Curiosità storiche della Marca di Fermo secoli I-X narrate da Gabrile Nepi.

Anno 79  dopo Cristo – Plinio il Giovane a Sabino:“Sarò avvocato dei Fermani” 

     Chi in questi giorni ha visitato a Roma la mostra su Pompei (Redi- scovering Pompeii) che ha fatto il giro del mondo ed è stata prorogata di una settimana, ha potuto leggere (o rileggere) la descrizione dell’eruzione avvenuta il 24 agosto del 79 dopo Cristo, eruzione che seppellì, oltre a Pompei, Ercolano e Stabia. In tale eruzione, morì Plinio il Vecchio, nato a Como nel 23 dopo Cristo ed autore fra l’altro di una poderosa storia naturale (Naturalis Historia), in cui descrive anche il nostro Piceno (Truentum, Cupra, Castellum Firmanorum) cioè l’odierno Porto San Giorgio, Cluana (Porto Civitanova) Potentia etc. La descrizione della sua morte ce la fece il nipote, Plinio il Giovane (Como 61 d.C. – Bitinia 114 c). Nel suo Epistolario (VI, 16), narra che durante l’eruzione, lo zio Plinio il Vecchio, si trovava nei pressi, in quanto comandante della flotta romana di Miseno. Egli volle rimanere al suo posto per soccorrere i fuggitivi e per osservare da vicino il fenomeno eruttivo. Era un eminente scienziato ed il fenomeno lo interessava altamente. Morì però soffocato dalle ceneri dell’eruzione.

      Ma del Piceno e di Fermo in particolare, si interessò non soltanto il Plinio della Naturalis Historia, ma anche il nipote, Plinio il Giovane. Questi era anche un famoso avvocato ed a lui ricorse Sabino, giureconsulto fermano, pregandolo di difendere Fermo in una causa contro di cittadini di Falerio Picenus, odierno Falerone. Plinio, è lusingato dell’in¬carico e così scrive, accettando la difesa:

     “Caio Plinio al diletto Sabino, salute! Tu mi preghi di assumere la pubblica difesa di quelli di Fermo: benché oberato da mille occupazioni, lo farò. A dire il vero, desidero rendermi obbligata una illustre colonia col farmi suo avvocato e anche te, rendendoti un servizio che ti sta a cuore. Poiché, se la mia amicizia – come tu dici – ti è di difesa ed onore, niente debbo negarti dato che lo chiedi per la patria. Infatti che vi è di più onesto che la preghiera di un cittadino? Perciò ai tuoi, anzi più giustamente ormai, ai nostri Fermani, da’ la mia parola d’onore e che questi siano degni delle mie cure e fatiche; me lo impone la loro reputazione e, più ancora, il considerare che devono essere ottimi come lo sei tu. Stammi bene!”.

     Da quanto sopra si evince quanto era famosa Fermo, colonia ornatissima di Roma e importantissima città del Piceno.

0251 – Molti i Santi nella Diocesi Fermana – Lungo elenco, da Girio a Vissia

       Abbiamo di recente parlato delle avventure amorose del condottiero conte Francesco Sforza (tra l’altro aveva dieci figli illegittimi), di Sigismondo Malatesta e dei suoi molteplici amori, ma che tuttavia privilegiò Isotta, in onore della quale eresse il tempio Malatestiano a Rimini. Ma ora siamo nel clima della commemorazione dei defunti e nella solennità di tutti i santi, per cui “scriviamo in sintonia”.

     È noto che la pietà popolare onora i defunti nel giorno dedicato a tutti i santi, accomunando quest’ultimi ai trapassati.

La devozione ai defunti è uno dei valori che rimangono saldi, mentre si va affievolendo o tramontando una serie di valori etici, sociali, civili e nel giorno dei morti scorgiamo lumi, fiori ed assistiamo a preci in ogni camposanto. Ricordiamo in proposito le commoventi poesie apprese sui banchi di scuola, i sentiti versi di Pascoli, il giorno dei morti in Myricaeo madre il cielo si riversa in pianto / oscuramente sopra il camposanto”, la poesia di Achille Campanile e di altri, tutti preceduti da Dante che fra l’altro invita alla preghiera “Chè qui per quei di là molto s’avanza” (Purg. 3,145).

     Ma oggi non possiamo trascurare i santi, coloro che hanno scandito la storia della civiltà, della vita sociale di nazioni e continenti, che hanno salvato la cultura europea. In ogni città, in ogni paese vi è un santo protettore. Fermo e la sua vasta archidiocesi (che, ripetiamo, è la più grande e popolata delle Marche) annovera molti santi. Oltre a S. Savino e a S. Claudio, comprotettori della città. Diocesi e Stato (la protettrice principale è l’Assunta) ne ha una sorprendente fioritura. C’è S. Adamo Abate, il cui corpo riposa in cattedrale; S. Alessandro: S. Filippo; il beato Beltramo, venerato a S. Marco alle Paludi: S. Elpidio abate, da cui il nome alla cittadina; S. Fermano, venerato a Montelupone, che fino af 1586 apparteneva alla Diocesi di Fermo; S. Girio. morto a Potenza Picena; S. Gualtiero; S. Giacomo della Marca, che tanto amò Fermo; il beato Giovanni della Verna, santo fermano che riposa in quel luogo, sacro a S. Francesco; Si Liberato a Loro Piceno; il beato Pellegrino da l ‘alerone: il beato Pietro da Mogliano; S. Marone venerato a Civitanova Marche; S. Serafino da Montegranaro, che riposa in Ascoli; Santa Vissia; Santa Vittoria, che ha dato il nome alla località omonima; S. Nicola da Tolentino, nato a S. Angelo in Pontano, allora dello Stato di Fermo e tuttora, come allora, in Diocesi di Fermo; il beato Giovanni da Penna S. Giovanni, etc.

