre al rinnovo parziale del Consiglio di Montalto, abbiamo quelli di Grottammare, S. Vittoria in Matenano, etc.
Intensi furono i rapporti tra il governo di Napoleone, Fermo e la chiesa fermana. Non ci sappiamo spiegare perché nel convegno di studi che si sta tenendo a Fonte Avellana dove “surgon sassi che fanno un gibbo che si chiama Catria” (Dante 3,21,108), non si parli di tali rapporti (l’argomento è: la Chiesa e Napoleone), quando, se c’è una diocesi che li ha avuti intensi, è proprio la Chiesa fermana, anche alla luce delle ruberie di quadri ed opere d’arte. Ma “quando mai fu lo stranier apportator di libertade?”.