Anno 1407 – Antonio Di Pietro e… le campane
La scorsa settimana parlando della progettata visita del Papa a Sarajevo, abbiamo accennato alle campane. Esse scandiscono la nostra vita.
Nell’Archivio di Stato di Fermo si conservano editti di Napoleone I. Per la nascita dell’erede, il Re di Roma, Fermo (allora capoluogo del Dipartimento del Tronto) doveva comunicare a tutti i Comuni dipendenti (l’attuale Provincia di Ascoli e metà di quella di Macerata) che le campane di tutte le chiese dovevano suonare festose per tale evento. E l’ordine non si limitava ad una ristretta area, o all’allora Regno d’Italia, bensì a tutto il vasto impero.
Ai giorni nostri, grazie a una provvidenziale “purificazione” ad opera del pool Mani Pulite, i trasgressori sanno che la campana suona per loro. E il giudice Di Pietro sembra ne sia il battaglio. Effettuando delle ricerche, mi sono in questi giorni imbattuto in un diario… È il “Diario Romano”, scritto tutto in latino, dal 1404 al 1417. Elemento dominante della trattazione sono le campane. Vi si accenna a Innocenzo VII, Gregorio XII, Ladislao Re di Napoli ma, come detto, tutto è incentrato sulle campane, i fatti salienti in cui sono state protagoniste: gli assedi di truppe straniere che avevano invaso il Lazio e miravano a Roma; fughe di mercenari ed assalitori, grazie al suono delle campane che chiamavano alle armi. Vi si parla anche di rintocchi funerei per coloro che erano, per i loro misfatti, condannati alla pena capitale.
Mi sono divertito a leggere e sviscerare tale diario, specchio degli eventi dell’epoca, reporter fedele degli avvenimenti del tempo, ma sempre con il leit motiv: le campane. Ma indovinate chi ne è l’autore. Quale il suo nome? È strabiliante: Antonio Di Pietro! Ammetto che una delle principali e gloriose fonderie di campane si trova ad Agnone, Provincia di Campobasso, stessa Provincia di Montenero di Bisaccia, patria di Di Pietro. Però quello del “Diario”, è vissuto nel sec. XV ed era canonico vaticano. Il nostro, il Di Pietro vivente, aspirava al sacerdozio, ma non se ne fece nulla. Ora è un “primate” della giustizia e Fermo, città dove ha studiato, formula gli auguri che diventi pontefice massimo della giustizia. Nomen Omen!
Anno 1416 – Ancora su Bertoldi – Contro la noia… Divina Commedia
Alcuni lettori hanno scritto chiedendo ulteriori notizie su Giovanni De’ Bertoldi, il Vescovo di Fermo che tradusse in latino la Divina Commedia per i padri del Concilio di Costanza (1414/1418). Detti lettori, desiderano anche sapere se il De’ Bertoldi era cittadino della Repubblica di S. Marino, oppure “di Romagna solatìa”. Giovanni nacque nel 1350 a Serravalle, allora dell’agro di Rimini, ma nel 1461, dopo circa un se¬colo dalla nascita del De’ Bertoldi, con altri tre castelli (Fiorentino, Montegiardino e Faete) passò alla Repubblica di S. Marino. Ciò in compenso dell’aiuto prestato a Pio II ed al Duca di Urbino nella vittoriosa guerra contro Sigismondo Malatesta. Tuttavia, in precedenza, i De’ Bertoldi avevano ricoperto importanti cariche nella repubblica del Tita¬no. Entrato tra i Frati Minori, Giovanni frequentò l’Università di Pavia dove si laureò; quindi in quella di Bologna, dove seguì le lezioni di Benvenuto da Imola su Dante. Stimato dal pontefice Bonifacio IX, fu lettore di Teologia in Santa Croce a Firenze; indi nello Studium Fiorentino. Lodato da Coluccio Salutati, cancelliere della Signoria Fiorentina, nel 1410 fu nominato da Gregorio XII, Vescovo di Fermo.
Suo alto merito è quello di aver tradotto in latino la Divina Commedia a richiesta del Cardinale Amedeo di Saluzzo e dei Vescovi inglesi Nicola Bubwych e Roberto Halam che, con altri ed alti prelati, partecipavano al Concilio di Costanza che per la verità procedeva molto lentamente. Nel 1416 si ebbero soltanto sei sessioni; i Padri Conciliari si annoiavano e chiesero allora al Vescovo di Fermo, De’ Bertoldi, di tradurre per loro, in latino, la Divina Commedia di cui conoscevano la grandezza, ma non conoscevano l’italiano. De’ Bertoldi, si accinse all’impresa. Nel gennaio 1416 iniziò la traduzione, e già nel maggio dello stesso anno era terminata. Oltre alla traduzione, compilò anche il commento. Di tutta l’opera esistono in tutto il mondo tre codici: Uno, il migliore, alla Biblioteca Vaticana. Un altro, nella Library del British Museum di Londra ed uno, incompleto, nella biblioteca del defunto Arcivescovo Carlo Castelli. L’edizione vaticana ribadisce la “fermanità” del nostro De’ Bertoldi. Più tardi il De’ Bertoldi passò alla sede vesco¬vile di Pano. Particolare curioso: due Vescovi di Permo commentarono la Divina Commedia: il De Firmonibus celebre anche per il Messale miniato ed il De Bertoldi.
Quest’ultimo che “sopra gli altri come aquila vola”, passò poi alla sede di Fano, cosa che si verificò anche per il De Fir monibus. A Fermo nel 1922 in onore del De’ Bertoldi, fu scoperta nel tempio di S. Francesco la seguente lapide: “A Giovanni Bertoldi da Ser- ravalle / dell’Ordine Francescano / vescovo e principe di Fermo / che nell’anno MCDXVII nel Concilio di Costanza / a preghiera dei Padri coadunati / la Divina Commedia / nella lingua del Lazio tradusse e com-mentò dottamente / il Comitato del Secentenario dantesco / questa me-moria riparatrice del lungo oblio pose/”.
Il Vescovo Giovanni morì il 3 febbraio 1445.
Anno 1417 – I ‘meriti’ danteschi del monsignore
“Romagna solatia dolce paese / in cui regnaron i Guidi e i Malatesta / cui tenne pure il Passator cortese” etc. Così Pascoli nella nota poesia. Ma i Malatesta, non regnarono solo in Romagna. Nel 1412 calarono pure nelle Marche ed occuparono Fermo, togliendola al Migliorati. Era Vescovo in quegli anni Giovanni De Bertoldis da Serravalle, centro della Repubblica di S. Marino, da non confondere con Serravalle del Chienti. Erano quelli tempi duri per l’Italia e per la Chiesa. Vi erano contemporaneamente, tre papi: Giovanni XXIII (antipapa da non confondere con l’omonimo, morto nel 1963); Benedetto XIII anch’egli antipapa e Gregorio XII il vero, legittimo pontefice. Per porre fine a tale situazione (lo scisma d’occidente) fu convocato a Costanza, città della Germania sul lago omonimo, un concilio ecumenico (il sedicesimo). Tale concilio depose Giovanni XXIII e Benedetto XIII. Gregorio XII, il vero papa, per il bene della chiesa si sacrificò, rinunciando spontaneamente. Alla fine, in data 18 ottobre 1417, venne eletto il nuovo Papa nella persona di Oddone Colonna, romano, che assunse il nome di Martino V. Ma prima di giungere a tale soluzione, passarono quattro anni.
Il Concilio, aperto nel 1414, venne chiuso nel 1418. Ovviamente, durante tale lungo periodo, gli intervenuti si annoiavano. Si rivolsero allora al Vescovo di Fermo, che era con loro per i lavori conciliari, pregandolo di tradurre loro la Divina Commedia. Il De Bertoldis si accinse all’opera e nel 1417, l’anno prima della chiusura, apparve una bella e fedele traduzione in latino che entusiasmò i padri. La stampa ancora non era stata inventata ed il manoscritto fu accolto e letto avidamente. Sul frontespizio si leggeva: “Editum a reverendo in Christo Patre et D.D. Fr. Joanne de Serravalle. Arim dioec. Dei et Apostolicae Sedis gratia Episcopo et Principe Firmano”. Latino facile che dice: Edito dal reverendo in Cristo padre Giovanni da Serravalle Diocesi di Rimini, per grazia di Dio e della sede Apostolica Vescovo e principe di Fermo.
Così il mondo dotto di allora, grazie alla traduzione del De Bertoldis, potè conoscere la Divina Commedia. In un recente convegno a Sentino, nell’alto Pesarese, in una relazione si affermò che tale traduzione venne fatta dal De Bertoldis mentre era Vescovo di Fano. Egli dopo Fermo fu sì “traslato” a Fano, ma la traduzione avvenne durante il vescovato a Fermo. L’intitolazione del manoscritto del resto è chiarissima.
Ma Fermo ha un altro merito “dantesco”. Il primo manoscritto della Divina Commedia, fu eseguito da Antonio da Fermo. L’originale è ora conservato a Piacenza (codice landiano). Pure il grande Giacomo della Marca, oggi santo, fu uno studioso attento di Dante. Nelle sue prediche e sermoni, rincorrono spesso citazioni dantesche e ciò in un periodo in cui ci voleva audacia e grinta a citarle, dato che la lingua dei dotti era il latino. A proposito di questo santo, siamo lieti di comunicare che dopo 520 anni tornerà a Fermo “sua seconda patria” (Pagnani). Il nostro giornale che ripetutamente si è battuto per tale ritorno saluta con gioia tale evento (avrà luogo il 28 maggio) citando i versi usati da Dan¬te (2, 30 21) “Benedictus qui venis… Manibus, o date liba plenis”. Benedetto o tu che vieni. Spargete a piene mani i gigli… pensando anche, e perché no, a Zanella là dove dice… “Tornan giganti a riveder la culla / gli sparsi figli...”.
Anno 1417 – Sepolto a Recanati Gregorio XII morì all’età di 90 anni
Abbiamo visto che nel 1047 muore a Pesaro Papa Clemente II al secolo Suitgero, di provenienza sassone. Ma un altro Papa morì novantenne nelle Marche, e precisamente a Recanati: Gregorio XII (Angelo Correr veneziano), Papa dal 1406 al 1415, deceduto il 18 ottobre 1417.
Gregorio XII era stato eletto Papa quando aveva ottant’anni. Sin dal mo-mento della sua elezione, si era dichiarato disposto a rinunciare, purché avesse fatto altrettanto l’antipapa Benedetto XIII, suo rivale. Nel 1409 a Pisa si riunirono i dieci Cardinali fedeli al Papa avignonese ed i quattordici Cardinali fedeli a Gregorio XII, deponendo in data 5 giugno di quell’anno, e il Papa e l’antipapa. Elessero un nuovo Papa: Pietro Filargo che prese il nome di Alessandro V. Risultato? Anziché due Papi ce ne furono tre. A Bologna moriva nel 1410 Alessandro V, antipapa e suo successore fu un altro antipapa Giovanni XXIII (da non confondere con Papa Giovanni XXIII morto nel 1963). Si chiamava Baldassarre Cossa napoletano. Per porre fine a tanto caos, Sigismondo imperatore di Germania, indisse nel 1414 il concilio di Costanza. L’antipapa Giovanni XXIII, finì per disgustare tutti e fu dichiarato decaduto. Gregorio XII, come promesso, abdicò al fine di far cessare lo scisma, ma prima convocò il Concilio che fino a quel punto era nullo. Gregorio morì quando il concilio continuava; rimaneva l’antipapa Benedetto XIII. Il Concilio di Costanza elesse Papa Martino V (Oddone Colonna romano) e depose nel 1419 l’antipapa Benedetto XIII e così Gregorio XII che rinunciò per il bene della Chiesa, riposa dal 1417 nella Cattedrale di Recanati.
Anno 1423 – Morte nascosta – Timori di rivolte gioiose per la fine di Ludovico
Sono ricorsi domenica, 564 anni dalla morte di Ludovico Migliorati (signore di Fermo per 23 anni), morte avvenuta nella rocca del Girfalco.
Ludovico, era nipote di Papa Innocenzo VII, (Cosimo Migliorati di Sulmona) che regnò dal 1404 al 1406. Fu molto caro al pontefice zio e ne vendicò l’umiliazione infettagli da alcuni rappresentanti del popolo romano, che si erano spinti perfino in Vaticano per rinfacciargli vere o presunte ingiustizie commesse contro di loro. Ludovico li attese all’uscita del Vaticano e, quando passarono vicino a Santo Spirito, li fece catturare uccidendone undici. Il popolo insorse. Innocenzo cercò rifugio a Viterbo, ma ben presto tornò a Roma richiamatovi dallo stesso popolo romano. Ludovico, non subì nessuna pena per l’eccidio commesso, anzi fu fatto signore di Ancona e di Fermo; ma dopo la morte dello zio papa, fu privato da Gregorio XII di ogni autorità. Si alleò allora con Ladislao, Re di Napoli, e per conservare il dominio di Fermo, commise molte efferatezze. Sue vittime furono Antonio Aceti, il figlio Giovanni ed il fratello Aceto. Confermato nella signoria di Fermo, sposò nel 1417 Taddea, figlia di Pandolfo Malatesta. Il matrimonio fu celebrato con grandi festeggiamenti con tornei di cavalli e luminarie.
Ludovico nel 1423 fece erigere sul tetto della abside della Cattedrale una colonnina, nella cui sommità è posto un bellissimo gallo in ferro battuto. Tale gallo simbolo di vigilanza (gallus iacentes excitat et somnolentos increpat, dice un inno) indica, data la sua mobilità, la direzione dei venti. Era in bronzo! Atterrato da un fulmine venne sostituito con l’attuale, opera di Mario Bracalenti di Fermo (1901-1945).
Tornando alla data della morte di Ludovico Migliorati, c’è un particolare curioso. Essa venne tenuta nascosta al popolo per tredici giorni; per timore di possibili sollevazioni per la naturale “…liberazione” dal tiranno. Altra curiosità: la prima moneta d’argento della Zecca di Fermo, fu fatta coniare dal Migliorati.
Anno 1427- Un inedito malatestiano
Ieri la chiesa cattolica ha celebrato il dies natalis di S. Giacomo della Marca, le cui spoglie mortali sono tornate, per un anno, da Napoli nella natia Monteprandone. È tornato il nostro Santo nella terra della Marca, dopo 516 dalla morte, egli che tanto amò Fermo e vi predicò più volte. Di lui abbiamo parlato! Ma oggi, al compiersi degli oltre cinque secoli dalla morte, vogliamo narrare un episodio inedito e sconosciuto.
Ha un bel dire Pascoli: Romagna solatia dolce paese / in cui regnaron i Guidi e i Malatesta / cui tenne pure il passator cortese / etc.”.
I Malatesta regnarono anche nella Marche. A prescindere dal fatto che sono oriundi dal Montefeltro, precisamente da Penna e Billi (poi Pennabilli), antico loro possesso, molti di essi signoreggiarono Pesaro (i Malatesta di Pesaro), Fossombrone, Senigallia, Fano, e per un periodo, tutte le Marche, fino al Tronto.
