Curiosità di storia di Fermo e del Fermano nel secolo XIV di Gabriele Nepi

anno1306 – Il ciocco di Natale e la ‘vellutina’

    La passata rubrichetta su “Loreto, la Venuta ed i Focaracci” ha destato un certo interesse specie per la precisazione su detti focaracci e sono pervenute varie telefonate e lettere in proposito. Alcuni hanno domandato se è corretto scrivere “ciocco” anziché ceppo di Natale.

    Veramente la rubrica ha indole storica; tuttavia i nuovi orientamenti storiografici, con a capo M. Bloch, J. Le Goff, F.R. Furet, F. Braudel, Paolo Brezzi, etc. danno un risalto notevole alla componente linguistica, per cui eccoci pronti e lieti per un piccolo “contributo” in proposito.

     Il ciocco di Natale si metteva sull’arola del focolare in occasione di tale festa e doveva durare fino alla Epifania: Lu cioccu de Nata’ ha da trica’ (= durare) finende a Pasquetta (6 gennaio!).

      Una graziosa e commovente tradizione vuole che esso serva alla Madonna che di notte vi viene a scaldare i panni per Gesù Bambino. Ciocco è il ceppo da ardere.

Già ne parla Dante (Par. 18,100) “Come nel percuotere de’ ciocchi arsi / surgono innumerabili faville / onde gli stolti sogliono augurarsi”. Giovanni Pascoli ne parla ripetutamente “Il babbo mise un gran ciocco di quercia su la brace (Canti di Castelvecchio 117,5)”; e poi ancora “Pel camino nero il vento / tra lo scoppiettar dei ciocchi / porta un suono lungo e lento / Tre, poi cinque, sette tocchi /” (ibidem). E chi non ricorda Valentino “…Pensa al gennaio, che il fuoco del ciocco / non ti bastava tremavi ahimé”, etc.

     Oltre al Pascoli abbiamo Giovanni Papini: “Scoppiettavano i ciocchi già mezzo coperti di neve”. Enrico Pea: “La stanza era rischiarata dai tizzoni ardenti. Io stavo sul ciocco con cagna”… Dino Campana “…E lo schioccar dei ciocchi e i guizzi di fiamma”. Italo Calvino: “Le tirò contro un ciocco”. Pascoli ha ancora: “Racconta al fuoco sfrigola bel bello / un ciocco d’olmo intanto che ragiona”.

     Quindi le graziose maestrine che mi hanno scritto o telefonato possono scrivere ciocco anche perché è registrato come di pura lingua nei vocabolari (Palazzi, Gabrielli, Mestica, Devoto-Oli, Zingarelli, etc.).

     Tuttavia non è corretto scrivere muschio per indicare la vellutina. Si deve (o dovrebbe) dire musco, anche se oggi prevale muschio. Il vocabolo vellutina lo trovo in Cardarelli: “I muri si coprivano di vellutina, etc.”.

     Natale, dolce Natale! Quanta poesia. La festa è ormai imminente.

     I primi cristiani chiamavano dies natalis il giorno della morte, perché è la nascita al cielo. Nel giorno di Natale del 1306 Jacopone da Todi era moribondo. Ai confratelli che si stringevano intorno a lui disse: “Voglio ricevere i sacramenti soltanto dal mio amico Giovanni della Verna”. Ma era cosa impossibile: il frate era lontano. Ad un tratto, come per miracolo, giunge ed amministra a Jacopone gli ultimi sacramenti. E così per opera di frate Giovanni (o meglio di Giovanni Elisei da Fermo) in quella notte avvenne il dies natalis nella duplice eccezione di nascita alla vita e del ritorno al Cielo.

Natale dell’anno  1306 – Iacopone da Todi, Giovanni da Firmo, detto de La Verna

     Siamo a Natale e nella scena della storia di Fermo, entra un personaggio famoso: Iacopone da Todi. Mi pare di scorger l’aria interrogativa di qualche lettore che si domanda cosa c’entra Fermo con Iacopone da Todi, luminare di spiritualità, luce vivida della letteratura italiana, fiero oppositore di Bonifacio VIII, e “adoratore” della francescana povertà.

     Iacopone fu molto amico di “Frate Ioanni de Firmo dicto de La Verna”, al quale indirizzò una lettera consolatoria nello stile limpido e robusto proprio del poeta delle Laude. Chi si reca alla Verna a visitare il “crudo sasso intra Tevere e Arno” dove S. Francesco ebbe le stimmate (di Cristo prese /’ultimo sigillo, continua Dante), racchiuso in un’urna, vede il corpo di un beato: è Giovanni della Verna, seguace di S. Francesco, nato a Fermo nel 1259, marchigiano puro sangue, che nel 1292 si trasferì al “Santo luogo de la Verna” ove visse per più di trent’anni. Iacopone nella sua lettera consolatoria lo precisa: “A Frate Ioanni de Firmo, dicto de la Verna”.

      Fioretti di S. Francesco (ne è autore Frate Ugolino da Monte Giorgio) sono pieni delle sue gesta. Raccontano che un giorno gli apparve Cristo e lo abbracciò; che liberò dalle pene del Purgatorio il confratello Iacopo da Falerone, che andava spesso in estasi, etc.

      Quel 24 dicembre 1306 Iacopone era in fin di vita. I confratelli lo esortavano a ricevere gli ultimi sacramenti, ma Iacopone rispose loro: “Soltanto dal mio diletto amico, Frate Giovanni della Verna, è d’uopo che io riceva il Santissimo Corpo di Cristo”.

     Frate Giovanni era lontano e i confratelli erano turbati da tale richiesta. Iacopone non aveva che poche ore, era impossibile avere Frate Giovanni. Ad un tratto, si videro due monaci venire verso la stanza dove Iacopone era moribondo, uno di essi era il nostro Giovanni da Fermo. “Giunto al capezzale dell’infermo – racconta Domenico Giuliotti – prima gli donò il bacio della pace, poi gli somministrò i Sacramenti. Allora Iacopone, rapito di gioia, cantò il cantico “Gesù nostra fidanza” e, esortati i frati a ben vivere, levò le mani al cielo e rendè lo spirito”. Era la notte di Natale 1306!

Iacopone da Todi e Giovanni de Firmo dicto de La Verna: due colossi nella storia del Francescanesimo: l’uno impetuoso, l’altro serafico e mite, legati da singolare amicizia, spezzata solo dalla morte di Iacopone, il 25 dicembre del 1306.

Anno 1320 – Fermo e Camerino contro Macerata

“L’han giurato li ho visti a Pontida / Convenuti dal monte e dal piano / L’han giurato e si strinser la mano / Cittadini di venti città… /”. Così la nota poesia del Berchet sul giuramento della Lega lombarda contro il Barbarossa, giuramento avvenuto nella Chiesa abbaziale di Pontida il 7 aprile 1167.

Ma dopo 153 anni, nel Fermano, nella Chiesa di Sant’Angelo in Pontano ebbe luogo un altro giuramento: quello dei Fermani e dei Camerinesi uniti in lega contro l’istituzione della Diocesi a Macerata. Da Avignone la voleva Papa Giovanni XXII per far dispetto a Recanati che si era ribellata alla Chiesa. Macerata aveva avuto la libertà di erigersi in libero Comune dal Vescovo di Fermo nemmeno 150 anni prima. Ora la si voleva erigere a città e diocesi! Fermo e Camerino, che allora erano le due città più importanti delle Marche (Fermo aveva 10 mila fuochi, cioè famiglie, pari a 50 mila abitanti. Camerino 8 mila, cioè 40 mila abitanti. Seguivano Ancona con 35 mila abitanti, Ascoli con 30 mila, etc.).

     Macerata era una delle città più piccole, aveva solo 1.800 fuochi, cioè 9 mila anime. Un po’ poco per essere città e sede di diocesi! E Fermo e Camerino non lo potevano sopportare! Si unirono in lega! La nuova Diocesi li avrebbe privati di gran parte dei rispettivi territori, di molti ricchi castelli, di gran parte della popolazione. Per di più Macerata era per metà (Poggio S. Giuliano) dipendente da Fermo; l’altra metà (Castello di S. Giuliano) dipendeva da Camerino. Le due città decisero di ricorrere a Roma e di dichiarare guerra a Macerata (facere et movere guerram contro Commune Maceratae). Le spese relative sarebbero state divise a metà e, se una delle parti si fosse ritirata, doveva pagare la penalità di mille marche d’argento.

     Le parole di fuoco contenute nei patti fanno impallidire i bellicosi proclami di “Bossi and Company”.

     Ma invano! Il Papa avignonese vinse, Fermo e Camerino ci rimasero male! Nel corso dei secoli le due grandi Diocesi subirono altre amputazioni. Fermo con l’istituzione della Diocesi a Ripatransone nel 1571, perse Ripa, S. Benedetto del Tronto, Acquaviva Picena, Cupra e S. Andrea; poi con Montalto Diocesi (1586), le furono sottratti Montel- paro. Comunanza. Montemonaco e nello stesso anno dovette dare a Loreto. nuova diocesi. Montelupone.

     A Camerino nel 1586 furono tolti Tolentino e S. Severino erette a diocesi, nonché Urbisaglia e Pollenza Comuni assegnati a Macerata, poi nel 1728 perse Fabriano creata pure Diocesi e nel 1787, Matelica, nuova diocesi. Pio VI, per compensare in qualche modo tali amputazioni, eresse Camerino ad arcidiocesi. Fermo ebbe poi compensi territoriali con Santa Vittoria, Monte Giorgio e Montefalcone provenienti dai Farfensi e già nel 1589 era stata compensata con l’erezione ad arcidiocesi con suffraganee la “contestata” Macerata, S. Severino, Tolentino, Montalto e Ripatransone.

     Nonostante tali vistosi tagli, Camerino unita a S. Severino è oggi sul territorio la più vasta Diocesi delle Marche con 1603 kmq.; Fermo, che non è unita a nessuno, è la seconda con 1334 kmq.; ma per popolazione, per parrocchie, per storia è ancora la più importante di tutte le Marche e la più antica sede arcivescovile-metropolitana della Regione, escluso l’ex ducato di Urbino.

Anno 1320 – I Cappuccini e i Fioretti di S. Francesco sono nati qui

     Mentre la mostra su Federico II, allestita a Fermo nel Palazzo dei Priori, richiama un gran numero di visitatori, specie da Ancona, ricordiamo un altro grande “tutto serafico in ardore”, quasi coetaneo di Federico: S. Francesco d’Assisi.

     Federico II nasce a Jesi nel 1194 e muore a Ferentino nel 1250.

     Francesco nasce ad Assisi nel 1182 e vi muore nel 1226. Entrambi ebbero a che fare con le nostre Marche. Ambedue furono in relazione direttamente o indirettamente con Fermo e il Fermano.