      Dalla storia apprendiamo che vi furono persino scontri armati e vere guerre per avere i corpi o le reliquie dei santi. Ad esempio a Colonia sono conservate le reliquie dei Magi, che nel 1161 furono portate via da Milano sconfitta dal Barbarossa. Il corpo dell’evangelista S. Marco nell’828 fu trafugato da Alessandria da Buono di Malamocco e Rustico da Tornello e portato a Venezia.

     Fermo portò via a S. Elpidio a Mare la Sacra Spina che si conserva ora nella chiesa di S. Agostino. Vi sono altri esempi eclatanti. I Greci, i Romani, gli Egizi credevano nell’oltretomba e veneravano le immagini degli scomparsi, identificando spesso il defunto con la divinità. Forse da qui quella comune venerazione ai defunti e ai santi delle popolazioni delle nostre zone.

Anno 522- La Regina Amalasunta in cerca di serenità trova rifugio a Fermo

     Sono oggi di scena tre personaggi famosi della storia d’Europa e d’Italia, vissuti nel periodo delle invasioni barbariche e che hanno caratterizzato quel segmento di storia le cui fasi principali si svolgono a Fermo e nel Fermano. Li presentiamo, cominciando per dovere di cavalleria da una donna: Amalasunta la figlia di Teodorico (454-525) Re degli Ostrogoti; Belisario generale bizantino (505-565); Narsete anch’egli generale bizantino (sec. VI).

     Amalasunta aveva sposato il visigoto Eutarico; nel 522 ne rimase vedova e assunse la reggenza del regno in nome e per conto del figlio Atalarico, all’epoca decenne. Abile e colta, preferiva l’elemento romano a quello goto: per tal motivo i nobili goti le crearono opposizioni e pretesero che il figlio venisse educato alla maniera gotica, anziché romana. Ma Atalarico ben presto morì ed Amalasunta, per garantirsi da ulteriori opposizioni e difficoltà, si associò al trono il cugino Teodato.    

     Questi per sete di potere, dopo poco tempo la fece uccidere in un castello sito presso il lago di Bolsena. Amalasunta, durante la reggenza, aveva stabilito per lungo tempo la sua dimora a Fermo, forse per sottrarsi alle camarille della capitale, forse per godere maggiore serenità. A Fermo fece eseguire molte opere pubbliche, edifici, bagni, etc.

     Intanto Giustiniano, che da tempo mirava a muovere guerra agli Ostrogoti, prese pretesto dall’uccisione di Amalasunta e, quale imperatore d’Oriente, spedì in Italia Belisario, che dopo aver conquistato varie terre si trovò ad affrontare un formidabile dispositivo difensivo composto dalle fortezze di Perugia, Urbino, Orvieto, Osimo. La flotta venne spostata nei porti dell’Adriatico e i due comandanti Narsete e Belisario unirono le rispettive truppe a Fermo. Ce lo narrano le stupende pagine della “Guerra Gotica” di Procopio da Cesarea, scritte in un limpido greco da cui traduciamo: “Belisario e Narsete con i loro eserciti si riunirono presso la città di Fermo, la quale giace vicina alla costa del Golfo Ionio (Adriatico) ad un giorno di cammino dalla città di Osimo. Colà, insieme a tutti i capi dell’esercito, tennero consiglio sul posto dove meglio convenisse attaccare i nemici…”. Fu deciso di aggirare Osimo e Belisario ordinò che il generale Arasio “doveva restare a Fermo, con un buon nerbo di truppe e qui svernare, badando però che in seguito i barbari. facendo scorrerie a loro piacimento, non molestassero impunemente quei paesi“. L’esercito al comando dei due condottieri Narsete e Belisario, dovette combattere molto, ma alla fine riuscì a conquistare la stessa Ravenna che cadde nel 540. A Fermo e nel Fermano si erano decise le sorti dell’impero romano d’oriente.

     Tornando poi ad Amalasunta, ci piace ricordare che il grande pittore Osvaldo Licini di Monte Vidon Corrado, nel 1958 con le “Amalasunte e gli Angeli Ribelli” vinse la XXIX Biennale di Venezia e fu premiato personalmente dall’allora presidente della Repubblica Gronchi. Con lui, i grandi sono quattro: Narsete, Belisario, Amalasunta e, modernamente, Osvaldo Licini.

Anno 555 – In tempo di guerra invasione di vocaboli

     Quando ero chierichetto e servivo la Messa ed altri riti liturgici, sentivo cantare anche le Litanie dei Santi. Entravano in scena angeli, arcangeli, tutti i santi e sante di Dio, i martiri, i confessori, etc. Erano le Quarantore ed i sacerdoti cantavano con voce pastosa e solenne. Fra l’altro ricordo: A peste, fame et bello etc. Nella mia ingenuità, intende¬vo “Ha la peste, la fame ed è bello”, ma non riuscivo a capacitarmi co¬me pur essendo appestati ed affamati, si poteva essere belli. Più tardi, con il latino, imparai che bellum significa guerra, cosa confermata, quando fui alle prese col De Bello Gallico di Cesare e col latino di Orazio che parla di guerre “detestate dalle madri” bella matribus detestata. Ora, riflettendo, noto che dal tempo di Caino ed Abele ad oggi ci sono state sempre guerre, come attualmente ve ne sono nei Balcani, in Cecenia, etc. Ci sono state guerre durate 30, 100 anni; guerre mondiali con milioni di morti. Una statistica ei fa conoscere che fino al 1860 ci sono stati nel mondo 227 anni di pace contro i 3.357 anni di guerra; in media per 33 secoli: 1 anno di pace e 13 di guerra. John Carthy e Francis Ebling, ricercatori americani, hanno riscontrato che dal 1820 al 1945 ci sono stati 89 milioni di morti in guerra, di cui 51 nella seconda guerra mondiale. Ecco perché si sospira sempre alla Pace, ecco perché l’annuncio nella grotta di Bethlemme è Pace.

