Giuseppe Michetti scrive “Fermo, aspetti della città medievale” storia

GIUSEPPE MICHETTI

ASPETTI MEDIEVALI DI FERMO

~dal dominio dei Franchi alla fine del medio evo~

volume secondo

FERMO – EDIZIONE LA RAPIDA – 1981

Ti voglio presentare questo secondo libro di storia fermana con qualche giudizio autorevole riguardante il primo: « Fermo nella letteratura latina”. Fra i tanti attestati di simpatia i più significativi sono i seguenti:

1° – « Si tratta in verità di una preziosa ricerca che al pregio di una documentazione minuziosa, unisce quello di una narrazione avvincente, impreziosita da intuizioni originali e da argute considerazioni “.

2° – « La tua è una ricerca sui documenti letterari, ampia e gioiosa, almeno per quanto riguarda l’epoca romana “.

3° – « La grande mole di notizie di fatti svoltisi nella terra che abitiamo, lo stile sobrio; le osservazioni acute rendono il libro non solo interessante, ma prezioso “.

Voglio anche fornirti una testimonianza negativa. Un amico studioso illustre, un giorno che stavo consultando un « tomo “ del Muratori, mi ha affrontato con brutto cipiglio e mi ha detto testualmente: « Ma lascia andare questi libri vecchi. Il tuo libro non mi piace affatto. La storia non è per te; cambia mestiere “.

Caro amico, sono troppo vecchio per cambiar mestiere. Però le tue parole non mi offendono, perché non ho mai preteso che i miei libri piacessero a tutti.

E tu, lettore? Leggi questo secondo libro di storia fermana poi aggiungerai il tuo parere e mi dirai se è proprio un libro inutile.

Intanto ti saluto

                                                                                                       D. Giuseppe Michetti

                                                                 Chi vive la storia deve sforzarsi

                                                         di far rivivere i sentimenti

                                                              e le passioni dei tempi andati.

                                                                                         (A. Gabelli)

                                                                                                                AL LETTORE

   Per un libro di storia come questo del Prof. D. Giuseppe Michetti di una introduzione non ci sarebbe bisogno.

    In esso niente parole grosse, fumose o superflue: tutto è vivo, schietto, parlato. Perché il linguaggio di Michetti rispecchia il suo carattere: semplice, lineare, tutte cose; egli racconta le vicende con discorso familiare, franco, pulito. Leggendo questo libro ci pare di essere usciti fuori dagli inquinamenti e ammorbamenti cittadini e di respirare quell’aria ossigenata, limpida, fresca della campagna e del poggio di Rocca Monte Varmine, ove Michetti vive e lavora.

   Infatti egli non è alle prime armi per quanto riguarda il suo interesse per la storia locale. Ha dato alle stampe, “In attesa che sia pubblicata la storia più voluminosa e particolareggiata”, un volumetto su S. VITTORIA IN MATENANO (tip. La Rapida di Fermo, 1969); una breve memoria su”ROCCA MONTE VARMINE (tip. La Rapida di Fermo, 1980) che però è una revisione del primo opuscolo pubblicato con lo pseudonimo “Sibillino” (edizioni Paoline – Pescara): “DAL FEUDALESIMO AL GOVERNO COMUNALE NEL PICENO” (tip. La Rapida di Fermo, 1973); “UGO di FARFA” La Destrucio” – traduzione e note – 1980).

   Il primo volume già pubblicato di questa storia di Fermo (G. Michetti – Fermo nella letteratura latina – La Rapida, 1980) reca la dedica: “A tutti i miei scolari mai dimenticati”, con la quale l’autore dichiara apertamente il suo intento.

   Con l’impegno responsabile e vivo senso delle difficoltà egli si appresta a contribuire ad aiutare il lettore a conoscere e a riflettere: a conoscere la storia quanto mai interessante di una antica importante città, quale è Fermo; a riflettere sulle vicende e sui fatti umani che sono sì quelli di ogni tempo, ma che assumono aspetti, modi, colori particolari in ogni epoca storica e che vanno valutati appunto in relazione  ad essa. Con logiche deduzioni e lepide notazioni Michetti “invera il certo”, secondo l’espressione vichiana, promuovendo quei valori che sono patrimonio della società e danno un senso alla vita. L’autore sfronda le intricate vicende, presentandoci nudi fatti, ma non tralascia i suoi bravi e brevi commenti, che sono poi anche quelli del lettore, ben sapendo col Manzoni, che la storia da sola senza immaginazione dice troppo poco, perciò occorre sollecitarla per coglierne i valori eterni e i richiami incisi nella nostra società.

   Il Michetti narra con vigile partecipazione le vicende della città nel periodo medievale, avvertendo che cosa ardua scrivere nella storia, per la quale non bastano affetto, cultura locale. Così ha intrapreso ricerche e indagini sul municipio romano, compulsando archivi e fonti letterarie; e in questo secondo volume rammenta e tiene sempre presente il principio di non scrivere nulla che non sia documentato.

   Ciò non vuol dire che non vi debbano essere altri studiosi che apportino contributi nuovi, più copiosi e larghi, perché la storia di Fermo nel Medioevo non è soltanto la storia di una città, ma ha richiami e implicanze molto più vaste del semplice ambito cittadino e della Marca Fermana, cosicché chi legge finisce per avere davanti a sé l’illuminante profilo della società italiana dei secoli tumultuosi che prepararono le trasformazioni dell’epoca moderna. Opportunamente il Michetti intitola il volume: “Aspetti medievali di Fermo”.

   La lettura di questo secondo lavoro ci rende impazienti e ci fa più pungente il desiderio di leggere il seguito del racconto chiaro, pacato e allusivo che concluderà l’operosa fatica di D. Giuseppe Michetti nell’itinerario storico della città di Fermo fino all’inizio del nostro secolo.

                                                                                                   Prof. Mario Retrosi

INDICE

CAPITOLO I

pag.      7           L’unità europea

“             8         Organizzazione politica di Fermo sotto i Carolingi

“             10         II feudalesimo

“             1o         Vita agricola nel sistema feudale

“             12         Lotario imperatore e l’università di Fermo

CAPITOLO II

“             15         I monaci farfensi nel fermano

“             16         La battaglia del Garigliano

“             17         Fermo sotto gli imperatori tedeschi

“             17         I Vescovi di Fermo nel secolo X

“             19         I normanni a Fermo

CAPITOLO III

“             23         I Vescovi di Fermo preparano i Comuni

“             24         II Comune

“             25         Indole del Comune Fermano

“             27         Difficoltà per Fermo nel sec. XII

“             28         Distruzione di Fermo

CAPITOLO IV

“             31         Fermo alla fine del sec. XII

“             32        Organizzazione politica del fermano nel sec. XIII

“             33         La contea del Vescovo di Fermo

“             34         Ugo II e Pietro IV

“             35         Rainaldo (1223-1227)

CAPITOLO V

“             39         Fermo e Federico II – Fermo capitale della Contea

“             39         Resistenza a Rinaldo di Urslingen Duca di Spoleto

“             41         Organizzazione  comunale

“             43         Federico II e la guerra del 1240

“             44         Fine della Contea dei Vescovi

“             46         Fermo e Re Manfredi

“             48        Sviluppo edilizio a Fermo nel secolo XIII

            CAPITOLO VI

 “         51     Fermo nella prima metà del sec. XIV

“          52     Mercenario da  Monteverde

“          54     Giacomo Vescovo e Principe di Fermo

“          55     Confraternita di S. Maria

“          56     Gentile da Mogliano

CAPITOLO VII

“           59      Fermo nella seconda metà del sec. XIV – Il Card. Albornoz

“           59      Prima missione del Card, nella Marca

“           61      Costituzioni Egidiane

“           63      Seconda missione del Card. Albornoz nelle Marche

“           63      Fermo dopo il Card. Albornoz     

“           65      Rinaldo da Monteverde

 CAPITOLO VIII

“         71      Fermo e lo scisma d’occidente dal 1380 al 1433

“         71      Antonio de Vetulis

“         74      Dal 1400 al 1417

“         76      Fermo e Martino V

“         79      Dopo Ludovico Migliorati

CAPITOLO IX

“        82       Francesco Sforza a Fermo – La Signoria

“        82       La signoria di Francesco Sforza

“        85       Opere pubbliche – La grande carestia del 1440

“        87       Sollevazione a Ripatransone

“        89       Saccheggio di Torchiaro e Moregnano

“        89       La battaglia di Santa Prisca

“        90       Fine della dominazione Sforzesca

“        92       Restaurazione

CAPITOLO X

“        94       II pericolo turco

“        95       Fermo e Pio II

“        96      Guerra per Monsapietrangeli

“         97      La battaglia di Vetreto

CAPITOLO XI

“         99      Attività economica di Fermo nei secoli XV e XVI

“          99     Agricoltura

“         100    Artigianato

“         101    Commercio

“         101    La fiera di Fermo

“         102    La comunità ebraica a Fermo

“         103    II Monte di Pietà

CAPITOLO I

I Longobardi nel Fermano si erano romanizzati più presto che in tante altre zone; la fusione tra l’elemento romano e il longobardo, dopo due secoli era completa, anche se fino al secolo XI molti signori ritenevano titolo onorifico dirsi «Longobardi“, come si può rilevare da alcuni documenti1. Da ciò possiamo argomentare che i Fermani sicuramente non festeggiarono la caduta del Regno Longobardo e l’avvento del Regno Franco.

      Difatti Fermo, Osimo, Ancona, anche per evitare la dominazione franca, si affrettarono a offrire al Papa il loro territorio. Mandarono ambasciatori ad Adriano, per giurare fedeltà al Vicario di S. Pietro, ed egli, in segno di accettazione, tagliò loro un ciuffo di capelli, secondo l’uso romano 2.

Alla caduta del Regno Longobardo, sarebbe dovuto andare in vigore il Patto di Quiercy del 754, col quale Re Pipino assicurava al Papa il possesso di tutta l’Italia Peninsulare3; ma esso non ebbe mai esecuzione, forse perché il cattolicissimo Carlo Magno era anche un grande politico e capiva che affidare al Papa un regno così grande significava vanificare in breve la sua conquista ed esporre l’Italia a grandi disordini, o al pericolo di invasioni esterne, per l’innata debolezza militare della S. Sede; e della plebiscitaria decisione delle città picene non si tenne conto.

Difatti, dopo pochi anni, nel 781, Carlo Magno credette bene dare all’Italia una diversa sistemazione: rinunciando al titolo di Re dei Longobardi, istituì il Regno d’Italia, investendone il figlio Pipino.

Questo regno comprendeva tutta l’Italia Settentrionale, la Toscana e il Ducato di Spoleto che sul versante Adriatico si estendeva fino al Pescara; restava al Papa il Lazio, una piccola parte dell’Umbria, l’Esarcato di Ravenna e le due Pentapoli4. Fermo seguitò ad essere considerata parte del Ducato di Spoleto e come tale fu trattata dai Duchi e dai Re carolingi.

Nel 799, si dimostrò quanto fosse errato il Patto di Quiercy, poiché Papa Leone III (795 -816) dovette fuggire in Francia, per una agitazione popolare provocata dai Signori laziali.

L’UNITA’ EUROPEA

     Verso la fine dell’anno 800, Carlo Magno riaccompagnò papa Leone III a Roma e, nella festa di Natale, fu consacrato da lui « Imperatore del Sacro Romano Impero “.

     In questo Impero “Sacro e Romano“, come il Papa era capo universale della Religione, così l’Imperatore sarebbe stato capo universale di tutte le nazioni cristiane, col compito di guidarle e di difendere il Papa e la Chiesa.

Bisogna valutare bene la portata di questo avvenimento, per poter comprendere nel loro giusto valore i fatti che la storia del Medioevo ci presenta.

     L’istituzione del Sacro Romano Impero non è un regalo che Leone III fa a Carlo Magno, per ringraziamento di averlo riaccompagnato a Roma e consolidato il suo seggio papale.

     Leone III è il genio politico che, insieme a Carlo Magno, dà inizio a una istituzione che dovrà essere la salvezza del mondo Romano – Cristiano,-allora in gravissimo pericolo.

     Il mondo Romano non poteva fare affidamento sugli Imperatori di Costantinopoli, imbelli, fautori di scismi, che odiavano i Romani e il Papa, e perdevano continuamente terreno di fronte agli Arabi e ai Turcomanni che premevano da Oriente. Soprattutto gli Arabi erano un pericolo mortale per la civiltà cristiana.

    Essi non erano come i popoli barbari del Nord, che venivano in cerca di terra e anche di civiltà; ma erano feroci invasori, potenti e organizzati, che si proponevano di annientare la civiltà cristiana e imporre la loro, essenzialmente diversa. La loro espansione sembrava inarrestabile.

     Già avevano occupato tutta l’Africa mediterranea e la Spagna fino ai Pirenei, a stento contenuti a prezzo di sanguinose battaglie da Carlo Martello prima, poi da Carlo Magno.

     Era in atto uno scontro mortale tra due grandi civiltà: la civiltà cristiana e quella islamica.

     Il Sacro Romano Impero aveva lo scopo di estendere il cristianesimo tra le popolazioni germaniche e slave; riunirle sotto una unica guida, l’Imperatore, per salvarle dal tremendo pericolo islamico.

     Il sacro Romano impero è il primo tentativo di Unità Europea: Unità che si ripete oggi, dopo più di un millennio, in condizioni similari, anche se i protagonisti non lo avvertono.

     Questa Europa unita, travagliata attraverso i secoli di mezzo da mille

discordie, ma costretta, nonostante tutto, a restare unita, per opera dei Romani pontefici, salvò la civiltà cristiana e la fece trionfare nel mondo.

     Sotto questa luce bisogna guardare il rito di Natale dell’800; e allora ci accorgeremo che molti Imperatori non compresero la loro missione europea, e ritennero il titolo come un ornamento personale, da sfruttare a proprio vantaggio; che le scomuniche di alcuni Papi contro imperatori regnanti hanno un valore diverso da quello attribuito loro da scrittori cosiddetti laici5.

ORGANIZZAZIONE POLITICA DI FERMO

SOTTO I CAROLINGI

     I Carolingi non portarono in Italia mutamenti sostanziali, che nel progresso civile e nell’arte di governare, i Franchi non erano molto superiori ai Longobardi.

     Carlo Magno, deposto il Re Desiderio, si proclamò Re dei Longobardi, finirono quindi Re Longobardi, ma restarono molti Duchi, che si erano amicati i Franchi; seguitarono i grossi signori terrieri longobardi e restò il Codice Longobardo, poiché Carlo Magno lasciava a ogni nazione conquistata le proprie leggi.

   Specialmente nel Ducato di Spoleto, se nell’organizzazione politica qualche cambiamento, esso fu insignificante.

   I “Comitatus” c’erano prima dei carolingi, e restarono anche per secoli; i Conti nelle “civitates”c’erano prima  e restarono, finché non cedettero il loro ufficio ai Podestà Comunali (per il fermano nei secoli XII e XIII).

     Alla caduta del Regno Longobardo, finì il Ducato di Fermo, e la città fu governata da un Conte, alle dipendenze del Duca di Spoleto.

     Nel 776, difatti era conte di Fermo un certo Lupo6.

     Nelle 778, c’era un Conte a Fermo che si chiamava Rabennone; e c’era un Conte a Spoleto7.

     Il fatto che perfino nella città del duca c’era un Conte dimostra che esso era un ufficio del Duca; un incaricato a governare e ad amministrare la giustizia in nome del sovrano.

     Anche il Conte di Fermo quindi era un funzionario che reggeva il territorio fermano temporaneamente, a disposizione del Duca Spoletino.

     E anche se non abbiamo documenti che ci parlino della organizzazione civica di quei tempi, possiamo essere certi che il Conte non era il padrone della città, non era un despota; ma accanto a lui c’erano altre autorità che collaboravano nel governo di essa.

      Autorità fosse anche eletti dal popolo, che curavano l’andamento civile; mentre al conte era riservata la responsabilità di controllare; l’amministrazione della giustizia; la polizia e le forze armate.

     Affermo questo, perché la sapiente organizzazione romana non poteva sparire con le invasioni barbariche; subirono mutamenti anche deterioramenti nei vari periodi, ma fu nella sostanza mantenuta: la civiltà prevale sempre sulla barbarie.

     Forse durante il secolo IX, si tentò di ricostruire il Ducato di Fermo.

     Ciro suggerisce un diploma di Berengario II8 come altri documenti ci fanno pensare a un Conte di Fermo, alla fine del secolo, con autorità pari a quella del Duca9.

   Nelle campagne, i signori longobardi seguitarono a vivere nei loro castelli e a coltivare le terre, per mezzo di affittuari e servi della gleba: metodo che poi si chiamò “feudale”, che non era stata una loro invenzione, ma istituito almeno cinque  secoli prima e codificato da Diocleziano.

     Questo metodo che oggi possiamo giudicare disumano, perché oppressivo e lesivo della dignità dell’uomo, non impediva che i signori longobardi si convertissero al Cattolicesimo e si sentissero buoni cristiani.