Nel settembre 1427 Pandolfo III Malatesta che era signore di Fano, Brescia e Bergamo (non di Rimini, come erroneamente ha scritto taluno) si ammalò proprio a Fano, dove si trovava anche S. Giacomo della Marca che teneva un ciclo di predicazioni. Il santo si recò più volte a visitare e confortare l’illustre infermo. Il 13 ottobre 1427, visto che era gravissimo, con tatto ed estrema delicatezza, gli fece chiaramente capi¬re che era venuta la sua ora e lo invitò a confessarsi e comunicarsi. Pandolfo, che pure era stato valoroso guerriero ed aveva più volte sfidato la morte, ebbe un sussulto, lo invase un tremore per tutto il corpo e svenne. S. Giacomo lo confortò fino alla fine, Pandolfo spirò tra le sue braccia. Lasciava tre figli naturali, i quali, due anni dopo la morte dello zio Carlo (1429) subentrarono nel possesso dei domini dello zio. Essi, poi, legittimati da Papa Martino V (1417-1431), erano Galeotto Romano, morto in odore di santità; Domenico, detto “Malatesta Novello”, che fondò la Biblioteca Malatestiana di Cesena; Sigismondo Pandolfo, che fece costruire il Tempio malatestiano di Rimini, opera di Leon Battista Alberti.
Sigismondo Pandolfo, il 22 settembre 1441 sposò a Fermo Polissena, figlia del conte Francesco Sforza, in quella Fermo di cui il suocero fu signore e dove tanto operò S. Giacomo della Marca che a Fano raccolse l’ultimo respiro del padre.
Anno 1439 – Isolea e Matteo oggi sposi – Una storia d’amore nata sul Girfalco
Il Girfalco di Fermo ne ha viste di tutti i colori nel corso dei secoli. Da Pompeo Strabone che vi si rifugiò durante la guerra sociale nel pri¬mo secolo avanti Cristo, ad Ataulfo Re dei longobardi, Odoacre, Amalasunta, Teodato, Teia, fino ad Ageltrude, moglie del Duca di Spoleto, Guido nel 1176. Cristiano di Magonza arcicancelliere di Federico Barbarossa, lo rovinò incendiando la Cattedrale e mettendo Fermo a ferro ed a fuoco. Enrico IV lo occupò nel 1192; Marcualdo, gran siniscalco dell’impero, se ne impadronì. Vi si avvicendarono il Conte di Celano, Aldovrandino, Federico II che lo espugnò nel 1240. Manfredi lo occupò nel 1270, Mercenario da Monteverde nel 1355. Nel 1433 vi si istallò il conte Sforza e nel 1444 vi nacque Galeazzo Sforza, che divenne poi il quinto Duca di Milano. Nei tempi a noi più vicini, vennero sul Girfalco e visitarono il bel palazzo Vinci (o parlarono dal balcone) Giuseppe Garibaldi, 1849; Pio IX, 1857; Umberto I (allora principe) nel 1863; Felice Cavallotti; Giosuè Carducci; Umberto II ex Re d’Italia e, il 30 dicembre 1988, Papa Giovanni Paolo II. Ma abbiamo visto che si sono avvicendati anche rappresentanti del gentil sesso. Fra esse, ricordiamo Isolea figlia del Conte Sforza il quale, seguendo una politica di matrimoni alla quale si univano le conquiste militari, fece sposare sua figlia Isolea con il Duca d’Atri, Matteo d’Acquaviva. Tale famiglia era potentissima. Fra l’altro espresse guerrieri, legislatori, letterati, Cardinali (tra cui Troiano, Acquaviva 1747, che ebbe per segretario, il galante Giacomo Casanova). Della famiglia Acquaviva erano il generale dei Gesuiti, Claudio (1615), il fondatore di Giulianova Giulio Antonio (1481) etc. Il matrimonio tra Isolea a Matteo avvenne nella cattedrale, posta sul Girfalco. Correvano tempi burrascosi. Il concilio di Basilea proprio in quell’anno, 1439, si era trasferito da Ferrara a Firenze dopo il precedente trasferimento da Basilea a Ferrara (1437). Nell’invito che il conte Francesco Sforza mandò, vi è qualche puntatina troppo cruda… Lo traduciamo dal latino: “Francesco Sforza, Visconte di Cotignola, Conte di Ariano, Marchese della Marca d’Ancona, Gonfaloniere del Santissimo signor nostro il Papa e di Santa Romana Chiesa, Capitano Generale della Lega Santa”. L’invito a partecipare al fausto evento porta la data: Jesi 23 marzo 1439 ed è rivolto alle terre e città della Marca e recita… “poiché abbiamo deciso, duce il Signore, che il diciannove del prossimo aprile 1439 nella città di Fermo si consumerà per carnalem copulam. il matrimonio fina Noi, cioè tra la nostra dilettissima figlia Isolea e l’Eccellentissimo Signore, figlio e genero nostro, molto onorevole Andrea Matteo d’ Acquaviva. Duca di Atri, invitiamo per tal motivo tutti e i singoli e ne richiediamo la graziosa presenza ecc.”. L’invito fu mandato a tutte le città e terre della Marca, ma non vi figura Camerino. mentre ne furono deliberatamente esclusi Ancona, Osimo, Recanati ed Ascoli. Grande lo sfarzo di tali nozze e poi… gli sposi vissero felici e contenti come nelle fiabe. Quest’anno, ricorrono 550 anni da tale evento. Quindi nozze all’undicesima potenza o meglio, plurime, d’oro.
Anno 1440 – L’inedita lettera di S. Giacomo
Abbiamo più volte parlato di S. Giacomo della Marca, il santo marchigiano per
eccellenza che molto operò in Europa, specie nella ex Jugoslavia, in Italia e nella nostra regione. Come già detto, egli predilesse Fermo: vi soggiornò a lungo; vi predicò; vi tornò più volte, anche se alla fine se ne partì spiacente perché i fermani avevano creduto più a unvisionario che a lui.
Di questa “corrispondenza d’amorosi sensi”, ci piace dare notizia di una sua lettera, finora inedita, esistente a Oxford, celebre cittadina uni- versitaria inglese e precisamente nella biblioteca bodleriana. La lettera è diretta a due padovani, ma originari delle Marche, Daulo e Bartolomeo da Urbino. Scritta a fine luglio 1440 cioè 553 anni or sono, porta la data: Assisi 30 luglio 1440. S. Giovanni era stato a Padova a predicare la Quaresima; i padovani avevano ‘molto apprezzato e gradito il ciclo delle sue sue prediche. Ora che è lontano, egli ricorda quei giorni con affetto; anzi dice di essere legato a Daulo e Bartolomeo e a Padova quasi da un vincolo triplice (triplex funiculus) e li prega di porgere ai padovani il suo ringraziamento ed il il suo vivo ricordo.
Questo inedito dimostra l’animo squisitamente umano di un santo che d’altra parte fu inflessibile verso gli eretici. A lui si addice il dantesco “ .. delle Fede cristiana il santo atleta / benigno ai suoi ed ai nemici crudo”.
Anno 1441 – Ancora matrimoni e corna eccellenti
L’articolo apparso domenica sulle nozze di Sigismondo e Polissena celebrate a Fermo nel 1441, ha suscitato un certo interesse. La pro-fessoressa Mara De Felice da Pesaro, mi ha scritto che vorrebbe saperne di più e Graziella Gregorini di Ancona, anche lei insegnante, vorrebbe sapere del matrimonio del suocero di Sigismondo, il Conte Francesco Sforza. Anche se lo spazio è tiranno e la struttura di questa rubrica umile, lo facciamo volentieri.
Il matrimonio tra Sigismondo e Polissena fu celebrato a Fermo il 21 settembre 1441 e il 29 aprile 1441 Sigismondo “menò per sua donna, la magnifica Madonna Polissena figliola del magnifico signor Conte Francesco a Rimini”. Polissena “da Fermo, fu accompagnata da molti si¬gnori e gentildonne. La strada dell’arco di Augusto fino alla corte ricoperta di panni di lana gentile”. Si ebbero pranzi, danze, suoni, giostre, tornei di gioia; i festeggiamenti durarono fino al 2 maggio. Ma c’è un particolare interessante: dopo un mese dalle nozze di Sigismondo con Polissena, il padre di quest’ultima, Conte Francesco Sforza, sposa, a Cremona, Bianca Maria Visconti: lui quarantenne; lei sui 14/15 anni e “triomphalmente consumò il matrimonio con Bianca Maria nella rocca di S. Croce”. Inutile parlare del fasto degli sponsali sontuosi e magnifici e del loro significato politico; viene in mente il detto: “Gli altri facciano la guerra! Tu, felice, Austria, sposati”. Bella gerant alii; tu Felix Austria nube… Infatti e il matrimonio di Sigismondo e quello del suocero erano “frutto” di intese politiche. Come abbiamo notato, Sigismondo sposa a Fermo e poi con la sposa si trasferisce a Rimini; il suo¬cero, sposa a Cremona e poi con la moglie viene a Fermo. “Il venerdì 22 giugno”.
Sigismondo, pur avendo sposato Polissena se la intendeva con una tale Vannetta: giovane e splendida fanciulla di Fano, di due anni più giovane di lui “vedendola giovane e bella sfringuellare”, le fece la corte; e poi poi… la mise incinta. Vannetta sperava in nozze riparatrici, ma invano! Sigismondo sposò Polissena. Intanto spuntava l’astro di Isotta, il vero amore di Sigismondo e, come è noto, Polissena fu “eliminata”.
A Fermo furono celebrati in quegli anni altri matrimoni famosi: Alessandro fratello del Conte Francesco vi sposa Costanza Varano, il sabato 28 novembre 1444: gli sponsali vennero celebrati sul Girfalco: notaio dell’atto, fu lo storico fermano Antonio Aceti. Nel 1439 un’altra figlia del Conte Sforza, Isolea, sposò a Fermo Andrea Matteo II di Acquaviva.
A Rimini, nel tempio Malatestiano, Sigismondo e Isotta dormono il sonno eterno. A Rimini è pure sepolta Polissena, la sfortunata fanciulla che sposò a Fermo Sigismondo definito da Pio II “pestifero morbo” e da D’Annunzio “procellosa anima imperiale”. Polissena non seppe dargli i fremiti di amore di Isotta, ma lo amò non riamata. Della Polissena dell’Iliade, parlano Euripide e Ovidio; della nostra, nessuno… Valga per lei questo nostro piccolo contributo, e questo nostro ricordo.
Anno 1441 – Fermani e Ascolani, una notte insieme
Chissà che festa a Fermo quel 5 giugno 1441. Era il giorno di Pentecoste. Nella vasta Piazza del Popolo, sistemata di recente da Alessandro Sforza per accogliere il fratello e Bianca Visconti, nuovi “tiranni” di Fermo, si riversarono oltre quattrocento ascolani, molti dei quali vestiti con i camici delle confraternite. Invasione pacifica, concordata e promossa da S. Giacomo della Marca, egualmente amato e stimato, e da Fermo e da Ascoli.
Tale “invasione”, era il coronamento di un lungo e tenace lavoro di pacificazione tra le due città, cordialmente nemiche sin dal tempo dei Romani. Fermo allora prescelta da Roma ad essere la sua roccaforte nel Piceno, vigilava su Ascoli e al tempo della guerra sociale, da Fermo era partito Gneo Pompeo Strabone che conquistò e distrusse Ascoli, pala¬ della Lega Italica. Più tardi, 1211, Ottone IV, imperatore tedesco, aveva concesso a Fermo di dominare incontrastata dal Tronto al fiume Potenza e nessuno poteva costruire senza il permesso fermano per la profondità di un chilometro. Ascoli se n’era risentita, perché mirava ad uno sbocco sul mare. Di qui le lotte per il possesso del tratto a nord del¬la foce del Tronto. Fermo poi nel 1348 aveva assalito e distrutto la for¬tezza e il porto, che Ascoli in dispregio dei diritti fermani aveva edifi¬cato nel sito dove sorge attualmente Villa Laureati a Porto d’Ascoli. Il contenzioso marittimo durava da tempo. Monteprandone, patria di S. Giacomo della Marca, era l’avamposto ascolano verso lo Stato di Fermo, la cui giurisdizione si estendeva su Acquaviva Picena e S. Bene¬detto del Tronto.
Ma tutti volevano la pace, le due città erano stanche di lottare, e il 5 giugno quella moltitudine di quattrocento ascolani venne con in mano un ramoscello d’olivo. Giacomo della Marca salì su un podio improvvisato ed infiammò con la sua fervida parola i cittadini di Fermo e di Ascoli. Ad un tratto, si levò un grido alla folla che stipava la piazza del Popolo: “Pace, pace”. I ramoscelli d’ulivo ondeggiavano agitati dalla folla: Pace, pace! La notte, i 400 ascolani furono ospitati da famiglie fermane e dormirono nei loro letti (in eorum lectis et cubilibus). Due giorni dopo, fu stipulato un vero e proprio trattato di pace: Fermo ed Ascoli dovevano costituire un popolo solo (unus et idem). Fermo dove¬va effigiare nel suo stemma quello di Ascoli diviso da una croce ed altrettanto doveva fare Ascoli.
Il 9 giugno 1464 la pace fu ratificata ed approvata dal Legato della Marca a S. Severino Marche. Francesco Petrarca nella sua tomba forse avrà gioito! Almeno qualcuno, anche se a distanza di anni, aveva raccolto il suo slogan: “Io vò gridando pace, pace, pace”.
Ma i trattati di pace – diceva Bismarck – sono dei pezzi di carta. Così avvenne tra Fermo ed Ascoli. Appena morto Pio II (morì in Ancona il 15-8-1464) i Fermani corsero subito ad assediare Monte S. Pietrangeli, alleata degli Ascolani, ma spina al fianco nel territorio dello Stato di Fermo e la querelle cominciò di nuovo.
Anno 1441 – Sigismondo e la sposa bambina
Rimini, famosa per il regista Fellini, per Sergio Zavoli ed altre illustri personalità è celebre anche per il ponte di Tiberio (22 d.C.), per l’arco di Augusto, il proclama di Rimini di Murat (1815) per i Malatesta, il tempio Malatestiano, etc. Ma, sia la città, sia i Malatesta. hanno “connessioni” storiche con Fermo. A Rimini nel 1351 fu firmato il trattato di pace tra Fermo e Ascoli; da Rimini nel 1441 Sigismondo Malatesta ven¬ne a Fermo per sposare Polissena Sforza, figlia del Conte Francesco.
Sigismondo, oltre ad essere prode guerriero era anche un focoso marito ed un instancabile dongiovanni. Diciassettenne, dopo aver sposato a Rimini la quattordicenne Ginevra, figlia del marchese d’Este ed averla fatta morire poco tempo dopo con una bona medixina, mise gli occhi addosso a Polissena, figlia di una tal Colombina e del Conte Francesco Sforza che diverrà poi duca di Milano.