     Ma nel corso dei secoli si ebbero scontri armati anche nelle nostre zone. Ci rifacciamo però a quelli avvenuti secoli e secoli orsono. Nel Lido di Fermo, al tempo della guerra gotica narrataci da Procopio, e precisamente nel 538, Narsete e Belisario, generali bizantini, tennero un consiglio di guerra e qui ebbero stanza le truppe bizantine per resistere ai barbari. Da qui a Narsete e Belisario partirono per assediare e conquistare le città della Regione e Rimini stessa, rimanendo a Fermo la base militare per le operazioni belliche. Per dare un’idea delle devastazioni, citiamo un episodio ricordato da Procopio nel De Bello Gothico, opera in greco, che narra le vicende di tale guerra. All’irrompere dei barbari, tutti fuggirono. Ovunque era desolazione e morte. Un bambino rimasto solo in mezzo a tante distruzioni, fu allattato da una capra. Quando, dopo l’uragano dell’invasione, gli abitanti ritornarono alle loro abitazioni, videro dopo mesi e mesi, il bambino vivo e grida¬rono al miracolo. Lo chiamarono Egisto dal nome greco di capra (aix, aigòs).

     Quello che però a noi interessa nel periodo di occupazione bizantina (si ricordi che nell’esercito di Narsete v’erano isaurici, armeni, bulgari, eruli, traci, illirici, etc.) sono i vocaboli entrati nella nostra lingua e dotta e vernacola. Anzi ci fu un momento che l’assimilazione era tale che tali bizantini scrivevano il latino con caratteri greci. Tuttavia molte loro parole entrarono nel nostro lessico. Ad esempio parlare da parlacium luogo dove si parlava e si discuteva. Il latino loqui come si vede, dista mille miglia dal vocabolo Parlare. Abbiamo inoltre mattara, che nel nostro dialetto è uguale al bizantino Mactra; foglietta che deriva da Fiola; ganascia; brocco (vaso per acqua e liquidi etc.). ma ciò che più sorprende è il vocabolo ponticana o pentecana per indicare un grosso topo. Deriva da topo del Ponto. Tale vocabolo usato da Montale e che compare anche in elzeviri di quotati quotidiani, è molto usato oltre che nelle Marche, anche nel Veneto, Emilia Romagna e nella Lombardia orientale. Altro vocabolo da non dimenticare e che è tutt’ora vivo nel nostro vernacolo è pantafana. Indica una persona che si presenta od appare spesso. Deriva da bizantino panta = tutto e faino = apparire. E così, le guerre che dividono i popoli, sono spesso amal¬gama di vocaboli che divengono patrimonio comune di nazioni e continenti.

Anno 598 – Una delle lettere di Papa Gregorio Magno al Vescovo di Fermo Passivo

      Leggendo troviamo spesso l’aggettivo magno. Nelle Università ed in genere in istituti di istruzione abbiamo l’aula magna. C’è la cappa magna, veste solenne di dignitari; c’è la pompa magna, la Magna Grecia; la laus magna nelle votazioni di laurea; il mare magnum; la turba magna. Il tutto, per denotare grandezza o potenza. C’è addirittura la magnitudo, per indicare l’intensità dei terremoti.

Ma nella storia, abbiamo personalità di spicco a cui i posteri hanno dato l’appellativo di magno. Così abbiamo Alessandro Magno, vissuto nel terzo secolo avanti Cristo; Pompeo Magno (I sec. a.C.) che combatté a Fermo insieme a Cicerone durante la guerra sociale; Carlo Magno, il celeberrimo imperatore, morto nell’814; Gregorio Magno, Papa dal 590 al 604 rifondatore della liturgia e padre del canto gregoriano. Con’, erti i Longobardi e diffuse il cristianesimo in Inghilterra e nella Spagna . Celebre la sua esclamazione: Non Angli sed Angeli. Figura poliedrica, dotto e saggio, protesse i Romani durante le invasioni barbariche, vindice ed assertore di Roma. Carducci con icastica espressione ce lo scolpisce nella “Chiesa di Polenta”. “Quei che Gregorio invidiava (liberava) a servi / ceppi tonando nel tuo verbo, o Roma”.

Gregorio (poi santo), ebbe ad interessarsi di Fermo e, pur assillato dalle cure del governo della Chiesa e dalla malferma salute, scrisse sei lettere a Passivo, Vescovo di Fermo. Esse ci danno uno “spaccato” della storia del tempo, delle invasioni longobarde, del perdurare delle leggi romane dopo la prima fase della calata dei barbari.

La prima è diretta al Vescovo di Ancona. Gregorio lo invita a sollecitare dal suo diacono Sereno la restituzione degli ori ed argenti al Vescovo di Fermo. Tali tesori erano stati affidati temporaneamente a Sereno per sottrarli alle depredazioni dei barbari.

 La seconda è indirizzata a due chierici di Fermo: Demetriano e Valeriano. Gregorio li assicura che non dovranno rimborsare alla Chiesa le somme a suo tempo spese dal Vescovo di Fermo Fabio, per la loro liberazione e per quella del loro genitore Passivo, ora Vescovo di Fermo. Infatti erano stati fatti schiavi dai Longobardi.

Le restanti sono tutte indirizzate al Vescovo di Fermo Passivo.

La terza lo invita a consacrare un oratorio in onore di S. Savino,

eretto fuori delle mura di Fermo, e precisamente sul colle Vissiano (oggi: Montagnola) da Valeriano, notaio della chiesa fermana.

