Con il papato e con l’Impero.
Anno 1046 – Clemente II: a Fermo di passaggio
Continuando negli stelloncini (non natalizi) ed aspettando Papa Giovanni Paolo II, sottolineamo oggi che le Marche in genere, ebbero a che fare con Papi, i secondi delle serie relative: Clemente II, Urbano II, Pio II, Giulio II ed ora Giovanni Paolo II. Fermo a sua volta ebbe a che fare con Urbano II, Pio II e Giulio IL
Non era facile né semplice nel 1046 essere Papa. Clemente II, ebbe molto da fare a Roma e nell’Italia meridionale. Passò per le Marche, ma dovette fermarsi a Pesaro a causa una violentissima febbre; qui morì nel monastero di S. Tommaso in Foglia.
Ma nonostante tutto, lo ricordiamo in questi giorni con i nostri auguri, perché proprio la Notte di Natale ricorrono 942 anni dalla sua elezione a Pontefice. Vescovo di Bamberga in Sassonia, anche da Papa mantenne tale vescovado. Incoronò imperatore Enrico III e lo accompagnò a Salerno, Benevento ed in Germania.
Clemente II fu da noi solo di passaggio; vedremo Urbano II che fu a Fermo nel 1195; quest’anno ricorrono novecento anni della sua elezione a Papa (1088-1099).
Clemente sebbene morto in terra marchigiana, fu riportato, secondo suo desiderio, a Bamberga ed ivi sepolto.
Nel 1237 gli venne eretto, in quella Cattedrale, un degno monumento sepolcrale. È l’unico Papa sepolto in Germania.
Anno 1055 – I Normanni e la Marchia Firmana
In questi giorni tra le mostre che ciclicamente vengono allestite a Roma, una spicca per importanza ed interesse: quella sui Normanni. Lo documentano le lunghe code di attesa, composte da amatori curiosi, ma anche da qualificati studiosi. I Normanni, questo popolo del nord, che nel secolo VIII per mare e per terra invase l’Europa spingendosi fino alla Groenlandia, si stanziò anche in Francia, occupando per ben tre volte Parigi e dando il nome a quella Regione che da loro prese il nome di Normandia. Da qui invasero l’lnghilterra, sconfiggendo gli abitanti nella famosa battaglia di Hasting (14 ottobre 1066). Si spinsero poi a sud occupando anche tra il 1043 e il 1098 l’Italia meridionale. Sono noti nella storia i nomi di Tancredi d’Altavilla, di Ruggero, di Roberto il Guiscardo, di Boemondo fondatore del principato di Antiochia. Ma nella storia dei Normanni vi è una “connotazione” fermana o meglio della Marca Fermana. Gli abitanti di questa, combatterono a fianco delle truppe papali, allorché Papa Leone IX dichiarò loro guerra per aver occupato terre su cui la Roma papale avanzava diritti. Tremendo fu lo scontro a Civitate in Puglia (18 giugno 1055) e l’esercito pontificio in cui militavano anconetani, fermani, spoletini, venne sconfitto. Tuttavia si verificò qui quanto affermato da Orazio (Epist. 11,1,56). “Grecia capta ferum victorem coepit et artes intulit agresti Latio” (La Grecia pur vinta vinse il rude vincitore e insegnò le arti all’agreste Lazio).
Infatti, il Papa, pur sconfitto, impose la sua autorità e la sua forza morale, talché i Normanni obbedirono ai suoi desiderata.
Guglielmo di Puglia narra che “il biondo Roberto dall’alta ed im-ponente statura, glorioso per tante battaglie, si inginocchiò davanti al Papa e gli baciò il piede. Gregorio (è Gregorio VII) lo fece alzare e lo invitò a sedere accanto a lui”.
Riecheggiando Orazio, uno storico coevo (come ci narra il Muratori) dice che il Papa, pur vinto dai Normanni, dettò legge ai vincitori e vinse con la religione, coloro che non era riuscito a sottomettere con le armi (A Normannis victus leges dedit victoribus et quos armis superare non potuit, religione fregit).
Latino facile di cui il lettore ci perdonerà, ma che abbiamo dovuto citare, perché più splendido apparisse il parallelo con Orazio.
Vi fu poi un’intesa tra Papa Gregorio VII (il famoso Ildebrando, alleato di Matilde di Canossa) e Roberto il Guiscardo. Gregorio gli conferisce l’investitura di parte dell’Italia meridionale “della terra che ti concessero i miei antecessori di santa memoria, cioè Nicola ed Alessandro, Amalfi e parte della Marca Firmana, per il momento ti tollero, fidando in Dio e nella sua bontà, col patto che tu in seguito debba comportarti verso di me come richiede l’onore di Dio e di S. Pietro”. Si noti quella precisazione di “parte della Marca Fermana”. Ruggero, infatti, col suo esercito l’aveva occupata, tutta cioè dal Musone fino al sud di Vasto. Ma poi aveva restituito al Papa la parte a nord del Tronto, tenendosi per sé quella a sud di tale fiume. Così il nome “Marchia Firmana” , già apparso in precedenza sia nel “Chronicon Farfense”, sia in diplomi imperiali, brilla ora in un atto giuridico tra Papa e imperatore, dopo essere apparso anche nella bolla di scomunica che il Papa, in precedenza, aveva lanciato contro i Normanni “videlicet Marchiam Fir-manam universis abbatibus et episcopis in Marchia Firmana, etc.”.
1080 – Un tributo da versare il giorno di Pasqua
Nella storia d’Italia, spesso la data della Pasqua serviva per ricordare la consegna di doni, di regalie, di omaggi, di tributi e di censi… “Nel giorno della Pasqua di Resurrezione offra alla chiesa, tot. numero di polli, di uova, tanti agnelli” etc.
Prosaicità che adombra lo splendore di vita nuova!
E proprio nel giorno della Pasqua di Resurrezione, un condottiero normanno, Roberto il Guiscardo, sin dall’anno 1080 prometteva ad Ildebrando di Soana, o meglio a Papa Gregorio VII, famoso per la vicenda di Enrico IV a Canossa e per la Contessa Matilde, vindice del papato, di versargli un tributo o censo di dodici denari di moneta di Pavia per ogni paio di buoi.
Tale censo era il corrispettivo per avere il Guiscardo invaso Salerno, Amalfi e la Marca fermana. Infatti, in un primo tempo, Roberto il Guiscardo era contro il Papa; poi passò a difenderlo. Era pendente l’occupazione delle due città e della Marca Fermana a sud del Tronto. In un primo tempo l’aveva occupata quasi tutta, ma poi restituì a Gregorio VII la parte a nord del Tronto, tenendo per sé Amalfi, Salerno e la Marca Fermana sud.
Passato dalla parte del Papa Gregorio VII, Roberto riceve l’investitura di terre pontificie. “Io Gregorio papa, conferisco a Te, duca Roberto, l’investitura della terra che ti concessero i miei predecessori di santa memoria Nicolo’ ed Alessandro (sono i Papi Nicolo’ II (1061) e Alessandro II (1071) – ndr). In quanto all’altra terra che tieni ingiustamente, cioè Salerno, Amalfi e parte della Marca Fermana, per il momento ti tollero, fidando in Dio e nella sua bontà in modo che tu debba in seguito comportare verso di me come richiede l’onore di Dio e di S. Pietro senza pericolo dell’anima tua e della mia….”.
A questa investitura fa eco “Roberto, per grazia di Dio e di S. Pietro Duca della Puglia, Calabria e Sicilia…” promettendo a Gregorio e successori “a nome proprio, degli eredi o successori l’annuo tributo di cui sopra da pagarsi in die Resurrectionis Domini”, nel giorno cioè della Resurrezione del Signore. Roberto fu fedele alla promessa e salvò anche Papa Gregorio dall’assedio posto a Castel Sant’Angelo dallo spegiuro Enrico IV che aveva assolto dalla scomunica. Da quella Pasqua ne sono trascorse ben 912!
Oggi gli abitanti di quella che fu la Marca Fermana dovrebbero elevare un pensiero memore e grato verso Gregorio, figura che giganteggia nella storia, quale vindice dei diritti della Chiesa e della libertà della Marca Fermana.
Anno 1087 – Gioiello poco valorizzato, l’antichissima chiesina di Madonna Manù
“Salve chiesetta del mio canto!”, così Carducci nell’ode “La Chiesa di Polenta”; così chi scrive, con minore autorità, ma con non minore affetto, saluta la chiesina di Madonna Manù. Etimologia ebraica: Manù = cos’è questo?