   Semmai qualche scrupolo venisse a turbare la loro coscienza, potevano sempre porci rimedio prima della morte, col destinare parte o tutta la loro possidenza a qualche monastero, o a qualche vescovado; i quali poi seguitavano a condurre l’agricoltura con lo stesso metodo, perché ancora non se ne era inventato un altro.

      Le nuove invenzioni, in certi campi, sono sempre molto difficili!

IL FEUDALESIMO

      Se volessimo tradurre la parola “Feudalesimo”   in una più comprensibile, dovremmo dire: “affittanza”; quindi “feudo” significa “affitto”; feudatario significa “fittavolo”.

     In quale senso?

     Con la istituzione del Sacro Romano Impero (Natale ‘800) si tentava l’organizzazione dell’Europa nell’unità; Unità religiosa che già esisteva, almeno di diritto, nel governo della Romano Pontefice; Unità politica, sul modello della prima rendendo tutti i potentati europei tributari di un solo capo: l’Imperatore. In altre parole: come il mondo religioso dipendeva da un solo capo, il Papa; così il mondo politico avrebbe dovuto essere diretto dal supremo governo dell’Imperatore.

     Questi, ricevendo il potere da Dio, avrebbe dovuto estendere la sua autorità su tutto, come padrone assoluto. Regni, Ducati, Marchesati, Badie, Vescovadi avrebbero dovuto considerarsi come dati in feudo = affitto dall’Imperatore, e i loro padroni considerati legittimi, solo se riconosciuti da lui.

     Questi grossi signori, che si chiamavano “Feudatari”, pagavano all’Imperatore l’affitto o tributo e disponevano del loro feudo liberamente, sempre alle dipendenze dell’Imperatore; e subaffittato ad altri signori più piccoli, che si chiamavano “Valvassori”,  o  “feudatari minori”, le varie parti del loro feudo.

     In teoria, si dava col Sacro Romano Impero una gerarchia al potere:

l’Imperatore, arbitro di tutto; dipendenti direttamente da lui i “Feudatari” (re, duchi, vescovi, abati); dipendenti da feudatari i “valvassori o feudatari minori”10.

Se nella realtà non sempre questa organizzazione raggiunse lo scopo voluto, fu perché all’Imperatore mancò la forza sufficiente per imporre la sua volontà.

     Le due difficoltà, che non furono mai risolte, riguardavano il Papa e i Vescovi; il Papa aveva un dominio temporale legittimo che non poteva essere controllato dall’Imperatore, per non rendere il Papa dipendente da lui; i Vescovi, capi religiosi, avevano anche un feudo, che li sottoponeva all’autorità imperiale; chi avrebbe dovuto sceglierli?

     Queste difficoltà causavano aspre contese che durarono secoli.

VITA AGRICOLA NEL SISTEMA FEUDALE

     Le relazioni reciproche Tra i detti signori erano regolate dal “Diploma Imperiale”, che rendeva il feudatario legittimo possessore del feudo, che poteva lasciare in eredità ai discendenti; o dal “Privilegium”, contratto col quale il feudatario rendeva il Valvassore legittimo possessore del piccolo feudo, a tempo indeterminato o a volontà del feudatario o, come qui da noi, per tre generazioni.

     Questo fino al 1037, quando l’editto di Corrado II, “DE BENEFICIIS” resi ereditari anche i feudi dei valvassori11.

     L’editto di Corrado non aveva valore nel Dominio Pontificio, nel quale l’Imperatore non era sovrano, e se seguitò a dare in feudo le terre per tre generazioni.

     Diplomi, privilegi, editti  riguardavano solo i feudatari e valvassori, quelli cioè che in qualche modo si potevano chiamare signori; ma per la massa dei nullatenenti e per i servi non c’erano diritti.

     La proprietà del feudatari e dei valvassori si estendeva a tutto quello che si trovava nell’ambito del territorio loro affidato: le terre, le selve, i corsi d’acqua ed eventualmente le acque marine; quindi il diritto di caccia, il diritto di pesca, le carbonaia, i mulini, i forni e ogni altra possibile fonte di risorse economiche appartenevano al signore; all’umile gente restava il lavoro12.

     Ma il lavoro libero era quasi inesistente.

     Tutto sia centrava nel castello del signore terriero, perché la fonte principale della ricchezza era l’agricoltura; e alle dipendenze del castello lavoravano i “Vassalli”, fossero essi servi della gleba, colonia affittuari o mezzadri, piccoli proprietari13.

     Sì, anche piccoli proprietari, perché non dobbiamo credere che la parola “Vassallo” significhi uno spiantato che, per campare, stia al servizio di un signore.

     “Vassallo” era uno che aveva obblighi servili verso un signore; e in questo senso, anche i Feudatari erano vassalli; vassalli del governante.

     Vassallo poteva essere un servo della gleba che lavorava la terra e custodiva il bestiame del padrone, alla completa dipendenza da lui; legato alla terra che lavorava, della quale seguiva le sorti, tanto che il valore di questa era misurato anche dalla capacità lavorativa dei servi 14.

     Vassallo poteva essere un colono che riceveva in affitto dal signore un piccolo appezzamento; un mezzadro, cui era affidata della terra che pagava con una parte del prodotto di questa.

     Essi potevano contare su condizioni pattuite, molte volte imposte dal padrone, il quale esigeva anche servizi extra in sovrappiù, sia dagli uomini che dalle donne, le quali eseguivano i vari lavori domestici nel castello.

     Vassallo poteva essere un piccolo proprietario che doveva signore l’”homagium” (servizio di uomo), o perché aveva comprato la terra con obblighi servili, o perché doveva pagare al signore la sicurezza che gli veniva vivendo nell’ambito del territorio feudale.

     I vassalli potevano liberarsi del vassallaggio, pagando un riscatto, ma ciò avveniva raramente, perché non sempre conveniva.

     Ovviamente non conveniva al vassallo proprietario, per motivi di sicurezza; non sempre conveniva agli altri, sia per mancanza di lavoro indipendente; sia perché raramente un vassallo riusciva col magro guadagno a mettere da parte la somma necessaria per il riscatto: somma che era sempre alta, perché il padrone era sempre contrario a concedere il riscatto15.

     Rari sono i casi di fuga, perché raramente si trovava chi volesse appoggiare la fuga di un vassallo, per non crearsi noie.

LOTARIO IMPERATORE

E L’UNIVERSITA’ DI FERMO

     Alla morte di Carlo Magno, prese l’impero il figlio Luigi il Pio, il quale nell’817, si associò al governo il figlio Lotario, destinandolo al regno d’Italia; e nell’823, il Papa Pasquale I lo consacrò Imperatore.

     Poco ci interessa qui se il Lotario si mostrò un po’ anticlericale; se, per finirla con i disturbi continui provocati dai Romani, si intromise negli affari del Papa e ne vigilò il governo non sempre efficiente; Fermo deve a lui riconoscenza, perché qui fondò la prima UNIVERSITA’, nell’829, stabilendovi uno dei nove studi del Regno Italico, al servizio di tutto il Ducato Spoletino16 .

     La scelta di Fermo dipese sicuramente dalla sua posizione preminente e centrale nel Ducato che si estendeva fino al Pescara, ma forse anche dal desiderio di cultura dei Fermani, che era testimoniato dalle scuole molto frequentate, istituite dal Vescovo Lupo, pochi anni prima17.

     Questa UNIVERSITA’ fermana, la prima istituita nel Piceno, giunse con alterne vicende alla rispettabilità di un migliaio di anni.

     Nell’833, sorsero gravi discordie tra Luigi il Pio e altri regnanti carolingi, che si trasformarono in un vera guerra civile, della quale approfittarono i predoni saraceni per scorrazzare impunemente per l’Italia.

     Anche nel Piceno provocarono danni immensi, depredando città e villaggi meno difesi e distruggendo Truento e  Cupra Marittima, verso l’840.

     Fermo non fu toccata, perché per il pirata Shabat sarebbe stato troppo difficile espugnarla, e anche senza la protezione dell’Imperatore, la città era in grado di difendersi da sé.

     Cominciò a crescere l’autorità del Conte, e ad allentarsi la dipendenza dal Duca di Spoleto.

     Nell’893, troviamo un Conte di Fermo che non sembra più un funzionario del Duca. Difatti la frase: “Temporibus Alberici Comitis Firmani, anno eius XVIII” ha tutta l’aria di citare, non un funzionario, ma un quasi sovrano che governa Fermo per 18 anni.

     D’altra parte Guido di Spoleto non ha tempo per pensare a Fermo, e ai saraceni, intento com’è a contendere il Regno d’Italia a Berengario del Friuli e a strappare al Papa il titolo di Imperatore (891).

     In appresso fu consacrato Imperatore anche suo figlio Lamberto, ancora bambino, finché  Guido muore, nell’894.

     Il Papa, stanco dei Duchi Spoletini che definisce “peggiori dei Longobardi”, elegge imperatore Arnolfo di Carinzia.

     La vedova di Guido, a Geltrude, col figlio Lamberto, lascia Spoleto e si rifugia Fermo, considerata la città più forte di tutto il Ducato, dove viene assediata da Arnolfo.

     Ma la Duchessa si ricorda di essere una longobarda e, con astuzia felina, riesce a trovare un traditore che propina al nuovo Imperatore una pozione venefica che lo paralizza; e l’esercito di Arnolfo si allontana da Fermo, portando l’Imperatore su una barella18.

NOTE

1   Ex Reg. Ep. – doc.1055 p.382 – “Rampa, quae Pulcina vocatur mulier longobarda ecc.

2   ANASTASIO BIBLIOTECARIO – Vita PP. Adriani – “Anno 773 excusso per Carolum Magnum  

      Longobardorum jugo, omne abitatores ducatus, Firmani, Auximani, Anconitani, ad Summum 

     Pontificem occurrentes, illius se ter beatitudini tradiderunt, prestitoque iuramento, in fide ac  

     Servitio B. Petri ac eius Vicari fideliter permansuros, more romano tonsurati sunt”. Nell’anno 773, 

     liberati per opera di Carlo Magno dal giogo longobardo, tutti gli abitanti nel Ducato di Fermo, di

     Osimo, si rivolsero al Papa, consegnandosi alla Sua Santità; giurando nelle sue mani di restare

     per sempre fedeli a San Pietro e al suo Vicario. Il Papa tagliò loro 1 ciuffo di capelli, 2º l’uso

     romano.

“Beato Petro eiusque omnibus vicarilis  possidendis”. Il Patto di Quiercy del 754 stabiliva la

      spartizione del regno longobardo, quando fosse conquistato, tra i Franchi e il Papa. I Franchi si

      sarebbero tenuti la Valle padana; al Papa sarebbe andato tutto il territorio sotto la linea 

      Monselice, Passo della Cisa, Luni. Compreso il Ducato di Spoleto e quello di Benevento. (V.

      Todisco – St. delle  Chie. V. III p 88).

4    Pentapoli Marittima: Rimini, pesano, Fano, Senigallia, Ancona.

       Pentapoli Annonaria: Urbino, Fossombrone, Cagli, Jesi, Gubbio.

5    Leggo in un libro moderno che vorrebbe insegnare la storia d’Italia ai giovani(lo dice nella

       presentazione) queste parole: “Fu di sorpresa, e senza nessun previo accordo, che costui (Leone

       III), alla fine della messa di Natale, gli si avvicinò e gli pose sulla testa la corona di imperatore.

       Secondo gli storici Franchi, Carlo se ne mostrò sgradevolmente stupito”Uno scrittore, capace di

      ridurre la cerimonia di Natale 800 a questa farsa, non so che cosa possa capire della storia

      medievale.

6   C. MARANESI – I Placiti del “Regnum Italie” – Roma, 1955 – “Dicembre 776: Lupus Comes de

      Firmo”.

7    GREGORIO DA CATINO – “Cronicon” …… datum iussum Spoleti in palatio nostro anno ducatus 

       nostri XIV mense Augusti in inditione X. SUB GUARINO COMITE genero nostro, ipse  Rabenno

       volontarie monacus effectus est”.

8    “……. in ambobus Ducatibus nostri Firmano ac Spoletino” (dal diploma di Adalberto e Berengario

       II al monastero di San Michele in Barrea).

9     LIBERI LERGITORIUS: hanno 904: “Temporibus Alberici Comitis Firmani, anno eius XIII”.

        Anno 911: “Temporibus Alberici Comitis Firmani, anno eius XVIII

10   In questo nel capitolo seguente, riporto alla lettera dei brani dal mio lavoro “Dal feudalesimo al 

        Governo Comunale nel Piceno”. (La Rapida Fermo 1973).

11   L’editto di Corrado II “De beneficiis – Anno 1037”

        “Ordiniamo pure che, se un valvassore dei maggiori o dei minori se ne va da questo mondo, il

         figlio suo abbia il feudo. Se poi non avrà figli, ma 1 nipote da figlio maschio, questi abbia il

         feudo, mantenendo l’uso dei valvassori maggiori di dare i cavalli e armi al proprio signore”.

12   “Similmente promettiamo che non ci sarà in Marano altro forno, fuorché quello del signore, nel

        quale promettiamo di cuocere il pane di tutto il castello, con proprie legna e pagare buon

        “fornatico”, in modo che il fornaio o la fornaia delle Vescovo faccia il fuoco con le nostre legna,

         non con le sue.

         Circa i forestieri che verranno qui ad abitare in un avranno padrone siano uomini del Vescovo

         e  servano a lui, secondo i patti con lui stabiliti”. (Catalani – De Eccl. etc. app XXXIX p. 347).

13   il piccolo affitto, pagato periodicamente in generi agricoli, e la mezzadria, cioè divisione

        proporzionale o a metà del prodotto dei campi è frequente nello Stato Farfense e nel

        Fermano.

14   (Colucci – A. P. XXIX app. CVII p. 200 – Ivi XXXI app. IV p. 8)

15   “Cola Palonis de Massa …… (libera) Benedictum Gulterutii ab omni nexu vassallaggi et singulis

         debitis servitiis …. pro eo quod dictus Benedictus restituit dicto Colae domun et omnes res 

        quas habuit in feudum …. et promisit sibi dare viginti florenos aureos pro liberatione. Ac etiam

        promisit dare septem salmas cum dimidio grani…..”.

        (Colucci – A. P. XXXI n. XXII p. 33).

        Cola Paloni di Massa (libera) Benedetto Gualterucci da ogni vincolo di vassallaggio e di ogni

        debito di servizi ……. Per il fatto che detto Benedetto ha restituito al detto Cola la casa, e tutto

        ciò che teneva in feudo ……. E ha promesso di dare 20 fiorini d’oro per la liberazione …… ha

        promesso anche di dare sette salme e mezzo di grano….”.

16   L. MURATORI – Rer.Ital. Script. – l I p. II pag. 151

        “Circa l’istruzione che quasi scomparsa dovunque per la pigrizia e la trascuratezza degli

         incaricati, stabiliamo che sia osservato quando noi disponiamo. Cioè, che quelli che per nostra

        disposizione sono stati mandati nei vari luoghi a esercitare l’arte dell’insegnamento, mettano il

        massimo impegno a che i loro scolari progrediscano e si approfondiscano nello studio, come  

        richiede la condizione attuale della cultura.

        Per comodità di tutti, abbiamo scelto delle particolari località per questo esercizio culturale,

        affinché la difficoltà di raggiungere luoghi distanti, e la mancanza di mezzi finanziari non

        costituisca una causa alla trascuratezza. Questi luoghi sono: Primo, in Pavia si radunino presso

        il Duncallo, da Milano, da Brescia etc. A Fermo si radunino dalle città spoletino etc.

17   CATALANI . De Eccl. Fir. Etc. Lupus p. 107

18   LIUTPRANDO – De Rebus Imper. Et REg. I cap. IX “…..il castello che si chiama Fermo di nome, ma lo è anche di fatto per la posizione, viene circondato e si preparano tutte le macchine da guerra per espugnarlo. Trovandosi la moglie di Guido stretta da ogni parte senza nessuna speranza di poter fuggire, incominciò con viperina astuzia a studiare il modo di uccidere il Re. Chiamato pertanto presso di sé un tale molto amico di Re Arnolfo, lo colmò di doni pregandolo di aiutarla. Ma, rispondendo quello che non avrebbe potuto farlo, prima di consegnare la città al suo signore, lo prega calorosamente, offrendogli subito molto oro e promettendogliene di più, che propini al Re suo signore una bevanda preparata da lei stessa: la quale non provocherebbe la morte, ma solo mitigherebbe l’odio. E per confermargli la verità della sua affermazione, alla presenza di lui, da a bere la pozione a un suo servo, che dopo un’ora, si allontanò sano…. Quello prese la bevanda mortale e la propinò al Re, il quale la bevve e fu preso da un sonno profondo, che non valse a svegliarlo, per tre giorni, lo strepito di tutto l’esercito. Si dice che, mentre i familiari lo sollecitavano con grida e con scosse, aprì gli occhi, ma non poté sentire né pronunciare bene una parola; sembrava che muggisse invece di parlare. La conseguenza di tutto questo fu che tutti furono costretti a non combattere, ma a fuggire”.