La quarta gli chiede di consacrare un oratorio che Anione, Conte

Castri Aprutiniensis (= Teramo), ha eretto nel teramano territorio di Fermo (testualmente: fìrmensis territorii) in onore di S. Pietro Apostolo.

La quinta lo prega di consacrare un monastero autonomo fondato da Procolo, diacono della Diocesi di Ascoli Piceno, in onore di S. Savino martire ed ubicato nel fondo Gressiano (fra Ascoli e Teramo).

La sesta chiede di trovare una persona degna, irreprensibile, amante della preghiera, per affidargli, dopo opportuni esami, la Diocesi di Teramo, allora vacante. Anzi, Papa Gregorio indica un nome: Opportuno.

     Esse indicano, oltre al perdurare delle leggi romane nel nostro Piceno, anche la circoscrizione territoriale di Fermo, che comprendeva anche il Teramano. S. Gregorio scrisse molte altre lettere. Una che è diretta a un Vescovo della Dalmazia lo rimproverava di essere troppo dedito ai piaceri della mensa. Il Vescovo ribatté: “Ma anche il Figlio dell’Uomo (cioè Cristo) mangiava e beveva”. Gregorio di rimando: “Ma tu segui i precetti di Cristo solo quando parla di mensa, ma non quando parla di astinenza”.

Anno 825 – I Carolingi concessero l’ateneo di Fermo per ampia territorialità

     “In questa tomba riposa il corpo di Carlo, grande imperatore; ac¬crebbe nobilmente il regno dei Franchi e lo governò felicemente per 47 anni. Morì settantenne l’anno del Signore 814, settima indizione, quinto giorno dalle calende di febbraio”.

     Questo l’epitaffio sulla tomba di Carlo Magno ad Aquisgrana. Non si è ancora spenta l’eco del colossale film proiettato dalla Tv, film costato 17 miliardi e tale epitaffio sembra riecheggiare l’acclamazione della folla nella basilica di S. Pietro quando, nella notte di Natale dell’anno 800, Papa Leone III lo incoronava imperatore: “A Carlo, Augusto, coronato da Dio, grande e pacifico imperatore, vita e vittoria” e le volte del tempio riecheggiavano poderosamente nel latino originale vitam et victoriam. Leggende e tradizioni orali parlerebbero di atti e documenti di Carlo Magno relativi alla Marca. Tutto falso! Di vero, c’è il fatto narratoci da Anastasio Bibliotecario (817-877 c.) che dopo la sconfitta dei Longobardi per opera di “Carlo Magno alle Chiuse (anno 773), quando Carlo scese in Italia in aiuto di Papa Adriano (772-795), gli abitanti del ducato di Fermo, gli Anconetani e i cittadini di Osimo e gli Spoletani, si diedero spontaneamente al Papa, gli giurano fedeltà e per documentare questa sudditanza si tagliarono barba e capelli secondo il costume romano (more romano tonsurati sunt).

     Non ci risulta che Carlo Magno sia venuto a Fermo, mentre il suo secondogenito, Pipino, proclamato Re d’Italia nel 791, venne in questa città alla testa del suo esercito, accompagnato dal duca di Spoleto Vinigisio e vi soggiornò prima di marciare contro Grimoaldo, duca di Benevento. Pipino a Fermo reclutò molti soldati per il suo esercito. Fermo deve ad uno dei carolingi, cioè all’imperatore Lotario I (795- 855), nipote di Carlo Magno, la fondazione dello studium generale, università del tempo avvenuta nell’anno 825. In tutta Italia ve n’erano soltanto nove (Torino, Ivrea, Cividale del Friuli, Pavia, Cremona, Vicenza, Verona, Firenze, Fermo). Come si vede, Firenze e Fermo erano i soli bacini di utenza per l’Italia centrale. Nel capitolare di Lotario, emanato a Corte Olona, si specifica tra l’altro che dovevano recarsi a studiare a Fermo tutti quelli del Ducato di Spoleto, ducato vastissimo che comprendeva Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo, spingendosi fino al ducato di Benevento. Nel 1165 Federico Barbarossa farà proclamare santo il nostro Carlo Magno e ciò dall’antipapa Pasquale II. dato che egli era in rotta col vero Papa. La Chiesa, tuttavia, non riconobbe mai tale canonizzazione, anche se permise il culto in qualche Diocesi di Francia e di Germania. Oggi, con decreto della Congregazione dei Riti del 1932, Carlo è venerato soltanto ad Aquisgrana. Il Barbarossa che volle la proclamazione di Carlo Magno a santo, si interessò anche di Fermo e del suo Porto esattamente l’anno precedente cioè nel 1164.

Anno 886 –  Testimonianze storiche dimenticate. Il complesso architettonico, che sta andando in rovina

     E’ trascorso ben più di un millennio da quella data e la basilica è ancora lì, anche se ridotta a misera casa colonica. Serba ancora il suo fascino, invita al raccoglimento e alle “cose di lassù”. È la basilica di Santa Croce al Chienti, novella chiesa di Polenta di carducciana memoria, consacrata proprio il 14 settembre dell’anno di grazia 886. Sita in territorio di Sant’Elpidio a Mare, alla confluenza dell’Ete Morto col Chienti, oggi muta e disadorna, commemora i suoi undici secoli di vita. Undici secoli.  