     In quel periodo, la Marchia Firmana era stata inglobata nella Marca d’Ancona. “La provincia della Marca d’Ancona fu anticamente a modo che il cielo di stelle, adomata da santi ed esemplari frati, li quali a modo di luminari nel cielo, hanno alluminato ed adornato l’ordine di Santo Francesco e il mondo con esempi e la dottrina”.

     Così i “Fioretti”, sbocciati nel Fermano per opera di Frate Ugolino da Montegiorgio.     

     Non è “campanile” rilevare che nei Fioretti, i frati attori o protagonisti sono in gran parte dell’area fermana o meglio dell’Arcidiocesi fermana.

     Ci sono frate Giovanni da Penna S. Giovanni; frate Matteo da Monterubbiano, frate Jacopo da Fallerone; Giovanni da Fermo detto della Verna, per i molti anni trascorsi nella preghiera in quel santo luogo; Pacifico da Fallerone; Liberato (poi santo) da Loro Piceno; Fra Pellegrino da Fallerone, e frate Corrado di Offida.

     Con l’occasione, ricordiamo che le pitture di Giotto nella Basilica superiore di Assisi, vennero eseguite per ordine di un altro frate, il diocesano frate Giovanni da Morrovalle che fu Cardinale e 15/mo Ministro Generale dell’Ordine. Nella Basilica predetta, abbiamo opere d’arte come il coro di Apollonio da Ripatransone e nella Basilica superiore, il coro di Antonio Indivini di S. Severino Marche.

     Fermo costruì in onore del santo quel magnifico tempio (ora monumento nazionale) e prima di ogni altra città; da Fermo partì per Assisi, dalle Fonderie Pasqualini la “Campana della Laudi”, bronzo squillante offerto nel 1926 da tutti i Comuni d’Italia al Santo, nell’anniversario, sette volte secolare della sua morte.

     Dopo la scomparsa di S. Francesco, le Marche furono la terra più fertile delle altre per le radici dell’ordine. Contava più conventi la “Marcha” che l’Umbria e, per quanto piccola, il numero dei frati era grandissimo. Un’altra connotazione “fermana”, o meglio della Diocesi fermana, è quella che nel “Luogo del Sasso” a Montefalcone Appennino, scoccò la prima scintilla che portò alla fondazione dei Cappuccini, sempre facenti parte del grande albero francescano.

     Proprio da Montefalcone Appennino, Matteo da Bascio, marchigiano di Carpegna, si portò a Roma per chiedere a Papa Clemente VII l’approvazione dei Cappuccini.

Abbiamo accennato a Federico IL  Ebbene, anche fra Elia, il successore di S. Francesco e l’artefice della Basilica, ebbe un momento di sbandamento e passò dalla parte imperiale, tanto era il fascino di Federico II; per tale motivo venne scomunicato. Ma poi si pentì, tornò all’“ovile” e fu perdonato.

Anno 1334 – Spade famose e spade meno famose

     Rapagnano piccolo centro del Fermano, è famoso nella storia per aver dato i natali a Papa Giovanni XVII (papa Siccone), morto nel 1003, dopo pochi mesi di pontificato. Con lui si è aperta la serie di Papi marchigiani, in tutto dieci (ultimo Pio IX), mentre talune regioni, ad esempio il Piemonte, non ne hanno avuto nessuno. È vero che Pio V (o meglio S. Pio V) Papa dal 1566 al 1572 era nato a Bosco, in prov. di Alessandria: ma allora detta località non faceva parte del Piemonte ben A del Ducato di Milano. E poi… e poi… (e questa è un’altra gloria nostrana) da giovane aveva studiato a Fermo.

     Ma desideriamo parlare non di Papi, ma di spade e di guerrieri. Sono oggi di scena Galasso Conte di Montefeltro, podestà di Fermo, Guglielmo di Ventura del castello di Rapagnano e Puccio Bongiovanni di Montegiorgio con notai, testimoni, etc. etc.

Nel nome di Dio, Amen. L’anno del Signore 1334, indizione seconda, al tempo di Papa Giovanni XXII, il giorno XXI del mese di gennaio, Guglielmo di Ventura del castello di Rapagnano, ha dichiarato di essere stato soddisfatto di quanto a lui versato quale rimborso da parte di Puccio Bongiovanni di Montegiorgio, per conto di quel Comune e della cittadinanza. Il rimborso consiste nel versamento di un fiorino di oro sopraffino e di giusto peso e di somme per spese sostenute, come da decisione del conte Galasso di Montefeltro podestà di Fermo”… Così inizia la pergamena conservata nell’archivio comunale di Montegiorgio.

     Il fatto, che preso in sé sembrerebbe irrilevante, ha invece una notevole importanza; addirittura se ne è fatto un atto notarile ed ha coinvolto tre comuni: Fermo, Rapagnano, Montegiorgio; un notaio Bartolomeo Leonardi; testi come Francesco Raynaldi, figliastro di Bartolomeo Dominici, Filippo di Gentile Compagnoni e un altro notaio, Giovanni Simili, nonché una sede comunale, quella di Rapagnano (Actum in castro Rapaniani). La stipula però era avvenuta il 19 gennaio 1334.

     Certo, nella storia ci sono spade molto più importanti di quella di Guglielmo di Ventura. Prendendo lo spunto dal vocabolo, pensiamo a quelle famose dei capitani di ventura e di altri condottieri famosi.

     La storia ci parla della spada di Damocle; di quella di S. Pietro con la quale nell’Orto degli Ulivi recise un orecchio a Malco (Giov. 18,10); della spada di Brenno che. dal 390 avanti Cristo, tuona il “Guai ai Vinti”; della Durlindana del Paladino Orlando etc.

Ma c’è una connotazione singolare. Un oracolo aveva predetto che chi avesse sciolto il famoso nodo gordiano sarebbe divenuto padrone dell’Asia. Alessandro Magno ci provò ma, non essendo riuscito, lo recise con la spada e divenne signore dell’Asia. Era il 334 avanti Cristo! Nel 1334 (notare le ultime tre cifre), Guglielmo di Ventura da Rapagnano, anche se “senza infamia e senza lodo”, ha vicende di spada… Corsi e ricorsi storici? Forse. Ma Giambattista Vico non era ancora nato.

Anno 1336 – Ancora Dante Alighieri e Fermo

     Certamente se Dante tornasse in vita, non potrebbe inveire contro Fermo e i suoi cittadini. Lo fece con Pisa (Ahi, Pisa, vituperio delle genti, 1.33.79). Mise all’Infemo personalità varie e anche taluni Papi e imperatori, ma Antonio da Fermo lo avrebbe messo certamente in Paradiso, se non altro per dovere di riconoscenza. Infatti, si deve proprio ad Antonio da Fermo, un amanuense del sec. XIV, il codice più antico, datato, della Divina Commedia.

    Lo cominciò nel 1336, cioè solo dopo 15 anni dalla scomparsa del poeta. È il Codice Landiano, così chiamato, perché conservato a Piacenza, nella Biblioteca Passerini Landi; ora, però, reperibile nella biblioteca comunale di quella città. Antonio lo scrisse, come detto, nel 1336 a Genova, su richiesta del podestà di Pavia, Beccario da Beccaria. Ce ne dà lui stesso notizia. Infatti nll’explicit (finale) del codice, dice: “Scritto da me Antonio da Fermo a richiesta dell’egregio e magnifico signore Beccario da Beccaria, milite imperiale, dottore in legge e podestà di Pavia e suo distretto. Genova, l’anno 1336, indizione terza, al tem¬po di Papa Benedetto XII, l’anno secondo del suo pontificato”.

     Testualmente tale explicit recita in latino: Scriptum, per me Anto/nium de Firmo, Ad petitionem et Hnstantiam Magnifici et Egregii / viri domni Beccarij de Beche/ria de Papia Imperatorii militis / legum- que doctoris Necnon honoralbilis Potestatis Civitatis et districtus t Ja- nuae. Sub anno Domini Millesimo CCC° XXXVF Indictione III / tempo¬re domini B(enedicti) papae XII Ponti!ficatus eius Ano (sic!) Secundo.

     Ma oltre a ciò, Dante dovrebbe (presunzione la nostra?) essere grato alla città di Fermo per un altro motivo: la traduzione in latino della Divina Commedia. Si era al Concilio di Costanza (1414-1418), concilio ecumenico (il sedicesimo) e i Cardinali stranieri chiesero a Giovanni de Bertholdis, Vescovo di Fermo, di tradurre per loro il Divino Poema in modo da poterlo apprezzare adeguatamente. Come è noto in quel periodo la lingua ufficiale era il latino.

     In tale maniera, i padri porporati poterono gustare adeguatamente quanto aveva scritto il Divino Poeta. È doveroso ricordare anche che la città di Fermo, è stata sempre all’avanguardia nel culto di Dante; nello stesso anno di fondazione della Società “Dante Alighieri” (1889), il 24 luglio, per opera del senatore fermano Carlo Falconi, venne istituita a Fermo una sezione di tale società, la quarta in Italia dopo le sezioni di Milano, Venezia e Genova.

Anno 1341 – Una delle prime armi da fuoco a Rocca Montevarmine di Carassai

     Rocca Montevarmine, località in Comune di Carassai, conserva quasi intatta la famosa rocca da cui prende il nome, rocca che ha sfidato secoli ed assedi. Piccolo e vivace centro, già dominio di Fermo, attualmente conosciuto anche per iniziative culturali, vanta un primato interessantissimo dal punto di vista storico.

     Effettuando ricerche per una monografia storica su Monturano, ci siamo imbattuti in un elenco prezioso. Sono i nomi dei soldati che Fermo mandava a presidiare tale castello e ogni soldato è contraddistinto dall’arma che aveva in dotazione. Appaiono così militi armati di pistoiese (pugnale a lama corta fabbricato a Pistoia) di spito, ronca, alabarda e schioppo o sclopo.

     Approfondendo le ricerche, è venuto fuori un primato insospettato delle Marche e del Fermano. Infatti è emerso che, nell’uso dello sclopo o schioppo, la nostra Regione ha il primato storico.

     Leone Cobelli, nella “Cronaca di Forlì”, riporta che Guido da Montefeltro nella battaglia a difesa di Forlì contro i Francesi (1281) “chiamò una squadra di targoni ed una squadra grande di balestrieri e sclopiteri” (schioppettatori).

     Troviamo conferma che nel 1321, dell’esistenza di “una squadra grande di balestrieri e schioppettatori a servizio del Duca di Urbino” (che è sempre Guido da Montefeltro).

     Dopo dieci anni si parla di soldati che a Cividale del Friuli, balistabant cum sclopo versus terram. Tre anni dopo, cioè nel 1335, i Signori di Ferrara fecero preparare una grande quantità di schioppi e spingarde (maximam quantitatem sclopetorum et spingardarum).