CAPITOLO II

I MONACI FARFENSI NEL FERMANO

     Proprio in questi anni, ultimi del sec. IX, avvenne un fatto di somma importanza per la storia Fermana.

     Mentre a Fermo l’Imperatore Spoletino e l’Imperatore Tedesco si combattevano accanitamente, come abbiamo visto, i Saraceni erano arrivati a depredare proprio alle porte del Ducato di Spoleto. Mi servo del racconto di Ugo Abate, che traduco in italiano1.

     “…. Sopraggiunsero i Saraceni …… che si sforzarono di occupare la Badia, circondandola da ogni parte, ma non ci riuscirono; poiché il venerabile Pietro, Abate di quel monastero, fidando nell’aiuto di Dio e sostenuto dal valore dei suoi soldati, ricacciandoli più volte la territorio del suo monastero, li faceva inseguire lungamente e uccidendone molti, per qualche tempo riusciva a ottenere un po’ di sicurezza.

     “Ma quei maledetti ritornavano continuamente. L’Abate Pietro, avendo resistito coi suoi monaci e coi suoi soldati per sette anni, sentendo di non poter resistere più a lungo, divisi i monaci e il tesoro in tre parti.

     Una ne mandò a Roma; una nella città di Rieti; la terza poi, presala con sé, la condusse nel Comitato Fermano, lasciando vuoto il monastero.

     “Ma  i Saraceni cominciarono a fare razzie anche in qualche zona del Comitato Fermano.

     “Perciò l’Abate Pietro, messo di nuovo in apprensione, adunò i suoi monaci e i suoi soldati e costruì un castello sul Monte Matenano, dove poi fu collocato il corpo di Santa Vittoria”.

   L’Abate Pietro si trasferì nel Comitato Fermano, perché qui i Farfensi avevano cospicui possessi; e il Conte di Fermo Alberico, che governava da pochi anni (si era nell’897),  sapeva mantenere una certa sicurezza.

     I possedimenti Farfensi nel Piceno erano cospicui e di antica data.

     Nel 787, il Duca di Spoleto Ildebrando aveva affidato alla Badia i beni confiscati al figlio del Conte di Fermo Rabennone e a sua moglie Falerona2, e altri vasti territori a Montelparo, Monteleone, Monterinaldo ecc.; Carlo Magno aveva confermato alla Badia il possesso di Ortezzano3; l’Abate Ingealdo, verso l’832, aveva   rivendicato la Badia il possesso della Curtis S. Abundi” e altre terre “in Comitatu  Camertino”4.

   In un Diploma dell’840 l’Imperatore Lotario aveva confermato alla Badia:

“In Comitatu Firmano, Monasterium S. Silvestri vel Sanctae Marinae cum omni integritate ….. et portum in Aso5, vel alias res quas Ildeprandus dare ei condonavit …… res Gualtierii fili Aimonis … res Rabennobis et uxoris eius; res Mauri presbiteri Firmanae civitatis”.

     Questi vasti territori, dei quali abbiamo riportato solo una parte, in seguito si accrebbero per le spontanee donazioni di signori, soprattutto per la donazione del signore longobardo di Offida Longino di Ottone, nel 938; e costituirono lo Stato Feudale Farfense, che durò ricco e potente fino al 1261, sommamente benemerito del progresso del Piceno.

LA BATTAGLIA DEL GARIGLIANO

     Nel 916, il Papa Giovanni X riuscì a mettere d’accordo alcuni principi italiani, tra i quali Randolfo di Benevento e il Duca di Spoleto e assalì le basi dei Saraceni nella Valle del Garigliano, sterminandoli fino all’ultimo combattente, come afferma Gregorio da Catino6.

   Anche il Papa partecipò alla battaglia, combattendo armato come un soldato qualunque.

   In questa battaglia non si fa menzione di combattenti fermani, ma è ovvio che molti di essi vi prendessero parte, poiché sicuramente si reclutano soldati da tutto il Ducato, se vi parteciparono Spoletani e Camerinesi.

     In questo periodo, dal 911 in poi, non ci sono documenti che ci dicano che governava Fermo e le relazioni tra questa città e Spoleto.

     Ugo dice: “Morto lui (Pietro) il predetto Rimone prese il Governo di quel luogo (Matenano). Ugo, Re di Borgogna, incominciò a governare sopra gli italiani, è venuto nella Marca Fermana7, cacciò dalla loro provincia i parenti di Rimone e anche lui insieme ad essi8.

     Non sappiamo il nome di questa potente famiglia che ha un figlio prete, Rimone: un buon prete che i monaci di Santa Vittoria e i soldati dell’Abate Pietro vogliono loro capo, per avere la protezione della famiglia di lui.

     Re Ugo, appena venuto nella Marca di Fermo (928) di caccia tutti dalla “loro provincia”.

     Da queste parole è lecito che la famiglia di Rimone si fosse impadronita della Marca Fermana e Re Ugo, ovviamente, non poteva tollerare la sua pericolosa potenza.

     Volendo riorganizzare il Regno Italico, che poi governò dal 926 al 944, Ugo aveva bisogno di sostituire i vecchi con nuovi funzionari, capaci e di provata fedeltà, specialmente nei punti principali del Regno, e molto si servì dei suoi parenti.

     Mise come vescovo di Verona il nipote di Raterio; stabilì Abate della Imperiale Badia di Farfa il nipote Ratfredo 9 , e affidò la Marca Fermana a un suo parente di nome Ascherio, come si può ricavare da un brano della “Destructio” dell’Abate Ugo.

     Egli dice:

      “Verso quel tempo (probabilmente 939) si accese una grande guerra tra Salirone e Ascherio, per contendersi la Marca Fermana.

     Prevalse Salirone che uccise Ascherio con molti dei suoi e si impadronì della Marca.

     Saputa la cosa Re Ugo si infuriò contro di lui e incominciò a perseguitarlo per l’uccisione di Ascherio che era suo stretto parente”.

FERMO SOTTO GLI IMPERATORI TEDESCHI

     Ottone I di Brunsvik, chiamato in aiuto da Adelaide vedova di Lotario, figlio del Re Ugo, venne, sposò Adelaide e fu incoronato a Pavia Re d’Italia, nel 951.

     Morto, nel 961, il principe Alberico che si era sempre rifiutato di ricevere Ottone, il figlio di lui Giovanni XII (955-965) lo invitò a Roma e lo incoronò Imperatore del Sacro Romano Impero, ufficio vacante da oltre quarant’anni; e come era nei patti, il 13 febbraio 962, col privilegio di Pavia, Ottone si obbligò a rendere al Papa i territori d’Italia destinati alla Chiesa da Carlo Magno10.

     È difficile giudicare l’operato di questo grande Imperatore.

     Qualcuno potrebbe mettere in dubbio la sua buona fede sul Privilegio di Pavia, perché subito dopo sorsero attriti gravissimi tra lui e il Papa, proprio perché il Privilegio non andava mai a effetti; anzi l’Imperatore gravava la mano sulla chiesa, giungendo a stabilire che l’elezione del Papa doveva avere la conferma imperiale.

     A qualcuno fa meraviglia questa ingerenza da parte di un Imperatore sinceramente cattolico, marito di una santa, la grande Adelaide che sapeva influire sul marito, come seppe poi guidare il figlio Ottone II.

     Ma siamo onesti! Come poteva questo Imperatore che, appena incoronato, dovette scappare da Roma per una rivolta popolare; che stava combattendo per riconquistare le terre della Chiesa contro Berengario annidato nel Montefeltro, affidare l’Italia dei Papi in balia di signori irrequieti, circondati, da un clero indisciplinato e corrotto. Perché tali erano allora le condizioni della Chiesa italiana.

     Da Ottone I cominciò l’ingerenza degli Imperatori tedeschi negli affari interni della chiesa che durò per quasi due secoli; ingerenza insopportabile, inammissibile; ma almeno bisogna salvare la retta intenzione di molti di essi, anche se il fine non giustifica i mezzi.

     A Fermo, durante l’impero degli Ottoni, non succede niente di particolare importanza.

     Nel 982, vi fa sosta Ottone II, che si recava a combattere in Calabria; questo soggiorno, che qualcuno riporta come onorifico per la città, era in effetti una calamità che si prolungò per secoli, rendendo le Marche, e soprattutto il Fermano, zona di transito di innumerevoli soldatesche e, in conseguenza, zona di disordini, di rapine e di lutti.

I VESCOVI DI FERMO NEL SECOLO X

     Poche notizie abbiamo della diocesi di Fermo, fino alla fine del secolo X.

     Di questo secolo conosciamo solo il nome di tre vescovi: Amico (940-960), Gaidulfo (960-977) e Uberto (996-1044), eletto negli ultimi anni del secolo.

     I vescovi fermani che conosciamo, secondo i documenti che ci restano, sono all’altezza del loro alto ufficio.

     Possiamo osservare che essi hanno una posizione preminente nel Piceno, poiché li vediamo intervenire spesso con autorità in affari di altre Diocesi.

     Il vescovo amico arbitra nei contrasti tra un certo Leone di Arciprando e l’Abate Campone della Badia di Farfa, per certi possedimenti nella Sabina; il Vescovo Gaidulfo più volte interviene, insieme al Conte di Fermo Lupo, nelle questioni tra Giovanni Vescovo di Penne e l’Abate Ilderico di Causaria (Abbazia presso Torre de’ Passeri).

     Anche la potenza economica dei vescovi fermani in questo periodo incomincia a crescere enormemente.

     Dobbiamo notare che anche la Chiesa, o meglio, gli uomini che la compongono, nei secoli X e XI, si adeguano ai tempi e poggiano la sicurezza e la libertà nella potenza economica e, per molte ragioni, non possiamo condannarli.

     I vescovi di Fermo erano già ben provvisti, per le donazioni di re longobardi, specialmente di Aginulfo e Liutprando. Ma nella seconda metà del Novecento le donazioni di terre e anche di interi villaggi abbondano, fino a costituire il più potente feudo di Piceno, al pari del potentissimo feudo Farfense.

     Le donazioni fatte alla Chiesa Fermana durante questo secolo sono tante, ma non credo opportuno menzionarle, poiché per il lettore sarebbe cosa inutile, essendo la maggior parte di quelle località non rintracciabile, perché i loro nomi sono cambiati.

     Nel 995, il giovane Trasone dona alla Chiesa Fermana una possidenza di quasi 500 ettari, vicino al mare, tra il Potenza e il Chienti. Il documento afferma che la donazione sarà irrevocabile, come vuole il Codice Longobardo11.

     Fino a tutto il secolo X e oltre, il Vescovo di Fermo (come tutti i vescovi delle Marche) non esercitò un vero governo civile; i poteri civili e militari erano in mano al Conte.

     Il Vescovo influiva molto sul governo comitale, per la sua autorità vescovile e per essere senza confronti più grosso feudatario del Comitato; ma la sua autorità era religiosa e morale, non politica.

     La sua autorità nel campo civile era quella di un grande feudatario con impegni particolari impostigli dalla sua condizione di Vescovo.

     Abbiamo visto come incominciarono a darsi a lui interi villaggi, popolati di povera gente che stentava la vita intorno alle Pievi; gente di nessuno, perché libera da obblighi servili verso altri signori.

     Questa gente aveva bisogno di aiuto, di guida, di difesa, di organizzazione; e il Vescovo feudatario, appunto perché vescovo, non poteva disinteressarsi di essa, come avrebbe potuto fare un signore qualsiasi: quella gente era “la plebe del Vescovo”, ed egli aveva il dovere morale di guidarla; e vedremo come i vescovi di Fermo seppero guidare le loro plebi fino alla libertà comunale.

     Questo interessamento del Vescovo comportava anche dirimere le questioni della gente nel suo feudo, senza intromettersi nel giudicare i delitti che spettavano al Conte, non avendo il vescovo “il mero e misto impero”12.

     Ma un chiarimento è necessario. Di chi era feudatario il vescovo di Fermo?

     La Marca Fermana, di diritto, era proprietà della Santa Sede, perché ancora in vigore il privilegio di Pavia, ma questo non ebbe mai esecuzione, anzi, da Ottone I in poi, gli Imperatori agirono come se l’autorità del Papa dipendesse dalla loro.

     Il Vescovo di Fermo quindi, di diritto era feudatario del Papa, di fatto però dipendeva dall’Imperatore, il quale aveva influenza decisiva anche sulla sua elezione.

     Provvidenzialmente i Vescovi di Fermo nel Novecento e del Mille furono tutti all’altezza del loro Ministero.

I NORMANNI A FERMO

     Nel 1049, finalmente la Chiesa, dopo tanta decadenza, ebbe un degno Papa, Leone IX, Alsaziano e il cugino dell’Imperatore Enrico III.

     Fu il primo dei Papi che, dietro i consigli di Ildebrando (poi Papa Gregorio VII), lavoro seriamente per la riforma della Chiesa, per la quale più volte viaggiò attraverso l’Europa.

     Per la storia nostra, mi sembra di poter affermare che Fermo avesse bisogno della riforma meno di altre diocesi.

     Certamente non possiamo affermare che Fermo fosse immune dai mali del tempo, dei quali tutti è sempre risentono; ma conoscendo i grandi vescovi di questo secolo: Uberto (996-1044), Fermano (1047-1057), Olderico (1057-1075), la loro attività pastorale, la fiducia popolare che godevano, attestata da innumerevoli donazioni; conoscendo infine la relazione amichevole del vescovo fermano col terribile riformista Pier Damiani, siamo autorizzati a credere che a Fermo le cose andavano meno peggio che in altre parti.

     Il pericolo maggiore per Roma, in quel tempo, erano i Normanni che dalla Puglia scorazzavano nelle regioni vicine, razziando e maltrattando ferocemente le popolazioni che facevano resistenza.

     Nel 1053, Leone IX, di ritorno da un viaggio in Germania, condusse con sé una schiera di soldati tedeschi, per rafforzare un esercito di Spoletini e Fermani, pronti per combattere contro i Normanni.

     Anche l’Imperatore Bizantino aveva promesso di inviare un esercito che però, come al solito, non arrivò mai. Il Papa stesso si mise a capo del suo esercito; ma presso Civitate sul Fortore, l’esercito fu sopraffatto dai Normanni e Leone IX preso prigioniero13.

     O che l’imperatore Enrico III, al quale spettava il dovere di difendere il territorio della Chiesa, si fidasse nel suo cugino Papa, che in gioventù era stato un buon capitano; o che il Papa preferisse non far troppo ingerire l’Imperatore negli interessi della Chiesa, Leone IX commise un errore che gli costò sette mesi di prigionia e la morte prematura a soli cinquanta anni; poiché, riportato in barella da Benevento a Roma, vi morì nel marzo 1054.

     Questo, come tanti altri fatti storici, dimostra che, mentre i comuni mortali è concesso di fare molti sbagli, un solo errore può abbattere i grandi.

     Per Fermo questa guerra fu rovinosa, poiché (fortunatamente per pochi anni) i Normanni dilagarono nella Marca Fermana e possiamo solo immaginare, giacché non abbiamo documenti, cosa poterono compiervi quei feroci conquistatori.

      Nel 1059, per interessamento di Ildebrando e di Desiderio, Abate di Montecassino, il Papa Nicolò II (1058-1061) e Roberto Guiscardo si incontrarono a Melfi, per un accordo.

     Col trattato di Melfi, i Normanni si ritirarono da tutte le terre della Chiesa, quindi anche della Marca Fermana e, in cambio, Roberto il Guiscardo veniva investito della Puglia, della Basilicata, della Calabria e giurava fedeltà al Papa, quale feudatario della Chiesa, che si impegnava a difendere.

   Il 22 aprile 1073, alla morte di Alessandro II, fu acclamato Papa, dal popolo romano, Ildebrando che si chiamò Gregorio VII14.

     Roberto di Guiscardo che, finché era stato impegnato a consolidare il suo dominio più che raddoppiato col trattato di Melfi, era stato utile la Chiesa in varie occasioni, cominciò a vagheggiare di nuovo la conquista della Marca Fermana, forse approfittando delle difficoltà che Enrico IV procurava al Papa.

   Ma Gregorio VII non tremò e scomunicò tanto Enrico IV, come anche i Normanni che minacciavano “Marchiam Firmanam et Ducatum Spoletinum”.

     Nel 1084, Gregorio è costretto a chiedere aiuto a Roberto il Guiscardo, allora impegnato contro l’Imperatore di Costantinopoli.

     Enrico IV, seguito da un antipapa, aveva occupato Roma e Gregorio si era chiuso in Castel Sant’Angelo.

   Guiscardo accorre con trentamila soldati normanni e saraceni, mette in fuga il re tedesco e libera il Papa.

  In questa impresa i normanni occuparono anche la marca Fermana; e il Guiscardo, che non si era mosso certo pero solo amore di Dio, volle ripagarsi del servizio reso; e Gregorio VII dovette accontentarsi di cedergli la parte della Marca a sud del Tronto. Quel fiume diventò il confine tra la Marca Fermana il territorio normanno, e anche oggi è il confine meridionale delle Marche   .