     Teodicio Vescovo di Fermo si era dato molto da fare per la sua costruzione, e con l’aiuto dell’imperatore Carlo il Grosso era riuscito nell’intento. Il 14 settembre 886 tale basilica alla presenza di 19 Vescovi (tutti del Ducato di Spoleto) e di 27 canonici, venne consacrata al culto. Spiccano nel fasto e nella solennità della consacrazione, l’imperatore Carlo il Grosso, che morirà due anni dopo, il Vescovo di Fermo, Teodicio ed i diciannove vescovi. Vediamoli: sono quello di Ascoli, Giovanni; di Ancona, Enolerico; di Camerino, Celso; di Senigallia, Benvenuto; di Spoleto, Armerico; di Fano, Romano; di Pesaro, Lorenzo; di Numana, Roberto; di Perugia, Teobaldo; di Rieti, Riccardo; di Osimo, Pietro; di Cagli, Adelardo; di Rimini, Niccolò; di Todi, Uberto; di Urbino, Alberto; di Nocera (Umbra), Severino; di Forlì, Bartolomeo; di Teramo, Ruggero. Oltre a Carlo il Grosso sono presenti numerosi principi e gastaldi.

Nello spiazzo antistante la basilica è tutto un rimescolarsi di palu-damenti vescovili e di armature guerresche; conti, vescovi, gastaldi, dame, bardature variopinte, cavalieri. Giorno festoso e fastoso! Giorno in-dimenticabile da iscrivere albo lapillo nella storia di Fermo e di Sant’El-pidio a Mare. Nel 1749, cioè 240 anni or sono, l’arcivescovo di Fermo, Alessandro Borgia, fece apporre una lapide a ricordo del fausto avvenimento.

     “Or tutto tace”… La Basilica è lì, sconsacrata, malridotta… La sua storia gloriosa giace solo nelle pergamene degli archivi. Dopo il restauro effettuato dall’arcivescovo Borgia nel 1749 è stata miseramente ab-bandonata. Non si potrebbe costituire un comitato per il suo recupero alla funzione primigenia ed al suo antico splendore? E l’interrogativo, o meglio, l’invito, che ci permettiamo rivolgere a chi a ama e storia e monumenti della bella Regione “che siede tra Romagna e quel di Carlo”.

Anno 972 – Le prove dell’esistenza della Marca Fermana 

     Questa rubrica, redatta giornalisticamente ma sempre scrupolosamente ancorata ad atti e documenti, sta suscitando l’“ira funesta” di “taluno”. Moltissimi però i consensi e reiterati gli inviti (orali e scritti) a raccogliere poi tutto in un volume.

     Ora quei “taluno” addirittura ha negato che fosse esistita la Marca Fermana, perché lui non ha rinvenuto tale denominazione nelle due opere di Gregorio di Catino (un cronista dell’Abazia di Farfa vissuto nel sec. XI) Chronicon Farfense e Regestum Farfense. La Marca Fermana si estendeva dal Foglia al Pescara, non per realtà geografiche e storiche e tale espressione non fu di uso limitatissimo ma venne usata dall’anno 972… fino alle soglie della Rivoluzione Francese (vedi Monumenta Germaniae Historica).

     Nel 1076 Papa Gregorio VII (quello a cui si umiliò a Canossa Enrico IV nella scomunica lanciata contro di lui e contro i Normanni per aver invaso nel 1047 le terre della chiesa) nomina la Marca Fermana: Marchiam Firmanam et Ducatum Spoletanum. Nel 1078, lo stesso Papa scrisse da Roma all’arcivescovo di Ravenna ed a tutti i Vescovi ed abati della Marca Fermana (universis episcopis et abbatibus in Marchia Firmana).

Lo stesso Gregorio VII nell’assolvere Roberto il Guiscardo dalle censure per aver invaso le terre pontificie “in quanto alle altre terre che tieni ingiustamente occupate, cioè Salerno, Amalfi e parte della Marca Fermana per il momento ti tollero” (lettera del 29 giugno 1080 scritta da Ceprano nei pressi dell’Abazia di Monte Cassino). Marca Fermana è ripetutamente nominata dal Platina (De vita et moribus, Lione 1512), da Flavio Biondo {Italia Illustrata, Venezia 1543), dal Sigonio, ripetutamente, in Storia del Regno d’Italia, libro IX, Venezia 1574.

     Inoltre il nostro interlocutore apra un atlante storico, anche il più elementare e troverà che da allora – sec. X – fino al sec. XVIII la Marca Fermana figura in tutte le carte.

     Un’indicazione bibliografica potrebbe essere quella degli atlanti storici editi dalla De Agostini Novara, Zanichelli di Bologna, l’Atlas Historique di Larousse, quello di Georges Duby e prima di dire che nel “Chronicon” e nel “Regestum Farfense” non figura la Marca Fermana, ci pensi bene e lo legga bene. Ad esempio nella pag. 146 B del “Chronicon” si legge testualmente ad Marchiam Firmanam. Anzi, tra “Chronicon” e “Regestum” tale Marchia è nominata per un totale di 38 (diconsi trentotto) volte; il che dimostra che non è “una espressione geografica” per dirla col Metternich.

Anno 1003 – Un Papa dimenticato: Giovanni XVII da Rapagnano

     Se c’è una regione che abbia dato alla Chiesa molti Papi, questa è la Regione marchigiana che prima in graduatoria, tolto il Lazio. Bene dieci sono i pontefici marchigiani, mentre alcune regioni non ne hanno nemmeno uno, ad esempio il Piemonte. È vero che essi hanno S. Pio V. Ma quando egli nacque a Boscomarengo, la cittadina apparteneva al Ducato di Milano. E poi …. se è divenuto papa lo deve al fatto che ha studiato a Fermo.