      Recentemente, Angelo Gaibi nel volume “Armi da fuoco”, edizioni Bramante, Milano, 1978, riporta che Angelo Angelucci, direttore dell’Armeria Reale di Torino ed uno dei più intelligenti ricercatori e scopritori di documenti presso gli archivi italiani, nel volume “Documenti inediti sulle armi da fuoco italiane”, Torino, 1869, voi. 1, pagina 71, dice testualmente: “Sono interessanti a questo riguardo, l’affresco attribuito a Paolo Nesi (1540) nel monastero di S. Leonardo in Lecceto presso Siena, ove lo schioppetto è rappresentato da una canna lunga poco più d’una spanna, fissata in cima a un manico (o teniere) e la bombardella manesca trovata fra le rovine di rocca Montevarmine presso Fermo, distrutta nel 1341”.

     L’Angelucci che è autore di preziose opere sulle armi da fuoco (tra esse ricordiamo il “Catalogo dell’Armeria Reale di Torino”, Torino, 1890), trova ora eloquente conferma nel volume “Small Arms of thè world” (piccole armi del mondo) edito dalla Casa Editrice The Stepole Company di Herrisburg U.S.A., 1962, e scritto dagli americani William Smith e Joseph Smith.

     Come si vede, nessun sospetto di “campanilismo”. È una gloria pura di Rocca Montevarmine, di Carassai e del Fermano. Ma quanti ne erano a conoscenza?

Anno 1355 – L’implorazione di Mitarella

     Oggi vediamo due personaggi famosi che si interessano di Fermo e del Fermano. Sono: Santa Caterina da Siena, dottore della Chiesa, patrona d’Italia, nata a Siena nel 1347, morta a Roma nel 1380 e il Cardinale Gil Alvarez Carrillo de Albomoz, spagnolo, nato nel 1310, morto a Viterbo nel 1367.

     Dal Papa Innocenzo VI, che si trovava in Avignone, era stato mandato nelle Marche per riconquistarle e riportarle al dominio della S. Sede. Con senno e con tatto, in poco tempo, quasi senza colpo ferire, riconquistò tutto lo Stato pontificio alla Chiesa e, quando il Papa su sollecitazione di Caterina da Siena tornò a Roma, egli lo incontrò a Tarquinia e gli consegnò un carro carico delle chiavi della città e castelli, tornati sotto il dominio della sede apostolica.

     Per suo merito, lo Stato pontificio si resse sulle Constitutiones Aegidianae che furono l’ossatura, lo statuto rimasto in vigore fino alla caduta del potere temporale (1860).

S. Caterina da Siena, invece, si interessò di Mitarella da Monteverde, figlia di Mercenario, famoso nella storia di Fermo. Mitarella si era sposata con Vico da Fermo, signore di Mogliano. Questi, nel 1375, fu eletto podestà della Repubblica di Siena. Nel periodo in cui fu in carica, punì con la morte cinque giovani gentiluomini che erano entrati di notte in un monastero femminile suburbano. Le famiglie inscenarono un moto popolare contro di lui.

     Mitarella, trepidante per la sorte del marito, si rivolge a S. Caterina chiedendo aiuto “per lo caso occorso al senatore” (cioè al marito). Caterina, risponde esortando ad avere fede in Cristo e confortando la nostra Mitarella.

     Il secondo personaggio, !’Albomoz, invece, accorda a Mitarella la licenza di ricostruire il suo castello di Montappone, nello stesso luogo dove sorgeva, allorché fu distrutto da Gentile da Mogliano. Nota però il cardinale, nelle lettere di concessione, che per costruire un’altra fortezza è necessario il permesso della Santa sede. Tale atto, emanato a Gubbio porta la data del 30 maggio 1355. Ieri si sono compiuti 637 anni.

Anno 1355 – Ancona ed i Papi di Avignone

     Ancona ottobre.

     Potrà, sembrare strano ma è un fatto incontrovertibile che la nostra Regione ed in particolar modo Ancona, sia intimamente legata alle vicende storiche di Avignone, la città francese dove dimorarono, per vari lustri, i Papi.

     A parte il fatto che proprio nel trattato di Tolentino (19 febbraio 1797) tra Pio VI e Napoleone I, Avignone veniva ceduta alla Francia (costituendo nella storia la prima cessione del patrimonio di S. Pietro da parte di un Papa). Avignone ha relazioni storiche, anche se indirette, con le Marche, ma soprattutto con Ancona.

     Era il 30 aprile 1367, Urbano V, dopo le insistenti preghiere dei Romani nonché di Santa Brigida, che profetizzava i castighi divini e del Petrarca, aveva deciso di riportare a Roma la sede papale dopo una cattività che durava dall309. Nel frattempo, il suo legato in Italia il Card. Egidio Albornoz, aveva riconquistato con la forza e con la diplomazia le città ribelli delle Marche e Regioni vicine. Tutto era pronto per il ritorno del Papa.

Ed ecco che Urbano V, Papa francese, (come lo saranno tutti i Papi di Avignone), salpa da Marsiglia alla volta di Roma. La nave ammiraglia che lo trasporta è una galea di Ancona, “costruita a spese pubbliche della Marca di Ancona per la sua persona stessa, sotto la guida di Niccolò della Scala, cavaliere anconitano. Tale nave spiegava lo stendardo della romana Chiesa. Era accompagnata da una flotta di 23 galee e molte navi di Venezia, Pisa, Genova, Napoli. Dopo aver toccato e sostato in vari porti del Tirreno, il 3 giugno 1367 la flotta attracca a Corneto; quindi il Papa prosegue per Roma.

     Ma dopo soli tre anni, Urbano V inspiegabilmente e repentinamente ritorna ad Avignone. È il 5 settembre 1370, giovedì. Di nuovo da Cometo, la “galea grande” di Ancona, con 12 Cardinali e gran seguito di navi pontificie, francesi, spagnole, napoletane, (in tutto una sessantina), riporta il Papa in Francia, dirigendosi alla volta di Marsiglia. Urbano V vi sbarca e giunge ad Avignone il 24 settembre; dopo tre mesi, muore. Occorre eleggere un altro Papa.

     Tutti i Cardinali sono francesi, eccetto 3 italiani ed uno inglese. Viene eletto dopo un solo giorno di Conclave, Gregorio XI, la partenza del Papa aveva provocato in Italia malumore ed indignazione, e le condizioni politiche della Penisola erano per riflesso molto turbate.

Un nuovo ritorno del Papa sembrava improbabile. Troppe le opposizioni e gli interessi francesi. Ma alla fine, cedendo alle insistenti ed infuocate suppliche di Santa Caterina da Siena, il Pontefice decise di tornare, a Roma. Ed ancora una volta, ai primi di ottobre 1376, il Papa s’imbarca a Marsiglia “sulla galea grossa di Ancona comandata da Niccolò Torriglioni e seguita da una scorta di 5 navi francesi, 6 spagnole, una di Genova ed una di Pisa”.

     Il viaggio, lungo e tormentato, durò più di tre mesi, e l’ammiraglia anconitana “naviglio ammirabile per fortezza e bellezza, reggente in mare, buon veliero ed in punto di ogni comodità che mai potessero i viaggiatori desiderare”, incontrò varie tempeste.     

     Un cronista dice che l’equipaggio più volte implorò l’Altissimo e S. Ciriaco (patrono di Ancona) omnes fundunt preces Altissimo et spondunt vota Sancto Quiriaco. Alla fine, lasciando il Tirreno, e risalendo per il Tevere, il 17 gennaio 1377 il Papa entra a Roma. Il “popolo esultante e lacrimando, tendente le braccia prostrato, danzante dietro il destriero del Papa erompe di tripudio e giubilo”. Il Papa, ancora a bordo, di una galea anconetana, ritorna a Roma e ci rimane per sempre! Quest’anno ricorrono 600 anni dall’evento; ci permettiamo ricordarlo, sottolineando ancora una volta il fausto evento, in cui ebbe parte notevole la marineria di Ancona, e delle Marche.

Anno 1355 – Fermo viene assolta…

     Oggi, 22 settembre, ricorre l’anniversario della morte di Daniele Manin (1857) e di Faraday (1867) famoso per le sue leggi dell’elettrolisi e nostra vecchia “conoscenza” di Liceo. Ma il 22 settembre 1355 è una data memoranda per Fermo e il Fermano. Da questa città, il Cardinale Egidio Albomoz, mandato dal Papa che si trova in Avignone, convoca i sessanta Comuni che facevano parte dello Stato di Fermo (vi erano anche S. Benedetto, Acquaviva, etc., a sud; Mogliano, Gual¬do, Petriolo, S. Angelo in Pontano, a nord).

     In conseguenza della sottomissione di Fermo e suo Stato avvenuta il giorno precedente (per mezzo di Spinuccio di Francesco, delegato dal Comune), l’Albomoz assolve Fermo da tutte le censure in cui era incorsa data la sua ribellione alla Chiesa, specialmente nei periodo in cui era stata soggetta a Gentile da Mogliano.

     Interessantissimo il documento della sottomissione conservato nell’Archivio Vaticano, ma non meno interessante il secondo: quello dell’assoluzione.

Il Cardinale Albomoz, come vediamo, prediligeva Fermo e trasferì qui da Macerata la Curia Generale della Marca, nonostante le rimostranze dei Maceratesi.

La ribellione di Fermo e dei castelli era causata dal fatto che volevano essere indipendenti, ciascuno per proprio conto.

Il Papa era lontano, in Avignone, e loro non volevano soggiacere ad alcune autorità. Fermo e il suo Stato furono definiti dall’Albomoz volubilis ut rota et labilis ut anguilla facile latino che indica Fermo “volubile come ruota e labile come anguilla”.

Leggendo i documenti di quel 22 settembre, si rileva che essi im-pongono ai 60 Comuni di prestare giuramento alla Sede Apostolica ed al Comune di Fermo; di obbedire alle sue leggi; di pagare le tasse dovute. Da quello di assoluzione si evince che la Chiesa non scherzava. ..

     Contro la città e contado erano state attuate sanzioni economiche e giuridiche. Fermo era stata privata delle rocche e castelli dipendenti, diritti, privilegi, etc., e addirittura colpita dall’interdetto.

     Ma l’Albornoz, lieto del ritorno di Fermo e contado alla Sede Apostolica, restituisce rocche, castelli, privilegi, diritti, esenzioni, beni, etc., loda la “pecorella che ritorna all’ovile” ma precisa a tutte lettere che se dovesse nuovamente ribellarsi, ricadrebbe ipso facto cioè immediatamente nelle sanzioni precedenti (compreso l’interdetto) da cui era stata assolta in quel lontano 22 settembre 1355, cioè 636 anni or sono.