Affonda le sue origini all’alto Medioevo. Risalente il secolo X, come la chiesa di Polenta; è detta anche Madonna delle Noci, perché fino a poco tempo fa, dopo la Messa, vi si giocava a castelletti di noci.
Qualcuno dei “miei venticinque lettori” si domanderà subito dove sorge tale chiesina. Chi imbocca la strada che dall’Adriatica porta a Lapedona (Camping Mirage) a metà strada, in posizione incantevole preceduta da un duplice filare di cipressi, scorge S. Maria de Manù.
Fu donata da Raimburga, badessa del monastero Leveriano presso il fiume Aso, all’Abbazia di Montecassino. Piccola e sconosciuta la chiesetta; grande e celebre la sua storia. Con la chiesa e il castello di S. Biagio in Barbolano, siti in territorio di Altidona (sopra il Camping Mirage) è nominata nelle porte di bronzo della Basilica di Montecassino, fuse al tempo dell’abate Oderisi (1087-1105).
Recitano nell’originale latino… “Nel Fermano abbiamo il castello di Barbolano con la chiesa di S. Maria e S. Biagio con gli annessi pos-sedimenti”. Le lamine che ne parlano, sono la sesta e la settima del battente di destra, miracolosamente indenni nel tremendo bombardamento alleato che distruse il Cenobio e le altre lamine (1944).
Se altre chiese avessero tale privilegio e una documentazione così splendida e bronzea (Aere perennius) lo griderebbero ai quattro venti. Invece, per la nostra chiesetta, si è fatto ben poco.
Romanica, come le “sorelle maggiori” quali S. Maria a Pié di Chienti, S. Claudio a Corridonia, Ss. Stefano e Vincenzo a Monterubbiano, S. Quirico e Lapedona, etc. è un vero gioiello d’arte.
Abbiamo accennato a Lapedona, nel cui territorio sorge, ma la giurisdizione spirituale di essa, è del pievano di Altidona, a cui passarono i beni dell’Abbazia di Montecassino.
Ogni anno, da secoli, l’8 settembre vi si recano pievano e fedeli di Altidona; vi si celebra la Messa e poi si gioca a castelletti di noci.
Semplice e spoglia nelle linee purissime del romanico classico, è stata restaurata nel 1942 per iniziativa del pievano Petroselli di Altidona e riportata alla primigenia bellezza. Fiancheggiata da “ardui cipressi”, campeggia in un’area agreste e campestre di “profondissima quiete”. Fino al 1926 vi si ammirava uno stupendo polittico attribuito in un primo tempo a Pietro da Montepulciano; ora, dopo approfonditi studi, a Cristoforo Cortese (fine secolo XV). Tale polittico spicca ora nell’altare maggiore della parrocchiale di Altidona, alla cui giurisdizione spirituale, come detto, appartiene.
Se Carducci l’avesse celebrata, come la chiesa di Polenta, sarebbe ora su tutte le Guide ed i Baedeker del mondo. Oggi chi canta a lei, è un povero menestrello: “Vixere ante Agamennona multi, sed illacri mabiles… carent quia vate sacro” e cioè “Vissero molti famosi, prima di Agamennone, ma sono ignorati, perché manca un sacro vate”.
Così canta Orazio! “Salve chiesetta del mio canto!”.
Secolo XI – I doni portati dai castelli
Si ha notizia che sin dal secolo XI i signorotti dei castelli soggetti a Fermo dovevano portare per l’occasione della festività dell’Assunta, le loro offerte ed i loro doni.
Il signore (meglio: gastaldo) di Corridonia, allora Montolmo, doveva portare un maiale e cento meloni; quello di Monturano, un maiale; quello di Civitanova (Marche), sei polli e cento uova; Campofilone doveva tre soldi e mille denari; il Monastero di S. Donato al Tronto, pure tre soldi e mille denari. Tutte le località soggette a Fermo da Poggio S. Giuliano alle porte di Macerata, alle località della foce del Tronto, contribuivano con prosciutti, maiali, polli, soldi, cera, uova, ecc.
Fermo partecipava alla novena di preparazione, con vistose offerte in denaro ed in natura. Cospicue le offerte dei macellai, calzolai, osti, albergatori. Gli agricoltori davano tre bolognini a testa per il cero; i bottai ne offrivano due. Osti ed albergatori, oltre al cero, offrivano una taberna in miniatura ricolma di doni; ogni famiglia dei castelli soggetti doveva dare al proprio “scindico” 12 denari e ciascun “scindico” con tali somme, doveva approntare un cero maestoso che sfilasse con i rappresentanti del castello (unum cerum prò quolibet castro).
A loro volta il Podestà, il capitano e gli altri Officiali, offrivano un cero ciascuno come pure il Gonfaloniere di giustizia, i Priori e le altre autorità cittadine, le famiglie di Fermo, ad eccezione di quelle povere, dovevano offrire un cero alla Cattedrale insieme ai componenti della propria contrada.
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Anno 1149 – Il Palio, espressione della potenza fermana
Il documento più antico delle Cavalcate e del Palio risale al 1182, anno in cui Monterubbiano, Cuccure e Montotto (da non confondere con Montottone) si impegnavano a portare ogni anno a Fermo il Palio, in occasione della Festa dell’Assunta.
Da meticolose ricerche nell’Archivio di Stato di Fermo abbiamo rinvenuto un atto del 1449. In tale anno, Fermo lamenta che Monterubbiano non ha portato il palio, cosa che “ha sempre fatto da trecento anni”. Possiamo quindi dedurre che tale usanza risale al 1149, anticipando così di quasi tre lustri il documento del 1182.
La festa dell’Assunta a Fermo ha radici lontane. Risale al 998 un atto con il quale il Vescovo della sede fermana, Uberto, concede un ap-pezzamento di terra sulla strada per Cossignano, in cambio di 400 soldi annui da pagarsi appunto in occasione della festa dell’Assunta. La festa aveva il suo culmine nella Cavalcata, risalente, come detto, al 1182 o meglio al 1149. Essa partiva dalla chiesa di Santa Lucia, passava per Campoleggio, risaliva il colle e faceva sosta nella attuale Piazza del Popolo tra una folla plaudente, lo squillo delle chiarine, lo scampanìo festoso di tutte le campane della città, il rullo dei tamburi, lo sparo dei cannoni della rocca. Le vie e la piazza pavesate a festa, in una gloria di so¬le e di colori, conferivano alla sfilata una nota di policroma festività. Era la festa in onore dell’Assunta, la Patrona di Fermo, ma anche la rassegna della potenza e della grandezza dello Stato Fermano. Tutti quelli che partecipavano alla sfilata dovevano essere elegantemente vestiti, sfoggiare i più ricchi e sontuosi paludamenti come si conviene in una rassegna alla quale partecipavano le autorità fermane, quelle dei castelli dipendenti, ambasciatori, giudici, il Podestà, il Capitano di giustizia, il Gran Gonfaloniere, i Priori, i Regoli, i Cancellieri, i Notai.
Coll’andare del tempo, si apportarono alcune modifiche: alla offerta del tempo (cera, polli, maiali, uova), come già accennato si sostituì l’offerta in denaro; i cittadini di Porto S. Giorgio (allora Porto di Fermo), vestiti di broccato conducevano con sé le loro donne ornate di gioielli e vestite splendidamente; essi potevano introdurre in Cattedrale la tipica loro barca. I mugnai ed i macellai, facevano portare dai loro val¬letti una guantiera d’argento con una rilevante somma di monete d’oro. Chiudevano il corteo gli “scindici” e vicari dei castelli, in groppa a cavalli riccamente bardati. Alcuni giovani (dopo l’invenzione della armi da fuoco) sparavano colpi a salve durante lo snodarsi del corteo, scandendo così le varie fasi della cerimonia.
La cavalcata ebbe vita gloriosa fino ai primi del ’600 e, dopo un periodo di decadenza, venne riportata al primitivo splendore da Mons. Amedeo Conti. Tale Cavalcata abolita nel 1808 durante il Regno Napoleonico (Fermo in tale epoca era capoluogo del Dipartimento del Tronto da cui dipendevano le vice prefetture di Ascoli e Camerino), tornò in vita dopo il Congresso di Vienna, ma senza il primitivo splendore; condusse poi vita grama fino al 1860, anno in cui cessò.
Tornata a rivivere dopo otto secoli, nel 1982, con la sola edizione del Palio, sta riprendendo il primigenio splendore e l’antica fama.