     Amoto ludo, vediamo chi è questo Papa sconosciuto. Si tratta di Giovanni XVII. Papa Siccone, nato a Rapagnano ed eletto papa il 9 giugno 1003. La cronologia pontificia lo elenca tra i Papi degli anni 1000, ma lo indica come. In quel periodo, molti furono i Papi col nome Giovanni. Ci sono: Giovanni XI , romano (+ 935); Giovanni XII  Ottaviano dei Conti di Tuscolo (964): Giovanni XIII, romano (+972); Giovanni XIV  di Pavia (+984); Giovanni XV, romano (+996); Giovanni XVI (+998) cioè Giovanni Filagato di Rossano e quindi il nostro Giovanni XVII, eletto, come detto, il 9 giugno e morto il 31 ottobre 1003. Ce lo attesta una lapide rinvenuta nella chiesa collegiata di Rapagnano nel 1750. Essa redatta in latino, così suona in nostra traduzione: “Giovanni figlio di Siccone e di Colomba, nacque a Rapagnano, vicino al fiume Tenna. Ancora adolescente si recò a Roma accolto nella casa del console Petronio. Si dedicò allo studio delle lettere e con l’applauso di tutta Roma, il 9 giugno 1003 fu creato pontefice. Ma lo fu per poco tempo: infatti il 31 ottobre seguente si addormentò in pace, volando a regnare in cielo”.

     Tale lapide in pietra e in gotico minuscolo, riporta lo stemma con il triregno e chiavi decussate ed altro stemma della casa Piccolomini, con una mitra vescovile.

     Alessandro Borgia, Arcivescovo di Fermo, vista l’importanza di tale lapide, la fece conoscere, porre il luogo ben visibile e sotto di essa collocò una iscrizione che recita: “A Dio Ottimo Massimo, questa lapide di Giovanni di Rapagnano Pontefice romano, nascosta per secoli, ora per interessamento di Alessandro Borgia Arcivescovo e Principe di Fermo, il parroco di Santa Maria Franco Grifoni la restituisce alla posterità”.

     Papa Giovanni XVII, a causa del suo breve regno, non ebbe modo di dare una propria impronta al Pontificato. È l’ultimo della serie di papi eletti dalle famiglie romane in funzione antigermanica. Fu però romano solo di adozione. E qui spiace rilevare come l’Annuario Pontificio lo indichi come romano, senza tenere conto della sua patria: Rapagnano. Ma tale Annuario ha perso la nostra Regione altre “imprecisioni”. Ad esempio che Papa Marcello II sarebbe di Montepulciano, mentre (Pastor, Storia dei Papi, Vol. ed altri) è arcinoto che è nato a Montefano (MC);  di Papa Clemente VIII lo dice fiorentino, invece è nato a Fano, etc. ma oggi, purtroppo, dobbiamo constatare un preoccupante “inquinamento culturale”.

     Giorni fa, una nota Editrice riportava una cartina geografica dove Amandola figurava come Amendola:  Cupramarittima come scalo di Cupramontana che si trova in Provincia di Ancona: che Gaeta è stata l’ultima fortezza borbonica (a cadere invece dopo di essa caddero Messina 12 marzo 1861 e più tardi, quando era già stato proclamato il Regno d’Italia, Civitella del Tronto, che si arrese il 20 marzo 1861).

     Capoluogo del Dipartimento del Tronto nel periodo napoleonico per decenni hanno detto che era Ascoli Piceno, mentre lo era Fermo. Come già accennato la recentissima guida di Roma (T.C.I.) non parla di Pericle Fazzini e della sua Resurrezione nella Sala Nervi in Vaticano. E che dire delle pubblicazioni turistiche della Regione? Carità di patria consiglia il silenzio. Ma spesso fanno più male che bene per la conoscenza delle Marche. Videant consules di eliminare tali “perle”.

<C’è chi pensa che l’Agro Rapaniano era nella  provincia di Roma>

Anno 1046 – Clemente II: a Fermo di passaggio

     Continuando negli stelloncini (non natalizi) ed aspettando Papa Giovanni Paolo II, sottolineamo oggi che le Marche in genere, ebbero a che fare con Papi, i secondi delle serie relative: Clemente II, Urbano II, Pio II, Giulio II ed ora Giovanni Paolo II. Fermo a sua volta ebbe a che fare con Urbano II, Pio II e Giulio IL

    Non era facile né semplice nel 1046 essere Papa. Clemente II, ebbe molto da fare a Roma e nell’Italia meridionale. Passò per le Marche, ma dovette fermarsi a Pesaro a causa una violentissima febbre; qui morì nel monastero di S. Tommaso in Foglia.

     Ma nonostante tutto, lo ricordiamo in questi giorni con i nostri auguri, perché proprio la Notte di Natale ricorrono 942 anni dalla sua elezione a Pontefice. Vescovo di Bamberga in Sassonia, anche da Papa mantenne tale vescovado. Incoronò imperatore Enrico III e lo accompagnò a Salerno, Benevento ed in Germania.

    Clemente II fu da noi solo di passaggio; vedremo Urbano II che fu a Fermo nel 1195; quest’anno ricorrono novecento anni della sua elezione a Papa (1088-1099).    

     Clemente sebbene morto in terra marchigiana, fu riportato, secondo suo desiderio, a Bamberga ed ivi sepolto.

     Nel 1237 gli venne eretto, in quella Cattedrale, un degno monumento sepolcrale. È l’unico Papa sepolto in Germania.