Anno 1355 – Tre importanti pergamene – Contengono l’elenco

 dei possedimenti di Fermo alla metà del ’300

     Era il 22 settembre di 635 anni or sono. Il Papa, da 46 anni risiedeva in Avignone e varie località delle Marche (come del resto l’intero Stato Pontificio) cercavano di sottrasi all’autorità pontificia, tanto più che il “capo” era al di là delle Alpi.

     Il ghibellino Gentile da Mogliano, era riuscito a impadronirsi di Fermo e per tutto lo Stato Pontificio correvano fremiti di ribellione. La cosa impensieriva il francese Papa Clemente VI (Pietro Roger) e in modo speciale il suo successore Innocenzo VI (il francese Stefano Aubert) il quale, da Avignone, spedì nelle Marche il Cardinale Egidio Albomoz, spagnolo, che con senno, astuzia, e quando occorreva con la forza, recuperò a poco a poco tutto lo Stato-Pontificio. Nel 1355 poi, il Cardinale giunse a Fermo, vi insediò la Curia e vi rimase a lungo.

     Assolse la città dalla scomunica in cui era incorsa per essersi schierata con Gentile da Mogliano; le tolse l’interdetto e la reintegrò nel pos¬sesso delle rocche, castelli e località già di sua pertinenza. Poi, con tre distinte lettere (litterae praecepti) ordinò ai comuni, terre e castelli di inviare a Fermo dei procuratori, per prestare giuramento di fedeltà nelle sue mani e per assolvere ad ogni obbligo dovuto alla città di Fermo.

In questi tre documenti (conservati nell’Archivio di Stato fermano) si scorgono le annotazioni delle avvenute o non avvenute notifiche agli interessati, e sono molto importanti per la storia del Fermano, dato che costituiscono l’elenco ufficiale dei possessi di Fermo. Sono tre pergamene; ognuna raggruppa un discreto numero di Comuni (in totale 60).

     Il primo gruppo elenca i Comuni di: Longiano, Torchiaro, Ponzano, S. Maria, Monte Giberto, Petritoli, Montevidon Combatte, Ortezza- no, De Medio, Collina, S. Elpidio Morico, Monte Leone, Monsampietro Morico, Servigliano, Smerillo, Monte Falcone, Castel Manardo, Belmonte, Grottazzolina, Villa Montone.

     Il secondo gruppo è costituito da: Monte Secco, Porto S. Giorgio, Torre di Palme, Lapedona, Monte S. Martino, Altidona, Pedaso, Boccabianca, Marano (= Cupramarittima), S. Andrea, Grottammare, S. Benedetto del Tronto, Mercato, Borumpadaro (questi ultimi due erano ca¬stelli siti nei pressi di Acquaviva Picena), Acquaviva Picena stessa, Massignano, Gabbiano, Cossignano, Monte Rubbiano, Moresco.

     Il terzo gruppo, convocato con pergamena n. 1850 (le altre sono la 998 e 1347), era composto da: Monturano, Podium Raynaldii, Torre S. Patrizio, Monte S. Pietr (angeli), Rapagnano, Magliano, Ripa Cerreto, Alteta, Mogliano, Petriolo, Loro (Piceno), S. Angelo in Pontano, Gualdo, Falerone, Montappone, Massa, Monte Vidon Corrado, Monte Verde (attualmente frazione di Monte Giorgio), Francavilla d’Ete.

     Attraverso la lista dei Comuni convocati, abbiamo l’esatta consistenza di quello che nel 1355 era lo Stato di Fermo, che estendeva il suo dominio da S. Benedetto e Acquaviva Picena a vari Comuni, come Gualdo, Petriolo, S. Angelo in Pontano etc. dell’attuale Provincia di Macerata.

L’anno dopo, l’Albomoz emanò le Costituzioni Egidiane (Aegidianae Constitutiones), che rappresentarono l’ossatura dell’Amministrazione pontificia fino alla metà del secolo scorso. Con esse, fra l’altro, divise le città marchigiane in maggiori, grandi, mediocri, piccole, minori.

Le maggiori erano: Ancona, Fermo, Camerino, Ascoli, Urbino. Pesaro e Macerata seguivano, a distanza, le grandi.

Anno 355 – Un processo agli Ascolani celebrato a Fermo il 31 ottobre 1355.

             La scomunica ai cittadini di Ascoli Piceno

     Una volta le elezioni non erano così laboriose e meticolose. Basta pensare che nel plebiscito del 1860 a Porto Sant’Elpidio vi furono sette schede in più sul numero dei votanti. Ma noi vogliamo parlare di oltre sei secoli or sono, quando Ascoli fu scomunicata per aver eletto il suo Podestà senza il permesso della Santa Sede. Si era al tempo di Pa¬pa Innocenzo VI (precisamente nel 1355): gli Ascolani, contravvenendo ai loro doveri di sudditi della Santa Sede, elessero Galeotto Malate-sta da Rimini a loro “Signore governatore e difensore e non solo della città ma di tutto il circondario” o, come si chiamava allora, del “distretto” (elegerunt… in defensorem,protectorem, gubernatorem).

     Anzi, nei carteggi del processo, si lamenta che quei “birichini” de¬gli Ascolani fecero lega con gli altri nemici della Santa Chiesa, invadendo terre e castelli da veri traditori e si erano alleati con Malatesta Malatesta e Francesco degli Ordelaffi (condannato come eretico) ed a Gentile da Mogliano.

     Vani furono gli sforzi del Rettore della Marca. I nostri non vollero ubbidire. Allora si tenne il processo che ebbe luogo a Fermo il 31 otto¬bre del 1355. Nel carteggio che abbiamo trovato nell’Archivio Vaticano, si legge che tali ribelli (rebelles), entro il sei novembre, dovevano presentarsi a chiedere perdono del loro operato. Si sperava ancora in una loro resipiscenza e nello stesso tempo si ingiungeva di abbandona¬re le terre della Santa Sede abusivamente occupate; se avessero perseverato nell’errore, si sarebbe provveduto alla confisca dei loro beni. Il documento nomina ben 81 famiglie ascolane come più avanti indicato. Nel frattempo, cioè fra il 31 ottobre ed il 6 novembre, Ismeduccio da S. Severino e Petrello da Mogliano chiedono perdono e si presentano a Fermo nel palazzo del legato papale (in palatio habitationis legati) ma gli ascolani tennero duro.

     Il 25 novembre 1355 viene fulminata la scomunica “al consiglio, al gonfaloniere, ai consoli, agli anziani, agli ufficiali, al popolo ed al Comune di Ascoli ed alle persone colpevoli di ribellione alla Chiesa”.

     Fra gli scomunicati c’è Niccolò di Dongiovanni, Cavaliere, e Cola e Zuccio Rossini. Inoltre:

 Luca Tommasi                                                 Giacomo Luzi

Ciccolo Nuzi                                                      Giacobuccio Giacobbi

Domenico Tornassi                                          Vanne Corraduzzi

Ziuccio Francisci                                              Petruccio Marini

(Gio) Vanni Bonagiunta                                  Cervuccio Servidei

Antoniuccio Bongiovanni                               Angelo Bonagioanni

Nicoluccio Medico                                           Petruccio di Rocca

Corrado Rainaldi                                             Coluccio Di Vanni Saladini

Nuzio di Giovanni Bernardi                            Giovanni Martelli

Corrado Jacobucci                                            Giovanni Zocchi

Lucio ed Emidio di Nicola di Montecalvo      Giulio e Nicola Dominici

Giovanni e Lino Jacobucci di Rocca               Cavuccio Ventura

Necco e Vanni Giovannucci                             Agresta Simeoni

Lippo Ansovelli                                                 Giovanni di Mastro Luce

Vannino Vanni                                                    Chierico Federici

Giovanni Salvi                                                    Simeone Agresta

Giovanni Vinnibene                                          Agresta Simeoni

Massio Cini                                                       Giovanni di Mastro Luce

Meo Petri                                                          Chierico Federici

Filippo Jacobi                                                    Simeone Agresta

Coluzzio Sanzio                                                Massio Francisci

Nicola Timidei                                                   Vannetto Bongiovanni

Manno Salvucci                                                Maramonte Guglielmi

Angeluccio Giovannucci                                  Concizzio Massei

Nicola Giovannangeli

ed altre persone della città di Ascoli nella Marca Anconitana (aliaeque singulares  personae civitatis Esculanae infra Marchiae Anco-nitanae constitutae).

Questo avveniva molti secoli or sono, allorché era legato della Sede Apostolica per le Province e le terre della Chiesa Romana, il Cardinal Egidio del titolo di S. Clemente il quale, malgrado il suo titolo, fu tutt’altro che clemente “verso la città, consiglio, anziani, consoli e popolo tutto della città e “distretto di Ascoli”.

Anno 1356 – Gentile da Mogliano ordinò “Sia distrutta Santa Croce”

     In questi giorni sui vari quotidiani rimbalza ripetutamente il nome della Basilica di Santa Croce, sita in territorio di S. Elpidio a Mare, non molto distante dalla statale Adriatica. In nostri precedenti articoli abbiamo parlato della sua inaugurazione (14 settembre 886) presenti i Ve¬scovi dell’allora Ducato di Spoleto (in tutto 19); abbiamo parlato del privilegio ad essa concesso dall’imperatore Federico II di Svevia e di altre vicende ad essa relative. Oggi, nel clima della prossima solennità dei Santi e dei Defunti, accenniamo al suo incendio e alla sua dissacrazione da parte di Gentile da Mogliano e delle sue soldatesche.

     Gentile, signore di Fermo, dopo aver espugnato il porto di Ascoli (A.D. 1348) costruito in dispregio di diritti di Fermo sul litorale dal Tronto al Potenza (come recita il privilegio di Ottone IV del 1 dicembre 1211), ebbe vita avventurosa e raminga perché, messosi in urto col le¬gato pontificio card. Albomoz, venne scomunicato; la scomunica allora aveva effetti “devastanti” su chi ne era colpito.

     Allora, spinto da spirito diabolico (diabolico spiritu istigatus), passò al contrattacco e se la prese proprio con la Basilica di S. Croce.

Con anni di offesa e di difesa, piombarono sulla chiesa e monaste¬ro di S. Croce sito nel territorio di S. Elpidio, penetrarono violentemente nella chiesa e nell’abitazione, rubarono tutti i beni esistenti in detto monastero, asportarono gli animali appartenenti alla mensa vescovile, presero prigionieri i famigliari del vescovo, i laici ed i chierici che vi si trovavano. Alcuni di essi vennero cacciati, altri feriti; si impadronirono delle croci, dei paramenti, dei calici, dei buoi, pecore, maiali, giumen¬te, asini (somarios, dice il testo), grano, vino, vettovaglie. La stima dei danni arrecati era di duemila ducati nell’anno 1356.