Anno 1149 – Del Palio si parla già in un documento del XII secolo
Quanti sono i documenti che parlano del Palio?
Nel 1182, nei patti di pace tra Fermo e Monterubbiano, quest’ultimo promette di “portare ogni anno un bel palio ornato di tutto punto per la festa dell’Assunta”. È questo il documento ufficiale inequivocabile. Però, la notte prima della Festività dell’Assunta del 1449, i cittadini di Monterubbiano effettuarono una scorreria contro Petritoli, prendendo due prigionieri e rubando quindici buoi.
Fermo per appianare tali “differenze” (così venivano allora chiamate le liti fra paesi) manda un suo delegato impartendogli alcuni ordini. Fra essi c’era il seguente (ovviamente in latino) che recitava: “…in secondo luogo ti lamenterai degli abitanti di Monterubbiano perché quest’anno non ci hanno inviato il palio di seta, cosa che hanno fatto e fanno da trecento anni. Dagli stessi cittadini di Monterubbiano, abbiamo saputo che nella notte precedente la festa dell’Assunta (cioè 15 agosto n.d.r.) il podestà di Monterubbiano e 15 uomini, entrarono nel castello di Petritoli, rubarono quindici buoi… e prelevarono due uomini accusando uno di essi di una colpa già scontata. Comunque noi, per togliere ogni motivo di astio, eravamo contenti di ricevere il palio, vedere libe¬rati i prigionieri e restituiti i buoi, sperando nella mediazione di Ser Andrea, giudice dei malefici…” etc.
Come si vede, qui si parla di trecento anni… Se presi alla lettera, ti portano al 1149, che sarebbe la prima data ora conosciuta del palio. Se presi in maniera indeterminata cioè circa 300 anni sono un’ulteriore conferma del palio che viene nominato e nel patto di pace del 1182 e nella vicenda della scorreria di Monterubbiano contro Petritoli. Una cosa è certa: si parla del palio già nel secolo XII. Come si vede da un furto (nel nostro caso quello del bestiame) possono scaturire elementi storici di altro interesse ed illuminare anni di “silenzio e tenebre”.
Il Palio quest’anno segue il percorso indicato negli Statuti di Fermo, risalenti al trecento.
Con tutto il rispetto per il Palio di Siena (più famoso e più conosciuto ma non più antico) il nostro vanta più di otto secoli di vita.
Anno 1170 – La casula di S. Tommaso Becket, Fermo e la benedizione di Allah
Un mese fa il Prof. Donald King in occasione della presentazione del volume sul piviale di Nicolò IV avvenuta in Ascoli, quando seppe che eravamo di Fermo, ci disse nel suo impeccabile inglese: “You at Fermo have a reai treasury” (avete un autentico tesoro). Il professore alludeva alla casula di S. Tommaso Becker Arcivescovo di Canterbury martirizzato nel 1171 sotto Enrico IL
Tutti ricordano l’opera di T.S. Eliot “Assassinio nella Cattedrale”. Essa narra proprio l’uccisione di Tommaso Becket. Dopo tale misfatto, i seguaci di Tommaso vennero perseguitati e si dispersero. Tuttavia cercarono di mettere in salvo le suppellettili preziose della Cattedrale e lo fecero attraverso Dublino. Da Dublino la casula finì a Fermo (from there it was taken to thè town of Fermo in Italy) Becket aveva avuto a Bologna come compagno di Università Presbitero, che poi diverrà Vescovo di Fermo. La casula finì nelle sue mani ed egli la donò alla cattedrale, dove da secoli è conservata.
Opera di eccezionale bellezza, è composta da 40 medaglioni ricamati in seta ed oro, ognuno del diametro di cm. 20. Tema ricorrente, tra le raffigurazioni di pavoni d’oro, grifoni, leoni alati etc. sono le aquile di chiaro richiamo alle stoffe di Bagdad. Larga m. 5,41, lunga m. 1,60, fu ricamata ad Almeria nell’anno 1116 dell’era cristiana. Il Prof. David Rice dell’università di Londra, la studiò a lungo ed intensamente e non ha esitato di affermare che è il più antico ricamo arabo che si conosca nel mondo.
Inizialmente di forma rettangolare, costituiva una specie di mantello regale. Sebbene conservata da secoli in Cattedrale sul Girfalco, tuttavia essa costituì quasi una rivelazione allorché fu tolta dall’antica cassa che la conservava ed esposta al pubblico e ciò per suggerimento del Card. Merry del Val nel 1925. Stupenda “nelle bizzarre cadenze del giuoco lineare, nelle contrapposizioni ritmiche, nello sfavillìo delle colorazioni quasi illuminate da riflessi magici”, fu ammiratissima nell’esposizione di Roma del 1937; indi in quella di Parigi del 1951; fu esposta nel 1973 a Londra, per iniziativa del giornale Daily Mail nella Exihibition Ideal Home XIX century. L’attuale Regina d’Inghilterra rimase a lungo in estatica ammirazione davanti ad essa.
Il Prof. Rice, nel 1959 riuscì ad identificare la scritta nel rettangolo al centro. Essa, redatta in caratteri cufici, recita: “In nome di Allah, il misericordioso, il compassionevole. Il regno è di Allah”; segue poi quella che è la benedizione per Fermo o meglio per il possessore (o possessori) di tale casula: “Massima benedizione, perfetta salute e felicità al suo possessore. Nell’anno 510 in Maiyya”.
Saddam Hussein, che propugna la guerra santa, che ne direbbe di questa benedizione e massima benedizione del suo Allah verso noi “infedeli”?
Anno 1175 – Fermo distrutta dall’Arcivescovo Cristiano
Nei pressi di Marengo, resa poi celebre dalla vittoria di Napoleone Bonaparte sugli Austriaci (14 giugno 1800), è accampato l’esercito di Federico Barbarossa. Ha assediato per sei mesi e invano Alessandria, la fiera cittadina simbolo della Lega Lombarda. È il 12 aprile 1175: Sabato Santo. Giosuè Carducci nell’ode Sui campi di Marengo, così descrive la scena: “Stretto è il leon di Svevia entro latini acciari / Ditelo, o fuochi a i monti a i colli a i piani ai mari….”
Nell’esercito imperiale, c’è anche l’arcivescovo di Magonza, Cristiano, che sarà funesta “conoscenza” per Fermo. Ecco come lo descrive Carducci: “E dice il magontino Arcivescovo: Accanto / de la mazza ferrata io porto l’olio santo / C’è n’è per tutti. Oh almeno foste de l’al¬pe ai varchi / miei poveri muletti d’italo argento carchi /”. Carducci parla anche del Conte del Tirolo, che teme di essere ucciso dai lombardi: “… io cervo sorpreso dai villani / cadrò sgozzato in questi, grigi lombardi piani…”. Cristiano, Arcivescovo di Magonza! Non sappiamo quanti muletti carichi “d’italo argento” e d’altre suppellettili abbia spedito oltr’Alpe. Tristemente sappiamo che il 21 settembre dell’anno successivo, dalla zona di Campiglione, dove si era accampato, si dirige su Fermo e la mette a ferro e fuoco. …In millesimo 1176 infesto Beati Mathei de mense septembris civitas firmano fuit invasa occupata ac destructa ab Archiepiscopo Maguntie dicto alias Cancellano Christiano, cioè “nel 1176 nella festa di S. Matteo (21 settembre) la città di Fermo fu invasa, occupata e distrutta dall’Arcivescovo di Magonza, Cancelliere dell’Impero”. Ingenti furono i danni, specie alla cattedrale; ma, quel che è peggio nell’incendio perirono miseramente atti e documenti storici di altissimo valore.
L’anno dopo troviamo Cristiano ad Assisi. Da qui, in data 3 gennaio 1177 emana un privilegio con cui “restituisce e conferma la libertà e il godimento di tutti i diritti a Fermo”. Da Sirolo, nel febbraio successivo (forse la coscienza lo rimordeva!), con analogo privilegio, ma più incisivo e decisivo, minaccia severe pene contro chi volesse attentare alla libertà di Fermo e rinnova ai fermani, ampliandola, l’autonomia amministrativa e politica. Testimoni di questo secondo privilegio sono il Duca di Spoleto Corrado Svevus, Leo de Monumento, Simpliciano, Alberto Coni, Alberto Santo, Viberto, Ruggero ed altre personalità tedesche e latine.
L’assalto a Fermo ebbe ripercussioni ad alto livello. Se ne interessò anche Papa Alessandro III: da Venezia ordina di restituire a Fermo le suppellettili sacre asportate in occasione del saccheggio, pena la scomunica.