Anno 1055 – I Normanni e la Marchia Firmana

     In questi giorni tra le mostre che ciclicamente vengono allestite a Roma, una spicca per importanza ed interesse: quella sui Normanni. Lo documentano le lunghe code di attesa, composte da amatori curiosi, ma anche da qualificati studiosi. I Normanni, questo popolo del nord, che nel secolo VIII per mare e per terra invase l’Europa spingendosi fino alla Groenlandia, si stanziò anche in Francia, occupando per ben tre volte Parigi e dando il nome a quella Regione che da loro prese il nome di Normandia. Da qui invasero l’lnghilterra, sconfiggendo gli abitanti nella famosa battaglia di Hasting (14 ottobre 1066). Si spinsero poi a sud occupando anche tra il 1043 e il 1098 l’Italia meridionale. Sono noti nella storia i nomi di Tancredi d’Altavilla, di Ruggero, di Roberto il Guiscardo, di Boemondo fondatore del principato di Antiochia. Ma nella storia dei Normanni vi è una “connotazione” fermana o meglio della Marca Fermana. Gli abitanti di questa, combatterono a fianco delle truppe papali, allorché Papa Leone IX dichiarò loro guerra per aver occupato terre su cui la Roma papale avanzava diritti. Tremendo fu lo scontro a Civitate in Puglia (18 giugno 1055) e l’esercito pontificio in cui militavano anconetani, fermani, spoletini, venne sconfitto. Tuttavia si verificò qui quanto affermato da Orazio (Epist. 11,1,56). “Grecia capta ferum victorem coepit et artes intulit agresti Latio” (La Grecia pur vinta vinse il rude vincitore e insegnò le arti all’agreste Lazio).

     Infatti, il Papa, pur sconfitto, impose la sua autorità e la sua forza morale, talché i Normanni obbedirono ai suoi desiderata.

     Guglielmo di Puglia narra che “il biondo Roberto dall’alta ed im-ponente statura, glorioso per tante battaglie, si inginocchiò davanti al Papa e gli baciò il piede. Gregorio (è Gregorio VII) lo fece alzare e lo invitò a sedere accanto a lui”.

     Riecheggiando Orazio, uno storico coevo (come ci narra il Muratori) dice che il Papa, pur vinto dai Normanni, dettò legge ai vincitori e vinse con la religione, coloro che non era riuscito a sottomettere con le armi (A Normannis victus leges dedit victoribus et quos armis superare non potuit, religione fregit).

     Latino facile di cui il lettore ci perdonerà, ma che abbiamo dovuto citare, perché più splendido apparisse il parallelo con Orazio.

     Vi fu poi un’intesa tra Papa Gregorio VII (il famoso Ildebrando, alleato di Matilde di Canossa) e Roberto il Guiscardo. Gregorio gli conferisce l’investitura di parte dell’Italia meridionale “della terra che ti concessero i miei antecessori di santa memoria, cioè Nicola ed Alessandro, Amalfi e parte della Marca Firmana, per il momento ti tollero, fidando in Dio e nella sua bontà, col patto che tu in seguito debba comportarti verso di me come richiede l’onore di Dio e di S. Pietro”. Si noti quella precisazione di “parte della Marca Fermana”. Ruggero, infatti, col suo esercito l’aveva occupata, tutta cioè dal Musone fino al sud di Vasto. Ma poi aveva restituito al Papa la parte a nord del Tronto, tenendosi per sé quella a sud di tale fiume. Così il nome “Marchia Firmana” , già apparso in precedenza sia nel “Chronicon Farfense”, sia in diplomi imperiali, brilla ora in un atto giuridico tra Papa e imperatore, dopo essere apparso anche nella bolla di scomunica che il Papa, in precedenza, aveva lanciato contro i Normanni “videlicet Marchiam Fir-manam universis abbatibus et episcopis in Marchia Firmana, etc.”.

1080 – Un tributo da versare il giorno di Pasqua

     Nella storia d’Italia, spesso la data della Pasqua serviva per ricordare la consegna di doni, di regalie, di omaggi, di tributi e di censi… “Nel giorno della Pasqua di Resurrezione offra alla chiesa, tot. numero di polli, di uova, tanti agnelli” etc.    

     Prosaicità che adombra lo splendore di vita nuova!

E proprio nel giorno della Pasqua di Resurrezione, un condottiero normanno, Roberto il Guiscardo, sin dall’anno 1080 prometteva ad Ildebrando di Soana, o meglio a Papa Gregorio VII, famoso per la vicenda di Enrico IV a Canossa e per la Contessa Matilde, vindice del papato, di versargli un tributo o censo di dodici denari di moneta di Pavia per ogni paio di buoi.

     Tale censo era il corrispettivo per avere il Guiscardo invaso Salerno, Amalfi e la Marca fermana. Infatti, in un primo tempo, Roberto il Guiscardo era contro il Papa; poi passò a difenderlo. Era pendente l’occupazione delle due città e della Marca Fermana a sud del Tronto. In un primo tempo l’aveva occupata quasi tutta, ma poi restituì a Gregorio VII la parte a nord del Tronto, tenendo per sé Amalfi, Salerno e la Marca Fermana sud.

     Passato dalla parte del Papa Gregorio VII, Roberto riceve l’investitura di terre pontificie. “Io Gregorio papa, conferisco a Te, duca Roberto, l’investitura della terra che ti concessero i miei predecessori di santa memoria Nicolo’ ed Alessandro (sono i Papi Nicolo’ II (1061) e Alessandro II (1071) – ndr). In quanto all’altra terra che tieni ingiustamente, cioè Salerno, Amalfi e parte della Marca Fermana, per il momento ti tollero, fidando in Dio e nella sua bontà in modo che tu debba in seguito comportare verso di me come richiede l’onore di Dio e di S. Pietro senza pericolo dell’anima tua e della mia….”.

     A questa investitura fa eco “Roberto, per grazia di Dio e di S. Pietro Duca della Puglia, Calabria e Sicilia…” promettendo a Gregorio e successori “a nome proprio, degli eredi o successori l’annuo tributo di cui sopra da pagarsi in die Resurrectionis Domini”, nel giorno cioè della Resurrezione del Signore. Roberto fu fedele alla promessa e salvò anche Papa Gregorio dall’assedio posto a Castel Sant’Angelo dallo spegiuro Enrico IV che aveva assolto dalla scomunica. Da quella Pasqua ne sono trascorse ben 912!