“Nel 1441 lo illustrissimo signore misser Sigismondo Malatesta, andò a sposare la figliola dello illustrissimo conte Francescho, alla città di Fermo chiamata la magnifica madonna Polissena”. Così annota C. Broglio nella “Cronaca Malatestiana del sec. XV”, cronaca compilata in quegli anni. Sigismondo aveva 24 anni; lei 14. Non pare che il conte Sforza fosse entusiasta di questa unione, tanto più che poco prima, Sigismondo aveva mandato all’altro mondo per “amore” la Duchessa di Baviera, venuta in Italia in pellegrinaggio. Tuttavia, si sperava che “la grazia ancora acerba di Polissena” mitigasse i furori d’amore di Sigismondo. D’altra parte, lo Sforza preferiva avere il Malatesta più come amico che nemico. Ma Sigismondo ben presto si invaghì di Isotta degli Atti, bella e colta damigella di corte. Appena Isotta si accorse delle attenzioni del Malatesta, gli disse subito chiaro e tondo che condizione sine qua non per un suo eventuale matrimonio con lui, era che Polissena doveva sparire da Corte. Sigismondo dapprima tentò la via diplomatica e si rivolse al Papa per l’annullamento del matrimonio, ma la richiesta fu respinta. Maggiormente invasato d’amore per Isotta, pretese dal confessore di Polissena una dichiarazione scritta ove si attestasse che Polissena avrebbe confessato degli adulterii. Il frate, fedele al segreto confessionale, rifiutò, anche perché adulterii non ve n’erano. Sigismondo allora liquidò la faccenda con l’uxoricidio e di notte mentre Polissena dormiva fu fatta soffocare “con un panicello al collo”. Non contento, fece uccidere pure il frate, dopo avergli fatto porre un cerchio di ferro rovente intorno alla fronte.
Sigismondo sposò quindi Isotta; fece erigere per lei il famoso Tempio Malatestiano opera dell’Alberti, tempio della monumentalità classica romana, che mira all’esaltazione di Isotta e di Sigismondo. Ma ben presto la fortuna di Sigismondo cominciò a declinare; i nemici invasero gran parte dei suoi possessi; egli morì senza aver potuto vedere il completamento del tempio, fatto erigere con tanto amore in onore, come detto, della sua terza moglie, Isotta. Vendetta dall’al di là di Polissena Sforza? o di Ginevra, Polissena e la Duchessa di Baviera insieme? Si sarebbe avverato quanto diceva Manzoni in Adelchi: “Gli estinti / talor dei vivi sono più forti assai” (IV, 1).
Anno 1442 – Il benvenuto di Fermo alla “magnifica ed inclita” Bianca Maria Visconti
Bianca Maria Visconti era figlia naturale di Filippo Maria Visconti, poi legittimata. Il padre, non avendo avuto altri figli, aveva riversato su di lei tutto il suo affetto. Per ragioni di politica, fu data in isposa, appena quindicenne, al conte Francesco Sforza, marito infedele di moglie fedelissima che gli donò altri sette figli (egli ne ebbe undici illegittimi). Quando Bianca venne a Fermo il 22 giugno 1442, aveva appena dicia- sette anni.
La venuta era stata preceduta da Alessandro Sforza, suo cognato che, per l’occasione, aveva fatto sistemare l’attuale Piazza del Popolo, livellandola ed ampliandola. “Il venerdì 22 giugno, a mezzodì, la magnifica ed inclita signora Bianca, figlia del potentissimo Duca di Milano (cioè di Filippo Maria Visconti, ndr) e moglie dell’eccellentissimo conte Francesco, venne a Fermo accompagnata da dodici damigelle. Entrando da Porta S. Giuliano, si recò al Girfalco accompagnata dai priori e dal popolo festante”. Così Anton di Nicolò.
Grande lo sfarzo: 24 cavalieri vestiti di seta bianca con i loro cavalli bardati pure in seta bianca e vessilliferi dai drappi rossi, con effigiato lo stemma di Fermo, le fecero scorta, mentre lei incedeva, sotto il baldacchino di seta azzurra, sorretto da sei nobili cittadini. Bianca entrò nella Rocca sul Girfalco, nido degli Sforza, che da qui dominavano su tutte le Marche. “Dal Girfalco nostro di Fermo a dispetto dei Santi Pietro e Paolo”. Così chiudevano le loro lettere gli Sforza che, annidati in tale fortezza, si sentivano sicuri e sfidavano il Papa. Ce lo conferma anche Nicolò Machiavelli (St. Fior. V-).
Proprio nella rocca di Fermo, nella notte tra il 14 e 15 gennaio 1444, Bianca diede alla luce Galeazzo Maria Sforza, che sarà poi Duca di Milano.
Dopo varie vicende, nel 1446, la rocca fu assediata e presa dai Fermani, stanchi della dominazione sforzesca. Bianca partì con Galeazzo che aveva appena due anni. In seguito egli diede non pochi pensieri per il suo carattere eccentrico, temibile e terribile.
I sudditi lo chiamavano illustrissime Domine Noster metuendissime (illustrissimo Signore nostro terribilissimo); egli, nelle lettere alla madre, si firmava obsequen- tissimus filius ac servitor Galeazus Maria Sfortia Dux Mediolani. Ma nonostante tali professioni di devozione, dopo la morte del padre, la mise in disparte.
Bianca morì il 23 ottobre 1468 dopo che la febbre “terzana si convertì in perniciosa e lo colorito divenne giallo come paglia vizza”. Il cadavere fu portato a Milano e “reponato ne la ducale corte, nel tempio de Sancto Gothardo e dopo due giorni con grandissima pompa di esequie, nel maggior tempio fu tumulata accanto a Francesco suo felicissimo consorte”. (Archivio Stato, s.v. Milano).
L’orazione funebre fu tenuta da Francesco Filelfo, umanista di Tolentino, educatore dei figli di Galeazzo che, del resto, voleva bene ai marchigiani specie a Bramante.
Anno 1444 – Degna accoglienza all’arrivo del Conte Francesco Sforza
Quel 3 gennaio 1434 cadeva, come oggi, di domenica; per Fermo tale data era contrassegnata da un grande avvenimento. Il conte Francesco Sforza (che a dire di Ludovico Antonio Muratori era “l’eroe che l’Italia da più secoli in qua non aveva più prodotto”) veniva a FERMO. Da poco era stato nominato da Eugenio IV, Gonfaloniere di Santa Chiesa e Marchese della Marca; veniva qui, nella città allora più importante, a porre il suo quartier generale. Aveva comunicato questa sua decisione alle autorità di Fermo e queste “tostamente ordinarono, affine di ricevere col maggiore onore un tanto signore, si assembrassero di tutta la città e contado, i cavalieri d’armi e patrizi e gran borghesi ed altresì il clero secolare e regolare i cavalieri si vestissero d’assisa e tutti andassero incontro al Conte e facessergli riverenze, onore e compagnia… Ap¬parve il conte montato in un bellissimo destriero e circondato da molte genti armate, sì di fanti e sì di cavalieri; il duplice clero, processionalmente, l’accompagnarono per le vie della città, ornate e parate; dodici uomini vestiti di bianco con ciascuno una bandiera in mano e due dardi da lanciare, andavano innanti al nuovo signore cantando inni i canzoni di laude; altri ragguardevoli cittadini vestiti d’assisa erano intorno al conte, alcuni de’ quali tenevano il baldacchino”.
Così un cronista fermano, descrive l’ingresso del Conte Sforza, il quale si recò al Girfalco, prese possesso della Rocca e da qui effettuava le sue spedizioni e incursioni contro paesi e città della Marca, sottoponendoli a imposizioni fiscali, a consegna di derrate alimentari e di armigeri. Da qui, dopo la rottura col Papa, inviava le sue lettere datando¬le: “Dal nostro Girfalco di Fermo a dispetto del papa”: Ex Girifalco nostro firmano invito Petro et Paulo. Ce lo narra anche il Machiavelli ne Il Principe. Abbiamo accennato alle sortite dello Sforza dalla Rocca. Tolentino, Montolmo (Corridonia), Ascoli, Montefiore, Marano, ne sanno qualcosa e ci limitiamo soltanto a queste località. Essendosi ribellata Ripatransone, ordinò che tutte le milizie si radunassero a Santa Maria della Fede nei pressi di Montefiore dell’Aso. Da qui con 9.000 cavalieri e 3.000 fanti mosse all’attacco. Cinse Ripatransone d’assedio, la espugnò mettendola a ferro ed a fuoco portandosi via un ricco bottino, comprese suppellettili di culto, come paramenti sacri, calici e campane; alcune di esse vennero issate nelle varie chiese di Fermo; la più grande, nel palazzo dei Priori. Condusse a Fermo anche molti prigionieri ma alcuni (erano 36) riuscirono ad evadere.
Il 22 giugno 1442 lo Sforza condusse a Fermo la sua giovane sposa Bianca Maria Visconti, che nel 1444 gli darà un figlio, Galeazzo il quale diverrà poi il quinto duca di Milano.
Sforza, a causa delle angherie e soprusi, fu inviso ai Fermani che lo cacciarono e distrussero la rocca. Si era nel 1146. Di essa non rimase che pietra su pietra. Oggi ricorrono 559 anni da quando vi entrò per la prima volta prendendone possesso.
Anno 1444 – Lo sfarzo degli Sforza
A Fermo nella rocca del Girfalco, v’era grande attesa quel 13 gen¬naio 1444. Bianca Visconti, moglie del conte Francesco Sforza stava per dare alla luce il primogenito ed era appena ritornata da Corinaldo. Gli Sforza volevano che il primo rampollo nascesse a Fermo, loro roc¬caforte e qui appunto nella notte tra il 14 e il 15 gennaio, Bianca partorì un bel maschietto; peperit masculum, annota il cronista. C’era ora da scegliere il nome. Fu allora mandato a Francesco Maria Visconti, padre della puerpera, Gaspare da Pesaro. “Contentissimo, gli piacque che gli imponesse il nome dell’avolo suo Galeazzo”, cui venne aggiunto Maria. E col nome di Galeazzo Maria Sforza fu battezzato nella Cattedrale di Fermo, vicinissima alla rocca.
Per l’occasione, nella spianata del Girfalco, si tennero tornei cavallereschi (fuit iostrarum in Girfalco per multos armigeros). Vi parteciparono numerosi cavalieri e uomini d’arme che “indossavano ricche ar-mature e i destrieri annitrivano di gioia, ancor essi ricoperti e ricamate d’oro. Gli araldi erano vestiti con lucco ornato degli stemmi di Sforza e Visconti”. Era lo sforzo degli Sforza! Galeazzo ben presto si dedicò al mestiere delle armi, dopo che con suo padre si era trasferito a Milano. I fermani nel 1446 cacciarono infatti gli Sforza, che migrarono a Milano. Nel 1466 il Conte Francesco Sforza, divenuto nel frattempo Duca di Milano (1450), morì. Galeazzo Maria che si trovava in Francia incontrò non pochi ostacoli e peripezie per recarsi a Milano. Per non farsi riconoscere nell’attraversare la Savoia si travestì da “servo di mercatante”. Riconosciuto si rifugiò in una chiesa e il diritto di asilo lo salvò. Dopo tre giorni fuggì e attraverso fortunose vicende raggiunse Milano dove, il 20 maggio 1466, a soli ventidue anni, veniva proclamato dal popolo. Nella nuova mansione gli furono di valido aiuto la madre Bianca e la saggezza di Cecco Simonetti. Durante il suo regno, Galeazzo mirò allo sfarzo, al lusso, a spese eccessive, torchiando i sudditi con tasse ed esosi balzelli. Si comportò male verso sua madre Bianca Visconti, relegandola a Cremona, dove morirà il 23 ottobre 1468. Galeazzo, per far fronte ai lussi della reggia ed ai fasti di corte, splendida anche per la presenza di artisti e umanisti quali Bramante e Filelfo (entrambi marchi-giani) e Panfilo Gastaldi, aveva angariato il popolo con tasse molto pesanti ‘“era homo che faceva grandi pazzie et cose disoneste“, si legge in un diario coevo). Tre giovani (Olgiati, Fampugnani. Visconti) ordirono una congiura e il 26 dicembre lo uccisero a pugnalate. Strana coincidenza: il 26 dicembre 1194 nasce a Jesi l’imperatore Federico II, che tanto ebbe a che fare con le Marche e con Fermo; il 26 dicembre 1476 moriva Galeazzo Maria Sforza, mentre a Fermo nella notte tra il 14 e il 15 gennaio di 547 anni or sono, Papa Eugenio IV (il veneziano Condulmer) nell’apprendere la notizia della nascita di Galeazzo ebbe ad esclamare: “È nato un altro Lucifero”.
Anno 1446 – Quel leone ruggiva sepolto sotto terra
In questi giorni si compiono 550 anni della nascita di Galeazzo Sforza, quinto duca di Milano, nato a Fermo, nella rocca del Girfalco nella notte tra il 14 e 15 gennaio 1444.
La madre, Bianca, figlia di Filippo Visconti, era qui giunta due anni prima; il padre conte Francesco, sin dal 10 giugno 1443 aveva scelto Fermo capoluogo dei suoi domini delle Marche e si era insediato nella rocca da cui dominava tutta la Regione. Da qui, come racconta Machiavelli, datava le lettere con la finale “a dispetto di S. Pietro e Paolo (cioè del Papa): ex Girfalco nostro firmiano invito Petro et Paulo“.
Oggi tale rocca più non esiste; distrutta a più riprese a decorrere dal 1446 e non una sola volta come scrivono alcuni storici. Anzi, se si leggono le deliberazioni del Comune di Fermo (Riformanze) si nota che dopo il primo colpo o distruzione iniziale, ve ne furono delle successive, sebbene di minore entità. Durante una di queste demolizioni a furor di popolo, fu messo in salvo ed interrato il leone che oggi campeggia a fianco della Cattedrale, per impedirne la distruzione da parte dei nemici degli Sforza.
Dopo circa quattro secoli, nel settembre 1835, un colono del si¬gnor Luigi Alessandro Monti, lavorando la terra, scoprì “col suo agrario strumento” delle grosse pietre. Scavò in profondità ed ecco apparire un magnifico leone in travertino. Aveva l’aspetto minaccioso, fauci spalancate per azzannare la preda, lingua al di fuori, criniera scarmi¬gliata. Era quasi intatto, ad eccezione delle estremità delle zampe che risultavano spezzate, ma le cui parti mancanti furono rinvenute non molto distante. Grande lo stupore per la scoperta! Si parlò di scultura greca, di opera romana, di alto medioevo. Dopo esami congetture, riscontri, emerse che era un leone che campeggiava nella fortezza, leone messovi dagli Sforza il cui stemma consisteva appunto in un leone ed un cotogno Leonem dabo qui citonium laeva sustineat et minaci dextera tueatur, latino facile che vuol dire “ti darò un leone che con la zampa sinistra tenga un cotogno e con la destra lo difenda”.
Certo il colono di Luigi Alessandro Monti che lo ritrovò interrato a mezzo miglio fuori porta Santa Caterina, non immaginava di dare o meglio di restituire alla città un monumento della sua millenaria storia. Oggi più non sono né la fortezza né gli Sforza; rimane solo il leone simbolo di gloria passata. “Ombra di un fiore è la beltà su cui / bianca farfalla poesia volteggia / Eco di tromba che si perde a valle / è la potenza”. Così Carducci ne “La Chiesa di Polenta”. Di tanta gloria e di tanta storia rimane la Cattedrale accanto a cui sorgeva la rocca. Stat crux dum volvitur orbis.
Anno 1446 – S. Giacomo della Marca torna…
“Tornan giganti a riveder la culla / Gli sparsi figli..(Zanella). “Sire, voi tornate in trionfo tra ali di folla, sotto l’arco del trionfo, trainato da otto cavalli, in marcia trionfale, in divisa di imperatore”..Così Victor Hugo, in occasione del ritorno da Sant’Elena delle spoglie di Napoleone Bonaparte.