     Quanto abbia sofferto la città di Fermo in questa pur breve occupazione normanna non lo sappiamo, poiché sono rarissimi gli storici che si occupano delle sofferenze della povera gente, ma possiamo farcene  un’idea, conoscendo la ferocia di questo esercito di briganti che nella stessa Roma aveva perpetrato stragi crudeli.

     Era Vescovo di Fermo Golfarango, che forse qui si chiamava Wolfango, probabilmente venuto dal Nord, come ci suggerisce il nome. Vale la pena di fermarci un po’ su questo personaggio su alcuni fatti che sono in relazione con lui, perché ci aiuta a conoscere meglio la storia di questo periodo.

     Morto Olderico, verso la fine del 1074, Gregorio VII scrisse al Conte di Fermo Uberto, al clero e a tutti i fedeli che, benché gli fossero state riferite cose riprovevoli nei riguardi dei loro Arcidiacono, pure, conosciute false le accuse, a lui affidava l’amministrazione della Diocesi che, d’accordo col Re (Enrico IV), non si fosse trovata la persona degna dell’Episcopato.

     Intanto si impedisca la dispersione dei beni della diocesi, e “fate in modo di diportarvi come figli fedeli della Chiesa”.

     Questo, perché avveniva sempre che alla morte di un vescovo, clero e popolo saccheggiavano l’episcopio; il che succedeva non solo a Fermo, ma anche altrove15.

     Nei primi mesi del 1075, fu eletto vescovo Pietro I, che l’anno appresso scompare, ma non si sa se per morte, o per rinuncia volontaria, o per rinuncia imposta da Enrico IV.

     Io sospetto che quest’ultima ipotesi sia la più probabile perché a Enrico IV non poteva piacere la fedeltà dei vescovi fermani al Papa, né la loro intraprendenza politica; nel Giugno di quell’anno, loro stesso Pietro I aveva imbrigliato il potere degli Aldonesi, piccoli feudatari, obbligandoli a fare i conti col Comune di Civitanova, già formatosi sotto Olderico e in via di sviluppo16.

     Al principio del 1076, Enrico IV insedia un nuovo vescovo a Spoleto, e a Fermo manda Wolfango, senza sentire il Papa, il quale si lamenta col Re, perché ha osato dare le due diocesi a due sconosciuti, mentre egli non può consacrare se non persone ben conosciute provate. Ma per amore di pace, il Papa consacrò i due vescovi.

     Nel VI Concilio romano che si celebrò nel Febbraio 1079, troviamo Wolfango comunicato insieme ad altri vescovi17.

     Che era successo?

      Si era al colmo della lotta per le investiture, contro la simonia e per il celibato del clero; lotta che Gregorio VII sosteneva con successo da una trentina di anni, prima come segretario dei papi, poi come Papa, e che gli aveva attirato l’odio della gran parte del mondo cattolico.

     Questo piccolo gigante, cui era ignoto il senso della paura, alle minacce tedesche, al pericolo normanno, ai conciliaboli dei vescovi partigiani di Enrico IV che si ribellavano ed eleggevano antipapi, rispose col VI Concilio Romano, dove si scomunicò di nuovo il Re e tutti i vescovi ribelli e, tra questi, per la prima volta si trovò un Vescovo Fermano, Wolfango, il quale come gli altri doveva l’episcopato a Enrico IV.

     Ma per l’opera dei grandi vescovi precedenti, Fermo non era la sede adatta per un vescovo ribelle, e Wolfango o se ne andò, o più probabilmente si riconciliò col Papa dopo poco tempo18.

NOTE

1     UGO DI FARFA – “Destructio” – Traduzione e note di Fiuseppe Michetti (Fermo – La Rapida 

        1980).

2     COLUCCI – A. P. XXXI p.15

3     CHRONICON col. 469 – “Curtem S. Marinae in Ortatiano

4     COLUCCI – XXXI pp. 16-17

5     per attraversare il lasso non c’erano punti. Nei punti dove confluivano le vie di maggiore

       traffico, era organizzato il trasbordo per mezzo di zattere che si chiamavano “Portoria”, e il

       luogo si chiamava portus = dazio, gabella. Il trasbordo dei passeggeri e delle merci era fonte di

       grossi guadagni. Il “portus” di fortezza sano era in proprietà dei monaci di Santa Marina, cui

       monastero era poco lontano.

6     GREGORIO DA CATINO – Cronicon – in Muratori – Scrip. Rer, Ital. t. II – COLUCCI XXIX p. 20 –

      “Denique Joannes Ravennas tunc praesidebat Ecclesiae Romanae, qui consultu Randulfi

       Beneventanorum et Capuanorum principis legatos dixerit ad Imperatorem Costaninopolim, a

      quo acceptis non modicis copiis, simulque accersitis Spoletanis atque Camerinis, contra POenos

      satis studuit pugnam preparare. In quo bello visi sunt a religiosis fidelibus Petrus et Paulus

      Apostoli, quorum precibus cristiani victoriam obtinuerunt et Poenos viriliter effugaverunt”.

      Era a capo della Chiesa Romana Giovanni di Ravenna…..  reclutati spoletini e camerinesi preparò

       accuratamente la guerra contro gli Arabi.

7    E’ la prima volta che troviamo l’espressione: “Marca Fermana”.

8    ABATE UGO – Destructio – in Colucci t. XXIX p. 8.

9     DA CATINO – Chronicon – in Muratori A. I. T. t. II part. II.

10   Patto di Quercy del 754, riconfermato da Carlo Magno nel 774.

11   CATALANI – De Eccl. app n. II – riporto questa donazione per far notare che nei contratti si

        poteva usare il Codice Longobardo o quello Romano. Nel Fermano prelevare l’uso del primo.

12   Et si aliqua quaestio inter nomine praedicti castri oriebatur, ipse Episcopus faciebat

        determinare per iudicem suum” (Catalani – DE Eccl. etc. – App. n. 340).

        E  se sorgeva qualche questione tra gli uomini del detto castello, il Vescovo la faceva a

        dirimere dal suo giudice.

13   Di Leone IX e della guerra contro i Normanni parlano: Bruno di Segni, Anacleta Bollandiana t.      

       XXV; Chalanton – Histoire de la nomination normande en Italie (Parigi 1907).

14   Ildebrando, nato a Savona da umilissima famiglia, fu un monaco Benedettino, poi consigliere

        dei Papi per una ventina di anni. Piccolo di statura, di voce esile, dimostrò meravigliose qualità

        diplomatiche politiche che, insieme a una volontà ferrea, lo pongono tra i più grandi uomini  

        della storia.

15   CATALANI – De E. F. – app. n. XII

        Anche Leone IX, nel 1051, aveva scritto nello stesso modo al clero e al popolo Osimano.

16   Ex Reg. Episc. P. 116

17   “Excomunicati sunt in eadem Sinodo, sine spe recuperationis, Archiepiscopus Narbonensis,

        Tebaldus dictus Archiepiscopus Medionalensis, Sigifridus dictus Episcopus Boboniensis,

        Rolandus Trevisinus, item Episcopi Firmanus et Camerinensis; hique omnes cum seduacibus

        suis tam clericis, quam etiam laicis”.

18   CATALANI – Hist. Eccl. Firm. – Gulfarangus p. 124.

CAPITOLO III

FERMO E I COMUNI

I vescovi di Fermo preparano i Comuni

        L’organizzazione municipale romana, che era sopravvissuta nella “civitas”, era venuta meno nei villaggi e nelle città ridotte a misere borgate per le invasioni barbariche e divenuti, in qualche maniera, tributari dei feudatari, e condizionati dalla potenza dei signori terrieri.

     Alla fine del secolo XI e al principio del secolo XII, l’organizzazione municipale comincia a ricostituirsi nel Piceno, soprattutto per merito dei Vescovi di Fermo e degli Abati di Santa Vittoria.

     Abbiamo accennato ai patti sottoscritti dai signori Aldonesi, nel 1075 per incastellarsi a Civitanova, un Municipio risorto pochi anni prima con un certo autogoverno; difatti tra i firmatari c’è anche un “Massaro” = pubblico amministratore.

     L’attività politica dei vescovi fermani in questo periodo consisteva nel dare una organizzazione civica a questi villaggi, a queste libere plebi, mano mano, che l’ambiente ne presentava la possibilità .

     Così nel 1083, Ulcandinus = Ugo Candido diede organizzazione civica Ripatransone1; l’Abate Berardo III fortificò Offida “et civitatem fecit”, cioè diede organizzazione civica a Offida, nel 10992; nel 1108, il vescovo Attone dettò a diversi signori di campagna i patti per la formazione di un paese fortificato intorno alla pieve di San Marco che poi si chiamò Servigliano3: nello stesso anno, fece la medesima cosa con Macerata4. È chiaro che si tratta di iniziale organizzazione civica.

       Nella città di Fermo non possiamo fare lo stesso discorso che facciamo per gli altri Comuni del contado. Nella città l’organizzazione municipale, pur subendo mutamenti e deterioramenti, non era venuta meno con le invasioni barbariche. L’influente presenza del vescovo e il progressivo incivilimento degli invasori, particolarmente dei Longobardi, avevano mantenuto una organizzazione municipale sufficiente. Circa l’anno 600, in una lettera di Gregorio Magno al vescovo Passivo si parla di “Tributi Fiscali dovuti al Municipio”5. Certo non possiamo ancora parlare di libero Comune; la libertà arriverà dopo parecchi secoli.

     Per mancanza di documenti, non sappiamo i titoli dei reggitori della città di quei tempi. Sappiamo che fino a tutto il secolo XI Fermo fu governato da un Conte; ma questi sicuramente aveva avuto bisogno di collaboratori, per le molteplici e varie esigenze della vita cittadina. È ovvio quindi pensare a un gruppo di persone autorevoli, forse anche elette dal popolo, destinate alla guida civile del Municipio, sotto la vigilanza del Conte.

     Solo nel 1101, conosciamo il nome di un Console: il Console Reginaldo che accompagna in Terra Santa il Vescovo Attone6. Ma la piena autorità di questi Consoli e la relativa piena libertà del Comune di Fermo la troviamo solo nel 1189, quando la città si dà il primo Statuto e al posto del Conte, troviamo un Podestà eletto dal Comune: il Podestà Baldo di Nicola da Firenze.

     L’opera dei vescovi fu compresa e appoggiata pienamente dalla città di Fermo, perché capiva i vantaggi che le potevano derivare dall’organizzazione unitaria di un Feudo così vasto.

   Dopo avere sperimentato quasi inesistente la potenza militare del governo pontificio, in tempi che la forza valeva più del diritto; constatata vana la fiducia nella protezione dell’Imperatore; sofferta l’oppressione dei feroci Normanni, Fermo e il suo vescovo si persuasero che bisognava riorganizzarsi meglio, accrescere la solidarietà e la forza in questa zona, destinata a diventare il punto di scontro tra Tedeschi e Normanni.

     Ma per avere questa forza, questa solidarietà, non bastava il sistema feudale vigente.

     Questo è l’aspetto principale da tenere presente in questo argomento: il sistema feudale favoriva la divisione e l’urto tra i signori dei castelli feudali; e soprattutto favoriva l’indifferenza e il disinteresse della plebe inerme.

     Il Vescovo di Fermo capì che queste plebi che per lui erano state, in qualche modo, un peso, potevano diventare una potenza, qualora fossero costrette a governare se stesse.

     E i Vescovi (essi soli erano in grado di farlo) prepararono le popolazioni all’autogoverno e gradatamente le condussero al Governo Comunale.

     Questo genere di organizzazione però poteva generare un certo frazionamento, favorire un autonomismo esagerato e pericoloso; ed ecco la sapiente politica dei Vescovi: libertà nella solidarietà; Comuni liberi, ma solidali con la capitale Fermo.

     Questa solidarietà e sempre imposta nei contratti comunali: in principio solidarietà col vescovo; poi quando il Comune di Fermo aveva raggiunto una efficienza notevole, si imponeva solidarietà con quella città e speciali riguardi pei suoi cittadini7.

IL COMUNE

     L’istituzione del governo comunale non nasce da una decisione improvvisa e arbitraria di    una popolazione, ma è l’epilogo di una grande preparazione, di una lunga esperienza di autoamministrazione popolare.

     Questa autoamministrazione formatasi in ogni centro anche piccolo, per la necessità, che tutti gli uomini naturalmente sentono di un organismo che regoli le loro relazioni reciproche, diriga, in altre parole, la loro convivenza, fu esercitata da uomini scelti che si chiamarono “Boni Homines”.

     Essi avevano la poca autorità che  loro permetteva l’arbitrio del feudatario, o la prepotenza del signore terriero; autogoverno popolare quindi molto limitato e imperfetto.

     Con la istituzione del Comune questa autogoverno popolare si perfeziona sempre di più; e diventa completo, quando acquista anche il diritto di amministrare la giustizia.

     L’istituzione del Comune quindi non è l’inizio dell’autogoverno popolare, ma la perfezione di esso; e per conseguenza, è l’inizio della libertà responsabile di una popolazione.

     Poiché siamo abituati a dare alla parola “rivoluzione”un significato violento, faremmo meglio a chiamare la lotta per il governo comunale: “evoluzione”; una lenta, ma non violenta evoluzione di più secoli, che porta al libero Comune.

     Ciò non toglie che essa sia una rivoluzione nelle conseguenze, poiché conduce a una radicale trasformazione dell’assetto sociale.

     Le “plebes”, composti di gente libera ma povera; di artieri, di piccoli commercianti anche di professionisti riscoprono l’organizzazione romana dei “Collegia” = corporazione, e sperimenta la grande convenienza della solidarietà.

      Queste plebi crescono, si organizzano e reagiscono contro l’oppressione del nobile signore di campagna che, nel sistema feudale, controllava tutte le fonti della ricchezza, essendo la terra base principale dell’economia.

     Anche una maggiore comprensione popolare della giustizia e della libertà spinse le plebi verso il governo comunale, poiché fece loro sentire la necessità di rompere quella rete di diritti e di privilegi signorili che condizionavano lo sviluppo della stessa vita civile.

     Non era più sopportabile che i pedaggi, per esempio, pagati dai commercianti sulle strade e sui ponti, e la percentuale che la povera gente pagava per servirsi dei mulini e dei forni, tutti in proprietà del signore, andassero completamente a profitto di lui che non si curava affatto delle necessità della plebe, la quale abitava in raggruppamenti di tuguri, tra vie impraticabili per fango e immondizie.

     Questi capi eletti dal popolo difesero la libertà di ogni cittadino, abolendo la servitù della gleba e la prestazione gratuita di servizi obbligati; amministrarono la giustizia secondo le leggi comunali, uguali per tutti; provvidero al bene sociale, organizzarono la vita cittadina con maggiori comodità e più decoro.

     Non si deve però credere che con l’istituzione del Comune sparissero immediatamente gli inconvenienti del feudalesimo; anche il Comune è una istituzione umana e, se è umana, non sicuramente perfetta.

INDOLE DEL COMUNE FERMANO

     Nel fermano, i Comuni nascono con pacifici contratti tra il Vescovo e i rappresentanti delle popolazioni; nessuno colla lotta violenta. E questo perché il Comune era voluto dalla Chiesa, favorendo esso lo sviluppo sociale delle plebei le quali, divenute consapevoli della loro dignità e responsabili di se stesse, avrebbero costituito una forza capace di far fronte, sia allo strapotere dell’Imperatore tedesco, sia all’irrequietezza dei Normanni e di altri potenti signori.

     Nella istituzione dei Comuni la Marca Fermana non fu seconda a nessuno nel tempo. I Comuni Fermani ripeterono molti aspetti del Municipio romano, e molti ne suggerirono all’organizzazione del Municipio moderno.

     Per dimostrare le mie affermazioni, sottopongo all’esame del lettore il contratto che riguarda il Comune di Macerata, poiché gli altri che conosciamo sono redatti pressappoco nello stesso modo.

     Nel 1116, il vescovo Azzone concede il governo comunale a poggio San Giuliano, uno dei castelli che formò poi la città di Macerata, dando tutte le concessioni e i privilegi accordati a Civitanova dal Vescovo Olderico (1057-1074), una cinquantina d’anni prima. La motivazione è motivata:  “ut omnes nostare Ecclesiae minores sudditi juste sibi quaesita possideant” = affinché i nostri sudditi minori posseggano con sicurezza quanto giustamente reclamato”.

     E premette: “da oggi in poi, vi staremo vicini, vi difenderemo, lavoreremo con voi e ci interesseremo di tutti i bisogni del vostro castello.

     Mai valendoci del Codice Longobardo o di quello Romano, vi molesteremo per i mercati e negozi che si terranno nel vostro castello; per essi, non siete tenuti né a tasse, né a dazi.

     Non terremo tribunali per gli abitanti del vostro castello, se non per i quattro delitti che ci riserviamo: insurrezione, omicidio, furto e adulterio incestuoso; e se questi diritti avverranno entro le vostre mura, chiederemo il consenso dei vostri Consoli.

     Non esigeremo il vettovagliamento (forum), se non in caso di visita dell’Imperatore.

     Poiché anche voi avete promesso di stare con noi, di agire d’accordo con noi e di opporvi contro tutti, in fedeltà verso la Chiesa Fermana.