     Oggi gli abitanti di quella che fu la Marca Fermana dovrebbero elevare un pensiero memore e grato verso Gregorio, figura che giganteggia nella storia, quale vindice dei diritti della Chiesa e della libertà della Marca Fermana.

Anno 1087 – Gioiello poco valorizzato, l’antichissima chiesina di Madonna Manù

    “Salve chiesetta del mio canto!”, così Carducci nell’ode “La Chiesa di Polenta”; così chi scrive, con minore autorità, ma con non minore affetto, saluta la chiesina di Madonna Manù. Etimologia ebraica: Manù = cos’è questo?

     Affonda le sue origini all’alto Medioevo. Risalente il secolo X, come la chiesa di Polenta; è detta anche Madonna delle Noci, perché fino a poco tempo fa, dopo la Messa, vi si giocava a castelletti di noci.

     Qualcuno dei “miei venticinque lettori” si domanderà subito dove sorge tale chiesina. Chi imbocca la strada che dall’Adriatica porta a Lapedona (Camping Mirage) a metà strada, in posizione incantevole preceduta da un duplice filare di cipressi, scorge S. Maria de Manù.

     Fu donata da Raimburga, badessa del monastero Leveriano presso il fiume Aso, all’Abbazia di Montecassino. Piccola e sconosciuta la chiesetta; grande e celebre la sua storia. Con la chiesa e il castello di S. Biagio in Barbolano, siti in territorio di Altidona (sopra il Camping Mirage) è nominata nelle porte di bronzo della Basilica di Montecassino, fuse al tempo dell’abate Oderisi (1087-1105).

     Recitano nell’originale latino… “Nel Fermano abbiamo il castello di Barbolano con la chiesa di S. Maria e S. Biagio con gli annessi pos-sedimenti”. Le lamine che ne parlano, sono la sesta e la settima del battente di destra, miracolosamente indenni nel tremendo bombardamento alleato che distruse il Cenobio e le altre lamine (1944).

Se altre chiese avessero tale privilegio e una documentazione così splendida e bronzea (Aere perennius) lo griderebbero ai quattro venti. Invece, per la nostra chiesetta, si è fatto ben poco.

     Romanica, come le “sorelle maggiori” quali S. Maria a Pié di Chienti, S. Claudio a Corridonia, Ss. Stefano e Vincenzo a Monterubbiano, S. Quirico e Lapedona, etc. è un vero gioiello d’arte.

     Abbiamo accennato a Lapedona, nel cui territorio sorge, ma la giurisdizione spirituale di essa, è del pievano di Altidona, a cui passarono i beni dell’Abbazia di Montecassino.

     Ogni anno, da secoli, l’8 settembre vi si recano pievano e fedeli di Altidona; vi si celebra la Messa e poi si gioca a castelletti di noci.

     Semplice e spoglia nelle linee purissime del romanico classico, è stata restaurata nel 1942 per iniziativa del pievano Petroselli di Altidona e riportata alla primigenia bellezza. Fiancheggiata da “ardui cipressi”, campeggia in un’area agreste e campestre di “profondissima quiete”. Fino al 1926 vi si ammirava uno stupendo polittico attribuito in un primo tempo a Pietro da Montepulciano; ora, dopo approfonditi studi, a Cristoforo Cortese (fine secolo XV). Tale polittico spicca ora nell’altare maggiore della parrocchiale di Altidona, alla cui giurisdizione spirituale, come detto, appartiene.

     Se Carducci l’avesse celebrata, come la chiesa di Polenta, sarebbe ora su tutte le Guide ed i Baedeker del mondo. Oggi chi canta a lei, è un povero menestrello: “Vixere ante Agamennona multi, sed illacri mabiles… carent quia vate sacro” e cioè “Vissero molti famosi, prima di Agamennone, ma sono ignorati, perché manca un sacro vate”.

Così canta Orazio! “Salve chiesetta del mio canto!”.

Secolo XI – I doni portati dai castelli

  Si ha notizia che sin dal secolo XI i signorotti dei castelli soggetti a Fermo dovevano portare per l’occasione della festività dell’Assunta, le loro offerte ed i loro doni.

     Il signore (meglio: gastaldo) di Corridonia, allora Montolmo, doveva portare un maiale e cento meloni; quello di Monturano, un maiale; quello di Civitanova (Marche), sei polli e cento uova; Campofilone doveva tre soldi e mille denari; il Monastero di S. Donato al Tronto, pure tre soldi e mille denari. Tutte le località soggette a Fermo da Poggio S. Giuliano alle porte di Macerata, alle località della foce del Tronto, contribuivano con prosciutti, maiali, polli, soldi, cera, uova, ecc.

      Fermo partecipava alla novena di preparazione, con vistose offerte in denaro ed in natura. Cospicue le offerte dei macellai, calzolai, osti, albergatori. Gli agricoltori davano tre bolognini a testa per il cero; i bottai ne offrivano due. Osti ed albergatori, oltre al cero, offrivano una taberna in miniatura ricolma di doni; ogni famiglia dei castelli soggetti doveva dare al proprio “scindico” 12 denari e ciascun “scindico” con tali somme, doveva approntare un cero maestoso che sfilasse con i rappresentanti del castello (unum cerum prò quolibet castro).

     A loro volta il Podestà, il capitano e gli altri Officiali, offrivano un cero ciascuno come pure il Gonfaloniere di giustizia, i Priori e le altre autorità cittadine, le famiglie di Fermo, ad eccezione di quelle povere, dovevano offrire un cero alla Cattedrale insieme ai componenti della propria contrada.

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