     Il primo dicembre dello stesso anno, Gentile da Mogliano e Ruggero suo figlio furono condannati in contumacia alla pena di morte, con¬fisca dei beni etc. Chi inflisse la condanna si chiamava Angelo Paradiso ed era il giudice generale della Marca d’Ancona. Gentile e suo figlio, data la pena e la scomunica, si saranno salvati? “Orribil furo li peccati miei / Ma la bontà infinita ha si gran braccia / che prende ciò che si ri¬volge a lei” così ci ricorda Dante (II-3-122).

     Ma Gentile era soprattutto un ladro. Nonostante la condanna di Paradiso. potrebbe trovarsi col figlio in paradiso e. data la professione, ac¬canto al… buon ladrone.

Dopo tutto non erano così malvagi come recita la bolla di condanna. I2 Novembre, tutti i… Santi del Paradiso!

Anno 1366 – Ancora su Giovanni Visconti d’Oleggio signore di Fermo

     Uno dei nostri più famosi poeti, immaginando di trovarsi davanti alla tomba di Alessandro Magno, esclama: (…) “Ond’io raccolgo il cenere infecondo, / e alzando il capo esclamerò, monarchi, / ecco in un pugno il vincitor del mondo..”. Analogamente si potrebbe dire del nostro Giovanni Visconti d’Oleggio, le cui ossa sono contenute in un’urna di vetro, conservata nella Sala del Mappamondo della biblioteca comunale di Fermo. Pochi resti di grande gloria! Ho detto “nostro” perché, sebbene dei Visconti di Milano e “abitator di Oleggio” (Novara), dopo varie vicissitudini ed una vita turbinosa, venne da noi. Prima era stato vicario generale della curia milanese; abbandonò la carriera ecclesiastica; si sposò; fu podestà di Novara e quindi di Asti; luogotenente dei Visconti per il Piemonte e quindi signore di Bologna. Cambiò il dominio su tale città e territorio, ottenendo di diventare signore di Fermo. Qui tuttavia operò con saggezza, mirando esclusivamente al bene di città e contado. Martedì prossimo 8 ottobre 1991, ricorrono 625 anni dalla sua morte, avvenuta a Fermo. Non è facile né semplice trovare atti di morte di più di sei secoli fa; ma siamo stati fortunati! Eccone il testo: “In no¬me di Dio. Così sia. L’anno 1366, indizione quarta, al tempo di Papa Urbano V, l’8 ottobre, giovedì, di mattina, allo spuntare dell’aurora entrò nella vita della carne (ingressus est viam universae carnis), dice il testo latino da cui traduciamo), “il magnifico e potente e nobile milite signor Giovanni Visconti, milanese, di Oleggio, rettore della Marca di Ancona e vicario per la santa Chiesa della città e distretto di Fermo” (…). Seguono alcune parole inintelligibili per corrosione del testo; si rileva solo “avuta… del palazzo della città di Fermo”. Prosegue l’atto: “Io don Rinaldo da Montottone, canonico e mansionario della chiesa maggiore di Fermo, amministrai il sacramento dell’estrema unzione alla presenza di Giovanni de Yspa canonico della cattedrale; di Giovannino… suo nipote; di Dionisio suo cancelliere; di Giorgio da Yspa, provisionato; della moglie Antonia; di parenti, amici, familiari, e di molti altri, provenienti da altri distretti”. E ancora: “E venne sepolto nella Cattedrale suddetta, nell’angolo destro anteriore presso l’altare di S. Giovanni e pres¬so l’altare maggiore di detta cattedrale. La sua anima riposi in pace”.

Anno 1373 – Provincia, scippo che non Scotti troppo

     Si nota in questi giorni un vivace scambio di “idee” per la ricostituenda Provincia di Fermo, soppressa nel 1860 dal governo di Vittorio Emanuele II ed unita a quella di Ascoli meno popolata, meno ricca, me¬no colta, meno importante. Fermo e Provincia contavano 110.000 abi¬tanti contro i 90.000 di quella di Ascoli. La Provincia di Fermo aveva 54 Comuni; quella di Ascoli 52. L’estimo catastale di Fermo era di 19.137.948 lire; di Ascoli 12.929.333. Fermo aveva 46 cultori di scienze, lettere ed arti; Ascoli solo quattro. Medici, farmacisti, levatrici di Fermo erano 241; di Ascoli 139; etc. etc. Fu un vero e proprio “scippo” ai danni di Fermo!

(1) Si riferisce al ministro dell’interno del tempo, On. Scotti

     Ma anche nel 1373 ci fu un tentato “scippo” da parte di Macerata, che voleva per sé la Curia Generale delle Marche, togliendola a Fermo. Il pericolo era grave e se ne dovette occupare addirittura Papa Gregorio XI (1370-1378) che si trovava ad Avignone.     

     Reiterate, intense e martellanti erano le richieste e le pressioni di Macerata, per impadronirsi della Curia Generale, che era stata posta a Fermo dal Cardinale Egidio Albomoz in quanto “luogo più nobile e più sicuro per la conservazione dello Stato di Santa Romana Chiesa”.

     Fra traslochi, beghe con i Cardinali francesi, col Re di Francia etc. il Papa da Avignone non può occuparsi personalmente della “querelle” Fermo-Macerata. Incarica perciò il Cardinale Ugo di Santa Maria in Portico, che scrive al Rettore della Marca d’Ancona Pietro, Vescovo di Oxford, al tesoriere ed a tutti i dirigenti della curia che quel trasferimento non s’ha da fare. Il passo della bolla, redatto in un latino polito ed armonioso, recita fra l’altro “… la città di Macerata vuole che venga colà trasferita la Curia Generale della Marca, cioè il Supremo Tribunale, ora esistente nella città di Fermo… ma il Papa non vuole ed espressamente si oppone”. Noi – prosegue la bolla – “in considerazione dell’idoneità del luogo, della salubrità dell’aria, della comodità di accesso e di soggiorno, i Porti Marittimi dello Stato di Fermo e l’abbondanza di ogni sorta di vi¬veri e vettovaglie, rigettiamo le richieste di Macerata, facendo presente che nessuno di voi osi tentare di favorire tale richiesta di trasferimento senza un ordine espresso da parte della Sede Apostolica”. Nessuno di voi pertanto, cioè Rettore, Tesoriere, officiali e componenti tutti della Curia, si muova da Fermo e non osi favorire le richieste di Macerata”.

     Morto Gregorio XI (che nel frattempo era tornato a Roma nel 1376), subentrò Papa Bonifacio IX, il quale, non solo confermò la permanenza della Curia Generale, ma nominò suo fratello Andrea Tomacelli “signore di Fermo e suo Stato”. Ciò avveniva di questi giorni, nel gennaio 1398, cioè 594 anni or sono. Una curiosità: nella bolla del Cardinale Ugo si indicano i Porti Marittimi, per la cronaca, scritti con l’iniziale maiuscola (Portubus Maritimis).

     Sarà un auspicio perché l“‘iter” della ricostituenda o meglio resti-tuenda provincia fermana giunga in “porto”? Allora il Papa e Cardinali si interessarono di Fermo, oggi i nostri Reggenti se ne infischiano. Attenzione che la faccenda, poi, non “scotti” troppo!

Anno 1375 – Un golpe degli otto (santi) anche nel 1375 finì male

     E dicono che la teoria dei corsi e ricorsi storici di Vico non è più valida! I mass-media di tutto il mondo, stanno parlando giorno e notte del golpe di Mosca e dei suoi otto artefici. Ma già nel 1375, la Lega fiorentina è capeggiata da otto personaggi, che il popolo chiamerà Otto Santi, nonostante che combattessero contro il Papa. Scenario, personaggi ed interpreti di quel tempo e di oggi sono quasi eguali. Si agisce oggi come allora, in nome della libertà (oh libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome! diceva Madame Jeanne Roland de la Piatière).

    Due sono le città protagoniste: ieri Firenze, capo della lega; oggi Mosca, capo della “resistenza”. Due i personaggi chiave: ieri Papa Gregorio XI; oggi Gorbaciov. Due i personaggi comprimari: ieri il Cardinale legato Noellet, oggi Eltsin. Entrambe le operazioni iniziano d’e¬state: la Lega Fiorentina nell’estate del 1375 e, dopo 616 anni, il golpe di Mosca: estate 1991. Altra particolarità è che i due personaggi più importanti sono lontani dal teatro delle operazioni: Papa Gregorio XI è in Avignone; Mikhail Gorbaciov in Crimea.

     Gli Otto Santi, nel 1375, hanno la peggio; gli otto di oggi, stiamo vedendo che fine faranno. Determinante per la sconfitta degli Otto Santi è l’opera di uno solo: Papa Gregorio che lancia contro Firenze la scomunica ed i nemici di tale città ne approfittano per andare contro alla scomunicata. Un altro “solo” (e in prospettiva la figura di Bush) prende posizione, sfida i golpisti e fa tornare nelle caserme soldati e carri armati, è Eltsin. Una però la differenza: nella Lega Fiorentina, aderisce quasi tutto il popolo. Al Golpe, ben pochi. A questo punto il lettore si troverà spaesato da queste “analogie” e vorrà saperne di più.

     È la Lega Fiorentina cui aderirono quasi tutte le città dello Stato pontificio. Il Papa era ad Avignone; i suoi legati, in Italia, commettevano soprusi e razzie. Il popolo, stanco, insorse e costituì la Lega.

     Gregorio allora chiamò i soldati mercenari ed inviò in Italia bretoni e inglesi (quest’ultimi capeggiati da Giovanni Acuto). Essi si dires¬sero verso Firenze e verso il settore adriatico, per dare una “lezione” agli insorti. Questi resistettero e combatterono valorosamente; ma poi, la scomunica fulminata contro essi da Gregorio XI ebbe effetto. Tutti corsero addosso a Firenze; molti ruppero con esso le relazioni diplomatiche per timore di essere a loro volta scomunicati. Firenze rimase isolata. Ma un fatto singolare si inquadra nel contesto di questa Lega. Ascoli avrebbe aderito, ma vi fu immediata repressione del vicario papale Gomez Albomoz, il quale proibiva persino di pronunciare la parola Libertas (Libertà). Ascoli chiese aiuto ai vicini; aiuto disperato, perché contro di essa dalla valle del Tronto venivano le truppe della Regina Giovanna di Napoli in aiuto all’Albomoz.