      E se il castello verrà distrutto, lo ricostruirete con noi fino a tre volte.

      Inoltre difendete le cose della nostra Chiesa entro i confini del vostro territorio.

      Potete vendere, con votare, donare le cose vostre, purché non ci inviate le terre situate entro i vostri confini a Conti, a Capitani, o ad altra chiesa (diocesi)8.

      Da questo documento appare chiaramente che gli abitanti di San Giuliano chiesero l’autogoverno comunale; il Vescovo concesse la libertà più ampia; concesse anche l’amministrazione autonoma della giustizia; imponendo però al nuovo Comune la solidarietà con la Chiesa Fermana e la proibizione di vendere terre a estranei.

     Mi pare di poter affermare che il Vescovo Attone, nel suo lungo Pontificato, abbia mirato principalmente a dare una organizzazione unitaria al suo immenso feudo, con lo scopo non confessato di costituire un potente principato fermano, capace di far valere il suo peso nelle interminabili lotte tra il Papato e le potenze avversarie.

     La sua politica fu seguita dai suoi successori Grimaldo, Alessandro II e ancor più da Liberto (1128-1145) che appena eletto costituì il Comune di Monte Santo (Potenza P.); da Presbitero (1184-1202) che il lavoro per consolidare i comuni; fino ad Adenulfo (1205-1213) il primo Vescovo-Conte di Fermo, investito della Contea “per vexillum”, da Papa Innocenzo III.

DIFFICOLTA’ PER FERMO NEL SEC. XII

     Allo stato delle cose, religiosamente positivo, politicamente efficiente nel Fermano, non faceva riscontro una condizione altrettanto positiva per la Chiesa Romana.

     Mentre il vescovo Liberto (1128-1145) aveva bisogno di pace, per organizzare i Comuni Fermani, a Papa Innocenzo II (1130-1143) fu contrapposto l’antipapa Anacleto, sostenuto principalmente da Ruggeri di Sicilia.

     Per difendere l’antipapa, i Normanni occuparono Roma e la Marca Fermana.

     Non sappiamo quale resistenza poteva opporre il Vescovo Liberto coi suoi Comuni, ma la disparità di forze a suo scapito era enorme; e solo con l’intervento dell’Imperatore Lotario II di Sassonia i Normanni furono ricacciati nei loro confini, nel 1137.

     Nella Pasqua di quell’anno, Lotario II passò le feste a Fermo e ricevette la Comunione dalle mani del Vescovo.

     L’ultimo atto del Vescovo Liberto fu l’incastellamento dei signori Gualtieri a San Benedetto in Albula, nel 1145.

     Gli succedette immediatamente, nello stesso anno, il vescovo Balignano (1145-1167, Arcidiacono della Chiesa Fermana.

     Veniva da una nobilissima famiglia comitale, poiché  figlio del conte Giberto.

     Per la sua elezione, i suoi fratelli degli donarono il castello di Francavilla, con tutti i suoi abitanti e le sue pertinenze9.

     Seguito la politica dei suoi predecessori, organizzando sempre meglio e accrescendo il numero dei Comuni Fermani.

     Ricostituire fortificò il castello di Morrovalle, la qual cosa lo portò alla guerra col Marchese di Ancona, un personaggio nuovo nella nostra storia.

     Era successo che, nel 1112, contro l’aperta opposizione del Papa Pasquale II, Enrico V aveva affidato la Marca al Marchese Guarniero, allo scopo di farne una provincia dell’Impero, mentre essa era di diritto pontificio.

     Questo marchese non sembra un arrabbiato antipapalino, perché con una scrittura dello stesso 1112, il vescovo Attone gli diede in enfiteusi per tre generazioni il castello di Agello (Ripatransone); in quel documento il Vescovo loda la bontà di lui e si dice grato di tanti benefici del Marchese verso la Chiesa Fermana10.

     Il Marchese ebbe discordie con il Vescovo Balignano fu il figlio, che si chiamava Guarniero come il Padre. Il fatto è questo.

     Balignano, ricco e potente come vescovo, appoggiato dai suoi vecchi fratelli, vuole fare del villaggio di Morrovalle un grosso castello fortificato, che diede in feudo ad Alberto di Montecosaro, che nominò suo Visconte

     Il Marchese di Ancona Guarnerio non vedeva certo di buon occhio la potenza del vescovo fermano, e tantomeno che si fortificasse verso i suoi confini e, circa il 1153, assalì il territorio fermano.

     L’esercito di Balignano respinge sul principio le forze del Marchese; avanzò anche sul territorio di lui distruggendo il castello di Casio, ma poi dovette ritirarsi e cedette Morrovalle.

     Il tempo era a sfavore del vescovo, poiché Federico Barbarossa era in aspettativa della corona imperiale, che ottenne nel 1155; e Balignano ottenne giustizia solo dopo undici anni. Nel 1164, nel tribunale costituito a Fano presso la chiesa di San Paterniano, presieduto dal vescovo di Trento, Vicario dell’Imperatore, si stabilì che Morrovalle doveva essere restituita al vescovo di Fermo11.

     Forse questa rivincita costò molto cara moralmente al Vescovo Balignano; poiché, esaminando la successione cronologica dei fatti, mi son convinto che fu per ottenerla, che nel conciliabolo di Pavia del 1160, insieme ad altri, anche Balignano firmò a favore dell’antipapa Vittore IV, ivi proclamato.

DISTRUZIONE DI FERMO

     Forse nessun Imperatore si accanì tanto contro gli Italiani e contro il Papa, e forse nessuno raccolse in Italia tante umiliazioni, quante Federico Barbarossa.

     Ogni volta che scendeva nella Penisola, portava il terrore; ma sempre doveva affrettarsi a ripartire a causa di pestilenze, regolarmente inseguito da ribelli italiani che decimavano quella parte del suo esercito risparmiata dalla peste.

     Eppure i Comuni italiani non erano contro l’Imperatore.

     Essi riconoscevano la sua autorità, ma non sopportavano l’oppressione e lo sfruttamento del feudatari che egli difendeva: volevano la libertà.

     E siccome avevano trovato un grande Papa. Alessandro III (1150-1181) che favoriva i loro ideali, non sopportavano che l’imperatore volesse imporre i suoi antipapi, fecero di Alessandro III la loro bandiera; in suo onore fondarono una città, Alessandria; e da quella città iniziò il declino di Barbarossa.

     Tutte le crudeltà dell’Imperatore non valsero a fiaccare i Comuni italiani: nel 1162, distrusse Milano, ma dopo cinque anni i Comuni longobardi concordi l’avevano ricostruita più forte e giurarono a Pontida di difendere la loro libertà, uniti nel nome di Alessandro III.

     Il Barbarossa ridiscese in Italia dopo poco tempo, ma a Legnano, il 29 Maggio 1176, subì una sconfitta che fiaccò per sempre la sua prepotenza.

     Chiese la pace del Papa, con l’intento di separarlo dai Comuni lombardi, ma Alessandro rispose: “Che preferiva essere segato in due dai nemici, piuttosto che fare la pace senza i Comuni”; e questi dall’altra parte: “preferiamo la guerra nell’unità della Chiesa, piuttosto che la pace con la divisione da essa”. Fu durante questi tentativi allo scopo di fiaccare la resistenza del Papa che il cancelliere dei Federico, Cristiano Won Buk, detto “il Cancelliere Cristiano”, rivolse le sue forze contro la Marca Fermana, il territorio della Chiesa più ricco più organizzato.

     Non sappiamo dei danni subiti dai vari Comuni Fermani, perché mancano documenti, ma certo il Cancelliere non ebbe nella Marca la mano tanto leggera, poiché era recente lo smacco subito in Ancona, che non era riuscito a sottomettere; e ricordava sicuramente che i Comuni Fermani, pochi anni prima, concordi col loro Vescovo avevano rintuzzato tanto bene le la prepotenza del Marchese di Ancona Guerniero.

     A Fermo poi, loro capitale, era riservata la sorte di Milano, di Crema e di Spoleto.

     Occupata dalle truppe del Cancelliere, il 21 settembre 1176, saccheggiata e data alle fiamme.

      Nell’incendio perirono, insieme a tanti cittadini, i migliori edifici, compresi la Cattedrale coi suoi tesori e l’archivio; l’episcopio attiguo alla Cattedrale; il vicino palazzo dei Priori12.

      Era vescovo di Fermo Alberico, del quale non conosciamo la fine che deve cadere in quello stesso anno, poiché al convegno di Venezia del 1177, nel quale si firmò la pace tra il Papa, i Comuni e l’Imperatore, insieme ad altri vescovi del Piceno, non figura Alberico.

     Mentre ci sono documenti sulla distruzione di Fermo, nessuno ci parla della sua ricostruzione che sicuramente cominciò subito, dietro la guida dei suoi Consoli.

     Nell’agosto del 1177, da Venezia, Alessandro III scrisse ai vescovi della Marca, e al Comune di Fermo che si interessassero delle chiese della città, imponendo a chi ne fosse detentore la restituzione dei libri e delle suppellettili da esse asportati.

      Esorta i chierici e fedeli ad essere generosi nell’aiutare i canonici nella ricostruzione della cattedrale, al fine di scontare i loro peccati13.

     Nella cattedrale di risorse, ma fu completata solo nel 1227, dell’architetto Giorgio da Como14.

NOTE

1   CATALANI – De Eccl. Firm. – App. n. XV p. 128 “…. in ipso monte qui vocatur Agello qui edificata

      est ipsa civitate quan fecit Ulcandinus….”

2   GIORGI E BALZANI – Reg. Farf. Vol. V – p. 389

3   CATALANI – app. n. XX

4   CATALANI – app. n.XIX

5   CATALANI – De Eccl. Firm. Etc. – Passivus p. 100

6   CATALANI  – Ivi – Actius p. 130

7   Tipico in questo senso è l’accordo del Vescovo Presbitero con la comunità di Monte Santo(leggi

      Potenza Picena). (Catalani – app. n. XXXVIII).

      “Item nostrae civitati Firmanae promisistis hostem seu exercitum et parlamentum cum requisiti

      fueritis a consulibus rectoribus et potestate ….. Item nostrae civitati  promisisyis suis inimicis

      vivam guerram facere et amicis suis vivam pacem tenere …. Item promisistis quod quicunque

       civium Firmanae civitatis intra Monte Santo causas abuerit sicut personas vestras eum tractare

       debetis, et personas et res civium in tota fortia vestra salvare et defendere promisistis”.

       Avete promesso alla nostra città di Fermo accordo e aiuto militare quando ne sarete richiesti dai

      Rettori e dal Podestà …. Che qualunque cittadino fermano avesse interessi a Monte Santo sarà da

      voi trattato come vostro cittadino ecc. …..

8   CATALANI – Ivi app. XXII

9   CATALANI – De Eccl. Firm. – Balignano p. 189

      Forse i fratelli diedero al vescovo Balignano il castello di Francavilla come sua parte di eredità;

      perché, diventato Vescovo, non faceva più parte della famiglia.

10 CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. XXII

11 CATALANI – ivi – app. n. XXVIII e XXIX

12 ANTON DE NICOLO’ – Cronache Fer, – “In festo Beati Mathei mense Septembri, civitas Fermana

      fuit invasa, occupata et destructa ab archiepiscopo Maguntiae, dicto alias Cancellario Cristiano”

13 CATALANI – app. n. XXXII

14 CATALANI – De Eccl, etc. – Diatribe p. 37.

CAPITOLO IV


FERMO ALLA FINE DEl SEC. XII

     Costretto dalla pace di Venezia, Federico Barbarossa più comprensivo verso i comuni italiani. Un “Privilegio” del Cancelliere Cristiano di Magonza, nel 1177, l’anno successivo alla distruzione, ridà a Fermo i beni la libertà che godeva prima della eversione1.

     Fermo seppe approfittarne, e riacquistato un po’ la calma, nel 1189 promulgò il suo primo “Statuto” ed elesse il suo primo “Podestà” nella persona di Baldo di Nicola, da Firenze.

     Nel 1190, muri Federico e l’anno appresso fu consacrato imperatore da Celestino III il figlio Errico VI, al quale non andava troppo a genio la floridezza dei comuni marchigiani; ed anche Fermo ricadde sotto il controllo dei funzionari imperiali.

   Enrico VI, impegnato nella conquista della Sicilia tenuta da Tancredi, ritenne che il marchese d’Ancona fosse troppo arrendevole verso la Chiesa e non desse sufficienti garanzie per il sicuro possesso della Marca, e lo sostituì con Marcoaldo di Anweller, che poi i Fermani per disprezzo chiamarono “Marcoaldo di Anninuccia”2.

     Fu un Marchese feroce contro i Comuni, contro i Vescovi, contro i monasteri e le chiese, tanto da acquistarsi una buona collezione di scomuniche da parte del Papa.

     Particolare impegno unisce nel perseguitare il Vescovo di Fermo, vedendo in lui il principale ostacolo; tanto che il Vescovo Presbitero, non potendone più e non trovando nessun luogo della Marca sicuro per lui chiese al Papa di trasferirsi in Dalmazia. Ma Celestino III gli raccomanda di essere forte e di restare al suo posto, perché attendeva il prossimo arrivo dei rappresentanti dell’Imperatore per trattare certi accordi, avrebbe trattato anche il suo caso3. Se accordi con l’Imperatore ci furono, non lo so; però l’anno appresso il 28 settembre 1197, Enrico VI morì ancora giovanissimo, e nel Dicembre dello stesso anno, Celestino III ordinò al vescovo di Fermo e all’Abate Farfense che raccogliessero dalla città e dai castelli della Marca fino a Rimini, il giuramento “che non obbediranno ai tedeschi (Teutonicis), ma resteranno fedeli alla Santa Sede4”.

     La morte inaspettata dell’Imperatore aveva prodotto un po’ di incertezza tra i Ghibellini della Marca e Celestino III ne approfittò per preparare la riscossa contro Marcoaldo.

     Il Marchese era ancora forte, ma la sua posizione non si presentava più sicura come prima, di fronte a un futuro politico incerto, in una regione che lo odiava e senza l’appoggio del suo imperiale protettore.

     Inoltre, pochi mesi dopo, anche l’imperatrice Costanza morì, lasciando un figlio di tre anni, Federico II.

     Per la morte di Costanza, Marcoaldo dovette recarsi in Sicilia, della quale circostanza approfittarono i Comuni Marchigiani, per prepararsi contro di lui.

      L’urto più feroce dei ghibellini lo sostenne Ripatransone.

      In assenza del Marchese la città si era fortificata di mura, senza il permesso di lui che, tornato dalla Sicilia, volle punirla.

     Assalita da un forte esercito di ghibellini guidati dal marchese, dopo un lungo assedio sostenuto era ovviamente, Ripatransone fu presa e incendiata, nell’Agosto 1198, ma da quella città cominciò la fine di Marcoaldo.

     L’esempio di Ripatransone fu seguito dalle altre città marchigiane, e Marcoaldo dovette fuggire in Sicilia, dove morì poco dopo5.

     Nel 1198, con la fine di Marcoaldo, incomincia per Fermo una nuova epoca di sviluppo, di crescente potenza, e anche di dure lotte.

ORGANIZZAZION POLITICA DEL FERMANO NEL SEC XIII

     Non è una cosa troppo semplice capire la complicata organizzazione politica del Fermano, nel secolo XIII.

     Fermo era un libero Comune, organizzato ben governato dai suoi Priori, dal suo Podestà in una regione spettante di diritto la S. Sede, ma di fatto contesa aspramente tra il Papa e l’Imperatore.

     Nel periodo di prevalenza imperiale, i Priori erano controllati e il Podestà imposto dai messi imperiali; in periodi di prevalenza papale, le autorità erano elettive e godevano di una maggiore libertà d’azione, senza timore di interventi armati, che non erano nello stile e nelle possibilità del governo pontificio.

     Ciò non toglie che l’autorità pontificia fosse molto sentita, poiché, come appare da tanti documenti, il Papa si limitava ad esortare, a raccomandare, ma tutti sapevano che, pur non avendo un forte esercito, aveva un’arma morale capace alla occorrenza di annientare perfino la potenza imperiale.

     Benché i feudatari, i grossi terrieri, cercassero ancora di resistere al Comune, pure cominciavano a piegarsi, costretti dal timore dell’isolamento materiale e morale che li minacciava.

     Il più grande feudatario del fermano era il Vescovo; ma il Comune di Fermo non faceva parte del suo feudo e non c’era nessuna interdipendenza politica tra le due autorità.

     Il vescovo non interferiva nel governo comunale, benché la sua autorità pesasse molto, sia perché Vescovo, sia perché potente signore.

     Tra il Vescovo e il Comune c’era stata sempre intesa e collaborazione, poiché l’uno e l’altro capivano che in questo poggiava la loro sicurezza.

     La collaborazione positiva col Comune di Fermo incoraggiava il Vescovo a estendere accordi similari con altre popolazioni del suo feudo, e così erano sorti Comune di Civitanova, di Macerata, di Potenza Picena, e altri erano in preparazione.