Anno 1176 – Barbarossa lo chiamò: Porto S. Giorgio
Porto S. Giorgio, cittadina a specchio “dell’Adriaco mare”, antico navale di Fermo, patria di Pio Panfili pittore ed architetto; di Tommaso Salvadori, conosciuto più all’estero che in Patria; di Francesco Trevisani etc. Sede ideale per passarvi la “luna di miele”, incantò poeti e scrittori. D’Annunzio nel 1893 vi trascorse appunto la luna di miele, seguito, dopo decenni, da Luigi Bartolini, l’autore fra l’altro di “Ladri di biciclette”, che vi celebrò il suo matrimonio nel 1928 con una pimpante friulana. Portus Sancti Georgii lo chiamò Federico Barbarossa.
quello della Lega Lombarda e della battaglia di Legnano. Ma anche in documenti di poco posteriori, figura con il toponimo Portus Sancti Georgii. Lo troviamo, in una delle tante pergamene del ricchissimo archivio storico Comunale di Fermo. Essa recita che “essendo la città di Fermo tornata di recente (nuper) all’obbedienza di Federico II, Roberto di Castiglione, Vicario imperiale del Sacro Romano Impero nelle Marche, decretava l’annullamento dei bandi e delle pene per malefici, offese et similia commesse dai cittadini fermani”. Ma nel documento c’è un passo molto importante e riguarda il porto della città. Come è noto, in quel periodo Fermo era un’importante potenza marinara. Un docente universitario l’aveva definita qualche anno fa la “quinta repubblica marinara d’Italia”. Intenso era il suo commercio e basta scorgere una qualsiasi carta nautica del tempo, od i Comuni portolani, per sincerarsene. Aveva soprattutto un intenso commercio con Venezia, verso cui esportava derrate alimentari, vino ed olio, di cui la città lagunare scarseggiava. Fermo poi con il suo porto aveva una funzione anti- anconetana e favoriva la Repubblica di Venezia. Roberto di Castiglione nel documento in data 7 aprile 1242, stabiliva in virtù dell’autorità imperiale di cui era investito che “tutte le navi ed i natanti da qualsiasi parte provenissero, potevano liberamente attraccare alla riva od al Porto di S. Giorgio e rimanervi all’ancora per il tempo che volessero”. La stessa cosa per i naviganti: essi potevano rimanere nella zona portuale od in città per il tempo di loro gradimento; potevano commerciare liberamente con i forestieri, Fermo mirava a conservare e potenziare il porto e proteggere coloro che vi sbarcavano. È questa una’altra prova dell’antica dizione: Porto S. Giorgio che troviamo indiscriminatamente anche come Porto di Fermo (Portus Firmi). Il toponimo quindi Portus Sancti Georgii (= Porto S. Giorgio) non venne dato da un Papa nel 1857 come scritto da qualche pseudo storico, ma il toponimo affonda le sue radici ai tempi di Barbarossa e del vicario imperiale di suo nipote Federico II, cioè Roberto di Castiglione vicario imperiale di tale imperatore e del Sacro Romano Impero nella Marca d’Ancona.
Anno 1176 – Fermo distrutta e poi… riabilitata
Correva l’anno 1176. Poco prima aveva avuto luogo la battaglia di Legnano con la sconfitta del Barbarossa. Le truppe della Lega Lombarda, il cui “nume” era Papa Alessandro III, avevano vinto. Era il 29 maggio 1176. Una parte però dell’esercito imperiale diretta verso sud e comandata dall’arcivescovo (scomunicato) Cristiano di Magonza, si era accampata al di là del fiume Tenna nei pressi della chiesa di Santa Maria di Giacomo, territorio di Monturano.
Cristiano di Magonza, mandò dei messi a Fermo, allora di parte guelfa. Egli, in qualità di comandante, di arcicancelliere dell’impero e delegato del Barbarossa, esigeva da Fermo tributi e contribuzioni. Era piuttosto inferocito. Tre anni prima aveva posto l’assedio ad Ancona e se ne era dovuto allontanare con le pive nel sacco. Recente era la sconfitta imperiale a Legnano. Le cose non andavano bene né per lui, né per il suo “capo”, il Barbarossa. I Fermani, alle richieste esose di Cristiano, risposero picche e (sembra) malmenarono i messi. Inviperito, Cristiano fa dare fiato alle trombe e dal Tenna con l’esercito, muove contro Fermo. La cinge d’assedio, la espugna e la mette a ferro e fuoco. Era il 21 settembre 1176, giorno della festa di S. Matteo. Anton di Nicolo’, sto¬rico fermano, con icasticità tacitiana annota in un latino facile a comprendersi: “In millesimo centesimo septuagesimo sexto, infesto beati Matthei de mense septembris, civitas firmarla fuit invasa, occupata et destructa ab archiepiscopo… Christiano”.
Brevi parole che rivelano una grande tragedia.
Di tale distruzione parlano vari storici, tra cui il Muratori e l’Ughelli (Italia sacra, vol. II) il quale sottolinea… “e quello che più indigna è che furono distrutti tutti gli atti e documenti della storia di Fermo”.
Fermo piombò nella desolazione più nera. L’anno dopo, Cristiano, forse pentito o perché Papa Alessandro aveva fatto pace col Barbarossa, emanò da Assisi un decreto in data 3 gennaio 1177. In esso “l’arci-cancelliere del Sacro Romano Impero, il Legato in Italia e Luogotenente Generale dell’esercito imperiale ammette di aver recato ingentissimi danni a Fermo” e “restituisce e conferma alla città la libertà, diritti, beni, possessi e privilegi”.
L’altro decreto è datato a Sirolo (cfr. Erzbischof Christian I von Mainz: Berlin, 1867) nel febbraio 1177. Con esso ribadisce quello emanato da Assisi, precisando che “nessuno, compreso lo stesso arcivescovo. osi edificare a Fermo e nel suo castello senza il permesso della città, pena cento libre di multa”. Ma la città non si ricostruisce con decreti e Fermo soffrì molto, prima di riacquistare parte del primitivo splendore, e preziosissimi atti e documenti sparirono per sempre.
Anno 1182 – Il drappo dei Castelli
La corsa del Palio riesumata nel 1982. dopo otto secoli esatti da quello che si reputava il primo documento scritto, ha radici più antiche. L’uso di porre come premio di gare un drappo di stoffa preziosa, chiamato palio, era tradizione in molte città nel Medio Evo. Oggi il Palio più famoso è quello di Siena, sebbene meno antico di quello di Fermo. Infatti esisteva nel 1282, ma la sua organizzazione vera e propria risale al 1656. La corsa del palio di Fermo si svolgeva nelle ore antimeridiane “de mane ante prandium”. Al vincitore si dava come premio un palio o drappo di seta prezioso, al secondo veniva dato un falco o astore. La gara si svolgeva, come nelle edizioni attuali, “in via maris”, cioè da Porta S. Francesco lungo la strada che portava al mare. Gli Statuti commi¬navano pene severe a chi creava intralci nello svolgimento e favoriva questo o quel cavallo. I Cavalli della Via maris entravano anche in Cattedrale “intrabant in ecclesiam S. Mariae in Castello”. Aveva poi luogo il gioco dell’anello. Il cavaliere, correndo, doveva infilare con una lancia un anello fisso o mobile.
Vi era pure la Quintana. Il cavaliere si esercitava contro un bersaglio mobile, costituito da una statua gigante con un braccio teso lateralmente. Se il cavaliere non colpiva velocemente o al segno giusto, il braccio della statua, che nel nostro caso si chiamava (e si chiama) Marguttu, colpiva l’incauto cavaliere. Vi era inoltre la Giostra del toro, per molti versi simile alla odierna Corrida spagnola. La corsa al palio, con l’andare dei secoli, decadde e venne sostituita con la corsa degli asini.
Oggi, dopo otto secoli, la corsa al Palio non si svolge più al mattino (ante prandium) ma nel pomeriggio. Quei patti di pace stipulati nel 1182 tra Fermo e Monterubbiano e la inequivocabile documentazione della dotazione da noi scoperta, che riporta ad anni anteriori la corsa del Palio, permeano di profonda consapevolezza la celebrazione. Brilla, nel fulgore del sole agostano, la formula… “e promettiamo di portare ogni anno a Fermo, in occasione della Festa di Santa Maria di Mezz’Agosto, unum pallium bellum et bonum (un palio splendido e ben lavorato)”; notiamo anche il rammarico di Fermo che, nel 1449, lamenta che Monterubbiano non ha portato in quell’anno il Palio, cosa sempre fatta da trecento anni; il grave disappunto dei cittadini di Fermo per la mancata partecipazione, indica quanto e come la città tenesse a tale palio.