Non so se l’accostamento è irriverente, ma qui nella vicina Monte- prandone nei giorni scorsi tra due ali di folla plaudente ed entusiasta, tra volti raggianti e commossi, è tornato “al natio borgo”, in trionfo, un Grande: S. Giacomo della Marca. “Tornan giganti a riveder la culla…”. Ed ha ragione Giacomo Zanella, autore di questi versi, poiché S. Giacomo della Marca è davvero un gigante. In tutti i sensi.
Nato a Monteprandone nel 1393, carattere deciso e volitivo, operò molto a Fermo e nel Fermano, spesso mediatore di pace tra Ascoli e Fermo. Sedò e compose contrasti tra Monteprandone, sua patria ed Acquaviva; tra S. Benedetto e Monteprandone, araldo di pace e di bene. Santo tipicamente marchigiano (non per nulla fu chiamato della Marca), tutto “serafico in ardore”, operò a Fermo, in Ascoli, Sant’Elpidio, Gubbio, Verona, Pavia, Cremona, Temi, Fabriano, Perugia, Camerino, Macerata, F’Aquila, Spoleto, Cascia, Ancona, etc. Predicò a Milano con tale efficacia, che i milanesi lo avevano già proclamato loro Arcivescovo “ma isso se ne fugì di notte secretamente, per fugire la pompa del mondo”. Ma questa “fuga”, prelude al crescendo della sua azione apostolica. Lo troviamo in Ungheria, in Austria, Bosnia, Germania, Danimarca, Prus¬sia, Polonia, Cipro, Medio Oriente; mirava all’Islanda; lo dissuase il clima rigido di quella nazione. Fu uno dei pionieri dei Monti di Pietà, istituti contro gli usurai di allora. Stigmatizzò le fazioni politiche. Fu amico e consigliere di sette papi: Martino V (+1431), Eugenio IV (+1447), Nicolò V (+1455), Callisto II (+1458), Pio II (+1464), Paolo II (+1471), Sisto IV (+1484).
Le deliberazioni dei Consigli comunali di Fermo, sono piene del suo nome e delle sue imprese. Nel 1446 riuscì a far firmare la pace tra Fermo ed Ascoli. Donò alla Cattedrale di Fermo un’icona della Madonna ed ebbe molto a cuore il Convento dell’Annunziata di Fermo. Tuttavia, i fermani non si comportarono bene con lui, preferendogli un “Tornan giganti a riveder la culla“. Tempo fa sulle colonne di questo giornale avevamo auspicato un tale ritorno. Omen, nomen! Il sogno si è avverato. Egli, che riposa a Napoli nella chiesa di Santa Maria Nuova, dove è molto venerato, tanto che Napoli l’ha eletto per suo comprotettore (secondo solo a S. Gennaro) è tornato e rimarrà del tempo fra noi. “Tornan giganti a rivede la culla…”. Ma quando torneranno, anche se per breve tempo, gli altri grandi marchigiani che riposano a Napoli tra cui il nostro Leopardi e il nostro Pergolesi?
Anno 1446 – La rivolta contro gli Sforza e la protezione di S. Caterina
Era il 25 novembre 1446, festa di Santa Caterina. Allora le date erano scandite dalle feste dei Santi e la Santa in oggetto, raffigurata nella iconografia con una ruota e la palma del martirio, costituì la ruota della fortuna per Fermo che proprio nel giorno a lei dedicato, veniva liberata da un lungo martirio: quello imposto dagli Sforza.
Questa potente dinastia milanese si era impadronita di Fermo; nel 1433 aveva occupato la fortezza del Girfalco dove il conte Francesco aveva insediato un buon nerbo di truppe scelte, dislocando le altre nei punti strategici della città. Dal Girfalco dominava in tutta la Marca d’Ancona (Ex Girfalco nostro firmano invito Petro et Paulo).
Qui aveva la sua corte; qui nel 1444 era nato l’erede Galeazzo che sarà quinto duca di Milano; da qui effettuava sortite e scorrerie in paesi vicini compiendo razzie e prendendo prigionieri; da qui partì per andare ad assediare Ripatransone. E curioso a tale proposito un ordine, anzi un’ingiunzione, datata Massignano. “Egregi dilecti nostri. Per sapere, ci fanno bisogno delle asse, overo tavole assai, per fare de’ ripari per le Bombarde, volemo piantare qui contro la Ripa e piacciavi e cornandovi che subito, veduta la presente, ci vogliate mandare venticinque tavole, le più lunghe e larghe che possiate trovare e subito le mandiate a Santa Maria della Fede, dove sta Pietro Brunorio, al quale ordinate siano consegnate, e non mancate per quanto cara avete la grazia nostra. Datum in felicibus castris contra Ripa Transonem 22 settembre 1442”.
Tornando alle vicende di Fermo, dobbiamo dire che la sua era una dittatura vera e propria ed i Fermani erano al limite della sopportazione. Alla fine, non potendone più, ricorsero alle armi. Il giorno di Santa Caterina del 1446, presero le armi, cacciarono i soldati ed i presìdi militari che gli Sforza avevano in città e gridando a squarciagola “Viva la Santa Chiesa e viva la libertà”, i Fermani assalirono i “soldati sforzeschi divisi in tutti i quartieri della città, spogliandoli delle armi e degli arnesi bellici”. Però, in un primo tempo, gli sforzeschi ebbero la meglio: in una sortita presero prigionieri i priori che furono condotti al Girfalco; ma da qui, gli sforzeschi videro molti soldati con fiaccole accese che venivano in aiuto dei Fermani. Erano le due di notte e tali soldati entrarono da porta Santa Caterina. Il popolo allora si infiammò e accorse all’assedio. Fermo oramai era libera; la notte seguente, focaracci di gioia diedero la notizia a tutta a Marca.
Anno 1446 – S. Giacomo e la pace tra Fermo e Ascoli
Nel 1446, dopo la cacciata degli Sforza e lo smantellamento della rocca, fu convocato a Fermo il Consiglio dei 300 che doveva sancire, dopo tante lotte, una pace duratura tra Fermo ed Ascoli. I dissidi risalivano al tempo dei romani, quando questi stabilirono a Fermo una colo¬nia militare che controllasse anche Ascoli. La Guerra Sociale, che si concluse il 25 dicembre dell’89 a.C. fu originata proprio dal fatto che il pretore romano, Fonteio, da Fermo si era recato in Ascoli, per verificare se gli italici si stavano scambiando ostaggi, pegno di un’azione comune contro Roma. Fonteio ed il suo seguito, furono uccisi e Roma inviò subito un esercito per punire Ascoli. Dopo alterne vicende Ascoli fu espugnata e gli italici sconfitti.
Altro motivo dell’inimicizia tra Ascoli e Fermo, fu la concessione da parte di Federico II della licenza di costruire un porto. Fermo se ne risentì perché in virtù di un privilegio di Ottone IV imperatore, rilasciato il 10 dicembre 1211, aveva il diritto di dominio dal Tronto al Potenza e nessuno per la profondità di mille passi (grosso modo un chilometro) poteva costruire case e fortezze senza il benestare di Fermo. Ora si voleva addirittura un porto… Ebbero luogo scontri armati che culminarono con l’assedio del Porto di Ascoli e la sua espugnazione (1348), l’anno della famigerata peste nera.
Ma sia Ascoli sia Fermo erano stanchi di combattersi. Si pensò ad una pace; ne fu mediatore S. Giacomo della Marca e, esattamente il 28 maggio 1446, nel Palazzo dei Priori di Fermo venne convocato il Consiglio dei Trecento che deliberò una pace duratura tra le due città. Per rendere la pace più efficace tra i due centri, vennero da Ascoli 400 cittadini con ramoscelli d’ulivo e si ammassarono in quella che è oggi Piazza del Popolo, cantando inni di giubilo ed auspicando la sospirata pace. Fermani ed Ascolani, cosa mai vista in precedenza, gremivano la piazza. S. Giacomo della Marca rivolse ai presenti infuocate parole mentre le campane suonavano ad arma.Nella notte che seguì tutti gli ascolani trovarono alloggio presso le famiglie fermane e come raccon¬ta Anton Di Nicolò, testimone oculare, dormirono nei letti e nei giacigli dei fermani in eorum lectis et cubilibus.
Dopo tale manifestazione, il 7 giugno 1446, vennero stipulati i patti di confederazione e fraternità tra Fermo ed Ascoli. In essi si stabiliva che:
a) il popolo di Fermo e quello di Ascoli dovevano formare uno stesso popolo (unus et idem populus);
b) le due città dovevano inquartare nello stemma quello dell ’ altra città per cui Fermo quello di Ascoli e Ascoli quello di Fermo;
c) Fermo non doveva accogliere i fuoriusciti di Ascoli e Ascoli fare altrettanto per Fermo. I delinquenti dovevano essere estradati e giudicati dai giudici del luogo di residenza;
d) in caso di aggressione esterna, le due città dovevano unire le loro forze per respingere l’aggressore;
e) il tutto, doveva avvenire nel pieno rispetto dei diritti della Chiesa Romana.
Come detto, questi patti furono approvati dall’Autorità Pontificia a S. Severino Marche il 9 giugno 1446. Elemento che sorprende è che il Consiglio dei Trecento fu convocato a Fermo per iniziativa di S. Giacomo della Marca il giorno 28 maggio 1446. Esattamente il 28 maggio 1993, dopo 547 anni, le spoglie di S. Giacomo sono tornate a Fermo. Coincidenze o attuazione della teoria di Giambattista Vico?
Anno 1450 – I Ripani gridarono “Abbasso Fermo”
Il 9 maggio, si spegneva il poeta tedesco Federico Schiller, autore fra l’altro de
“I Masnadieri”. Ma ieri, 8 maggio, ricorreva l’anniversario della fine, in Europa, della Seconda Guerra Mondiale (1945); della morte di Gustavo Flaubert, scrittore francese (1880) e l’anniversario della morte di Santorre Santarosa “quei che a Sfacteria dorme”, caduto per la libertà della Grecia. Quindi l’8 maggio, rivela una componente di lotte e di guerre per la conquista o riconquista della libertà.
Anche nella storia di Fermo e del fermano, la data dell’8 maggio è caratterizzata da eventi bellici. Sin dal 1300 si ebbero scontri armati con quei di Ripatransone per il possesso di Sant’Angelo di Trifonzo, località contesa tra Fermo e Ripa. Ogni anno, in tale data, si celebrava la festa in onore di Sant’Angelo, patrono della località, sita in territorio di Acquaviva Picena e quindi dello Stato di Fermo a cui appartenevano Acquaviva Picena, S. Benedetto del Tronto, Grottammare ecc. Ripatransone però contestava il diritto di Fermo sul Trifonzo e, più volte, l’8 maggio, aveva assalito il presidio fermano che per l’occasione garantiva l’ordine pubblico dei festeggiamenti. Ma nel 1450, sin dalla fine di marzo, Acquaviva aveva segnalato l’eventualità di un altro assalto ripano. Fermo non si fece cogliere di sorpresa. Assoldò un forte esercito e spedì ad ogni Comune dipendente della fascia costiera, un ordine di arruolamento. Ogni famiglia doveva mandare un soldato armato di tutto punto, con lo schioppo, balestra, lancia, etc. L’ordine di fornire unum mìlitem prò foculare (ogni famiglia un soldato), era stato inviato ai castelli di Torre di Palme, Altidona, Moresco, Lapedona, Pedaso, Marano (Cupra Marittima), Campofilone, Grottammare, Massignano, S. Benedetto del Tronto, Acquaviva, Guardia (Carassai), Petritoli. Furono arruolati 4 mila soldati, i quali dovevano presidiare la festa di Sant’Angelo in Trifonzo.
Anni prima i fermani erano stati assaliti al grido di: “Abbasso Fermo. Carne. Carne”. Ora si voleva una rivincita. Le milizie fermane si portarono a Sant’Angelo in Trifonzo; si accamparono sul posto in attesa del “nemico”. La festa si svolse regolarmente e solennemente. La spedizione durò tre giorni durante i quali i fermani fecero azioni di pattugliamento e di perlustrazione. Per tres dies continuos. Ma di quei di Ripa nemmeno l’ombra. In seguito si giunse ad un accordo tra le parti e si delinearono i confini, contrassegnati da querce contraddistinte da una croce crucisignatae e, dopo secoli, grazie anche alla mediazione di S. Giacomo dell Marca, tornò la pace tra Fermo e Ripatransone. Ieri ricorreva il 443mo anniversario della spedizione.
Anno 1450 – Il caviale del Legato pontificio
Spiagge affollate, spiagge formicolanti di bagnanti di stirpe italica, di stirpe teutonica; costumi multicolori, vele, canottiere, colori del cielo, di sole, di mare (…) misti a qualche avvistamento di squali. Ma l’avvistamento di grossi pesci, non è peculiarità soltanto dei giorni nostri o del mare Tirreno. Anche in Adriatico (anticamente Golfo di Venezia), ogni tanto apparivano squali e storioni.
Sì gli storioni (in latino acipenser sturio), tipici pesci dal corpo allungato e fusiforme, di notevoli proporzioni, tanto da raggiungere anche vari metri di lunghezza e mille chili di peso. Storioni dalle carni pregiate e squisite; le uova, debitamente preparate, costituiscono il caviale, cibo ghiotto e prelibato. Non so se le prerogative dello storione fossero note ai pescatori fermani dell’anno di grazia 1450. In tale anno, ed esattamente il 9 febbraio, detti pescatori del Porto di Fermo pescarono nello specchio d’acqua antistante, uno storione del peso di 108 libbre che venne pagato 4 (diconsi quattro) ducati. Ovviamente, una preda così insolita non poteva passare sotto silenzio.
I magnifici priori di Fermo (così ci documentano gli Acta Diversa, da cui traduciamo) con il consenso dei Capitani delle Arti, lo comperarono e lo inviarono in dono al Legato della Marca. Non è certo facile rapportare le libbre del 1450, al sistema metrico decimale di oggi. Ma certo quelle 108 libbre del 1450, costituivano un peso piuttosto rilevante, perché, per l’invio, fu “mobilitato” tale Antonetto da Monterubbiano, mulattiere che portò al Legato la prelibata leccornìa.
Non credo che le autorità doganali dell’epoca abbiano fermato il citato mulattiere per controllare la relativa bolla di accompagno; fatto sta, che lo storione giunse a destinazione sano e salvo, ma non si salvò dalla gola del Legato che, amiamo sperare, non abbia dovuto esclamare come quel prelato coevo che non poteva digerire le troppe anguille di Comacchio: O quanta mala patimur prò Ecclesia Sancta Dei! (Oh quante tribolazioni dobbiamo soffrire per la Santa Chiesa di Dio!)-
Anno 1456 – Una tempesta provvidenziale
Nel corso dei secoli il litorale di Fermo fu teatro di eventi storici di portata nazionale. Nel 536 vi sbarcarono Narsete e Belisario, generali famosi, per un summit militare tenuto entro la città di Fermo.
Nel 1798 fu campo di battaglia fra truppe francesi e napoletane con la vittoria delle prime. Ciò avveniva esattamente il 28 novembre, festa di S. Giacomo della Marca.