     Il “grido di dolore” fu raccolto da Fermo, che allestì immediatamente un esercito di diecimila uomini e corse a liberare Ascoli, con cui pochi anni prima (1348) era stata in guerra. Coluccio Salutati, il cancelliere del Comune di Firenze, mandò ai fermani una nobilissima lettera di ringraziamento per aver salvato Ascoli, caposaldo importante per la Lega. “Per vostro merito” dice fra l’altro. Alla fine però la Lega ha la peggio! Muore Gregorio nel 1376 e gli succede Urbano VI; si addiviene ad un trattato di pace. Firenze deve sborsare 250.000 fiorini d’oro. Anche Fermo, anche Ascoli debbono versare la loro quota. La Lega è sconfitta, dati gli effetti della scomunica lanciata da Papa Gregorio in nome dell’Altissimo. Oggi la vittoria sul golpe ha la sua omologazione e direi la sua ratifica di un altro Altissimo il nostro parlamentare, giunto per primo a Mosca… Analogie storiche anche queste…?

Anno 1376 – Gioie e dolori il 22 per Fermo

     Abbiamo visto che il 21 di taluni mesi ha caratterizzato fatti ed eventi importanti per Fermo. Ma, oltre al 21, c’è da tenere in considerazione anche il 22. Fra questi, il più funesto, fu il 22 dicembre 1860, quando fu emanato il decreto n. 4495 con cui il governo di Vittorio Emanuele II privò Fermo della sua antica e gloriosa provincia, Provincia di seconda classe, unendola a quella di Ascoli, Provincia di terza classe, e che addirittura era stata soppressa non molti anni prima.

     Ma risaliamo indietro nei secoli. Il 22 dicembre 1376, Rinaldo da Monteverde si impadronisce di Fermo. Il 22 giugno 1442, il conte Francesco Sforza conduce a Fermo la giovanissima moglie Bianca Maria Visconti. I Fermani l’accolgono con fastoso e festoso corteo. Ma gli Sforza tiranneggiano troppo Fermo. Impadronitisi della rocca sul Gir- falco, da qui effettuavano continue sortite e razzìe e da qui scrivevano editti e loro lettere sfidando il Pontefice. Infatti ogni editto e ogni ordinanza terminavano come detto già con la frase: “Ex Girifalco nostro firmano invito Petro et Paulo” (Dal nostro Girfalco di Fermo a dispetto del Papa).

     Ma i Fermani stufi, un bel giorno assaltarono la rocca e la distrussero; e il 22 febbraio 1446, il Cardinale Domenico Capranica, Vescovo di Fermo, celebrò in Santa Maria in Castello (cioè nella cattedrale) una messa di ringraziamento a cui intervennero una folla numerosissima e le autorità cittadine.

     Il 22 settembre 1355, da Fermo il Cardinale Egidio Albomoz, che il giorno prima, aveva ricevuto la dedizione di Fermo e del contado, convoca tutti i castelli e terre dello Stato di Fermo per giurare fedeltà alla Sede Apostolica. Sono circa 60 i sindaci convocati.

     Il 22 settembre 1355 si ha pure l’assoluzione di Fermo e dei suoi castelli, incorsi nella scomunica per aver parteggiato per Gentile da Mogliano.

     Il 22 settembre 1860 viene inaugurato il nuovo governo provvisorio; il 22 novembre successivo Re Vittorio Emanuele accoglie a Napoli i risultati del plebiscito di Fermo e delle città marchigiane. Il 22 dicembre 1860 Fermo perde, come visto, la provincia.

Il 22 maggio 1863 l’allora principe Umberto, il futuro Umberto I, fu ospite acclamatissimo di Fermo e dal balcone di Villa Vinci parlò alla folla entusiasta che stipava il Girfalco.

Anno 1379 – E Fermo si libera dalla tirannide di Rinaldo

     “In die festo Sancti Bartholomei facta fuit revolutio”. Latino facile anzi facilissimo, che racconta come il giorno di S. Bartolomeo, cioè il 24 agosto 1379, avvenne a Fermo la “rivoluzione”. Consistette nella cacciata del tiranno Rinaldo da Monteverde, che tre anni prima, il 22 dicembre 1376, si era impadronito della città, spalleggiato da bande mer¬cenarie di inglesi e tedeschi e dal suo potente esercito: in tutto circa diecimila uomini. L’anno successivo, il 4 giugno, mise a ferro e fuoco Sant’Elpidio a Mare e, nello stesso anno, combattè contro S. Ginesio. L’otto settembre 1377 di nuovo mise a ferro e fuoco Sant’Elpidio e tra¬fugò la reliquia della Sacra Spina, che da allora si trova nella chiesa di Sant’Agostino a Fermo, molto venerata dai Fermani.

     Rinaldo commise a Fermo molte efferatezze e delitti. Fece decapi¬tare Nicolao e Andreuccio di Andrea Coluccini, Paolo Puctii e Vanne Mattei, rispettabilissimi cittadini. Ma il 24 agosto, Fermo si sollevò contro il tiranno e lo cacciò dalla città. Egli dapprima si rifugiò a Monteverde poi a Montefalcone Appennino. Qui si era asserragliato nella rocca insieme alla moglie Luchina, la Guercia, sua serva, Mercenario e Luchino, figli legittimi, due altri piccoli figli bastardi, Paolino da Massa, Nicola di Maestro Federico e molti altri.

     Dietro pagamento di mille ducati da parte dei Fermani e la promessa di altri cinque per ogni mese, Egidio da Monturano e Bonaccorso Ri- guetii da Potenza Picena, aprirono le porte della rocca di Montefalcone, dando così modo ai Fermani di catturare Rinaldo, moglie, figli e seguaci. Catturati, dopo due giorni furono portati a Fermo in sella ad un asi¬no, volti all’indietro, con una corona di spine in capo. Fatti passare per Porta S. Giuliano, furono condotti in piazza davanti al Palazzo dei Priori. Il popolo di Fermo era tutto in tripudio. Finalmente la tirannide era “sconfitta”. Rinaldo e figli furono decapitati; gli altri seguaci, catturati a Montefalcone, vennero in seguito impiccati. Luchina, per intervento del Conte di Virtù, venne risparmiata. Le teste di Rinaldo e dei figli furono poste su una colonna di pietra. Sotto quella di Rinaldo era scritto: “Tiranno fui pessimo e crudele”. Sotto quella dei figli: “Sol per mal fare di me e di Luchina, cari miei figli pateste disciplina”.

     Oggi in una delle nicchie nel muro esterno della chiesa della Pietà, si ammira una scultura di S. Bartolomeo; ai suoi piedi giace una testa che molti identificano con quella di Rinaldo. Gli Statuti di Fermo (Rub.VI, Lib. 1) stabilirono che ogni anno la festività di S. Bartolomeo doveva essere celebrata con singolare devozione, dato che in tale giorno Fermo era stata liberata dalla rabbia del tiranno.

Anno 1380 – Boffo da Massa e il Palio di Fermo

     Sulla scena della storia nazionale italiana nel 1380 appare Gian Galeazzo Visconti, che mira al dominio della Penisola, dopo aver ottenuto da Venceslao di Boemia, successore dell’imperatore Carlo IV, il Vicariato della Lombardia. Giovanna, Regina di Napoli, riconosce l’antipa¬pa Clemente VII e Papa Urbano VI le fulmina la scomunica, privandola del regno. Questo, giungeva vicino a noi: al Tronto. Ad Arquata del Tronto c’è la Rocca che la tradizione vuole dalla Regina Giovanna.

Ma “zumando” la storia dello Stato di Fermo troviamo che in que¬sto anno 1380 si verificano fatti ed eventi di notevole importanza, con riflessi nella storia nazionale. Nella rocca di Montefalcone Appennino, Rinaldo da Monteverde, tiranno di Fermo

(“… il popolo fermano a’ 22 dicembre si sottomise a Rinaldo”…) è catturato dai Fermani.

     Ma oltre a Rinaldo, abbiamo un altro personaggio: Boffo da Massa, distinto capitano di ventura e componente della Lega costituita dal¬la repubblica di Firenze, contro lo Stato della Chiesa. Amico di Coluccio Salutati, celebre segretario della Lega, era divenuto signore dei va¬ri castelli dello Stato di Fermo. In modo speciale dominava i tre “C”, cioè Carassai, Castignano, Cossignano.

     E a questo proposito, mentre è ancora viva l’eco del palio dell’Assunta, ci piace dare una notizia finora inedita. Boffo da Massa propose alle autorità fermane che per la festa dell’Assunta del 1380 portasse il palio anche il castello di Cossignano. La proposta venne sul momento accantonata (nulla habita mentione si legge nella delibera relativa, cioè non venne trattata).

     È questa una piccola tessera nel grande mosaico del Palio dell’Assunta, che da ricerche in corso sta per rivelare nuovi elementi storici che documentano una datazione più antica ed uno splendore insospettato.

Anno 1384 – I riti pasquali nella Cattedrale di Fermo più grande di quella di Torino

     Undici aprile 1993: Pasqua di Resurrezione! È la settantacinquesima Pasqua che cade in tale giorno dal 62 d.C. ad oggi. Le più recenti sono state quelle del 1971 e del 1982; le prossime, in data 11 aprile, saranno nel 2004, poi nel 2066, 2077, 2088, etc.

     Argomento religioso quindi per il “cronista”, che tenterà di dire qualcosa, sul più importante tempio di Fermo, il Duomo, dove da secoli si celebrano in questo giorno i riti pasquali. Ho detto importante, ma devo dire anche più grande. E non solo è più grande e vasto della città ma è superiore per lunghezza e larghezza, addirittura al Duomo di Torino.

     Pasqua! Nel suo inno “La Resurrezione”, Manzoni ha dei versi stupendi: Via co’ i palii disadorni / lo squallor della viola: / L’oro usato a splender tomi; / sacerdote in bianca stola / esci a i grandi ministeri / tra la luce dei doppieri / il Risorto ad annunziar.

     Forse senza volerlo, senza saperlo, Manzoni parla di tre “componenti”: Viola, Oro, Doppieri. E nel nostro Duomo, la viola (vispa campana risalente al 1384), gli ori del tempio del tesoro, i doppieri, stupendi candelabri più volte rubati al tempo della repubblica Romana e di Napoleone e sempre riscattati dall’arcivescovo Minucci, cantano la Resurrezione! Nell’inno manzoniano però non si nomina l’organo… ma quel-

lo che connotava la gioia ed il tripudio pasquale era proprio l’organo.

Ricordo quel vecchio organista che inondava di note il Duomo. Rapiva i fedeli in un’esultanza senza pari. Le canne dell’organo rispondevano gioiose, quasi avide, al tocco delle sue dita. Si facevano deliziose, dolci, vibranti. Ora divenivano impetuose, ora solenni, poi pacate, fievoli come un soffio di brezza arcana: d’improvviso. Flagellanti come uragani, tempestose come un mare in burrasca, poi solenni, squillanti,

possenti. Su tutto e su tutti, spiccava nitido e maestoso il grido della fede, il peana della vittoria: Resurrexi! Sono risorto!