Dei tre castelli (Monterubbiano, Cuccure e Montotto) restano il primo e Montotto sua frazione. Cuccure infatti è scomparso, lasciando il posto all’odierno giardino di S. Rocco a Monterubbiano. Monterubbiano, legata a Fermo da allora, oggi toma con i suoi “militi” sbandierato-ri della Sagra dei Piceni, o “Sciò la pica” a sfilare con Fermo; vi partecipano, inoltre, i componenti del Torneo Cavalleresco di Servigliano, gli sbandieratori di Castel Fiorentino e anche i protagonisti della nota “Contesa del Secchio”. In una festa di sole e colori, Fermo e il Fermano celebrano la corsa del Palio, e la lontana Offida. sempre legata a Fer¬mo (talché si oppose a far parte della Diocesi di Ascoli preferendo Fermo), conserva ancora nella chiesa Collegiata un palio, vinto dall’offidano Giuseppe Desideri nel 1840, grazie ad una sua velocissima cavalla. Offida tuttora va fiera di tale palio, o meglio della Madonna del Palio, che è venerata colà con grande devozione e più volte preservò la cittadina da pericoli gravi: ultima la salvezza del paese durante la guerra 1940/’45.
Oggi le antiche contrade di Fermo sono ridimensionate nella corsa al palio con l’aggiunta di Torre di Palme, Marina Palmense. Capodarco, Molini Girola, Campiglione.
Anno 1211 – Dal Potenza al Tronto lungo la costa la Marca Fermana
Siamo al 6 ottobre 1238. Da appena ventisette anni Fermo gode del privilegio dell’imperatore Ottone IV (1182-1218), privilegio rilasciato in data 1 dicembre 1211 da Sant’Angelo di Subterra (Puglia) in virtù del quale, oltre alla concessione della zecca, la città ottiene la giurisdizione sul litorale adriatico dal fiume Potenza al fiume Tronto (a flumine Potentiae usque in flumen Trunti). Nessuno senza il benestare di Fermo può fabbricare edifici e tanto meno fortezze, per la profondità di un chilometro.
Ovviamente ciò precludeva ad Ascoli uno sbocco al mare, sbocco necessario per commerci e traffici della città e dell’intera vallata del Tronto. Cosa del resto non nuova se consideriamo la situazione nell’ex-Jugoslavia, dove infuriano guerre fratricide e dove la sola remora ad un trattato di pace è la negata concessione di uno sbocco al mare per i mussulmani. Ma allora, Ascoli non reclamava il diritto al mare; ed infatti, nella seduta del consiglio comunale generale, radunato in solenne tornata, Magliapane di Reggio, giudice ed ambasciatore di Fermo, delegato dal podestà Ugo Roberti, chiede di poter parlare ai consiglieri ascolani. Egli, presa la parola, ammonisce loro e l’intero consiglio di non compiere azioni di qualsiasi genere che potessero essere di danno o pregiudizio alla città, nel tratto fra il Tronto ed il Potenza e ciò perché esso rientra nella giurisdizione fermana. Anzi, precisa Magliapane, il diritto e la giurisdizione di Fermo si estende anche a sud del Tronto (et etiam ultra Truntum, dice testualmente) perché appartenente alla Diocesi ed al comitato fermano. Ed a tal proposito, chiede al consiglio comunale di Ascoli di esporre il suo punto di vista, mediante una risposta pubblica. “Detto consiglio (traduciamo letteralmente) dopo lungo dibattito e matura deliberazione, fece rispondere per bocca di Giacomo Diotisalvi consigliere di Ascoli al rappresentante di Fermo, che non fu mai loro volontà, proposito od ordinamento di fare alcunché contro i diritti di Fermo”. Non vi furono atteggiamenti o prese di posizione da parte di Ascoli contro tale risposta. L’ambasciatore di Fermo allora ringraziò, ribadì che la giurisdizione di Fermo si estendeva anche a sud del Tronto e due notai, uno di nome Altidona e l’altro Gerolamo Pitio, redassero l’atto relativo “consacrando” il fatto alla storia. Sono passati anni e secoli, ma ancor oggi alcune località del Teramano, site a sud del Tronto come Martinsicuro, Colonnella, Sant’Egidio alla Vibrata appartengono alla Diocesi di S. Benedetto-Ripatransone-Montalto, territorio in gran parte della Diocesi di Fermo, alla quale fu sottratto nel 1571 e successivamente nel 1586, per l’erezione della Diocesi di Ripatransone e poi di Montalto ora riunite e costituenti un tutt’uno con sede vescovile a S. Benedetto del Tronto.
Anno 1221 – Il mal di denti e Pellegrino da Falerone
Medicina e religione si intrecciano in questa prima quindicina di febbraio, forse per esorcizzare gli attuali malanni. C’è la Candelora il 2 febbraio, suggestiva ricorrenza con le candele benedette contro le disgrazie; c’è la festa di S. Biagio, il 3 febbraio, protettore contro le malattie della gola e il 9, S. Apollonia, popolare santa egiziana, protettrice contro il mal di denti. A tale santa, infatti, martirizzata nel 249 d.C., furono spezzati ed estirpati i denti, in odio alla fede cattolica. Il dente? Guai al suo dolore! È un vocabolo significativo di cui è ricco il lessico di ogni lingua: “spuntare i denti”; “battere i denti per il freddo“: “digrignare i denti”; “a denti stretti”; “il dente del giudizio” (a molti dei nostri governanti, manca!).
Reminiscenze scolastiche ci riportano all’episodio del Conte Ugolino (“riprese il teschio misero coi denti...”; al lupo di Gubbio “dai denti aguzzi”; ma detto lupo richiama S. Francesco il quale, fra l’altro, ebbe a che fare con due marchigiani: Pellegrino da Falerone (poi beato) e Riczerio da Muccia.
Narrano i Fioretti (cap. 27) che Pellegrino e Riczerio, allora studenti all’Università di Bologna, dopo una predica di S. Francesco “toccati nel cuore da divina ispirazione, vennero a Santo Francesco dicendo che al tutto volevano abbandonare il mondo ed essere dei suoi frati…”.
S. Francesco li ricevette dicendo loro: “Tu, Pellegrino, tieni nell’ordine l’umiltà e Tu, Riczerio, servi ai frati”… poi, dopo alcune righe, i Fioretti aggiungono: “E finalmente il detto frate Pellegino, pieno di virtù, passò di questa vita a vita beata, con molti miracoli innanzi alla morte e dopo”.
Fra i molti miracoli sono rimaste famose le guarigioni dal mal di denti, verificatesi al contatto con un dente del beato Pellegrino, immesso nella cavità orale, legato ad un’assicella d’argento, in modo da poter toccare i denti cariati o malati.
Folle di fedeli pellegrinavano alla sua tomba per ottenere guarigioni; molti erano gli ex-voto, per lo più in argento, che adornavano le pareti della cappella dove riposa. Numerosi volumi parlano di tali taumaturgiche guarigioni. Sono: Pietro da Tossignano nel 1586; Orazio Civalli 1594; la Historia di Valerio Cancellotti 1630.
H. Keber, nell’opera I Patronati dei Santi, elenca ben 21 protettori contro il mal di denti. Fra questi, oltre a S. Apollonia, ora relegata dalla riforma liturgica “ai soli calendari particolari” eccelle, e non in serie B, il nostro Pellegrino da Falerone che, sebbene morto nel 1233, è vivo nel cuore e nel culto di quanti soffrono del mal di denti. Non so però se, su quanto sopra, sono d’accordo gli odierni dentisti, i quali potrebbero vedere (o intravedere) nel beato Pellegrino un temibile concorrente.
Anno 1229 – Quanti privilegi per Montegiorgio
Mentre la mostra su Federico II e le Marche si è spostata verso Ascoli, per poi approdare a Roma in modo che i Marchigiani colà residenti possano conoscere meglio il grande imperatore svevo, noi continuiamo a parlare di lui. Federico II, date le molteplici mansioni della sua carica, non poteva disporre di tempo ed impegni per tutti i problemi del suo vasto impero, perciò spesso delegava i suoi fidi rappresentanti, approvando in pieno il loro operato e sanzionando, con la sua imperiale autorità, le loro decisioni. In tale contesto, c’è un privilegio, in virtù del quale, esonerava l’allora castello di Monte Santa Maria in Georgio (attuale Montegiorgio) da taluni obblighi ed adempimenti verso la città di Fermo. Ciò in considerazione della fedeltà a Federico, a suo padre ed a suo nonno, cioè al Barbarossa, dei cittadini di Montegiorgio!