Questo ci induce a narrare un fatto poco conosciuto, verificatosi proprio sul litorale fermano. Protagonisti: il beato Bernardino da Feltre, celebre fautore dei Monti di Pietà e P. Luigi Gonzaga (da non confondere con l’omonimo santo). Essi avevano partecipato a L’Aquila, al Capitolo generale degli Osservanti ed ora, via mare, tornavano nel Veneto. All’altezza della costa fermana, furono colti da una violentissima tempesta e, per scampare alla morte, si gettarono in mare; a nuoto riuscirono, a stento, a mettere piede a terra. Riavutisi dallo shock e preso contatto con gli abitanti della zona, seppero che a Fermo si trovava il loro amico Giacomo della Marca. Figurarsi la gioia dopo tanti pericoli e sofferenze. Detto fatto, si diressero in città per incontrarlo. Padre Bernardino (era nipote del celebre Vittorino da Feltre) nel 1456 era stato accolto da Giacomo nell’ordine. L’incontro fu emozionante. Era stato determinato da una (provvidenziale) tempesta…
Ma ora che incombono tempeste ben più gravi, perché non effettuare un altro incontro? È noto che le spoglie mortali del Santo, tornate da Napoli nella natia Monteprandone, stanno pellegrinando in varie città dove, in vita soggiornò o vi predicò. Lo hanno accolto con commozio¬ne Matelica, Macerata. Ascoli Piceno, Camerino, Pesaro, Ancona, Fa¬no, Jesi, Urbino. Recanati, Senigallia.
Perché non ‘invitarlo” a Fermo? In questa città operò moltissimo; forse più che nelle altre. Vi soggiornò nel 1442, predicandovi la Quare¬sima; nel 1446, caldeggiando la pace tra Fermo ed Ascoli.
Poi, successivamente, nel 1459 scrivendone le leggi suntuarie; nel 1462 costruendovi il convento dell’Annunziata, ora purtroppo ridotto a ospedale psichiatrico. Vi soggiornò, ripetutamente, negli anni 1470, 1471, 1472. Vi ritornò nel 1473 e se ne allontanò, corrucciato, il 7 mag¬gio 1474. Infatti i cittadini di Fermo credettero più ad un mistificatore albanese che a lui. Abbandonò città e cittadini “che non foro (furono) maj più digni (di) vedere questo santo homo”. Si vuole che prima di partire esclamasse “Povera Fermo governata da pupi”. Il suo biografo, Fra Venanzio da Fabriano, precisa che dopo la sconsolata partenza di S. Giacomo per Napoli . .venne pestilentia ed una mortalità sì grande… et quella terra (cioè Fermo) fo’ guasta tanto del judicio de Dio et de la pestilentia tanto che mai fo’ quella che era prima”.
Chi scrive, qualche anno fa da una quotata rivista, auspicava il ritorno di S. Giacomo nella sua Marca: l’auspicio si è avverato. Ora si permette “provocare” una iniziativa di ritorno di S. Giacomo a Fermo. Rivedrà l’icona da lui donata ai Fermani; il convento dell’Annunziata sorto per sua volontà; l’aereo Girfalco; il Duomo; piazza del Popolo dove più volte predicò. Ritorni e con il ritorno sia suggellata la pace. Alcuni sono pronti ad allestire in suo onore una Mostra fotografica dell’antica Marca.
Egli, santo della Marca per eccellenza, ne sarebbe lieto. È un auspicio, questo, formulato nella settimana santa per il ritorno di un Santo in questa Fermo che (specialmente ora) ne ha tanto bisogno.
Anno 1458 – Per aiutare i poveri fondò il Monte di Pietà
Il più piccolo di diciotto fratelli, a sei anni fuggi di casa per recarsi da Monteprandone (ove era nato) ad Offida, percorrendo a piedi ben 18 km. Giacomo non voleva sottostare ai maltrattamenti dei fratelli, che lo obbligavano a parare le pecore e per giunta lo picchiavano.
Era l’anno 1400! Domenico Gangali, cioè il nostro S. Giacomo della Marca era nato a Monteprandone in una domenica di settembre, dell’anno 1394. Dopo essersi rifugiato ad Offida, (lo accolse uno zio sacerdote), iniziò ad Ascoli Piceno gli studi di grammatica; si iscrisse quindi all’università di Perugia e si laureò a Firenze. Il venerdì santo del 1415, mentre meditava la passione del Signore, sentì la divina chiamata. Bussò ad un convento di Certosini; ma per incomprensione col superiore, decise di entrare tra i frati francescani; tornato a Monteprandone, sistemò le sue cose e a 22 anni entrò in convento ad Assisi. Compì gli studi teologici a Firenze e, ordinato sacerdote, il 13 giugno 1419 tenne la prima predica in onore di S. Antonio. Carattere austero e volitivo, pieno di zelo e di ardore, si diede subito all’apostolato cominciando dalla Regione natia. A Macerata, durante la predica, guarì un fanciullo malato; altro miracolo fece ad Ancona, invocando il nome di Gesù. Correvano tempi burrascosi per l’Italia e per la Sede Apostolica. Le fazioni politiche dilaniavano le città, lo scisma di Occidente e la setta dei fraticelli avevano portato conseguenze deleterie nelle Marche, Toscana, Umbria; egli con S. Bernardino da Siena, e S. Giovanni da Capistrano, costituisce la “triade” dei tre campioni cui tanto deve la religione e la stessa civiltà occidentale.
Infaticabile apostolo, nel 1422 è a Venezia; l’anno dopo a Cascia. A Macerata nel 1426 predica a 60.000 persone. Durante tale predica, un sordomuto riacquista la parola. Eccolo poi in missione a Fabriano, a Todi, all’Aquila dove lo troviamo quasi misteriosamente in tempo per rivedere S. Bernardino da Siena, prima che venisse sepolto; il santo infatti, mentre predicava a Todi, ebbe la visione che S. Bernardino stava morendo e partì immediatamente per l’Aquila appena in tempo per vedere la salma di S. Bernardino. Fu a Rieti, Terni, Spoleto, Foligno, Camerino, Cingoli, Osimo, S. Severino, Ancona, Sirolo (ove stette “parichi misci” = parecchi mesi), Gubbio, S. Ginesio, Sarnano, S. Elpidio, Verona, Pavia, Mantova, Cremona. Fu consigliere del Doge di Venezia, per invito di Paolo III. Predisse il pontificato a Sisto IV che lo nominò presidente del Capitolo degli Osservanti all’Aquila. Fu parecchie volte a Fermo dove predicò con frutto e con molte conversioni e si adoperò a pacificare Fermani ed Ascolani. Nel 1450 è a Roma per la canonizzazione di S. Bernardino da Siena. Torna poi ad Ascoli; si reca poi a predicare a Milano dove converte 36 meretrici ed elude con la fuga le decisioni del duca, del Clero e del popolo milanese, che lo vogliono Arcivescovo della città.
Infatti, mentre predicava la quaresima, moriva il vescovo di Milano. Si recò a Sirolo, di nuovo a Fermo, Farneto, e Perugia. Svolse delicate missioni in Austria, Ungheria, Bosnia, Prussia, Danimarca, Polonia, Germania, Svizzera e voleva andare persino in Islanda. Se si pensa alle difficolta di trasporto del tempo, si vede subito quale poliedrica attività svolse S. Giacomo. Quando si recò a Napoli, partì da Fermo su di un carretto trainato da cavalli e percorse tutto il tragitto per zone impervie e strade che non erano certamente quelle di oggi, asfaltate e diritte. Fu consigliere e amico di 7 Papi: Martino V (+1431), Eugenio IV (+1447), Nicolò V (+1455), Callisto III (+1458), Pio II (+1464), Paolo II (+1471) e Sisto IV (+1484) a cui aveva predetto l’elezione a Sommo Pontefice. A distanza di cinque secoli dalla sua morte, avvenuta a Napoli (dove è sepolto) nel 1476, la figura di S. Giacomo della Marca torreggia e si impone sempre più. Non fu soltanto un grande santo, ma un dotto umanista ed un valido sociologo.
In tempi difficili, seppe fondare ed arricchire a Monteprandone una biblioteca cospicua e preziosa. Erano ben 181 codici, ora in parte dispersi e in parte conservati presso il Comune di Monteprandone. Divulgò e fece conoscere la Divina Commedia citandola spesso, quan¬do ciò poteva sembrare volgare e di cattivo gusto. Si pensi che alcuni umanisti del tempo asserivano che con i fogli della Divina Commedia ci si potevano involtare salumi e speziere. Fu uno dei pionieri della socialità. In tempi in cui l’usura (specie degli Ebrei) e lo strozzinaggio paralizzavano l’economia di intere popolazioni e città che per sopravvivere dovevano svendere i loro beni. Istituì i Monti di Pietà, dove si potevano impegnare ad un tasso ragionevole e basso i propri beni. Il Monte di Pietà di Ascoli, fondato nel 1458 fu il primo Monte di Pietà istituito in Italia e sorse per interessamento di S. Giacomo della Marca.
Anno 1464 – Il viaggio di Pio II Enea Piccolomini morì dopo aver visto le galee
Era partito da Roma il 18 giugno 1464; vi ritornò cadavere nel mese di agosto successivo. Aveva avuto un presentimento nel salutare l’eterna città. “Addio Roma, non mi vedrai più vivo”. In Ancona, cominciavano a radunarsi schiere di “crociati”, provenienti da ogni parte d’Europa. Era però un raduno disordinato, un insieme di volontari dediti all’avventura, senza mezzi, e senza conoscere le conseguenze dell’impresa.
Pio II, o meglio Enea Silvio Piccolomini (è di lui che si parla ). pur malato e spossato dalle fatiche, aveva intrapreso il viaggio. Gli premeva recarsi in Ancona, per imbarcarsi sulle galee cristiane e partire in crociata contro i Turchi. Dopo un viaggio faticosissimo attraverso Terni. Spoleto, Assisi, Fabriano e Loreto, Enea Silvio Piccolomini giunge in Ancona: è il 19 luglio 1464. Viene alloggiato nel palazzo del Vescovo, vicino alla Cattedrale di S. Ciriaco, dove un.tempo sorgeva il tempio di Venere descritto anche da Giovenale (quam Dorica sustinet Ancon ). La notizia del viaggio si era subito diffusa in tutta la Marca d’Ancona. Nelle delibere consiliari di Fermo relative a tale anno, si legge del fervore di preparativi, di doni da offrire al Pontefice, di commissioni che sarebbero andate ad ossequiarlo, di archi, festoni e festeggiamenti da farsi per una eventuale visita papale nella città del Girfalco. Su tutto e su tutti dominava il desiderio di offrire al Papa il più possibile, per la crociata contro i Turchi.
Ma Pio II era seriamente ammalato; lo sosteneva sì il suo spirito combattivo ed intraprendente, però alla malattia si aggiungeva la delusione per i mancati aiuti di Firenze, di Milano e soprattutto di Venezia. A quest’ultima interessava più l’espansione del suo dominio, che la lotta per la religione. Alla fine, il 12 agosto vengono nel porto di Ancona le sospirate galee veneziane. Pio II si rincuora: le osserva schierate nel porto dal suo letto. Dopo due giorni muore. Il 15, giorno dell’Assunta, viene esposto nel Duomo di S. Ciriaco il corpo, visitato da folle di fedeli; il 18 la salma riparte per Roma, mentre i precordi restano nella Cattedrale di S. Ciriaco, dove vennero conservati fino alla seconda guerra mondiale. Durante i bombardamenti aereo-navali che semidistrussero tale cattedrale, andarono miseramente dispersi. Il Doge di Venezia con le galee ripartì anch’egli il giorno 18, mentre i Cardinali al seguito di Pio II seguirono la salma a Roma e si riunirono subito per il nuovo conclave. Pio II fu uno dei tre Papi che morirono in terra marchigiana: Clemente II, morto nel 1047 nei pressi di Pesaro poi riportato a Bamberga (Germania); Pio II; mentre nel 1417, a Recanati, era morto il veneziano Gregorio XII, che è tuttora sepolto in tale cittadina.
In questi giorni ricorrono i 525 anni, cioè cinque secoli ed un quarto, della scomparsa del grande Papa umanista, vindice dei diritti della cattolicità.
Anno 1467- Un’opera di Lattanzio Firmano tra iprimi quattro libri stampati in Italia
Ne hanno parlato Tacito e Plinio, ma è conosciuto in tutto il mondo per via di Gina Lollobrigida, che vi è nata nel 1928 e per via del monastero, che Papa Leone IX (1051) definì “capo dei monasteri di tutta Italia”, così come S. Giovanni in Laterano è il “capo e la madre di tutte le chiese del mondo”.
Subiaco (è di tale località che parliamo) prende il nome da sub Lacum sotto il lago. Al tempo dei romani dimorò nella zona, Nerone, il quale aveva fatto sbarrare il fiume Aniene, costituendo due laghi; sulla riva destra del primo, S. Benedetto da Norcia fondò un monastero e poi altri undici. Mentre questi undici andarono distrutti dalle incursioni saracene (non dei Longobardi come qualcuno ha sostenuto) il primo monastero fiorì e salì in fama. Nel 529 S. Benedetto si trasferì a Montecassino, dove poi morì e vi è sepolto con la sorella Scolastica.
Ma a Subiaco dove permangono i resti ed i ruderi della sontuosa villa di Nerone, nel 1464, anno in cui moriva in Ancona un grande umanista, Papa Pio II, a Subiaco, dicevamo, nel convento benedettino, vennero stampati i primi libri apparsi in Italia. Due chierici: Arnoldo Pannartz e Corrado Sweynheim, profughi dal saccheggio di Magonza (1463) erano venuti in Italia e, su invito del Cardinale Torquemada, fondarono nel monastero benedettino la prima tipografia. Erano, i loro, i caratteri nobili, eleganti; successivamente belli come quelli qui usati, non se ne videro più. Quattro furono i libri qui stampati: il Donatus, stampato in 300 esemplari; il De Oratore di Cicerone (copie 275); De Civitate Dei di S. Agostino in 275 esemplari stampati il 12-6-1467; De divinis institutionibus di Lattanzio Firmano. Questo volume, è il primo libro apparso in Italia con l’indicazione della data e del luogo di stampa: Subiaco, 29 ottobre 1465.
Lattanzio, che molti ritengono africano, ha origini fermane. Detto da Pico della Mirandola “il Cicerone cristiano”, scrisse opere apologetiche fra cui il citato De divinis Institutionibus (delle divine istituzioni) dove tratta dell’amore verso il prossimo e della giustizia; De opificio Dei in cui loda la bellezza dell’organismo umano; De ira Dei, apologia della giustizia divina. La componente africana della sua vita (come dottamente è stato documentato nel volume Apparato alla nuova edizione delle opere di Lattanzio, Roma 1751 per i tipi di Botili e Bacchelli e cum permissu Superiorum), è dovuta al fatto che egli si è recato “laggiù” persfuggire alla persecuzione di Diocleziano e per “risciacquare” il suo latino, inquinato dalle invasioni, anche linguistiche, dei barbari.
Nell’opera stampata a Subiaco è detto chiaramente Lactantius firmanus (non firmianus). Basta farsi aprire la cassaforte dove tali libri sono conservati; se per motivi di studio, il bibliotecario, dottissimo frate benedettino, vi mostrerà tale gioiello a stampa e si leggerà chiaramente firmanus. E così tra i primi quattro libri che videro la luce in Italia nel frontespizio a tutta pagina (cm.21,5xl3) il volume del nostro concittadino Lattanzio Firmano ha l’indiscusso pregio di essere il primo libro stampato in Italia con l’indicazione della data e del luogo di edizione,
cioè: Subiaco 29 ottobre 1464.