     E il Duomo, il nostro bel Duomo, esultava. Sembrava prendere parte anch’esso alle nostre capriole sul prato; ai nostri giochi di “scoccetta” consistenti nell’arietare un uovo contro un altro e aggiudicarsi la vittoria se si riusciva a rompere quello dell’avversario.

Il Duomo, il nostro Duomo! Lo vide Urbano II quando venne qui a predicare la crociata.    

     Ivi fu battezzato Galeazzo Maria Sforza, quinto   a duca di Milano. Vi furono “calibri di santità” come S. Domenico, S. Bernardino da Siena, Giacomo della Marca. Da qui mossero le penne verso il pontificato Pio III e Sisto V; lo visitarono Pio V, Pio IX nel 1857           

e il vivente Giovanni Paolo II nel 1988. Lo vide Federico II; Pier delle Vigne; Manfredi; Mercenario; Gentile da Mogliano; Giovanni Visconti d’Oleggio; Garibaldi (1849); Carducci (1875); Cavallotti; i Re d’Italia Umberto I e Umberto II (1925); Carlo e Vittorio Crivelli, etc.

     Mentre le campane del suo campanile suonano a festa (comprese la Viola, la Sbirretta, il Campanone, etc.) ripenso a quei versi di Ada Negri con cui ricorda la Pasqua “… a le finestre batto e dico: aprite! / Cristo è risorto e germinan le vite / nove e ritorna con l’april l’amore. /Amatevi tra voi pei sogni belli / Che fioriscono oggi sulla terra / uomini della penna e della guerra. / Uomini delle vanghe e dei martelli /            Schiudete i cuori e in essi irrompa intera / di questo dì l’eterna giovinezza / io canto e passo che la vita e bellezza / passa e canta con me la primavera!”.          

Anno 1386 – Arquata chiede protezione a Fermo

     Fermo e Arquata, località distanti e dissimili; la prima la più im¬portante città delle Marche (sec. XIV) e la più popolata, seguita nella classifica da Camerino, Ancona, Ascoli; la seconda località di circa mille abitanti, classificata dalFAlbomoz civitas mediocris, alla pari di Osi-mo, Cingoli, Tolentino, Montalto, Force.

     Alternativamente contesa e soggetta a Norcia, ad Ascoli ed al Regno di Napoli, Arquata subì assedi, ritorsioni, depredazioni. Era rocca importante strategicamente; da qui la mira di conquista da parte dei confinanti. Arquata decise allora di rivolgersi a Fermo e di mettersi sotto la sua protezione. Era stufa di subire angherie e soprusi.

     Raduna il Consiglio Comunale, o, come si diceva allora, il Parlamento “ad onore e riverenza dell’Onnipotente Iddio, della sua Madre, la gloriosa Vergine Maria, dei beati Apostoli Pietro e Paolo e di Papa Urbano VI, del collegio dei Cardinali e ad onore e magnificenza della città di Fermo”. È l’anno 1386. Si designa tale ser Cola Cicchi Rainaldi a rappresentare Arquata a “presentarsi a Fermo, ai Magnifici e Potenti Priori ed al Vassillifero della Giustizia, per raccomandare e mettere il Comune di Arquata e suo Distretto sotto l’ombra delle ali e sotto la protezione e difesa di Fermo, ora e sempre“.

Il passo originale è di una suggestiva descrizione. Ricorre il biblico sub umbra alarum tuarum, motivo più tardi ripreso dal Foscolo (sotto le grand’ali del perdono di Dio etc.). Nell’atto stipulato si precisa che il podestà di Arquata sarà un cittadino di Fermo; avrà lo stipendio di “seicento libre di denari”. Il Comune di Arquata “promecte de non ospitare nella sua terra, nissuna gente inimica di Fermo, di portare il Palio nel giorno dell’Assunta, patrona di Fermo e di accogliere gente da cavallo e da pie’ che lo comuno di Fermo volesse mettere per la de fesa de Arquata e per offensione ad altrui”.

     Vi sono poi altre clausole, come quella che Arquata lascerà passare soltanto il sale del monopolio di Fermo; non dichiarerà guerra ad alcuno senza il permesso di Fermo che, a sua volta, si impegna a far sì che “alguna potenza, ciptà terra, conte, barone, nobbele overo seculare possa commettere prepotenze contro Arquata”.

     Vi sono poi altri documenti ad esempio quello da cui risulta che Arquata, per fare pace con Ascoli, dovette chiedere il benestare di Fermo ed un altro del 1607. Da questo risulta che Arquata, in lite con paesi vicini, domanda il “favore” della città di Fermo.

     Arquata durante il regno di Napoleone Bonaparte fece parte del Dipartimento del Trasimeno; caduto Napoleone, appartenne alla Delegazione Apostolica di Spoleto; solo nel 1818 “tornò” nella Regione marchigiana, come Comune della Delegazione Apostolica di Ascoli.

Anno 1386 – Il Palio e gli ottanta castelli

     Palio: taglio di stoffa prezioso che ve niva assegnato al vincitore di gare o competizioni per lo più a cavallo, e in seguito passò ad indicare la competizione stessa.   

     Nel Medio Evo era molto in voga, ma quello di Fermo, documenti alla mano, era ed è uno dei più antichi, se non il più antico. Non mi risulta che qualche altro possa vantare oltre otto secoli, documentati, di esistenza. Ed aveva dimensione “interprovinciale”. Il 15 agosto di ogni anno lo portavano Monterubbiano insieme ai suoi castelli Cuccure e Montotto. Lo portava Ripatransone (1205), che ad un certo momento ne dovette portare in una sola volta ben 22 arretrati. Lo portavano Potenza Picena (allora Monte Santo) e Monte Cosaro, ora entrambe in Provincia di Macerata; lo portava Monte Giorgio che nel ’400 delegò più volte Collicillo, suo castello dipendente. Nel 1386 lo portò addirittura Arquata del Tronto che continuò a portarlo anche negli anni successivi: nel 1387 e 1388 lo consegnò a Fermo Marino Damiani; nel 1387 Bartolomeo Cicchi, su precisa delega del castello di Arquata. Oltre ai castelli di cui sopra, dovevano sfilare per le vie di Fermo nel giorno dell’Assunta i rappresentanti dei castelli dipendenti (in tutto un’ottantina che andavano da S. Benedetto del Tronto ad Acquaviva Picena a quelli del litorale sino a S. Elpidio e quindi verso i monti, come Gualdo, Montefalcone, Sant’Angelo in Pontano e poi giù, Petriolo, etc.

     La sfilata era un tripudio cui partecipavano i magistrati, le contrade, i bifolchi, fomaciari, vasai, mulattieri, osti, macellai, ciabattini, speziali, mercanti, etc. etc. Era tutto uno scintillare di elmi e di corazze, un garrire di gonfaloni ed orifiammi, un incedere ieratico e festoso. Era la Festa dell’Assunta. Fermo ed il suo popolo ne gioivano, fieri della rassegna della loro potenza, della loro religiosità, dei castelli, dei vicari, dei vassalli, dei rappresentanti delle potenze confinanti.

     Abbiamo detto sopra che. oltre agli ottanta castelli, sfilavano, ec è questa la connotazione più importante, i Palii di Monterubbiano, Corridonia, Montegiorgio, Montecosaro, Potenza Picena, Ripatransone e persino di Arquata. Perché non ripristinare almeno per i più vicini tale sfilata nella prossima edizione?

Anno 1389 – Il Tribunale di Fermo e le sue vicende

     “Dal dì che nozze tribunali ed are / dieder alle umane belve esser pietose / di se stesse e d’altrui…” così Foscolo ne “I sepolcri”.

     Oggi, a distanza di due secoli, i mass media, gli ambienti giudizia¬ri, politici ed economici, parlano di soppressioni di tribunali, di ristrutturazioni e vi sono anche oggi “umane belve” che vorrebbero dilaniare istituzioni e realtà, esistenti da secoli.

     Tribunale “organo giudiziario che esercita la giurisdizione in materia civile e penale nei modi e nei casi stabiliti dalla legge”. La società, nel corso dei secoli, si è data norme e leggi per uno svolgersi regolato ed ordinato della vita associata. Vi sono i tribunali civili e penali, i tribunali amministrativi (TAR) regionali, i tribunali militari, il tribunale delle acque, il tribunali dei minorenni, i tribunali ecclesiastici, etc.

     A proposito di questi ultimi, diciamo che sono 18 (diciotto) in tutta Italia e, per l’intera Regione marchigiana, la sede è proprio Fermo.

     Istituito nel 1938 da Papa Pio XI, giudica le cause matrimoniali dell’intera Regione e di alcune località dell’Abruzzo come Colonnella, Martinsicuro, Ancarano, Valle Castellana, S. Egidio alla Vibrata, perché appartengono alle Diocesi di S. Benedetto od a quella di Ascoli.

     Già nel 1500, prima di Cristo, esistevano i tribunali per giudicare chi contravveniva al codice di Hammurabbi. Veniva anche giudicato chi contravveniva ai comandamenti di Dio dati da Mosé sul Monte Sinai. In tutto dieci, e tali sono rimasti, perché non sono state ammesse né commissioni né sotto-commissioni per apportare emendamenti.

     Roma aveva le famose XII Tavole. Poche erano le leggi, e le cose andavano meglio di adesso. Plurimae leges sed mala respublica, latino molto eloquente, la cui traduzione è superflua. Nel Medio Evo era legge tutto ciò che voleva il Principe (quidquid placuit prìncipi legis habet vigorem) ed il Principe stesso giudicava chi contravveniva a tale (o tali) legge (leggi). Poi ogni stato, ogni ducato, cominciò ad avere il suo tribunale perché il Principe non poteva occuparsi di tutto. La città di Fermo, sin dall’alto medioevo, ebbe lo jus o diritto di mero e misto impero, cioè poteva giudicare le cause penali e civili non solo della città, ma del vastissimo suo territorio che andava dall’Esino al Pescara, dagli Appennini al mare. Ovviamente a Fermo risiedeva il tribuna¬le supremo di quella che era la Marca Fermana; tribunali minori erano disseminati nella vasta area che ricalcava l’antico Piceno. Più tardi, nel sec. XIV, ebbe sede a Fermo’ la Curia della Marca, curia che venne confermata da Papa Bonifacio IX (1389-1404) che nominò Signore di Fermo suo fratello.

     Fermo, come detto altrove, era allora la città più importante delle Marche, seguita da Ancona, Urbino, Ascoli, mentre Macerata e Pesaro erano piccole città.