Ma veniamo alla lettura del documento. “Rinaldo per grazia di Dio e dell’imperatore, duca di Spoleto, legato imperiale per la Marca di Ancona su preciso mandato di Federico II concede agli abitanti di Montegiorgio l’esenzione d’ora in avanti di tutti i pesi, servi ed obblighi e doveri verso Fermo”.
Tale concessione ha validità perpetua. Rinaldo, non solo concede l’esenzione di quanto sopra, ma decide che gli abitanti del castello di Collidilo (ora scomparso), di Magliano di Tenna con territorio e pertinenza (Ripa Cerreto, Atleta, Rapagnano, Monteverde e Monsampietro Morico) siano considerati abitanti di Montegiorgio.
Rinaldo riduce anche i canoni di affitto e dispone che essi non superino le 30 libbre annuali. Stabilisce inoltre che tutti i cittadini di Montegiorgio possano avere il libero e pacifico possesso dei loro beni, in qualsiasi parte si trovino e che le autorità del castello montegiorgese abbiano la facoltà di richiamare all’osservanza della legge i facinorosi. Ri¬naldo dà per scontato (ed effettivamente lo è) che quanto da lui concesso, automaticamente viene approvato dall’imperatore Federico II. Ma nel privilegio c’è un dato molto importante: tra le esenzioni dei doveri verso la città di Fermo c’è anche quello del servizio militare nell’esercito fermano, della partecipazione al “Parlamento” e quella di portare il Palio il giorno dell’Assunta.
Questa concessione è per noi molto importante, perché documenta ancora una volta che nel 1229 quando non era trascorso mezzo secolo dall’Istituzione, l’offerta del Palio da parte di Castelli dello Stato Fermano nel giorno dell’Assunta era già diffusa e consolidata. E il nostro Palio più antico, anche se meno conosciuto di quello di Siena, di Ferrara ed altri, trova qui la documentazione incontrovertibile della su» esistenza e della sua vasta diffusione.
Anno 1240 – La Vallata del Tronto e Federico II
Mentre in tutta Italia fervono i preparativi per celebrare l’ottavo centenario della nascita di Federico II che vide la luce nelle Marche a Jesi il 26 dicembre 1194, sarà bene ricordare una vicenda che riguarda proprio Federico II, il quale fu nella Vallata del Tronto.
Ce lo narra egli stesso, in una lettera ai cittadini di Cremona, do-cumento che gli storici pongono cronologicamente dopo quello emanato in castris cioè negli accampamenti davanti alla città di Fermo ante civitatem firmanam a favore di Napoleone Monaldeschi. Federico col suo esercito dopo aver devastato e saccheggiato Ascoli (depopulatio precisa il documento) proseguì per Monte Cretaccio, attuale territorio di S. Benedetto del Tronto.
Qui si fermò per alcuni giorni, dopo di che, si recò con Curia ed esercito a Fermo. Da qui rilascia un privilegio di conferma a favore di Napoleone Monaldeschi e da qui sembra aver scritto la lettera ai suoi sudditi di Cremona lettera che riguarda la Vallata del Tronto. Tale lettera, il cui originale si conserva in Francia, recita testualmente: “È tanto l’amore e la preoccupazione che ci induce a pacificare l’Italia ed è tanta la sollecitudine che ci accompagna e previene le nostre preoccupazioni verso i nostri fedeli per levarli dalla persecuzione dei nemici, che nessun piacere del nostro Regno potrà frenare. Dopo aver disbrigato i grandi impegni nel Regno, con costanza ed ansietà… affrettandoci all’uscita del Regno e lasciate da parte le inattività contrarie alla nostra intraprendenza, siamo incappati nei calori estivi e nella polvere degli accampamenti, non risparmiando pericoli alla nostra persona ed ai fedeli, affinché tra i confini paludosi, circondati da una cerchia di monti, si potessero compiere stragi dei nemici e devastazioni”.
Accadde dunque che tra le occupazioni ed il disbrigo di atti dello Stato, da cui non ci potemmo esimere, la nostra persona, a causa della debolezza fisica e della aria malsana, incorse in una disfunzione umorale (discrasia). Incurvisse discrasiam recita l’originale che poi prosegue nella nostra traduzione: “Noi con la forza d’animo l’abbiamo completamente superata, talché restando negli accampamenti con dignità imperiale, passato il giorno critico non v’era altro impedimento che impedisse il glorioso proseguimento e la felice vittoria imperiale”. E questa affermazione, a nostro avviso, confermerebbe la cronologia degli storici, dopo la sosta a Fermo. Infatti è documentato che, partito da Fermo, Federico si diresse in Romagna e, nel tragitto, compì devastazioni ed efferatezze da far rabbrividire. Ma torniamo al testo della lettera che prosegue: “pertanto con l’aiuto del Signore, il quale da’ la salute ai Re ed ai principi, rimessici in salute come prima, anzi resi più forti, noncuranti dei calori estivi, continuiamo il viaggio dopo aver chiamato a raccolta le nostre forze e le nostre energie, procedendo verso la Romagna pronti a calpestare con la nostra potenza i ribelli, dovunque ci venissero incontro. È affinché singolarmente e collettivamente voi tutti possiate essere maggiormente confortati, tanto per la recuperata salute, quanto per i successi conseguiti, vogliamo comunicarvi ciò’, per allontanare da voi ogni dubbio e perché con l’aiuto del Re dei Re che si comporta con misericordia verso il suo principe, seguirà la desiderata salvezza e la vittoria sui nemici”.
L’atto, come si evince dalla lettura, riguarda la Vallata del Tronto, indicata come terra di confine del regno di Napoli ed i domini papali, ma l’emanazione di esso è posteriore all’assedio di Ascoli ed alla sosta di Federico a Monte Cretaccio, attuale territorio di S. Benedetto del Tronto. Ci induce a pensarlo un fatto curioso.
L’abate di Montecassino, che si trovava come testimone nell’atto emanato da Federico a Monte Cretaccio, col quale prese nella protezione imperiale, la città di Alessandria, non è più presente quale testimonio nella lettera ai Cremonesi. Facilmente era affetto della stessa malattia di Federico. “Stefano, abate di Monte Cassino – ci narra Riccardo da S. Germano – con il permesso di Federico, dato che era malato, si portò alla sua chiesa di S. Liberatore e vi rimase fino a che guarì”.
Oltre all’abate di Monte Cassino è chiara la frase di Federico: egli afferma che dopo aver ricuperato le forze, muove verso la Romagna (in Romandiolam procedentes). Ciò premesso, la notizia della discrasia, cioè della alterazione dell’equilibrio tra i componenti del sangue ed i liquidi organici, getta una nuova luce sulla storiografia di Federico II non solo, ma anche sulla località di compilazione dell’atto che, a nostro avviso, e per le chiare parole di Federico: “ci dirigiamo verso la Romagna” e per l’assenza per malattia dell’abate di Montecassino, fu quasi sicuramente scritto ante civitatem firmanam, cioè davanti alla città di Fermo.
Anno 1240 – II privilegio concesso da Federico II imperatore
Siamo agli sgoccioli delle ferie, ma è ancora tempo di vacanze e parlare di scuola e di personaggi “conosciuti” ed “incontrati” fra i banchi potrebbe sembrare anacronistico. Tuttavia, non possiamo passare sotto silenzio Federico II imperatore, (nipote del Barbarossa) che 750 anni or sono, di questi giorni, era accampato a Fermo, e non proprio in ferie!
Proveniente dall’assedio di Ascoli, dopo una lunga sosta a Monte Cretaccio, attuale territorio di S. Benedetto del Tronto (dove aveva accolto sotto la sua protezione imperiale la città di Alessandria che aveva dato tanto filo da torcere a suo nonno, Federico Barbarossa), si era accampato a Fermo, in attesa di proseguimento verso la Romagna, pieno di “furor bellico”. Era accompagnato dal suo esercito e dalla Curia imperiale, nella quale spiccava Pier delle Vigne, non ancora “eternato” da Dante nella Commedia. Vi erano anche Taddeo da Suessa, giudice della Gran Curia, l’Arcivescovo di Palermo, Bernardo, il figlio del Re di Castiglia ecc.