(1) Oggi gli esemplari superstiti sono: 3 del De Oratore; 15 De Civitate Dei; 16 De Divinis Institutionibus del nostro Lattanzio.
Anno 1467 – Tangentopoli prima e dopo Cristo
L’ibrido neologismo tangentopoli è divenuto famoso ed usatissimo, tanto da superare l’altrettanto ibrido vocabolo burocrazia composto, come è noto, dal greco e dal francese.
Tangentopoli compare su tutti i giornali e riviste; è il “pasto” dei massmedia e si collega col nome di un giudice doc: il coraggioso Antonio Di Pietro.
Questi ha avuto a che fare con Fermo, in quanto vi ha studiato all’Istituto Industriale Statale: Montani. Ha avuto pure a che vedere con Porto Sant’Elpidio quando, ancor ragazzo, vi venne fermato e rimandato a Termoli, perché aveva sbagliato treno.
Il problema o fenomeno delle tangenti è antico quanto il mondo. Ne parla la Bibbia che lo condanna energicamente (Isaia 5,7 – Amos 5,7) e con malinconia afferma: Pecuniae oboediunt omnia: tutto obbedisce al denaro!
Giovenale, al tempo dei Romani, scriveva che tutto si vende nella Roma dei Cesari (Omnia Romae curri pretìo). A Fermo, negli anni attorno al 1460, tuonò più volte contro il lusso, l’usura e la tangentopoli (anche se allora non si chiamava così), il santo per eccellenza delle Marche: S. Giacomo della Marca.
Un Papa, il veneziano Pietro Barbo, salito al soglio pontificio col nome di Paolo II (1464-1471), emanò una bolla di scomunica contro coloro che praticavano la tangentopoli: “I doni accecano gli occhi dei savi e pervertono i cuori dei giusti… Non senza nostro travaglio e disgusto, ci è stato riferito che negli anni passati, diversi Rettori e Gover¬natori di Terre e Province soggette alla Santa Romana Chiesa e perfino alcuni Legati a latere…, seguendo un deplorevole abuso, presero da Enti Pubblici e da privati, doni e regali e persino vasi d’oro e di argento, cavalli e viveri, trasgredendo ógni modo e permissione canonica”.
Così la bolla, che continua: “Tali azioni non solo risultarono dannose a città e Province per le spese sostenute, ma di cattivo esempio e scandalo, poiché quelli, affascinati da questi doni, attendevano più alle grazie private che alla giustizia… Volendo Noi porre fine a tali abusi… con questo perpetuo editto, proibiamo tassativamente che nessun Rettore o Governatore e qualunque officiale della Chiesa Romana, pigli regali o donativi, siano essi di oro o di argento, vestimenti, cavallo od altro, fuorché cibarie o bevande, consumabili nel giro di due giorni. In caso contrario, sia quelli che danno, sia quelli che ricevono, incorreranno ipso facto (= immediatamente) nella scomunica, dalla quale solo il Romano Pontefice potrà assolverli”…
Come si vede, la bolla ammette doni come un paio di capponi, qualche gallina, buon vino; ma non ad esempio il classico prosciutto, in quanto non “consumabile nel giro di due giorni”.
Anno 1473 – L’icona donata da S. Giacomo
Il vento della perestroika sta abbattendo frontiere e cortine in tutta l’Europa dell’est.
Riaffiorano le libertà, tra cui quella religiosa e tornano in auge le icone che, dopo l’ostracismo del periodo staliniano, tornano a sorridere nei luoghi di culto. Le icone (dal grecobizantino, eikòns, immagine sacra) fiorirono in Oriente; nel sec. X vennero importate in Russia. A Roma se ne conservano alcune del IV e VI secolo e celebri sono quella di S. Maria in Trastevere, in Aracoeli, S. Maria del Popolo, etc. Famose anche quelle del Museo di Kiev, del museo del Cairo, di Monte Athos, etc.
Anche a Fermo nella cattedrale, se ne conserva una donata il 6 maggio 1473 da S. Giacomo della Marca. È una tavola (cm. 46×35) che raffigura la Madonna con la testa inclinata sulla destra; le mani incrociate, tutta chiusa in un manto d’oro, contornata in alto da due lunette sulle quali sono dipinti l’arcangelo Michele e l’arcangelo Gabriele. Una lastra d’argento copre lo spazio libero dalla pittura. Il tutto è racchiuso da una cornice pure d’argento, protetta da prezioso cristallo.
L’icona, contrariamente a quanto asseriscono le deliberazioni dei Consigli comunali di Fermo che la direbbero dipinta da S. Luca (portavit imam depictam figuram Beatae Mariae Virginis per manus Sancti Lucae) risale al periodo bizantino e venne portata a Roma sottraendola al sacco dell’assedio di Costantinopoli (1453); fu donata al Papa Sisto IV (1471- 1484) che, a sua volta, ne fece dono a Giacomo della Marca, quale attestato di stima per le numerose e valide iniziative a difesa della S. Sede. S. Giacomo della Marca, amicissimo di Fermo (ed altrettanto di Ascoli i fu più volte nella città del Girfalco: nel 1436, nel 1442 (vi predicò la Quaresima con presenze di tre o quattro mila persone ogni giorno); nel 1446. quando compose le liti tra Ascoli e Fermo, etc. Egli donò tale icona sia per ringraziare i Fermani per la raccolta di oltre 6000 ducati per il convento dell’Annunziata (confiscato poi dal Governo di Vittorio Emanuele II) sia per creare un’alternativa ad una pittura di un visionario, Pietro Albanese, che asseriva di vedere la Madonna. Ma i fermani, credettero più al visionario che al santo. Si vuole che, visto l’atteggiamento dei fermani, partisse per Napoli, invitato da quel Re. Malgrado l’invito di Fermo a ritornare, il santo rimase a Napoli dove morì e fu sepolto.
Oggi 6 maggio 1990 ricorrono 517 anni dal dono dell’icona gelosamente conservata e venerata nella Cattedrale di Fermo.
Anno 1480 – Il fondatore di Giulianova eroe italico
Nell’agosto 1480, i turchi sbarcarono nella penisola salentina con notevoli forze ed assalirono Otranto, espugnandola e trucidando 800 cristiani, rei solo di non voler abiurare alla fede cattolica ed abbracciare quella islamica. Giulio Antonio Acquaviva (è di lui che si parla), al momento del loro sbarco si trovava in Etruria, dove combatteva per il Re d’Aragona. Richiamato in Patria, si recò in Puglia per rintuzzare la tracotanza turca e qui cadde in un combattimento l’8 febbraio 1481. Siamo quindi al “quinto centenario” della morte di questo Grande, che non solo fu prode guerriero, ma è il fondatore di Giulianova!
Diamo un’occhiata ai documenti ed esattamente ad un diploma del Re di Napoli Ferdinando V d’Aragona!
Scevro da sovrastrutture, nella sua icastica e lapidaria esposizione, il documento narra, anche se in maniera ampollosa, le gesta di Giulio Antonio (traduciamo dal latino): “Poiché ci vengono in mente i grandi meriti e i servizi di Giulio Acquaviva di Aragona, Duca di Teramo, di Conversano e di S. Flaviano, il quale in ogni tempo, con fedeltà costante, ci ha dato prova di devozione, è doveroso che tributiamo riconoscenza alla memoria sua e della sua famiglia.
Le sue opere, la sua fedeltà, i suoi servizi, sia in pace che in guerra, in patria e fuori, ci furono sempre di grande utilità. Possedeva doti fisiche e morali da superare ogni difficoltà e non vi era impresa che egli, per nostro amore, non intraprendesse e sempre con risultati positivi.
Negli anni passati, avendo noi mandato il nostro figlio Federico come legato all’illustrissimo Carlo, Duca di Borgogna, facendo affidamento nelle peculiari virtù di Giulio, glielo demmo come compagno di viaggio e si comportò così bene in Borgogna, che nostro figlio ne conservò sempre un gratissimo ricordo…”.
“Diede prova infatti in quel viaggio, di virtù, modestia, saggezza e integrità morale, e tanto giovò a nostro figlio, che lo giudicammo degno di ogni stima e lode. Scoppiata poi la guerra di Toscana (Etruria), si comportò valorosamente presso Genova e in Etruria. Seguì poi la maledetta e orribile guerra, contro i Turchi, nemici della nostra fede.
Durante tale guerra, i detti Turchi improvvisamente assaltarono la città di Otranto, non preparata all’aggressione, e la conquistarono. Allora, richiamammo dall’Etruria già pacificata, il predetto Giulio Antonio di Acquaviva.
Egli, grazie alla sua consumata esperienza bellica, prese in mano la situazione, passando al contrattacco, effettuando colpi di mano, elu¬dendo e vanificando i piani strategici dei Turchi, ma soprattutto, com¬battendo valorosamente, impedendo loro molte delle tante rapine e razzie con cui devastavano la zona. Un giorno, mentre i nemici usci¬vano dalla città occupata a scopo di saccheggio, Giulio tolse loro il bottino e li inseguì; ma ad un tratto, i soldati turchi rimasti entro le mura, effettuarono una sortita e malgrado tutto il valore, l’audacia ed il coraggio a difesa della Religione e del Regno, venne sopraffatto ed ucciso” eccetera.
Il nostro Giulio, venne, come accenna il documento, ucciso anzi decapitato e la sua testa mandata a Costantinopoli e non fu restituita a nessun prezzo ed a nessuna condizione.
Sembra proprio la rievocazione di quel passo dell’Eneide che racconta la morte di Priamo, il cui corpo decapitato giace sulla spiaggia.
Jacet ingens litore truncus / avulsumque umeris et sine nomine corpus. (Aen. II 556/557).
E adesso giace / tronco immane sul lido con la testa / staccata dagli omeri e senza nome il corpo.
Ma riportiamoci alla strage. Era l’alba del 29 luglio 1480 e la flotta ottomana, comandata da Gedik Ahmed Pascià, incrociava al largo, pronta a rovesciare sulla penisola salentina, ma in modo speciale su Otranto, le orde turche.
Non disponendo di navi a difesa, gli Otrantini si asseragliarono entro le mura, pronti a resistere o a morire.
I Turchi sbarcano, circondano la città e a gran voce chiedono agli Otrantini di arrendersi, inneggiando a Maometto e deridendo gli “infedeli”. Gli assediati rispondono di essere pronti ad ogni evento ed a morire, se occorre, per la Fede. Comincia l’assedio; le truppe aragonesi, a presidio, alle prime avvisaglie, se la svignano. Gli Otrantini, impavidi, per 15 giorni sostengono gli assalti turchi. Questi ultimi però, dopo furiosi combattimenti che costarono la vita a molti difensori, hanno il sopravvento e dilagano in città, prendendo di mira la Cattedrale dove si erano rifugiati molti degli abitanti. Urla selvagge salgono al cielo; ne rimbombano le volte della Cattedrale normanna. Eccoli, irrompono nel tempio ed uccidono per primo il vescovo, indi il clero ed i fedeli. La strage dura fino a tarda sera. Dall’inizio dell’assedio al momento attuale dodicimila sono i caduti a difesa di Otranto assediata.
II giorno 12 agosto, Ahmed Pascià ordina che i superstiti fatti schiavi vengano portati al suo cospetto. Sfilano davanti a lui legati a gruppi! Tramite un rinnegato che funge da interprete, si pone loro l’aut aut: o rinunciare alla fede e si ha salva la vita o vi sarà per tutti la decapitazione. La risposta è concorde ed unanime. Nessuna abiura! Allora a gruppi di 50, i prigionieri vengono condotti sul colle chiamato della Minerva ed in ottocento subiscono il martirio, venendo decapitati dalle scimitarre turche. Il Pascià vuole che i loro cadaveri giacciano insepolti sulla collina del Martirio.
Lì dopo un anno, vennero ritrovati dalle truppe inviate a liberare Otranto. Queste (il cui primo contingente è composto di 1500 uomini) sono comandate da Giulio Antonio Acquaviva, che appunto muore, decapitato mentre combatte contro gli invasori.
Ma chi è questo Giulio Antonio Acquaviva, comandante delle truppe che accorrono a liberare Otranto? Figlio di Giosia, 5° duca di Atri, amico di Filippo Maria Visconti, successe nel 1452 al padre nei titoli e nei feudi, che ampliò notevolmente dopo il matrimonio con Caterina Orsini del Balzo, figlia del Principe di Taranto, matrimonio celebrato l’11 aprile 1456. Sostenne la politica del suocero; fece parte delle congiure dei baroni, sconfiggendo presso il suo feudo di S. Flaviano (odierna Giulianova) le truppe del re. Era il 22 luglio 1460!
Ma la sua vittoria venne “mutilata” dai soldati di Giorgio Castriota Scandemberg. Il nostro passò poi all’assedio di Troia (Foggia) e quindi a quello di Andria. Quest’ultima venne conquistata; ma a Troia venne sconfitto. Siamo nel 1462.
L’anno dopo muore il suocero Giovanni Antonio Orsini del Balzo, animatore della rivolta, ed egli, nel 1464, passa dalla parte del Re Ferrante, al quale si mantenne fedele fino alla morte. Ferrante, in premio, gli restituisce Teramo ed .Atri, già tolte a Giosia e gli conferi¬sce incarichi di fiducia: quello di accompagnatore di Eleonora d’Aragona, che andava sposa in Ferrara ad Ercole d’Este e l’anno dopo, cioè nel 1474, quello di accompagnatore di Federico d’Aragona, che si reca in Borgogna come abbiamo visto, per chiedere in sposa la figlia di Carlo il Temerario, Maria.
Re Ferrante, conosciuto il valore e la bravura di Giulio Antonio, lo mise a capo di un contingente di truppa inviate dal suddetto Re a Genova, in occasione della rivolta dei Genovesi contro gli Sforza. Discese quindi in Toscana con Roberto Sanseverino, combattendo a Pisa e aiutando i cittadini di Siena, che si erano ribellati a Firenze. Tornato a Napoli, ebbe dal Re il privilegio di unire al suo cognome quello degli Aragona (quod in perpetuum sitis et sint de domo et de prosapia de Aragonia).
Dopo la strage di Otranto, fu mandato, al comando di 1500 uomini, a recuperare la città e qui, come gli 800 martiri, dopo aver combattuto e resistito a preponderanti forze nemiche, venne ucciso e decapitato. Il suo corpo venne successivamente deposto nel sepolcro costruito per lui a S. Maria dell’Isola non molto distante da Conversano.
Il sepolcro monumentale è tuttora esistente, anche se con marcati segni di fatiscenza. Alto m. 8,20 largo 4,25, ornato dalle quattro virtù cardinali simboleggiate da cariatidi, ha nel centro una lapide che rievoca la morte gloriosa di Giulio Antonio Acquaviva:
D.O.M.
IULIUS Antonius de Aquaviva
Hadriae Dux et Conversarli Comes
Summam inter milites gloriam
Sudore et sanguine assequutus
Totius demum exercitus
Reg. Neap. Dux
Contra Turcam Christiani
Nominis Hostem Italiae Imperio
Inhiantem apud Hydruntum
Fortiter dimicans occubuit
VI Idus Febr MCCCCLXXXI
Militari coeleste(m) corona(m)
(adeptus)
(A Dio Ottimo e Massimo / Giulio Antonio Acquaviva Duca di Atri e Conte di Conversano / il quale, conseguito il culmine della glo¬ria / militare con sudore e sangue, / fu poi comandante supremo dell’e¬sercito / del Re di Napoli. Combattendo valorosamente presso Otranto contro i turchi, nemici del nome cristiano e avidi del dominio dell’Italia, cadde l’8 Febbraio 1481, conseguendo, con la militare, la corona celeste).