     Non si deve quindi confondere il Comune di Fermo, col feudo del Vescovo di Fermo; erano due cose ben distinte.

     Il Comune governava la popolazione nell’ambito del suo territorio; il Vescovo governava il suo feudo che comprendeva un territorio molto più vasto; con città e villaggi che, anche diventati liberi Comuni, restavano legati a lui e gli giuravano fedeltà come a Caposignore.

     Possiamo quindi comprendere come la potenza del Vescovo fosse maggiore di quella del Comune, il quale però, lo ripetiamo, non dipendeva politicamente da lui.

     Questa libera ma insostituibile alleanza tra il Comune di Fermo il suo Vescovo, nel 1199, alla fine del governo di Marcoaldo, quando i Comuni del Fermano riacquistarono la piena libertà, prese un nuovo indirizzo: i vescovi tentarono una maggiore unità tra i Comuni della loro Diocesi.

      Il loro ideale sarebbe stato trasformare l’immenso feudo in un  principato ecclesiastico con capitale Fermo, ma nel secolo XII non era stato possibile, perché i vari Comuni erano troppo gelosi della loro recente autonomia: Fermo non si sarebbe rassegnata a difendere politicamente dal suo Vescovo; e i Comuni della Diocesi non avrebbero sopportato il predominio di Fermo: i tempi non erano ancora maturi, ma si era su questa via.

     E abbiamo visto come il Vescovo Presbitero, nel 1199, impose al Comune di Potenza, in cambio di tanti privilegi, l’alleanza con la città di Fermo e riguardi particolari per i suoi cittadini6.

LA CONTEA DEL VESCOVO DI FERMO

     Innocenzo III (1198-1216), uno dei più grandi papi della storia, fu anche uno di quelli che più si occuparono delle Marche.

      Nel programma di riordino dello Stato della Chiesa, questa regione richiedeva una particolare attenzione, perché da essa, a lungo dominata dai tedeschi, erano venute tante preoccupazioni alla S. Sede.

       Innocenzo III, come si impegnò a sfrattare dalla Sicilia i feudatari tedeschi, per conservare intatto il regno al suo pupillo Federico II, affidatogli dall’imperatrice Costanza, così si preoccupò di richiamare i Comuni Piceni alla concordia e alla collaborazione, sotto l’autorità della S. Sede, per assicurare la loro futura libertà.

     Niente scissioni, ma concordia e collaborazione, per il bene di tutti.

     Appena eletto Papa, revocò la bolla di Celestino III che istituiva, nel 1192, una quasi Diocesi in Offida e sottraeva quella città al controllo dell’Abate Farfense7; e nel 1203, i Comuni Piceni furono convocati a Polverigi; per giurare perpetua concordia reciproca.

     A parte il feudo Farfense che aveva dimostrato fedeltà alla S. Sede, come a suo tempo l’aveva professata verso l’Imperatore, la zona che nella Marca presentava maggiore affidamento per il futuro era il feudo del Vescovo di Fermo, con i suoi Comuni ben organizzati e vitali.

      Bisognava incrementare l’efficienza di questo immenso territorio che si estendeva dal Potenza al Tronto.

     Nel 1205, fu eletto vescovo di Fermo l’energico Adenulfo, e Innocenzo III lo nominò conte del suo feudo, investendolo  “per vexillum”, come si diceva allora: il primo  Vescovo-Conte di Fermo, con tanto di insegne comitali.

     Col feudo Farfense e colla Contea del Vescovo, la Marca Fermana si poteva considerare abbastanza al sicuro dal Potenza al Tronto.

     Per dare sicurezza alla rimanente regione più a nord, che veniva comunemente chiamata Marca Anconetana, Innocenzo III credette utile affidarla in feudo, nel 1208 al Marchese di Este Azzone VI, nominandolo Marchese di Ancona, con l’incarico di conservarla alla chiesa, difendendola da ogni pericolo di invasione8.

     Intento di Innocenzo, ribadito dai suoi successori, era che la concorde collaborazione tra il Vescovo Conte di Fermo e il Marchese di Ancona desse pace e sicurezza alla regione che era stata sempre al centro di tutte le discordie, sia per la sua ricchezza, sia soprattutto per la sua posizione strategica, costituendo la via naturale tra il Nord e il Regno di Sicilia.

     Ma la concordia in quei tempi era difficilissima.

     Ottone IV di Brunswik, scelto e incoronato  Imperatore, nel 1209, da Innocenzo III, perché è di antica famiglia guelfa, l’anno seguente si mise contro il Papa e progettò l’occupazione del Regno di Sicilia, guadagnandosi la scomunica.

     Anche il Marchese Azzone VI passò all’imperatore, dal quale accettò l’investitura di tutta la Marca di Ancona, intendendosi per la prima volta con questa espressione tutta la Marca, fino all’Ascoli.

     Incominciò allora l’ostilità tra il marchese di Ancona e i vescovi di Fermo che durò una quindicina di anni, degradando qualche volta in scontri armati.

UGO II E PIETRO IV

     Nel gennaio del 1214, morto Adenulfo,  fu eletto vescovo di Fermo Ugo II, al quale Innocenzo III rinnovò l’investitura comitale e i privilegi del suo predecessore9.

      Nell’Agosto di quell’anno, si formò intorno al vescovo una lega di grossi Comuni Fermani, decisi a difendere la loro indipendenza dal Marchese di Ancona.

     Giurarono alleanza fra loro e fedeltà al Vescovo il Comune di Macerata, di Morrovalle, di Civitanova, di S. Elpidio e altri Comuni e signori della Contea.

    Per il momento le pretese del marchese furono arginate, sia per la vivace resistenza dei Comuni, sia perché, nel 1215, le cose cambiarono.

     Innocenzo III fece accompagnare in Germania il giovane Re di Sicilia dal Marchese di Este, e ad Aquisgrana Federico II fu proclamato re di quella nazione.

     Per una decina di anni, Federico II dimostrò ossequio alla gratitudine al suo Papa, e poi al suo maestro Onorio III, eletto nel 1216.

     Morto Ugo II, venne eletto Vescovo di Fermo Pietro IV (1216-1223).

     Il nuovo Papa di rinnovò l’investitura di Conte di Fermo, con tutti i privilegi concessi ai suoi predecessori; ma le difficoltà col Marchese di Ancona, Azzone VII (Azzolino) d’Este, si aggravarono.

     In un diploma del 1219, Onorio III, riconfermò al Vescovo Conte il possesso dei comuni di S. Elpidio, di Civitanova, Montecosaro, Morrovalle, Macerata, Montolmo, S. Giusto, Cerqueto, Montegranaro, Montottone, Ripatransone, Marano e Forcella, e scrisse ai Comuni, ai Conti e baroni della Contea che facessero il loro dovere verso il Vescovo Conte, perché il Papa non era disposto a sopportare la loro avversione e il loro disfattismo né riguardi del Vescovo10.

     Difatti questi signori cercavano di creare difficoltà al Vescovo Conte, incitati sia dal Marchese di Ancona, sia da Consolino coppiere dell’Imperatore e da Bertoldo, figlio del Duca di Spoleto, ai quali si aggiungeva Guglielmo da Massa e altri signori della Marca.

     Dietro le lamentele dei Vescovi, nel 1223, Federico II scrisse loro e a tutti gli abitanti nel Ducato Spoletino e della Marca d’Ancona che egli Imperatore (era stato coronato nel 1220) sconfessava l’operato dei sudditi Consolino e Bertoldo e dichiarava decaduti  tutti gli incarichi conferiti da loro in suo nome.

     Tutti invece debbono riconoscersi vassalli del Romano Pontefice e ubbidire a lui solo11.

     Ma la lettera dell’Imperatore non poteva reintegrare la Contea del Vescovo che aveva subito danni e perdite irreparabili, anche perché contro di essa stava il Legato Pontificio di Ancona.

     Nel 1221 Gisone, tutore procuratore del giovane Marchese di Ancona, Azzone VII  d’Este, per dare un aspetto giuridico alle usurpazioni operate nella Contea, fece nominare arbitri della questione col Vescovo, il Patriarca di Aquileia e Pandolfo, Legato Pontificio.

      I due illustri personaggi sentenziarono che le cose restassero come stavano, per tre anni, passati i quali, il Vescovo avrebbe potuto far valere in giudizio le sue ragioni.

     Noi diremmo: per ora quel che è stato, è stato; appresso si vedrà.

     Ma quel che era stato era tutto a danno del Vescovo, che perdeva, con Montolmo e Macerata, tutta la parte della Contea sopra il Chienti, eccettuata Potenza Picena12.

RAINALDO (1223-1227)

     Nel 1223 morì  Pietro IV, e Onorio III nominò vescovo di Fermoil “nobilem et provi dum et honestum” Rainaldo di Monaldo, e scrisse al clero ed al popolo della città e della Diocesi, ordinando che il Vescovo fosse accolto festosamente (ilariter) e gli fossero riconosciuti tutti i diritti accordati dai Romani Pontefici.

     Il Papa approva fin da ora tutti i provvedimenti che il Vescovo prenderà contro i ribelli13.

     Rainaldo, sostenuto dal Papa, incominciò subito a lottare per la reintegrazione il riordino della contea; ed essendo il principale avversario di essa il Legato Pontificio Pandolfo, Onorio III gli scrive il 24 Marzo 1224, ordinandogli che sia restituita al Vescovo tutta la Contea e tutti gli antichi diritti14.

     Il 20 agosto 1224, il Comune di Fermo, S. Elpidio, Civitanova, Monte Santo, Morrovalle, Montelupone, Macerata, Montolmo, Monte Giorgio, Monterubbiano, nella Cattedrale di Fermo, giurarono fedeltà al Vescovo e collaborazione reciproca, per difendere la loro libertà e i diritti della Chiesa Fermana15.

       Ma il Marchese Azzolino non si rassegnava a sopportare il Vescovo Conte e ordinò spedizioni punitive a Montelupone, a Macerata, a Montolmo e occupò Montegiorgio, recando gravi danni alla Contea.

       Il Vescovo Rainaldo ricorsi al Papa (1225), fornendogli anche la documentazione sulla legittimità del possesso del Vescovo su quei Comuni16.

       Il 3 Novembre 1226, Onorio III , comanda al Marchese di riparare i danni recati alla Contea del Vescovo, rimproverandolo per la sua ribellione agli ordini del Romano Pontefice, e lo minaccia: “Non devi credere che siamo disposti a sopportare le tue prepotenze verso le chiese, perché essi toccano da vicino la nostra persona”17.

     Ma l’anno seguente, con la morte di Onorio III, le cose cambiarono.

     Il successore Gregorio IX, o perché vedeva impossibile un accordo tra Azzolino d’Este e il Vescovo, o perché la potenza del Vescovo Conte faceva ombra alla Curia Romana, chiamò alla sua presenza il Vescovo e il Marchese e stabilì: Monterubbiano, S. Elpidio, Civitanova, Montelupone, Morrovalle, Macerata, Montolmo e Montegiorgio, pur restando proprietà della chiesa di Fermo, passassero sotto l’amministrazione del Legato Pontificio Rolando.

     Il Vescovo si sottomise al volere del Papa, a condizione che questa decisione fosse provvisoria e non recasse pregiudizio, né al diritto di proprietà, né all’attuale economia della sua Chiesa18.

     Spezzata così la Contea, i Vescovi di Fermo dovettero subire il prepotere dei Legati e dei Rettori Pontifici.

      Morto Rainaldo, nel 1227, dopo quasi due anni di amministrazione del Legato Pontificio Alatrino, nel 1229, Gregorio IX trasferì il vescovo Filippo II dalla Sede di Jesi a quella di Fermo, nominandolo Conte con tutti i diritti 19.

“In Dei nomine Amen. Ad honorem et bonum statum Sanctae Firmanae Ecclesiae et librtatis firmanae et Comitatus defendensun, nos Firmani cives et nomine Comitatus, scilicet S. Elpidi, Civitatis Novae, Montis Sancti, Murri, Montis Luponis, Maceratae, Montis Ulmi, Montis S. Mariae, Montis Rubiani simul promittimus jurisdictionem Ecclesiae Firmanae …… defendere et mantenere in suo bono statu pro posse etc. (ex Reg. Episc. P. 123 – Catalani app. n. LI).

“Affine di conservare l’onore e la proprietà della Santa Chiesa Fermana, e la libertà di Fermo e della contea, noi cittadini per mani e gli uomini della contea cioè: di S. Elpidio, Civitanova, Montesanto (Potenza Picena), Morrovalle, Monte Lupone, Macerata, Montolmo (Corridonia), Monte S. Maria (Montegiorgio), Monte Rubbiano, promettiamo di difendere unite, mantenere nell’attuale buona condizione la sovranità della Chiesa Fermana, ecc.”

     ma nel 1231, il escovo dovette vendere (è l’espressione del documento, che però doveva significare qualcosa di più) al Rettore dei beni ecclesiastici del Ducato di Spoleto e della Marca Anconetana i frutti della Contea di due anni, per duemila lire; il documento dice: “per pagare i debiti della Chiesa Fermana20”; e nel 1233, dovette vendere al Rettore della Marca di Ancona, card. Giovanni Colonna le rendite della Contea di tre anni, per quattromila lire21; e con lui svanì la Contea dei Vescovi di Fermo.

     Il Vescovo Conte Filippo II, nell’occupazione di Fermo da parte dell’esercito imperiale, nel 1242, dovette fuggire a Venezia, dove per qualche anno visse di elemosina22.

     D’altra parte la Contea di Fermo aveva terminato la sua missione: aveva consolidato i Comuni Piceni e aveva insegnato loro a difendere la propria libertà, in collaborazione tra di essi e con la Chiesa.

     Il suo compito era finito, ora che il Legato Pontificio della Marca era in grado di imporre l’autorità della S. Sede nella Regione; e si stava profilando uno Stato Pontificio più forte e unitario.

NOTE

1    M. DE MINICIS – Annotazioni alle Cronache Fermane.

       “Copia privilegi Christiani Arch. Magun, confirmantis omnia civitatis Firmanae bona, jura,

       rationes, justitias, terras agros,  vineas ac remittentis eandem civitatem et nomine in eadem

       libertatem, quam ante civitatis destructionem habuerunt, et relevantis eos seu ean intra

      proximos quinque annosa b omni exactione vel dativa quovis modo a quoquam hominum

      exacta”. Dat a. D. 1177, apud Assisium etc. (Ripreso dal belga Michele Hubart).

2    CATALANI – De Eccl. etc. – app. XXXV – Il documento riporta certi accordi tra Guttebaldo e il

       Vescovo Presbitero.

3    CATALANI – Ivi – app. n. XXXVI

4     CATALANI – Ivi – app. n. XXXVII

5     TANURSI – Memorie storiche di Ripatransone – in Colucci – A. P. t XVII

6     CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. XXXVIII

7     La bolla di Celestino III si conserva nell’archivio della collegiata di Offida. Appena eletto, nel

        1198, Innocenzo III conferma all’Abate di Farfa: “Item Monasterium  S.tae Mariae in Offida cum

        eodem castro, cellis et aliis pertinentiis sui set cum ecclesiis”. (Ex arch. Rot. Archininnas Rom.).

8     CATALANI – Ivi – Petrus IV – p. 167

9     CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. XLIV

10   CATALANI – Ivi – Petrus p. 162

11   CATALANI- Ivi – app. n. XLVIII

12   CATALANI – Ivi  app. n. XLVII

13   CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. XLIX

14  CATALANI –  Ivi  app. n- L

15   CATALANI – – app. n. LI – il Comune di Ripatransone si rifiutò di pagare i tributi al vescovo. Nel

        1225, Rainaldo spedì 1 gruppo di armati contro quel Comune, che allora era in guerra con

        Offida.

16    CATALANI – Ivi app. n. XXIII

17    CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. LV

18   CATALANI – Ivi app. n. LVIII

19   CATALANI – Ivi app. n. LIX

20   CATALANI – Ivi app.  n. LIX

21   CATALANI – Ivi app. n. LX

22   CATALANI – Ivi app. n. LXIV

CAPITOLO V

FERMO E FEDERICO II

Fermo capitale della Contea

     Nel 1212, Azzone  VI d’Este. Marchese di Ancona, investito da Ottone IV di tutta la Marca, trovò un ostacolo insormontabile nella Contea di Fermo.

     Si tentò allora di dividere Fermo dal suo Vescovo e, a questo scopo l’Imperatore largheggiò di privilegi verso la città: concesse il mero e misto impero; la zecca e il possesso esclusivo del litorale, da Potenza al Tronto.

     Non so come il Comune di Fermo accolse i privilegi e se essi conseguirono l’effetto sperato; intanto essi c’erano, anche se probabilmente il possesso del litorale restò sulla carta per una ventina di anni, perché avrebbe messo il Comune contro il Vescovo Conte, tanto più che, nel 1214, il Marchese Aldobrandino nominò signore di Fermo Guglielmo Rangone di Modena; questo provvedimento sicuramente raffreddò il Comune che non tollerava signori e riaccese lo spirito di libertà nei Comuni della Contea che si strinsero, nell’Agosto di quello anno, intorno al Vescovo Ugo II, giurando di difendere uniti la loro libertà1.