Era la fine di agosto 1240 e Federico II, a Fermo, emanò una bolla a favore di Napoleone Monaldeschi, cittadino fermano, confermandogli privilegio concessogli in precedenza; ora glielo conferma in veste di im-peratore (imperiali munificientia duximus confirmanda).
Se pensiamo che la conferma al Monaldeschi venne fatta in un periodo di preparazione bellica da parte di Federico e del suo esercito, la cosa appare di alta importanza e di alta considerazione per Fermo ed il suo cittadino. L’imperatore tiene molto a questa conferma e nel privilegio ordina:… “nessuno, sia esso delegato, duca, conte, marchese, podestà, rettore, console, nessuna altra autorità, alta o piccola, osi contraddire a tale nostro decreto”. E come se ciò non bastasse, incalza: “nessuna personalità civile o religiosa osi opporsi a quanto abbiamo stabilito” chi lo facesse “sarà multato con 60 libbre di oro e sappia di essere incorso nell’indignazione imperiale”. Il sigillo imperiale (maiestatis nostri sigillo) chiude la bolla, dando maggiore autorevolezza al documento.
Tutto ciò avveniva nel 1240, fine agosto (i diplomi imperiali non mettono quasi mai il giorno) “regnando Federico imperatore per grazia di Dio Re di Gerusalemme e di Sicilia, quindicesimo del regno di Gerusalemme, alla presenza di molti testimoni, “tra cui il nominato Pier delle Vigne” negli accampamenti davanti alla città di Fermo (in castris ante civitatem firmanam). Felicemente, così sia”.
Federico, dopo la conferma, si trattenne ancora un po’ di tempo a Fermo e quindi si diresse alla volta della Romagna. Nel tragitto, “commise tali e tante devastazioni ed efferatezze, che al paragone impallidivano le atrocità perpetrate dai barbari nella loro calata in Italia”. Così Flavio Biondo (1392-1463) insigne umanista e storico di Forlì, nella sua poderosa Historia ab inclinatione Romanorum (Storia della caduta dell’impero romano). Come si vede, la sosta a Fermo durata fino ai primi di settembre di quel lontano 1240 costituì una pausa di pace, prima che il “foco ed il furor d’Odino” s’avventassero, distruttori, su “Romagna solatìa”.
Anno 1240 – Federico II e Sant’Elpidio – In due diplomi l’imperatore
concesse privilegi alla città
Guardandoli sullo scenario della storia medievale italiana ed europea, molti imperatori ci sembrano quasi “divinizzati”, lontani dalla nostra vita, dalle nostre località, tanto più che molti di loro sono stati già immortalati.
Ma Federico II (è di lui che vogliamo parlare) ebbe a che fare con le Marche meridionali, cosa questa non posta in adeguato rilievo dagli storiografi passati ed attuali.
Sappiamo che egli ebbe a che vedersela con Papi, tra cui Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, buscandosi diverse scomuniche, arrivando a far assalire in mare i Cardinali che si recavano al Concilio a Roma-
Ci è noto anche che ebbe a che fare con i Comuni della seconda Lega Lombarda; risulta che si sposò due volte e che le due mogli sono entrambe sepolte nella Cattedrale di Andria.
Lo conosciamo come fondatore della Scuola Siciliana, autore di un manuale sulla caccia degli uccelli, fondatore della città de L’Aquila, dell’Università di Napoli, padre di Manfredi ed “accecatore” di Pier delle Vigne.
Ma pochi, come detto, mettono in risalto i suoi legami con il Piceno (peraltro Federico II era nato nelle Marche, a Jesi, la notte tra Natale e santo Stefano del 1194).
L’imperatore ebbe a che fare con Ascoli che assediò nel luglio del 1240 (non 1242 come tanti storici affermano); fu in territorio di S. Benedetto del Tronto, cioè a Monte Cretaccio, dove ricevette sotto la sua protezione la città piemontese di Alessandria, fiera nemica dei suoi avi, e fu anche a Fermo fra l’agosto e il settembre 1240.
Ma Federico II, lo stupor mundi si interessò anche di Sant’Elpidio a Mare. Prese infatti sotto l’imperiale protezione l’abazia di Santa Croce al Chienti (suscipit clementer in suam imperialem protectionem monasterium S. Crucis in Clente) e l’abate di quel tempo di nome Corrado (et fratrem Corradum abbatem).
A tale abazia donò molti beni tra cui la silva plana, ampi terreni all’epoca incolti, al di qua e al di là del Chienti, concedendo ai frati di utilizzare a loro piacimento l’acqua di tale fiume. Questo avvenne il 12 dicembre del 1219, e la bolla fu emessa da Capua, luogo natale del fido segretario Pier delle Vigne.
Federico II emanò un altro documento sempre relativo a Sant’Elpi- dio a Mare, stavolta da Venosa, nell’ottobre del 1250. Ne diamo la nostra traduzione dal latino: “Federico per grazia di Dio Imperatore sempre augusto, Re della Sicilia e di Gerusalemme. Attraverso questo privilegio rendiamo noto a tutti i nostri fedeli sudditi, presenti e futuri che il Comune del nostro fedele castello di Sant’Elpidio aveva rivolto istanza alla Nostra Maestà, per la conferma di alcuni patti e convenzioni che, a suo tempo, gli aveva fatto il nostro Vicario Generale nella Marca di Ancona Gualtiero di Palearia conte di Manoppello. Tali patti, scritti dal predetto conte Gualtiero portano la sua firma ed il suo sigillo. Noi, in considerazione della grande fedeltà e sincera devozione che nutre verso di Noi il Comune di Sant’Elpidio, e poiché sia detto Comune che i singoli suoi cittadini hanno finora reso graditi servizi sia a Noi sia all’Impero, ed altrettanto potranno fare in futuro, li confermiamo graziosamente (de nostra gratia confirmamus)”.
Dopo alcune forme giuridiche proprie dei privilegi imperiali, continua: “Noi conserveremo e difenderemo il castello di Sant’Elpidio con i suoi beni, i possessi e le tenute che ha, nelle persone e nelle cose sia dentro che fuori le mura, come accadde ai tempi dei nostri predecessori. Noi difenderemo sia i laici che i chierici di tale castello e distretto, e ciò finché rimarranno a noi fedeli”.
Federico effettua altre concessioni tutte relative al bene, alla prosperità ed alla crescita del castello di Sant’Elpidio. Infine chiude minacciando pene severe a chi osasse opporsi a tali concessioni: “di nostra autorità disponiamo che nessuno osi impedire quanto da noi deciso. Chi lo facesse, sappia che incorrerà nel nostro sdegno (quod qui presumpserit indignationem nostram se noverit incursurum)”.
Per dare maggior prestigio ed autorevolezza al privilegio, lo fa redigere dal notaio Rodolfo di Podio Bonici e munire del sigillo imperiale: Ad huius autem rei memoriam et stabilem firmitatem preaesens privilegium per Rodulphum de Padioboniei notarium et fidelem nostrum scribi et maiestatis nostre sigillo iussimus communiri.
Federico II (l’imperatore che Dante colloca nel cerchio degli eretici), morirà poco tempo dopo, il 13 dicembre 1250, colto da febbri intestinali. Riposa nella Cattedrale di Palermo.
Anno 1242 – Epilogo di una Lega più di 7 secoli fa
Aria di elezioni, clima di battaglie elettorali, di schieramenti, di leghe. Quest’ultime, spuntano un po’ dappertutto dopo l’esempio della Lega Lombarda, che si ispira alle Leghe dei Comuni Lombardi, che diedero filo da torcere a Federico Barbarossa; lega che aveva per capo carismatico Papa Alessandro III. I Comuni lombardi fondarono allora quella città che doveva resistere a Barbarossa e per ben sei mesi, città che in onore del Papa venne chiamata Alessandria.
Federico Barbarossa per derisione la chiamava “Alessandria dai tetti di paglia”, ma essa resistette al suo assedio del 1175 e il Barbarossa ritornò a casa con le pive nel sacco. Ma oggi non parliamo tanto di Federico I, quanto del suo nipote Federico II, il quale ebbe a che fare con le Marche, prima perché vi era nato (Jesi 26 dicembre 1194), poi perché vi aveva combattuto assediando Ascoli nel luglio 1240 (non nel 1242 come asserisce qualche storico); quindi, prendendo Fermo ed altre città.