Al centro giacciono nel sonno della morte Giulio Antonio e Caterina Orsini del Balzo, vestiti nel nero saio dei terziari francescani, protetti da un drappeggio cuspidato.
All’intorno, tutti, angeli e statue di S. Antonio da Padova e di S. Francesco. Il mausoleo è opera di Nuzio Barba (non Giulio Barba) come asserisce il Dizionario Biografico degli Italiani, edito dal Ist. Treccani, Roma 1971 voi. I, pag. 181.
Ma quando Giulio Antonio Acquaviva ha fondato, o meglio, rifondato Giulianova? “La terra di S. Flaviano (narra Nicola Palma nella storia della Città e Diocesi di Teramo, ivi, terza edizione voi. II pag. 270), era quasi disfatta per effetto dei disastri di guerra sofferti e dell’aria malsana. Giulio Antonio Acquaviva che per i suoi titoli pren¬deva quello di Conte di S. Flaviano… si accinse a rifabbricarla in sito migliore. Trascelta una deliziosa eminenza… quasi ad egual distanza tra Salino e Tordino, ivi edificò il nuovo S. Flaviano, appellato con ragione Giulia e Giulia Nuova e vi introdusse gli abitanti della vecchia terra”. La data di tale fondazione è presumibilmente il 1470.
Re Ferdinando non solo autorizzò il trasloco, ma donò 200 carri di grano e accordò privilegi e franchigie alla città.
Il Bartolomei ci narra che la nuova città era in un quadrilatero recinto di forti mura a scarpa e di fossati con otto torri rotonde. “Nel centro di tale quadrilatero, basò il Tempio del Signore, e Tempio veramente può dirsi l’ardita e immensa cupola che al Sacro Venerando Culto si addisse… il lanternino della sua Cupola, vista per ogni dove dell’Adriatico, che le serve da specchio, sembra essere destinato pe’ naviganti, siccom’era il tempio della fortuna a Preneste”, così nel volume sulla Nobilissima Famiglia Acquaviva, Ascoli 1849, pag. 47.
Il fondatore di Giulianova (che Leandro Alberti nella “Descrizione d’Italia” e il S. Nazzaro reputano un semi Dio ponendolo tra gli eroi italici (Hic age te laudesque tuas fortissime Juli / Non sileam, et valida proelia gesta manu – Quem titulis Aquiviva domus perlustribus omat / Mortalesque Inter Semideos locat / Et jam militiae moles tibi creditur omnis / Omnia sub leges allicis ipse tuas) da cinque secoli (l’8 febbraio 1981 ricorreva il 5° centenario della morte) dorme il sonno dei giusti nella Chiesa di S. Maria dellTsola, con accanto la consorte. È li nel monumento cui abbiamo accennato!
Che qualche giuliese lo ricordi e ricordi ai cittadini di oggi quel grande di ieri! Un fiore, un ricordo non disdirebbe. Rimarrà la città da Lui fondata sorda all’invito? Nessuno lo commemorerà? “Exoriare ali- quis” (Eneide, IV, 25) e porti colà un fiore, un pensiero, un ricordo! E ricordi al “Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola” Colui che Sannazzaro reputò addirittura un semi-Dio.
Anno 484 – I Fermani buttano dalla finestra il Vescovo Capranica
“Prima ch’ero Enea / nessuno mi volea / Or che mi chiamo Pio / Tutti mi dicon zio /”.
Così argutamente Enea Silvio Piccolomini, poi Pio II, Papa dal 1458 al 1464, morto in Ancona il giorno dell’Assunta del 1464 allorché, vecchio e malato, vi si era recato per assistere alla partenza dell’esercito crociato nella guerra contro i Turchi.
Pio II aveva un nipote, figlio della sorella Laudomia (in tutto aveva avuto 17 fratelli e sorelle). Lo zio gli diede il suo cognome e lo stemma gentilizio e lo creò cardinale. Gli affidò importanti incarichi di curia e nel 1483 ebbe l’incarico di Amministratore Apostolico di Fermo. Doveva sostituire il Vescovo Giovanni Battista Capranica che fu Vescovo di Fermo dal 1478 al 1484. Ma era inviso ai fermani che più volte si recarono dal Papa per farlo rimuovere dalla sede. Capranica a differenza di altri Vescovi dello stesso cognome, non era uno stinco di santo. Durante la Quaresima del 1484 i fermani lo uccisero, buttandolo da una finestra. Francesco Piccolomini subentrò all’ucciso. Giunse come angelo liberatore; rinverdì la gloria di Papa Giovanni XVII, nativo di Rapa- gnano. Potenziò la Fiera di S. Claudio a Corridonia; ebbe a far fronte al figlio del Papa, Cesare Borgia. Ma improvvisamente nel 1503 il Papa in carica Alessandro VI, muore. I Cardinali si radunano in conclave ed eleggono Papa il nostro Amministratore Apostolico Francesco Piccolomini. Egli in onore ed a ricordo dello zio assume il nome di Pio III. Que¬sti con Sisto V, sono i due Papi espressi dalla sede vescovile di Fermo.
Abbiamo visto il cognome Capranica. Fermo ebbe una serie di Vescovi Capranica. Uno, il primo della serie, Domenico Capranica fu fondatore dell’Almo Collegio Capranica, da cui uscirono (ed escono) prelati e cardinali. Inizialmente si chiamava la Sapienza Fermana.
Anno 1489 – Un ballo negato
Tutto si svolse in agosto: la nascita, la battaglia di Gavinana, l’uccisione per mano di Fabrizio Maramaldo. È di Francesco Ferrucci che parliamo, l’eroe fiorentino vigliaccamente ucciso dopo la battaglia di Gavinana del 3 agosto 1530. “Tu uccidi un uomo morto!” risuona nei secoli, anche se accreditati storici sostengono quello della toscana brevità “Tu darai a un morto!”.
Nato il 14 agosto 1489, da poco si è compiuto il quinto secolo della nascita, senza che nessuno se ne sia ricordato; Francesco Ferrucci in un primo momento abbracciò la carriera militare: vissuto al tempo del Sa-vonarola, ne risentì l’influsso, fece pratica di “mercatura” e fu podestà in diversi luoghi: a Lanciano (1519); a Campi (1523) e Radda (1527), e, l’anno seguente, fu mandato come “pagatore” con le Bande Nere in aiuto di Lautrec, che si recava a combattere nel Regno di Napoli (Lautrec morirà a Napoli di peste il giorno del trentanovesimo compleanno di Ferrucci). L’esercito del Lautrec, anziché passare attraverso il Lazio, attraversò il Tronto, confine tra lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli.
Fatto prigioniero a Napoli e finita la guerra, Ferrucci tornò a Firenze. Dopo varie vicende che lo vedono sempre acerrimo difensore della sua città, lo troviamo eletto a supremo difensore della libertà di Firenze, contro gli imperiali, fino allo scontro alla Gavinana, dove in un primo momento ebbe la meglio tanto che l’Orange cadde ucciso.
Sopravvenute poi nuove truppe, facilitate anche dal tradimento di Malatesta
Bagioni, fu accerchiato e catturato. Condotto alla presenza di Fabrizio Maramaldo, fu da questi ucciso. “Chi dice gli ficcò la spada, chi dice un pugnale, chi dice nel petto, chi nella gola” (B. Varchi, lib. XI Storia fiorentina).
Nicola Palma (Storia della Città e Diocesi di Teramo, ivi 1832) narra del suo breve soggiorno dalle nostre parti. Giuseppe Fabiani (Ascoli nel ’500, voi. 2) parla di discendenti del Ferrucci “eroe di Gavinana” in Ascoli, dove nella chiesa di S. Pietro Martire, si legge un’iscrizione funebre di Domenico Ferrucci (e nobili Ferruciorum fiorentina Stirpe oriundo). Anche Massimo d’Azeglio accenna alle relazioni tra Francesco Ferrucci ed il Piceno nell’opera: Nicolò de Lapi ovvero Palleschi e Piagnoni.
Il suo uccisore Maramaldo venne dalle nostre parti; fu in Offida (allora dipendente da Fermo) alla testa di tremila fanti. Con “3000 peditum venturus in territorio offidano” si legge nelle Riformanze del Comune di Fermo. Si dispone del modo et ordine parandi pedites et resistendi ciò del modo di arruolare i fanti e preparare la difesa sia di Fermo (aggiunge la delibera) sia del Comitato per fronteggiare ogni eve¬nienza ed i custodi delle porte dormono vicino ad esse (et custodes dormiunt adportas).
Si decide pure di proteggere S. Benedetto (del Tronto) allora dello Stato Fermano e munire la rocca con armi e munizioni, (Castrum S. Benedicti. .. subsidio et arcem munitionibus…). Ad Acquaviva vengono alloggiati circa mille fanti.
Nel Piceno, Fabrizio Maramaldo fu accolto con freddezza. Una dama gli negò persino un ballo per il suo vigliacco comportamento contro il Ferrucci, Fermo del resto era pronta ad affrontarlo. A Giacomo Brancadoro che aveva avvisato Fermo dell’approssimarsi dell’uccisore di Francesco Ferrucci, Fermo risponde che ha già preso le opportune misure e per la difesa della città e per quella delle località di confine come Acquaviva, S. Benedetto, Offida, etc.
Quest’anno (come detto, il 14 agosto) si sono compiuti cinque secoli dalla nascita di Ferrucci. Nessuno, a quanto ci consta, si è mosso a commemorare tale data.
Anno 1489 – Un pornografo del quattrocento – Pacifico Massimi autore di Hecatelegium, elegante e forbita opera che fece impazzire di gioia principi, e prelati
Pacifico Massimi, un umanista ascolano che nel 1489 (sono passati 400 anni e nessuno se ne è ricordato!) pubblicò a Firenze un poema dal titolo Hecatelegium (cento novelle) ora riportato in auge in Francia. Tratta di argomenti eccentrici, talvolta porno, ma in modo speciale si dà alla coprolalia; si scaglia contro le donne, si professa agnostico e, con un anticipo di quattro secoli, tratta argomenti di attualità come la pace, gli invertiti, i soprusi dei potenti, l’amore, l’amante, i gay, gli yuppies, ma il tutto redatto in latino classico, elegante, forbito e polito, che il li¬bro in parola appena uscito, costituì il best-seller del tempo. Principi, cardinali, prelati, fecero a gara per accaparrarselo, anzi – come riporta Machiavelli – l’Autore fu protetto da alti prelati contro zelanti “catoni censori” che altrimenti gli avrebbero fatto fare la fine del concittadino Cecco d’Ascoli.
Lorenzo de’ Medici e il Vescovo di Troia, Ferdinando Pandolfini portarono il libro alle stelle! Gli argomenti, scurrili, mordaci, spesso osceni, lo fanno assomigliare talvolta a Ovidio (dà infatti precetti sul modo di amare), talvolta a Marziale (è salace e pungente come i suoi Epigrammi), talvolta all’Arte Poetica di Orazio perché dà norme in tal senso. Ma da ogni libro (l’opera è divisa in 5 elegie inedite) traspare e traspira il suo amore per Ascoli. Ripete appena può: “opera di Pacifico Massimi poeta ascolano!”. Pacifici Maximi Poetae Asculani Hecatelegii liber primus etc.
Quando parte da Ascoli, si rivolge alla città con accenti di “Addio monti sorgenti dalle acque”: “Addio Ascoli, torri, addio! Addio ponti. Addio Tronto dalle acque salutari e tu Campo Parignano, luogo amato della gioventù, divertimento e delizia. Non sono adatto per la guerra, an¬che il mio nome Pacifico lo indica...”.
Povero Pacifico, anima mite come tutti i poeti!
L’opera è dedicata al Cardinale Francesco Soderini, com’era costume nel periodo dell’Umanesimo e nonostante quanto trattato, si chiude con l’augurio che il libro lo possa far ricordare nei secoli e con un invocazione alla Madonna… Del resto tratta, come detto, di argomenti non certo per sale parrocchiali, ma non fu un libertino: “Lasciva nobis pagina sed proba vita est” avrebbe commentato Marziale; lasciva è la pagina che ho scritto ma la vita è onesta.
Più efficacemente. Gioacchino Belli avrebbe commentato: “Scastagnamo a parlà. ma aramo dritto”.
Anno 1490 – Un portolano di cinque secoli or sono
Quando il 6 novembre 1490 Bernardino Rizo da Novara stampava a Venezia cum diligentia, un portolano divenuto famoso e prezioso, non pensava certo che dopo cinque secoli ed un lustro, qualcuno se ne fosse ancora occupato.
Il “portolano” è un libro che descrive le caratteristiche di una costa sotto l’aspetto idrografico, nautico, meteorologico, idrografico, fornendo notizie sui porti, sugli ancoraggi, sui ridossi, punti pericolosi, etc. A Fermo, nella Biblioteca Comunale si conservano portolani e carte nautiche di valore. Le Marche sono note per geografi e navigatori che hanno compilato portolani famosi che, non dimentichiamolo, sono tanto più attendibili quando sono redatti da gente di mare, che da geografi seduti a tavolino.
Già nel 1435, quando la stampa non era stata inventata, Grazioso Benincasa, nativo di Ancona (1400 c.), aveva stilato il portolano che cominciava: “Al nome sia deio honipotente iddio (sic!) et dela sua madre madonna santa maria et di tutti li santi ed sante de la cohorte celestiale del paradiso et de messer santo Ciriacho (è il patrono di Ancona ndr)… In questo libro Jo Gracioso beninchasia farò menzione de li porti et luoghi di terre de marina et etiandio de sembianze de ditte terre et memoria de me e ni li quali porti et altri luoghi ne abbia Iddio sempre salui noi tutti altri nauiganti.
Il nostro corregionale precisa poi: “li quali porti et sembianze de terre, non sono tratte niuna de la charta, ma sono tochate chon mano et vegiute cholli ochi..”
Tale portolano comincia dal “Gholfo di Vinegia” e prosegue lungo la costa adriatica.
Ma quello che oggi ricordiamo, nell’anniversario plurisecolare, è il portolano di “Bernardino Rizo de Novaria (= Novara) stampator” il quale ha “impresso cum diligentia in la cittade de Venexia” il 6 novembrio 1490 una “analitica descrizione utilissima ai naviganti”. “Questa e (sic! senza accento ndr) una opera necessaria a tutti li naviganti che vano in diverse parte del mondo per la quale tu ti se ammai- strino a cognoscere storie, fundi, colfi, vale, porti, corsi dacqua (sic!) e maree cominciando…”.
Tale portolano impresso due anni prima della scoperta dell’America quando la stampa in Italia funzionava da appena 26 anni, dice di Fermo: “Fermo e cità e fra terra mia 3 sopra vno monte un chastelo e vedese in mar molto lonzi. Da la cità de Fermo in Anchona mia 40; da Fermo a cità nova, mia 10”.
Descrivendo la costa a sud di Fermo con inizio da Giulianova (allora S. Fabiano) dice testualmente: “De San Fabian ala fossa del Tron¬to mia 6. Dala fossa del tronto a san benedeto mia 2. Da san benedeto e le grote (= Grottammare) mia (e qui non c’è nessuna indicazione). Poi prosegue “Dale grote a piedaxon (= Pedaso) a marano mia (ed anche qui nulla…).