     Se nel 1221, quando l’invadenza del marchese Azzolino d’Este fu favorita dal Legato Pontificio Pandolfo, Fermo fu dominata per breve tempo dal Marchese.

     Ma nel 1224, il Vescovo Rainaldo incominciò a battersi per la reintegrazione della Contea, e Fermo aderì al suo Vescovo Conte e gli prestò, per una decina di anni, la più fedele collaborazione2.

     Nel 1229 per la prima volta, il Comune di Fermo intraprese un’azione politica e diplomatica su vasta scala, e in nome proprio.

       La prepotenza di Azzolino favorita dal legato pontificio e la rettoria della Diocesi Fermana affidata al Card. Alatrino per due anni (1227-1228) avevano indebolito il potere politico del Vescovo Conte, ma avevano accresciuto l’intraprendenza del Comune di Fermo e la sua intenzione di raccogliere l’eredità politica.

     Fermo aveva lavorato e combattuto in collaborazione e sotto la guida del suo Vescovo, ora che questa guida minacciava di venir meno, il Comune si sentiva la forza di seguitare in proprio la politica del Vescovo Conte.

RESISTENZA A RINALDO DI URSLINGEN

              DUCA DI SPOLETO

     nel 1228, Federico Secondo, partendo per l’oriente, aveva lasciato suo luogotenente Rinaldo, duca di Spoleto, il quale si insediò in Ancona E incominciò l’invasione della marca, contro le proteste di Gregorio IX.

     L’ostacolo principale per Rinaldo era costituito da Fermo e dai Comuni della sua Contea.

     Il duca cercò di isolare Fermo, concedendo privilegi a vari comuni e conseguì qualche risultato con S. Ginesio, cui concesse il castello di Pieca; con Ripatransone, alla quale offrì  il permesso di demolire e incastellare Massignano e Cossignano3; e tentò anche l’occupazione di Montegiorgio.

     Il Comune di Fermo pensò di accrescere la resistenza, invitando all’alleanza i signori che ancora dominavano nell’Alto Fermano.

     Questa zona che va dalla linea Monteverde-Mogliano-Petriolo fino ai monti, era posseduta da numerosi signori, quasi tutti parenti tra di loro, che i più tra gli storici dicono discendenti dai Mainardi o dagli Offoni e di provenienza Franchi4.

     Per essi in questa zona tardarono molto le autonomie comunali, se si fa eccezione per Sarnano, S. Ginesio e parzialmente Urbisaglia, che dovettero combattere duramente.

     Essi erano: Fildesmido da Mogliano, Guglielmo e Federico da Massa, Rinaldo da Petriolo, Giovanni e Monaldo di Penna San Giovanni, Rinaldo di Loro, Balignano di Falerone, Rinaldo da Monteverde, Ugo da Monte Vidon Corrado e altri, i quali opprimevano i loro vassalli e in quell’epoca che i comuni del fermano godevano già della più completa autonomia, mantennero rigorosamente il più arretrato sistema Feudale5.

     Appresso vedremo che da questi signori, inseriti si nella vita Fermana vennero quasi tutti i tiranni di quella città.

     Tutti questi signori risposero, nel 1229, all’invito delle Comune di Fermo e accettarono l’alleanza, perché era per loro molto conveniente in quelle pericolose circostanze; ma imposero delle condizioni che Fermo, in tempo diverso, non avrebbe mai accettato, perché lesive dei principi che regolavano le libertà comunali.

       Ma il pericolo che incombeva era grande, e bisognava accordare qualche cosa questi signori che disponevano di ricchezze e di forza militare non indifferenti.

    L’accordo tra il Comune di Fermo e questi signori “Contadini” ha una grande importanza, per la migliore comprensione della storia del tempo6.

     Particolare attenzione meritano alcuni articoli del documento.

     Articolo n. 2: il Comune di Fermo si obbliga a non ricevere in avvenire ivassalli fuggiti dalle terre di quei signori, specialmente da Torre San Patrizio7.

     Questo, perché la fuga dei vassalli dai campi, nei luoghi dove ancora non esistevano le libertà comunali, era diventato un fenomeno impressionante.

     Fuggivano in cerca di libertà e si rifugiavano nei Comuni, dove venivano protetti, sia per accrescere il numero dei cittadini efficienti, sia perché il Comune non tollerava la servitù della gleba.

     Articolo n. 3: il Comune di Fermo si obbliga a costringere i Comuni della sua Contea, a restituire vassalli di quei signori, qualora vi si rifugiassero8.

       Questo articolo suppone una autorità di Fermo sui Comuni della Contea,

       Inoltre ci fa vedere che lo scopo principale dell’accordo, per quei signori, era impedire in ogni maniera la fuga dei loro vassalli; evidentemente questa fuga era il pericolo più grande che incombeva su di essi.

     Articolo. 14: siano salvi i diritti e gli ordini della Sede Apostolica; ma una parte deve aiutare l’altra, se attaccata da una signoria più forte. Si allude al Duca Rinaldo.

     Articolo n. 18 : se il territorio di Fermo sarà attaccato inaspettatamente di qua dal Chienti, noi ”Contadini” correremo in aiuto al cenno del Podestà di Fermo9.

     L’accordo fu firmato nel Consiglio Generale del Comune di Fermo, l’ultima domenica di Settembre del 1229, dal “Sindicus” = incaricato speciale del Comune per questo accordo; avanti al “Potestas” di Fermo: Guido da Landriano: al “Judex” del Comune: Villano;  al “Miles Potestatis”: Antonio; al “Massarius” del Comune: Filippo Giusti.

ORGANIZZAZIONE COMUNALE

     In mancanza di altre testimonianze valide e per non azzardare di scrivere cose non corrispondente a verità, mi appoggio al suddetto documento, per dire qualcosa dell’organizzazione del Comune Fermano di quel tempo.

     Gli “Statuta Firmanorum” che conosciamo sono gli statuti riformati dal fermano Marco Martello, nel 1506. Il complesso delle disposizioni legali saranno state per la gran parte le stesse; però l’organizzazione comunale, con l’andar del tempo, avrà sicuramente subito modifiche e perfezionamenti suggeriti dall’esperienza.

     Dal documento trattato sopra risulta che il Consiglio Generale era composto da 208 consiglieri scelti dal popolo. Erano rappresentate nel Consiglio tutte le classi sociali con esemplare democraticità e senza privilegi; semmai i commercianti e gli artigiani, organizzati in forti associazioni e guidate dai loro “capitani”, facevano sentire maggiormente il loro peso.

     Il Consiglio Generale eleggeva tra i suoi componenti il Consiglio SPECIALE, o consiglio di Cernita, o delle proposte. Era un consiglio di non più di 150 consiglieri, cittadini di condizione popolare, non nobile; dell’età di non meno di 25 anni; con reddito di almeno 50 lire. Aveva l’incarico di preparare gli argomenti da discutere, quando “sono campanae et voce praeconis” si adornava il Consiglio Generale. In esso ogni consigliere poteva prendere la parola, ma dopo aver giurato di parlare senza secondi fini.

     Il Consiglio Generale eleggeva tra i suoi componenti le autorità comunali, che ordinariamente restavano in carica per 6 mesi e vigilavano sulla esecuzione delle delibere del Consiglio. Essi erano:

“Sei PRIORI”, uno per ognuna delle 6 contrade che componevano la città. A capo dei priori un “MASSARIUS = Massaro”, che più tardi si chiamò indifferentemente anche “Sindicus”10.

     Il “Massarius” impersonava il Comune in tutti gli atti ufficiali e, per sei mesi, era il responsabile di tutto l’andamento del Comune; quindi era suo ufficio vigilare sull’operato anche del Podestà e di tutti gli impiegati comunali.

     Il Consiglio Generale eleggeva anche gli impiegati comunali:

1°- “IL PODESTA’ era sempre un  egiurisperito forastiero, che restava in carica  

        ordinariamente per sei mesi. Aveva alle sue dipendenze alcuni “milites” che lo 

        accompagnavano sempre e lo assistevano nell’espletamento delle sue 

        mansioni.

        Il Podestà doveva sedere in tribunale e in giorni determinati: vigilare sull’ordine pubblico; controllare, custodire provvedere all’armamento del Comune e interessarsi della sua efficienza militare. Responsabilità gravi che gli venivano retribuite abbastanza bene, ma che doveva esercitare con grande attenzione, perché al termine dell’ufficio doveva venire “sindacato”, cioè sottoposto al giudizio di una severa giuria scelta dal Consiglio.

        Qualche scrittore parla di podestà che imponevano la loro signoria e diventavano dittatori. Ma no; nelle Marche non conosciamo nessun Podestà dittatore11.

Il podestà era un semplice impiegato comunale; impiegato speciale che impersonava la “POTESTAS” giuridica e militare conferitagli dal popolo; ma era strettamente controllato dall’autorità comunali. E i sei mesi che esercitava il suo ufficio non erano sufficienti per prepararsi una signoria. 

        2°-  Il “JUDEX”, equivale pressappoco al nostro segretario comunale. Doveva essere cittadino fermano; assistere per la parte giuridica il consiglio; presenziare alle sedute consiliari e rediger nei verbali; ordinare la riscossione delle molte delle gabelle; sedere al tribunale per le cause minori e in assenza del podestà. Come lui, alla fine del mandato che poteva durare a tempo indeterminato, veniva “sindacato”.

3°-  Il “NOTAIO DEI DANNI”: era un messo comunale incaricato di notificare 

        riscuotere le multe, dietro ordine del Judex.

4°- Il “CURSOR = valletto”o porta ordini.

5°-   Il “TROMBECTA” o banditore che notificava a voce e a suon di tromba la

        convocazione del consiglio, comunicazione del Comune, e altre notizie utili alla popolazione.

6°-  I “PORTIERI”, che venivano cambiati di frequente per il delicatissimo ufficio di aprire e chiudere le porte della città. Il loro lavoro era sospeso nei periodi di emergenza, quando le forze armate vigilavano le mura della città di giorno e di notte.

     In casi particolari, quando si doveva prendere decisioni di singolare gravità il

Consiglio chiedeva che si adunasse il “PARLAMENTO GENERALE” al quale poteva partecipare un membro di ogni famiglia, con facoltà di intervenire nel dibattito.

FEDERICO II E LA GUERRA DEL 1240

     Di Federico II si è scritto tanto e ogni scrittore l’ha giudicato secondo il proprio punto di vista: grande Imperatore per gli scrittori laici; ateo e perfido per gli scrittori ecclesiastici.

Io preferisco attenermi ai fatti.

     Quando morì la madre, Imperatrice Costanza, Federico aveva circa tre anni e, siccome il Regno di Sicilia era feudo della Chiesa, il piccolo Re passò sotto la tutela del Papa che ripose in lui molte speranze. Innocenzo III liberò il Regno di Sicilia da tanti feudatari tedeschi e cercò di mantenere integro e ordinato il regno del suo pupillo, che cresceva alla scuola del futuro Papa Onorio III.

     Nel 1215, Innocenzo III lo fece eleggere Re di Germania, per aprirgli la strada a un futuro titolo di Imperatore. Di tutte queste premure paterne del Papa, Federico si mostrò grato. In una lettera gli scriveva: “tra le tue braccia fui gettato fin dalla nascita …. Protettore e benefattore nostro, Pontefice venerando, dei cui benefici siamo stati nutriti, protetti al pari e innalzati….”.

     La sua condotta cambiò quando fu Papa Onorio III, che era stato suo educatore. Volendo Federico la dignità imperiale, il Papa gli fece giurare due cose: rinunziare al Regno di Sicilia in favore del figlio Enrico, ritenendo solo il titolo di Re di Germania; e guidare la Crociata per la liberazione di Terra Santa: due richieste ragionevolissime, poiché essendo il Re di Sicilia feudatario della Chiesa, non poteva essere eletto Imperatore; capeggiare poi la Crociata era un dovere per l’Imperatore capo dell’Europa cristiana.

       Federico II fece eleggere il figlio Enrico Re di Germania, dicendo poi che era avvenuto a sua insaputa; e Onorio III per amor di pace e sempre sperando che le cose migliorassero, lo consacrò Imperatore, nel 1220. In seguito sopportò pazientemente che l’Imperatore facesse fallire più volte la Crociata, con gravi perdite per tanti Stati europei che mandavano verso Oriente truppe, in attesa che l’Imperatore ne prendesse la guida.

       L’8 settembre 1227, erano raccolti a Brindisi circa 80.000 crociati di ogni nazione europea: erano scelti combattenti della nobiltà svedese, polacca, tedesca, francese, spagnola. Arrivò l’Imperatore e l’esercito crociato si mise in mare; ma dopo pochi giorni, Federico tornò indietro, dicendosi malato. Gregorio IX non sopportò la perfida condotta dell’Imperatore e lo scomunicò.

     L’anno appresso partì da solo per il Medio Oriente, dove concluse un trattato col sultano d’Egitto che allora dominava anche su Gerusalemme e tornò in Italia nel 1229.

     Per calmare le acque pericolosamente agitate da Rinaldo di Urslingen, Duca di Spoleto e dai signori ghibellini, firmò col Papa Gregorio IX il Trattato di S. Germano, nell’agosto del 1230. Ma la pace non venne, perché nell’Imperatore e nei ghibellini non c’era volontà di pace.

      Federico II fu uno degli Imperatori che non compresero i doveri del loro ufficio. Mentre allora il pericolo tremendo per l’Europa erano i Saraceni. Federico II trova il suo principale nemico nel Papa; immette nel suo esercito circa diecimila saraceni, e con essi causa devastazioni nel territorio della Chiesa, non risparmiando chiese e monasteri.

     Scriveva che odiava i papi, perché “essi hanno avuto sete del nostro sangue fin dalla nostra fanciullezza  ….. essi introdussero nel nostro regno l’Imperatore Ottone, per privarci dell’onore, del regno e della vita ”12.

     giustifica il suo odio con un sacco di bugie, in contraddizione con quanto scriveva a suo tempo a Papa Innocenzo III, nella lettera ricordata sopra, nella quale diceva che dal Papa aveva ricevuto ogni bene.

     Come nel Papa, così vide nei Comuni il principale pericolo per l’autorità imperiale come la intendeva lui. In teoria, era padrone assoluto in Europa; ma siccome nessuno governa meno di un governante assoluto, i ghibellini seppero far sentire il loro peso e, spinto da alcuni signori italiani, specialmente da Ezzelino da Romano, signore di Verona, combatté e vinse i Comuni Lombardi a Cortenova, nel 1237, ma da quella vittoria cominciò la sua fine.

     I comuni italiani, vinti non si arresero, ma continuarono a lottare tra mille difficoltà, per un decennio ancora; fino a che Federico II, dopo la disfatta del suo esercito di ghibellini e saraceni presso Parma, nel 1248; dopo la battaglia di Fossalta del 1249, dove i Bolognesi fecero prigioniero il figlio Enzo, morì a 56 anni, nel 1250.

FINE DELLA CONTEA DEI VESCOVI

     Per il Comune di Fermo gli avvenimenti furono duri, ma meno cruenti. Dietro l’ordine di Onorio III prima, e poi di Gregorio IX, che i comuni Piceni si fortificassero, i Fermani nel 1236, terminarono la costruzione del castello del Girfalco e appoggiarono analoghe operazioni nei Comuni vicini.

     Il Vescovo Conte Filippo Secondo, sentendosi impotente a organizzare una resistenza valida nella sua Contea, rinunziò ad essa. In un documento del 1238, Filippo II si dice grato al Comune di Fermo, per la sincera collaborazione prestatagli sempre; loda il Comune per la sua intelligente ed efficiente organizzazione e cede al Comune tutto il territorio di proprietà della Chiesa Fermana, dal Potenza al Tronto, con l’incarico di dienderla da ogni pericolo di invasione.13

        Le forze del Comune di Fermo, cui erano alleate le armi dei Signori “Contadini” dell’Alto Fermano; affiancate dall’esercito dell’Abate di S. Vittoria, erano all’altezza del loro compito. Queste ingenti forze però mancavano di una direttiva unica e soprattutto di coesione morale, per cui, pur combattendo per il medesimo scopo davano la principale attenzione ai loro particolari interessi. Però questo avveniva non solo nella parte guelfa, ma anche in campo ghibellino; perché quella, in effetti, era una guerra civile tra guelfi e ghibellini italiani, le cui forze si equivalevano. Chi faceva pendere la bilancia dalla parte dei ghibellini erano i 14.000 tedeschi e saraceni che l’Imperatore teneva al suo servizio.

     Nel 1239, Enzo, figlio naturale di Federico II e Re di Gallura, invase la marca Anconetana, invano difesa dal Rettore Pontificio Giov. Colonna.