Ma c’è un fatto importante che gli scrittori di storia nazionale non pongono nel dovuto risalto. Proprio nel territorio dell’antico Stato di Fermo e precisamente a Monte Cretaccio, Federico II dopo decenni, riceve la sottomissione della fiera città di Alessandria, la roccaforte della lega che ora, a seguito di varie vicende storiche (fra l’altro non voleva sottostare al Monferrato ed era in preda alle lotte tra Guelfi e Ghibellini) chiedeva protezione al nipote del feroce Barbarossa.
Federico II, lo stupor mundi, attorniato dalla sua corte imperiale dopo l’assedio di Ascoli, aveva posto gli accampamenti a Monte Cretaccio. Siamo nel mese di luglio 1240. Sono con lui Pier Delle Vigne, Taddeo da Sessa, l’arcivescovo di Palermo, i Vescovi di Torino e quelli della Marsica, l’abate di Montecassino e molti altri.
“Noi, Federico per grazia di Dio, imperatore dei Romani, Re di Sicilia e di Gerusalemme – così recita l’atto – rendiamo noto a tutto l’Impero, che la città di Alessandria ha abbandonato la società degli infedeli (i fautori del Papa) ed è passata alla parte imperiale, chiedendo la nostra protezione. Noi guardiamo con occhio benevolo a tal decisione… e la riceviamo nella nostra grazia e nel nostro onore, perdonando le offese passate” … “A conferma di questa protezione e di questo atto – prosegue il documento – ordiniamo di redigere questo privilegio, munendolo della bolla d’oro… Dato negli accampamenti di Monte Cretaccio, dopo la devastazione di Ascoli, luglio 1240”.
Tale documento (che la città di Alessandria conosceva da una copia, redatta in francese, del 1839 ma ignorava il testo originale) è stato da noi rinvenuto in Francia, precisamente a Marsiglia, e fa conoscere come in territorio dell’antico Stato di Fermo ebbe luogo l’emanazione di un atto di grande valore storico, che vedeva l’indomita Alessandria passare all’obbedienza imperiale dopo 65 anni dal fiero assedio postole da Barbarossa.
Anno 1242 – Il panno di Federico:un documento rivela lo stretto legame con i Fermani
È l’anno di Federico IL è la ricorrenza otto volte secolare della sua nascita. Jesi sta vivendo momenti di notorietà e, con essa le Marche, sede operativa di impresa, fatti ed eventi dello stupor mundi.
Ma Jesi può andare orgogliosa del fatto che vi è nato Federico; non può documentare altro. Chi può dire e dare tessere di storia per il mosaico ancora incompiuto della vita di Federico, senza jattanze campanilistiche, è Fermo che ebbe relazioni non trascurabili con Federico, sia nel bene sia nel male. In ogni caso questa città è uno dei “settori” principali della vita e delle opere di Federico.
Ciò nonostante, si vuole ad ogni costo misconoscere l’importanza, poi posponendola ad altre località scelte non quali referenti culturali, ma solo perché centri amministrativi e burocratici.
Per una nostra ricerca, stiamo consultando anche archivi esteri a relative pubblicazioni. Nell’anno 1242 e dintorni, Federico scrive a Fermo (dove era stato due anni prima insieme a Pier della Vigne e Curia), ringraziandola per alcuni doni che i Fermani gli avevano inviato con apposita delegazione (nuncii legationis dice il testo!)-
Egli vi aveva graditi immensamente, così afferma la lettera di ringraziamento, che arieggia passi latini nel Vangelo dove si narra dei re Magi che porto nei doni al Bambino Gesù (apertis thesaurus suis obtulerunt Ei aurum, thus et myrram…).
Federico sottolinea che le ha graditi perché non richiesti, ma dati spontaneamente quale pegno di sincero affetto da parte dei suddetti Fermani . “I doni placano gli uomini e gli dei” affermava l’antica saggezza ed i Fermani a quanto pare, ne erano consapevoli.
Ma Federico si limita semplice grazie. Egli vuole ringraziare concretamente e li invia a mezzo degli stessi membri della delegazione che gli avevano portato i doni, un panno con componenti d’oro “per ornare l’altare maggiore della vostra chiesa madre”. Così recita il documento. Federico faccio volentieri e con gioia (hylariter) invitando i Fermani a proseguire nella fedeltà e solerzia verso l’Impero, in modo (prosegue la lettera) “che possiate sempre bene meritare della nostra maestà imperiale”. Il documento è di difficile lettura e vi sono parti illeggibili come al passo che Federico manda il panno ad honorem beati… Ciò potrebbe indurre a pensare beati (ssimae Virginis).
Sarebbe molto suggestivo pensare ad uno dei tanti palii dell’Assunta. Il documento lascia adito anche a ciò, ma deve essere approfondito.
Anno 1245 – La Marca Fermana nominata nel Concilio di Lione: 1245
Censura, interdetto, anatema, scomunica… vocaboli terribili che denotano pene ecclesiastiche verso chi si è macchiato di colpe. Già al tempo dei Greci si aveva qualcosa di simile, quando si praticava l’ostracismo, ossia l’esilio di dieci anni agli Ateniesi che, per la loro popolarità, destavano sospetti politici. Nel periodo romano, quando le supreme cariche politiche e religiose erano incentrate nell’imperatore che era anche pontefice massimo, si puniva il cittadino colpevole con l’interdizione dell’acqua (lustrale) e del fuoco (sacro del focolare): interdicere aqua et igni, ossia lo si bandiva dalla società civile e religiosa.
Alla caduta dell’Impero Romano e con raffermarsi del Cristianesimo, i vari Concili codificarono vari tipi di pene da irrogare, a seconda della gravità dei reati e così si ebbe l’ammonizione, la censura, che è biasimo e severa critica dell’operato di qualcuno, la sospensione (ricordiamo quella a divinis), l’interdetto con cui in un dato luogo si privano i fedeli dell’uso di alcuni Sacramenti o del godimento di determinati diritti spirituali. Gli poi la scomunica cioè l’esclusione dalla comunità della Chiesa cattolica di un colpevole, cui è anche vietato di accostarsi ai Sacramenti. È l’estromissione dalla comunità dei fedeli, cosa che non si verifica con l’interdetto. Vi è anche l’anatema, cioè l’esclusione dalla comunità dei fedeli, rivolta, soprattutto ad eretici, o comunità sistematiche.
La storia ci parla di scomuniche famose come quella scagliata contro Enrico IV che portò poi a Canossa: quella (anzi quelle, perché erano due) contro Federico Barbarossa da parte del Papa Alessandro III nel 1161 e 1164; quelle inflitte a Ottone IV nel 1210 e 1211; quella fulminata dal Leone X contro Lutero (Exurge Domine); quella di Pio VII contro Napoleone, che dall’allora in poi cominciò a collezionare sfortune fino a Waterloo (18 giugno 1815).
Ma a quanto ci consta nessuno collezionò ben tre scomuniche come Federico II, lo stupor mundi di cui non si è spenta l’eco delle celebrazioni dell’ottavo centenario della nascita e della Mostra (non priva di inesattezze e lacune), che ha toccato varie città delle Marche. Federico II venne scomunicato una prima volta il 21 marzo 1226, la seconda volta il 24 settembre 1239; entrambe le scomuniche gli furono lanciate da Gregorio IX dal I Laterano. La terza gli venne fulminata da Innocenzo IV, Concilio di Lione, il 27 luglio 1245. Me la sono riletta nel suo curiale, ma eloquente latino: è una inquisitoria puntigliosa ed analitica. Federico è accusato di imprigionare Vescovi e prelati: di perseguitare la Chiesa cattolica in Sicilia; di avere imposto tasse gravose missive; rubato suppellettili sacre. E spergiuro, eretico; ha ucciso il duca di Baviera; stipulato alleanze con i saraceni, non paga le tasse dovute alla curia romana. Ma all’inizio della bolla di scomunica c’è una motivazione: Federico è scomunicato anzitutto per aver invaso il dominio della Santa sede cioè, recita l’atto, la marca affermava il ducato di Benevento (videlicet Marchiam et Ducatum Beneventanum), distrutto oggi tra le porte si tiene impunemente occupati e la Marca Fermana e detto Ducato di Benevento. E così anche al Concilio di Lione alla presenza di Papa Innocenzo IV dei rappresentanti di Federico II, tra cui Taddeo la Sessa e di oltre 150 prelati si parlò della Marca Fermana uno dei motivi di scomunica, la terza contro Federico II, la cui potenza da allora cominciò a declinare fino alla morte avvenuta nel 1250.