     Le Marche erano parte dello Stato della Chiesa e chi amministrava la giustizia erano i tribunali pontifici. Ma con la venuta di Napoleone, Fermo acquistò maggiore importanza. Divenne capoluogo del Dipartimento del Tronto, circoscrizione amministrativa napoleonica, che abbracciava il territorio della odierna Provincia di Ascoli, più l’allora Provincia di Camerino, più la parte meridionale dell’attuale Provincia di Macerata.

     Fermo era sede del tribunale e della prefettura e da essa dipendevano le vice-prefetture di Ascoli e quella di Camerino. Dopo la caduta di Napoleone, vennero create le Delegazioni Apostoliche di Fermo e quella di Ascoli; ognuna aveva il suo tribunale.

Ma nel 1824 con mota proprio di Leone XII, in data 5 ottobre, venne soppresso il tribunale di Ascoli poiché quella delegazione venne riunita a quella di Fermo. Il 21 dicembre 1827 venne ricostituito tale tribunale. Tuttavia nel triennio 1824/1827 per i reati più gravi il tribunale di Fermo esercitò la sua giurisdizione anche in territorio ascolano.

     Si ha poi nel 1860 l’occupazione delle Marche da parte dell’esercito piemontese e, nel dicembre 1860, venne ingiustamente soppressa la Provincia di Fermo di gran lunga più importante di quella di Ascoli e riunita a questa. Tuttavia il tribunale (la cui giurisdizione in tutto e per tutto ricalca il territorio della soppressa Provincia) rimase.

      Nel 1900 vennero diligentemente riordinati tutti i carteggi del Tribunale Fermano che, dopo l’unita d’Italia, venne sistemato dove si trova attualmente, in corso Cavour, nei locali della già Casa dei Padri Filippini, casa confiscata per le leggi eversive dal Governo Piemontese.

     Ma nel 1923, con Regio Decreto del 24 marzo n. 601, il Tribunale di Fermo venne soppresso ed il suo territorio compreso nella circoscrizione del tribunale di Macerata. Successivamente, lo stesso territorio fu trasferito dalla giurisdizione del tribunale di Macerata a quella del tribunale di Ascoli.

     Le disposizioni governative, però, avevano creato una situazione insostenibile, per cui dovettero costatare con mano, che avevano com¬messo un grave errore. Per cui, con Regio Decreto Legge del 28 settembre 1933, n. 1282, venne ricostituito il Tribunale di Fermo.

     Molte personalità di Fermo e del Fermano si attivarono per tale ricostituzione. Mons. Vincenzo Curi, Arcivescovo di Bari (era nativo di Servigliano) aveva interessato personalmente P allora Capo del Gover¬no Benito Mussolini. L’Arcivescovo Curi aveva poi comunicato all’Avvocato Giacomo Properzi, allora Presidente dell’ordine degli avvocati e procuratori di Fermo, che “la cosa era già sicura”. Il telegramma (che fino a poco tempo fa si conservava in casa dei nipoti del Curi) era “molto lungo e vibrante di esultanza”. Mons. Curi, tuttavia, non potè vedere il decreto reale, perché morì il 28 marzo 1933, esattamente sei mesi prima dell’emanazione del decreto stesso. Anche Mons. Ercole Attuoni, Arcivescovo di Fermo (scomparso nel 1942), si diede molto da fare per il ripristino.

     Attualmente, il Tribunale di Fermo ha una mole di lavoro cospicua. Nella recente relazione dell’Associazione Nazionale dei Magistrati vi è un passo eloquente. Nel mentre si premette che “alcune città sedi di Tribunale, infatti, saranno promosse capoluogo di Provincia (Biella, Rimini, Crotone, Vibo Valentia, Prato, Lecco, Lodi) e quindi appare opportuno che conservino gli uffici oggi esistenti”, per altri si chiede “l’accoppiamento”… “Bisogna rilevare che, al fine di non gra¬vare eccessivamente gli uffici giudiziari del capoluogo di Provincia, si è ritenuto opportuno proporre i seguenti accoppiamenti: 1) Caltagirone a Gela; 2) Lametia Terme a Vibo Valentia; 3) Rossano a Crotone; 4) Sulmona ad Avezzano; 5) Sala Consilina a Vallo di Lucania”.

Quindi (ed è questo il passo che ci interessa) “per alcuni uffici, si è ritenuto, poi, le condizioni socio-economiche della zona richiedano la presenza di tribunali medi: FERMO, BUSTO ARSIZIO, VERBANIA) anche per non gravare eccessivamente i tribunali e preture dei rispettivi capoluoghi di Provincia...”.

     Da tener presente che la relazione di cui sopra, prevede la soppressione di ben 43 (quarantatre) tribunali, tra cui Urbino, Camerino, S. Remo, Vasto, Orvieto, Spoleto, Casale Monferrato, Alba, Rovereto, Melfi, Mondovì, Pinerolo, Saluzzo, Tortona, Lanciano, Voghera.

     Significativo, quell’abbinamento del tribunale di Lametia Terme a Vibo Valentia, recentemente elevata a capoluogo di Provincia!

     Oggi, il Tribunale di Fermo ha giurisdizione sui seguenti Comuni: Altidona, Campofilone, Cossignano, Cupra Marittima, Falerone, Fer¬mo, Francavilla d’Ete, Grottammare, Grottazzolina, Lapedona, Magliano di Tenna, Massa Fermana, Massignano, Monsampietro Morico, Montappone, Montefalcone Appennino, Montefiore dell’Aso, Monte Giberto, Monte Giorgio, Montegranaro, Monteleone di Fermo, Montelparo, Monte Rinaldo, Monterubbiano, Monte S. Pietrangeli, Monte Ura¬no, Monte Vidon Combatte, Monte Vidon Corrado, Montottone, Moresco, Ortezzano, Pedaso, Petritoli, Ponzano di Fermo, Porto S. Giorgio, Porto Sant’Elpidio, Rapagnano, Ripatransone, Santa Vittoria in Matenano, Sant’Elpidio a Mare, Servigliano, Smerillo, Torre S. Patrizio.

     Da notare che Carassai, che si può dire è un passo da Fermo, dipende dal Tribunale di Ascoli, mentre Ripatransone e Cossignano, sebbene più distanti, dipendono dal Tribunale di Fermo.

Anno 1389 – Fermo manda sentinelle a vigilare la Rocca di S. Benedetto del Tronto           

     Non sembra, ma sono passati più di 6 secoli! Fermo, che aveva sotto di sé il Castello di S. Benedetto del Tronto, il 29 settembre 1389 manda dei soldati in quella località, per la vigilanza della rocca e del castello tutto. Tale rocca, con Monte Falcone Appennino, Smerillo, Moresco, Porto S. Giorgio, Gualdo e S. Angelo in Pontano (questi due ultimi ora in Provincia di Macerata) costituiva la difesa turrita dello Stato Fermano.

     Non è facile né semplice poter avere un documento di oltre sei secoli come il nostro, dal momento che S. Benedetto è stata tappa obbligata di passaggi di eserciti, devastazioni, incendi, assedi, etc. Tale atto risulta in un bastardelle del Comune di Fermo, risalente come detto al 1389.

     Gli statuti fermani stabilivano che il castellano e i militi preposti alla vigilanza ed alla difesa, dovevano dimorare nella rocca giorno e notte (die noctuque manere) e potevano addirittura portare con sé la propria famiglia e una scorta di provviste bastanti tre mesi, per far fronte ad eventuali assedi.

     Dove saranno ora i corpi di quei 17 militi mandati da Fermo, quali sentinelle della zona sambenedettese?

     Potevano pensare che dopo sei secoli la prosperità avrebbe conosciuto i loro nomi? Eccoli per la storia; erano: Nicoluccio Nicolai, (Ni)cola Camannucci, Ciccone Gentile, Antonio Nicoluzzi, Massio di Pietro Matteo, Vanne Marini, Bartolomeo Puctii, Giacomo Beneditti, (Ni)cola Carfangi, Vanne Benvenuti, Angeluccio Iacobucci, Angelo Dominici, Cicco Iacobucci, Paluzio Cappella, Nicola Gualtierucci, Mingiuzio Antoni.

     A loro gli onori militari per l’assidua missione di vigilanza contro le incursioni interne ed esterne, specie per quelle provenienti dal mare!

Anno 1396 – Assedio e conquista della rocca di Smerillo

     Smerillo, piccolo ma pugnace paesino del Fermano, posto a 800 metri di altitudine, gemma incastonata nel verde preappenninico! Gli è a fianco Monte Falcone Appennino, col quale ripete l’etimologia degli accipitriformi o meglio dai falchi: falco columbarius per Smerillo; falco peregrinus per Monte Falcone. Importantissimo nel medioevo, Smerillo contava 27 vassalli. Di esso parlano molte pergamene degli Archivi (di Stato e Arcivescovile) di Fermo.

     Fra Smerillo e Monte Falcone, spesso in lotta fra loro, sorge un piccolo convento detto Luogo di Sasso da cui, con Matteo da Bascio (frate marchigiano), nel 1525 partì la scintilla della fondazione dell’Ordine dei Cappuccini che oggi conta 12000 frati, sparsi in tutto il mondo. Fermo, la città di Girfalco (falchi ovunque, oggi!) teneva molto a Smerillo che, con Monte Falcone, erano due rocche imprendibili verso ovest.

Ma “con cùpido sguardo” i Duchi di Camerino, i Varano, agognavano a Smerillo. Verso l’interno, era uno dei più muniti baluardi strategici, ostacolo alla loro espansione. I Varano comprarono i custodi (tali Luzio e Antonio) della rocca; si fecero aprire la fortezza e il ghiotto boccone passò a Camerino.

     Figurarsi lo sdegno di Fermo. Smerillo si era ribellato! Smerillo doveva essere riconquistato, e subito. Mobilitò le truppe della città e del comitato (civitatis et comitatus) e al rullo dei tamburi, bandiere al vento, corse ad assediare il castello ribelle; “die XIII mensis maii… coeperunt castrum Smerlli”, annota lo storico Anton di Nicolò. Era il 13 maggio 1396. Fu un veni, vidi, vici! L’assedio fu subitaneo, massiccio e vittorioso; anche se il cassero resisteva, il paese fu subito ripreso e Smerillo tornò nell’orbita fermana.

     Ora nel piccolo centro, che nel 1944 all’indomani della Liberazione, si costituì in Territorio Libero di Smerillo, tutto è pace. L’aria pura e incontaminata; le acque, limpide e fresche, invitano i turisti. In alto, il cassero imponente e austero ricorda fremiti di guerra; i falchi “dai silenzi dell’effuso azzurro” intrecciano “in tarde ruote digradanti / il nero volo solenne”. Le mura massicce rievocano, dopo quasi sei secoli, quel sabato fatale e fatidico: l’assedio del 13 maggio 1396, posto dalla città del gir-falco al castello che si fregia pure del nome di un “falco”: lo smeriglio!

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