Tale portolano, in chiusura, precisa “finito lo libro chiamado portolano composto per uno zentilomo veniciano lo qual ha veduto tute queste parte antiscrite le quali sono utilissime per tuti i nauicanti che voleno sicuramente nauicar con loro auilii in diverse parte del mondo. Laus Deo Amen!…”.
Anno 1491 – Fermo vuole distruggere il Castello di S. Benedetto
Che S. Benedetto del Tronto sia stato sin dalla sua origine un castello di Fermo, è risaputo. È altrettanto noto che nel 1280 venne salvato dalle truppe fermane e liberato da uno stretto assedio posto dai soldati confederati di Ascoli, Ripatransone e Rizzardo d’Acquaviva. Il castello, già dato alle fiamme, stava per cadere, quando sopraggiunsero i Fermani e gli assedianti se la diedero a gambe. Fermo teneva moltissimo a S.Benedetto; esso faceva parte sin dal secolo VII della sua diocesi; gli Statuti della città editi nel 1507, ma in vigore, manoscritti, sin dal 1380, dedicano rubriche e pagine al Castrum Sancti Benedicti precedentemente chiamato S. Benedetto in Albula, dal nome del torrente che scorre nei pressi. Un memoriale dei primi del sec. XIV, precisa che non essendovi nello Stato Fermano altri castelli omonimi, il nome doveva essere S. Benedetto senza aggettivi e specificazioni.
Di recente, abbiamo trovato, inediti, nomi di soldati che Fermo nel 1389 vi mandava per difendere la rocca. Numerose pergamene dei secoli XIII, XIV e XV, parlano dei rapporti tra S. Benedetto e Fermo. Una del 1291, ci parla del porto, delle attrezzature, della dogana e dei relativi proventi. Si badi, ciò è riferito a settecento anni or sono.
Ma un fatto singolare mostra la “sollecitudine” fermana verso il suo castello: il 17 dicembre 1471, Fermo chiede al Papa di distruggere il castello di S. Benedetto e ricostruirlo in luogo più salubre. A causa delle epidemie, si andava infatti spopolando e nonostante che Fermo invitas¬se famiglie di Imola, di Fano, di Torre di Palme a stabilirsi con vantag¬giose condizioni, il numero degli abitanti diminuiva paurosamente. Non si riusciva a spiegare la causa delle epidemie. Si pensò a qualche occulta maledizione, o a qualche segreta scomunica. Si voleva persino ricorrere al Papa, perché con una sua speciale benedizione togliesse il… maleficio. Alla fine, i Priori (cioè i Governanti) di Fermo, pensando che il tutto fosse dovuto alle esalazioni mefitiche degli acquitrini della sotto¬stante spiaggia (allora ben diversa dalla attuale), decisero di abbattere il castello e ricostruirlo, come detto, in luogo più salubre.
Con mirabile intuizione strategica, decidevano però di lasciare intatta la rocca (relicta tamen arce) a difesa della zona marittima. Ma non era facile distruggere un castello: occorreva il benestare del pontefice che, in quel tempo, era Innocenzo VIII. Fermo si rivolse dunque al Papa, che, ricevuta la richiesta, demandò al Governatore della Marca il disbrigo della faccenda. “Venerabile fratello… I diletti figli della nostra città di Fermo, vorrebbero distruggere il castello di S. Benedetto, posto sul litorale adriatico a motivo dell’aria mefitica, lasciando la rocca a difesa di quella zona marittima e ricostruirlo in luogo più salubre provve¬dendo a trasferire colà le famiglie”. Così il breve di Innocenzo VIII che prosegue: “Noi, non essendo informati sulla natura del luogo, demandiamo a te la cosa e ti preghiamo di esaminare la questione e la località” etc. Il breve chiude con la data: 17 dicembre 1491.
Non risulta che la progettata distruzione venisse attuata. San Benedetto continuò, con la vicina Acquaviva, ad essere il baluardo di Fermo verso lo Stato di Ascoli e a dipendere in tutto e per tutto dalla città del Girfalco. Nella corrispondenza e nelle istanze, continuò a chiamare i Priori di Férmo “nostri padri e padroni”. Anche per i matrimoni si doveva chiedere il permesso a Fermo, che concedeva ai sambenedettesi di impalmare graziose pulzelle di qualsiasi località dell’orbe terracqueo, purché non fossero di Ascoli e del suo distretto. E tale divieto veniva scrupolosamente osservato, senza le minacce dei bravi di manzoniana memoria.
Anno 1493 – La lettera di Colombo
Oggi ricorrono 501 anni dalla scoperta dell’America e cinque secoli esatti dalla relazione del viaggio di Colombo, relazione diretta ai reali di Spagna.
Di essa, in tutto il mondo, esistono soltanto sei esemplari. L’originale, scritto da Colombo a bordo della sua caravella, è diretto a Gabriele Sanchis, regio tesoriere. È redatto in lingua spagnola. Datato l2 marzo 1433, fu tradotto in latino da Leandro de Cosco nello stesso anno. La editio princeps avvenne a Roma per opera del tipografo tedesco Stefano Plank, col titolo: Epistola Christofori Colon cui aetas nostra multum debet de insulis Indie supra Gangem nuper inventis, cioè: Lettera di Cristoforo Colombo, cui molto deve la nostra epoca, relativa alle isole dell’India sopra il Gange, da poco scoperte.
Come si rileva, dopo sei mesi dalla scoperta si pensava ancora alle “Indie” e non al Nuovo Mondo. Un esemplare di questa lettera, è conservata nella Biblioteca Comunale di Fermo (la settima in Italia per importanza). Detto esemplare fu rinvenuto dal bibliotecario del tempo Prof. Raffaelli nel 1877, insieme ad altri due opuscoli stampati nella stessa tipografia di Plank, eguali alla nostra lettera per caratteri, tipo di carta, impaginatura.
Appena rinvenuta, la lettera fu valutata sui 30 mila franchi del tempo (1877). Più tardi un milionario americano, Lessox, collezionista di memorie su Colombo, offrì, per averla, una somma ingente. Ma senza esito. La lettera fino al 1986 fu conservata gelosamente nella biblioteca fermana, ma in tale anno venne rubata, suscitando enorme scalpore nel mondo dei dotti. Dopo varie peripezie ed a distanza di anni, riapparve presso la Casa di Aste Sotheby di New York, dove era stata messa in vendita per 440.000 dollari, pari a oltre 660 milioni di lire italiane. Ciò comprova il suo grande valore. Ora, grazie all’Arma dei Carabinieri Nucleo Tutela Patrimonio Artistico ed alla Procura della Repubblica del Tribunale di Fermo, è stata ricuperata ed è tornata nella biblioteca di Fermo.
La lettura di essa costituisce un’affascinante descrizione delle “isole sopra il Gange”.
Se ne descrive il panorama, l’orografia, i fiumi, la vegetazione, gli uomini e donne sempre tutti nudi, l’abbondanza di oro scambiato con gli indigeni con pezzetti di vetro, stoviglie rotte e capocchie di spilli; le loro credenze (tutto viene dal cielo, anche gli scopritori), la loro timidezza. Vi si legge che in un’isola chiamata Auau i bambini nascono con la coda (caudati nascuntur). Si parla pure della monogamia dei nativi, a differenza dei loro capi che hanno anche venti mogli; delle spezie, del rame, del cotone, delle varie specie di uccelli etc. Il furto ed il ritorno di tale lettera editio princeps come detto, e primo documento a stampa della relazione di Colombo, ha costituito, anche se indirettamente, motivo di maggior conoscenza di tesori che forse non sappiamo apprezzare adeguatamente.
Anno 1496 – Il promotore del Monte di Pietà di Fermo
Ricorrono nel 1996 testé iniziato, 500 anni dalla morte del Beato Marco da
Montegallo, un pioniere nella fondazione dei Monti di Pietà. Tali Monti avevano
lo scopo di stroncare l’usura, specie ad opera di ebrei, vizio stigmatizzato anche
da Dantq e creare le premesse per la fondazione dei Monti di Credito su pegno,
antesignani del Monte dei Paschi di Siena e del Banco di Napoli.
L’usura, esistente dall’antichità, sin dall’alto Medioevo, ai giorni nostri è tutt’altro che svanita. Ce lo documentano i mass-media e il’recente suicidio: dell’orafo di Pompei.
Il giro d’affari dei “cravattari” in Italia, è di 50.000 miliardi annui!
Diffusissima al tempo del Beato Marco, rendeva la vita difficile ai meno abbienti, costretti ad impegnare beni mobili ed immobili per ottenere prestiti a tassi di vero strozzinaggio.
Marco da Montegallo ed altri, tra cui Bernardino da Siena, S. Giacomo della Marca, nato a Monteprandone, Bernardino da Feltre (parente di Vittorino) e Domenico da Leonessa,nato da genitori entrambi marchigiani di S. Severino ed altri, decisero allora di fondare i cosiddetti Monti di Pietà, che praticano prestiti ad un tasso irrisorio. Ed ecco un fiorire di tali istituzioni specie nelle Marche.
Nel 1454 avviene la fondazione di un Monte in Ancona (tasso solo 5%) ad opera del Beato Marco.
Tuttavia, tale Monte ebbe vita effimera. Nel 1459 ci è documentata l’erezione del Monte di Pietà di Ascoli (in cui vi è anche l’opera di Marco) che precede di tre anni quello di Perugia, ritenuto a torto il primo sorto in Italia. Sorgono poi Monti un po’ ovunque; Ma il primato del numero e della data di erezione è tutto nostro. Infatti i nostri precedono quelli d’oltralpe: Norimberga 1498; Brouges (1572); Lilla (1601); Parigi (1643); Madrid sec. XVIII. Qui nelle Marche continuano a nascere quello di Fabriano (1470), quello di Fano (1471), quello di Morrovalle (1475), di Ripatransone (1479), quello di Arcevia (1483), etc. Nel 1478 sorge ufficialmente quello di Fermo, in occasione della venuta in città di frate Marco da Montegallo, qui chiamato dalle autorità comunali per predicare la Quaresima. Egli sollecita il Comune ad attuare l’erezione del Monte, voluto nove anni prima dal Beato Domenico da Leonessa. Marco da Montegallo riordina gli statuti confermati l’8 aprile del 1478 e stabilisce la gratuità del prestito. Ed ora un particolare significativo. Tutti i principali fondatori dei Monti di Pietà furono (anche se taluno per breve tempo) a Fermo; vi fu S. Bernardino da Siena; il Beato Marco da Montegallo, come già visto; più volte vi fu S. Giacomo della Marca; il Beato Domenico da Leonessa e il Beato Bernardino da Feltre.
Fermo deve quindi al Beato Marco da Montegallo il suo Monte di Pietà a quel Beato che era medico, umanista, letterato ma soprattutto amante del prossimo e che con Giacomo della Marca e Domenico da Leonessa costituisce una triade ammirevole.
Speriamo che qualche autorità si ricordi almeno di celebrare e ricordare degnamente il mezzo millennio dalla scomparsa del Beato Marco da Montegallo.
Anno 1497 – Ettore Fieramosca combattè nella guerra tra Ascoli e Fermo
Due sono i colossi di Barletta, quello di bronzo dell’imperatore Eraclio e Ettore Fieramosca, colosso nella storia d’Italia. Veramente Fiera- mosca è nato a Capua ed è concittadino (anche se a distanza di secoli) di Pier delle Vigne le cui chiavi da tempo “serrano e disserrano il cor di Federico”. Pier delle Vigne ebbe a che fare con Fermo che definì la città più importante di tutte le Marche (qui cunctas civitates in Marchia prae- cellebas…) ed a cui indirizzò infuocate lettere perché liberasse il suo amico, il barone Tancredi di Cellino, minacciando, in difetto, l’ira di Federico II. Ma oggi ci interessa il suo concittadino, Ettore Fieramosca (o Ferramosca come si legge in una lettera autografa conservata in Ascoli Piceno). Nome legato alla Disfida di Barletta (ed eternato anche nel romanzo di Massimo D’Azeglio) rinverdì dopo secoli le gesta degli Orazi e Curiazi. Potremmo dire che il tredici fu un numero per lui fortunato. Il giorno 13 febbraio 1503 avviene la disfida; ognuno dei due grup¬pi opposti, italiani e francesi, “l’un contro l’altro armati” è composto di tredici cavalieri. Ecco il gruppo dei nostri: Capitano comandante è il nostro Ettore Fieramosca; gli altri componenti: Fanfulla da Lodi; Giovanni Capaccio di Tagliacozzo; Giovanni Brancaleone e Ettore Giovenale, romani; Francesco Salomone siciliano come Guglielmo Albimonte; Ludovico Annibaie da Terni; Marco Carellario da Napoli; Miele da Troia; Mariano Albignate da Samo; Romanello da Forlì; Riccio da Parma. I tredici francesi sono capitanati da Guy de la Mothe e fra di essi vi è un italiano: Graiano d’Asti. Strano destino che i rinnegati e traditori abbiano il nome che inizia con la “G”: Giuda che tradì Cristo; Gano di Maganza che tradì il paladino Orlando a Roncisvalle; Giunio Bruto traditore di Giulio Cesare, ecc… Abbiamo visto qualche giorno fa che in Offida soggiornò un altro rinnegato, Fabrizio Maramaldo (anche se fa eccezione alla G) Posteggiato ed inviso uccisore di Francesco Ferrucci. Ora registriamo che nel 1497 Offida “ospitò” l’eroe della Disfida, Ettore Fieramosca. Ciò avvenne in uno degli episodi della lotta tra le due rivali Ascoli e Fermo. Astolfo Guiderocchi, con inaudita ferocia si era impadronito di Offida, nota roccaforte di Fermo; si era poi avventato contro Ripatransone e nonostante i ripetuti assalti, non era riuscito ad espugnarla. Scornato, abbandona Offida e cede il comando delle truppe ad Ettore Fieramosca”.
“… Astolfo Guiderocco era andato a Napoli per aiuto et negozio tanto con quel Re che ottenne, se disse, per soi denari, settanta cavalli e duecento spagnoli e se ne venne volando, e di notte saltò (sic) Ripa, ma essendo avisati ne furono rebuttati e ci lasciò parecchi morti e de feriti gran numero e poi vedendo non far niente ne lasciò Ettore Fieramosca in Offida con cavalli e fanti, e di continuo faceva scaramuccie d’ogni banda”.
Così l’anonimo fermano negli Annali. Se vero come è vero che Wellingthon abbia detto che la battaglia di Waterloo fu vinta nei campi di addestramento di Eton (The battle of Waterloo was won in thèplaying fields of Eton) alludendo agli esercizi praticati in esso, chi può negare che le “scaramuccie di Offida” non siano state utili esercitazioni per lo scontro di Barletta? Due, come detto, sono i monumenti importanti di Barletta: quello in bronzo all’imperatore Eraclio e quello che ricorda la battaglia; ma più perenne del bronzo è la fama del nostro Fieramosca che fu in Offida “già piccolo centro dello Stato di Fermo sito a la sinistra del Tronto con mura e bastioni del sec. XIV, noto per S. Maria della Rocca et Palatio comunale et fabrica di merletti et dolciumi appellati funghetti” e, aggiungiamo noi, anche per la presenza nel 1497 dell’eroe Ettore Fieramosca.