     Dopo i primi rapidi successi che lo portò alla conquista di Osimo di Macerata, trovò una ostinata resistenza dei guelfi a Treia. Prevedendo le gravi difficoltà che avrebbe incontrato nel Fermano, pensò di aggirare l’ostacolo, e mandò una forte schiera di tedeschi e saraceni, al comando di Rinaldo di Acquaviva ad assalire il Presidiato Farfense. Rinaldo marciò direttamente al cuore del Presidiato, assalendo la fortezza di Force, dove si erano concentrate le milizie di Matteo II, guidate dal Vicario Abaziale Fildesmido da Mogliano. Per l’inferiorità delle forze abbaziali, Force cadde presto e gli imperiali dilagarono per il Presidiato, occupando Montefalcone e S. Vittoria, nel 1240.14

     L’occupazione del Piceno fu dura per gli imperiali che dovettero sostenere una battaglia per ogni Comune, e fu quasi completa nel 1242. In quest’anno, per conquistare Ascoli, città notoriamente imprendibile, fu spedito con un esercito Andrea Cicala che vi entrò a tradimento e la devastò, compiendo saccheggi ed eccidi feroci.15

     Nello stesso anno 1242, Fermo si decise a scendere a patti con il Vicario imperiale Roberto da Castiglione, che risiedeva a Macerata. L’accordo conveniva ad ambedue; al Comune di Fermo, per evitare ulteriore spargimento di sangue, la possibile occupazione violenta e conseguenti disastri da parte delle truppe imperiali; e a Castiglione conveniva eliminare pacificamente e al più presto la potenza Fermana, perché i Guelfi non disarmavano affatto, anzi era chiara la loro volontà di rivincita.

        Per il Comune di Fermo non fu difficile dimostrare al Vicario imperiale che la città era stata sempre imparziale tra guelfi e ghibellini; che non aveva più niente da spartire col vescovo Conte, il quale aveva rinunziato tutto al Comune ed era fuggito a Venezia; che ora Fermo era per l’Imperatore, e si sarebbe potuto legarla per sempre a lui, accordandole patti favorevoli. E in questi patti favorevoli furono compresi i privilegi accordati da Ottone IV, nel 1212: il mero e misto impero; la zecca; il possesso della zona costiera dal Potenza al Tronto.

     L’azione diplomatica, sempre molto valida Fermo, l’aveva salvata dalle stragi subite dalle altre città e le aveva conservato l’autonomia di governo, magari controllata dai messi imperiali.

     Con la caduta di Ascoli e Fermo, i ghibellini avevano occupato quasi tutte le città marchigiane; ma il Legato Pontificio Sinibaldo Fieschi, attestato col suo esercito a Penna San Giovanni e sostenuto da alcuni Comuni del Presidiato di S. Vittoria e di Camerino, stava in attesa che la scomunica del Concilio di Lione del 1246, che aveva deposto Federico II da Imperatore, producesse il suo effetto. Dovette aspettare quasi tre anni.

FERMO E RE MANFREDI

       Eempre il Comune di Fermo praticò l’astuta politica del tornaconto, la migliore politica, che lo salvò da tanti disastri. Abbiamo visto come seppe evitare le stragi della guerra del 1240, accordandosi col conte Roberto da Castiglione e sottomettendosi all’Imperatore; ma “non marciò con lui fino in fondo”. Constatata la disfatta dell’esercito imperiale presso Parma, nel 1247, la prigionia di Enzo a Fossalta, nel 1248, capì che per i Castiglione per Federico II rimanevano poche speranze, e nel 1249, chiese accordi al Legato Pontificio Card. Capocci e ritornò alla S. Sede, dietro conferma però dei privilegi dei quali godeva.

     Morto nel 1250 Federico II, seguitarono gli scontri armati tra Guelfi e Ghibellini. Il legato pontificio Annibaldo degli Annibaldeschi credette di poterli sopire, chiamando i contendenti all’accordo di Montecchio (Treia) del 1256; ma, proprio in quell’anno, Manfredi che reggeva il Regno di Sicilia per il nipote Corradino, spedì nelle Marche un esercito guidato da Pencirvalle di Oria, a sostegno dei Ghibellini. Anche allora il Comune di Fermo seppe evitare il peggio. Mandò ambasciatori a Manfredi, nel 1258, sottomettendosi volontariamente, e ottenendo la conferma dei suoi privilegi. La posizione di Fermo era difficile, ma l’astuta politica del suo Consiglio Comunale, equidistante dai due partiti di lotta, le permise di mantenere l’autonomia, della quale approfittò per incrementare i suoi traffici col Regno di Sicilia e con Venezia, con la quale firmò un’alleanza nel 1260.

     Il lettore non capirà come questa politica autonoma il Comune di Fermo possa accordarsi con la sottomissione al re Manfredi. Ma io lo invito a riflettere che i due partiti di lotta, i Ghibellini sostenuti da Manfredi e i Guelfi sostenuti dal Papa, erano troppo forti, per permettere che una parte prevalesse sull’altra definitivamente; quindi la preoccupazione la tensione da una parte e dall’altra era incessante. In effetti, la sottomissione al re Manfredi era solo il giuramento che Fermo non lo avrebbe infastidito e avrebbe pagato le tasse al regno di Sicilia; ma della politica interna del Comune di Fermo, della sua economia dei suoi accordi commerciali, Manfredi non aveva tempo di interessarsi. È vero che la politica regia, come quella imperiale, era contraria alle libertà comunali, ma bisognava usare prudenza, specialmente con una città potente come Fermo; bastava non averla nemica belligerante.

     La fedeltà di Fermo al re Manfredi era anche assicurata dal suo Vescovo Gerardo che, anche da Vescovo, non sapeva dimenticare di essere figlio del feroce ghibellino Guglielmo da Massa, e si adeguava a lui nella politica e nei costumi. Parteggiava apertamente per Manfredi e, per favorirne la parte, era prodigo di quattrini e di cavalli16 per cui ebbe i richiami e minacce dal Papa Onorio IV che ordinò pure una inchiesta sulla sua condotta morale notoriamente pessima; ma seppe sempre mantenersi a galla, bilanciando gli scandali favoriti nei conventi femminili, con i benefici elargiti in abbondanza alle potenti fraterie della sua Diocesi17.

     Il Comune di Fermo, o perché controllato dai ghibellini, o piuttosto perché sapeva sempre avvantaggiarsi nelle occasioni favorevoli, caldeggiò l’adesione di altri Comuni al partito di Manfredi, mirando sempre al proprio tornaconto; capiva infatti che quei Comuni, diventati manfrediani, sarebbero rimasti legati al carro fermano, anche quando Manfredi fosse tramontato. E nel 1257, col permesso di lui, Fermo occupò penna S. Giovanni, Monsammartino e fortificò Montefalcone che già aveva tolto ai fan pensi, e le tenne per sempre. Convinse S. Vittoria ad allearsi con essa, accettando il regio podestà; alleanza che durò solo quattro mesi18; non riuscì a spuntarla con Ripatransone che proprio in quella circostanza si staccò da Fermo definitivamente19.

       In questa seconda metà del secolo XIII, l’attività diplomatica, ma anche quella bellica del Comune di Fermo fu molto intensa. Il possesso del litorale dal Potenza al Tronto, rinnovatole da Manfredi accese le discordie con Ascoli che desiderava incrementare i suoi traffici sul mare. Nel 1256, preceduti presso il Re dalla diplomazia Fermana, gli Ascolani tentarono con le armi la conquista di S. Benedetto in Albula, per avere un porto degno di tale nome, poiché era poco agibile il porto di Sculcula (oggi Porto d’Ascoli), che già possedevano; ma furono sconfitti dai Fermani, nella Valle del Tronto.

     Erano continui le agitazioni tra Guelfi e Ghibellini nelle Marche, e Fermo necessariamente vi si trovava sempre implicata, non tanto per i contrasti di partiti, quanto per la gelosia che la sua massiccia potenza destava nelle città vicine. Nel 1260, forze guelfe guidate da Brunoforte di Perugia battagliavano qua e là contro i Manfredi a, e Fermo subì una momentanea sconfitta presso S. Marco alle Paludi. In quella battaglia parteciparono contro Fermo anche gli ascolani.

     Nel 1266, appena caduto re Manfredi, Fermo ritornò alla S. Sede. Però Guelfi e Ghibellini, tenuti a freno sotto la forte podesteria del futuro Doge di Venezia, Raniero Zeno, si risvegliarono con la elezione a podestà del ghibellino Ruggero Lupo e, venuti a battaglia nella valle del Tenna, il 4 ottobre 1270, i Ghibellini ebbero la peggio e il Podestà restò ucciso. Ma se il trionfo della parte guelfa ridiede sicurezza di libertà, non finirono le difficoltà per Fermo.

     La Repubblica di Venezia considerava di sua pertinenza il Mare Adriatico, e condizionava in vari modi il traffico delle altre città rivierasche. La prima a ribellarsi a questo stato di cose fu Ancona, la quale, sostenuta dal Papa Gregorio X, nel 1275, intraprese la lotta per la libertà dei mari, che durò vari anni. Fermo, tradizionalmente amica di Venezia, con la quale lo scambio commerciale era attivissimo, considerando che il porto di Ancona e anche più a nord e avrebbero potuto danneggiare il traffico nei suoi molti ma piccoli porti, credette più conveniente schierarsi con Venezia. Questa mossa la mise in contrasto col Governo Pontificio che, da allora e per vari decenni, la concederò come ribelle.

     Di conseguenza si fecero più arditi contro di essa i Comuni rivali. Nel 1276, Fermo saccheggiò e fece massacro a Monsampietramgeli, difesa da Ascoli. L’11 Novembre 1280, gli Ascolani tentarono la conquista di S. Benedetto, ma subirono una sconfitta che fu definitiva, perché l’intervento del Papa Onorio IV costringe i belligeranti a deporre le armi20.

SVILUPPO EDILIZIO A FERMO NEL SECOLO XIII

     In questo secolo XIII, secolo di agitazioni per le Marche e di lotte sanguinose, Fermo seppe consolidare la sua potenza politica ed economica, e seppe riparare i danni della distruzione del 1176, che sembravano irreparabili. In questo secolo si costruirono molti tra i migliori monumenti, dei quali va orgogliosa.

     Nel 1226, fu costruita la chiesa di S. Caterina. Nel 1227, fu riedificata la Cattedrale, su disegno di Giorgio da Como. Nel 1233, fu posta la prima pietra per la costruzione della chiesa di S. Domenico, costruita a spese della regina Berengaria, moglie di Guglielmo di Brienne, re di Gerusalemme, sul suolo donato dalla famiglia Paccaroni la quale aveva ospitato, una quindicina d’anni prima, S. Domenico che predicò a Fermo per due mesi.    

     Anche l’attuale Palazzo Municipale fu incominciato a costruire nel secolo XIII, poi fu rimaneggiato e terminato nel 1525.

     Nel 1236, fu terminata la costruzione del castello delle Girfalco, demolito poi dai Fermani nel 1446.

     Nel 1240, iniziò la costruzione del tempio di S. Francesco, su disegno dell’ascolano Antonio Vipera.

     Nel 1250, fu costruito il tempio di S. Agostino e il grandioso convento degli Eremitani di S. Agostino.

     Nel 1251, i Farfensi ingrandirono il monastero annesso alla chiesa di S. Pietro.

     E’ pure del secolo XIII la Torre Matteucci.

     In questo secolo di odio e di sangue, gli Ordini Religiosi che, appena sorti fondarono i loro studentati a Fermo, diedero nuovo impulso alla pratica della vita cristiana con la loro predicazione e il loro esempio; e alla cultura, con le loro scuole dirette da uomini di grande dottrina.

NOTE

1     CATALANI – De Eccl. etc. appendice doc. n. XLV Reg. p. 230

2     CATALANI – Ivi – app.  dipl. n. LI – Reg. Ep. P. 173

3     COLUCCI – A. P. XVIII app. doc. n. IX p. XIV – “…. Con l’autorità imperiale affidataci, concediamo

        che i castelli di Massignano, Marano, S. Andrea e Penna siano di pertinenza di Ripatransone.

        E se il Comune di Ripatransone vorrà, diamo le facoltà di demolire i detti castelli…..”

4     FABIA DOMITILLA ALLEVI – Mainardi e Offidani (tesi di laurea).

5     Sono molti gli scritti che trattano la storia particolare dei paesi e dei signori di questa vasta

       zona, ma non ho trovato uno scritto che metta in sufficiente evidenza la arretratezza politica di

      questo territorio e di questi signori. Nessuno mette in sufficiente luce il contrasto tra questa

      arretratezza, e il meraviglioso sviluppo delle libertà comunali della Contea dei Vescovi di Fermo.

       E non so se sia effetto della mia ignoranza il fatto che, fuori del Catalani, non ho trovato nessuno

       scrittore che prende in considerazione questa Contea; mentre essa. Per un trentennio  

       suscitatrice e difesa della libertà e del progresso delle Marche.

6      GIACINTO PAGNANI – Patti tra il Comune di Fermo e i nobili del contado nel 1229 – L’autore

        riporta per intero il testo dei “patti”. Tratto dall’Arch. Comunale di Fermo – Pergamena 1708.

7      “Item promittit et convenit Comune Firmi non recipere de cetero nomine qui sunt eorum

         vassalli vel alios de ipso rum segnoria et deterritoriis  de comitatu Firmano et undecunque sint

         de territoriis eorum et specialiter de Turri S. Patritii”.

8      “Item promittit dictum Comune Firmi quod si aliqua Comunitas Comitatus Firmi, vide licet Ripa

         Transonis, Mons Rubeanus, Mons S. Mariae in Georgio, Castrum S. Elpidi, Castrum Montis

         Granari,  Mons Ulmi, Macerata, Murrum, Mons Luponis, Mons Sancti,  Civitanova vel aliud

         castrum de Comitatu Firmano de cetero reciperet aliquem nomine vel nomine vel vassallum vel

         alique de sua segnoria de eorum terris aliquarum vel alici predictorum domino rum. Comune

         Firmi ipsam Communantiam requirat prius ut dictum nomine cun quis rebus restituita domina

         domino repetenti”.

         Se qualche Comune del Comitato Fermano in avvenire accoglierà qualche uomo o vassallo o

        qualcuno della loro signoria, fuggiti dal territorio di detti signori, il Comune di Fermo richiederà

        alla detta comunità che restituisca l’uomo e le sue cose al signore che le reclama.

9      L’impegno dei signori “Contadini” è parziale, limitato al di qua del Chienti, dove anche essi

        avevano interessi da difendere. Il territorio di Fermo arriva fino a Potenza; ma per quella parte

        essi non si obbligano.

10   Il “Sindicus” che troviamo in molti documenti, e anche in quello esaminato sopra, ha significato    

        diverso dal “Massarius”. Non era il capo del Comune, ma una persona scelta dal Consiglio solo  

        per un incarico particolare: non era un ufficio, ma un incarico transitorio, che qualche volta era

        svolto dallo stesso Massaro.

11   GIOACCHINO VOLPE – Medio Evo – Ed. Sansoni –p. 276 “Al posto dei Consoli ecco appare un

        funzionario unico, uomo di guerra e di leggi, rivestito da principio di autorità quasi dittatoria …

        Il Podestà più libero da aderenze locali …. Meglio può nell’amministrazione della giustizia; della

        finanza pubblica del patrimonio comunale…”(Tutte queste amministrazioni il podestà non le ha

        avute mai; almeno nel libero Comune Marchigiano) .

12   “…. Cum a pupillari etate nostra nostrum  sanguinem sitierint…. qui Othonem imperatorem

        introduxerunt in regnum nostrum, ut non honore regno et vita privarent”.

13   CATALANI – De Eccl. – app. LXIII. Documento ha il significato di incastellamento.

14  “Dominus Rainaldus de Acquaviva cum sua gente venit ad castrum Furcis et intravit et cepit

        castrum, in quo erat tunc dictus Abbas qui recessit de ipso castro plorando….”

       Dictus Abbas venit ad castrum Montis de Nove et coadunatis ho minibus ipsius vicinantiae et

       contradae,  predicabit ibi et monuit ut starent fideles in serrvitute Romanae Ecclesiae, et si non

      possent aliud, non paterentur destructionem et fecerent  quam meliu possent, et recessit tunc de

      contrada.Quia gens illa erat ex comunicata et Abbas timebat, aufugit et exivit de dicta terra….”.

      “Nuntiua Imperatoris venit cum Saraceni set militi bus multis ad castrum Furcis et tunxc Avìbbas   

       Matteus erat in ipso castro Furcis, et cum  nollet facere mandata ipso rum, recessit de ipso castro

       et homines ipsius castri Furcis fecerunt mandata (giurarono fedeltà) ipsius Domini Rainaldi, quia

      non poterant aliuds. Et eadem die ivit ipse Dominus Rainaldus versus castrum Montis Falconis ad

      ecclesiamo S. Januarii et ibi recepit nomine Montis Falconis ad mandata,”

      (Società Romana di storia patria – v. XI pp. 327-332-237)

       Rinaldo da Acquaviva venne coi suoi soldati a Force e vi entrò. L’Abate (Matteo II) fuggì nel

       castello di Monte di Nove, radunati gli uomini della contrada, parlò loro e li esortò a restare

       fedeli alla Chiesa Romana, se non potessero far altro cercassero di impedire le distruzioni; e si

       ritirò nel  territorio. Il Nunzio dell’imperatore venne con molti soldati e Saraceni al Castello di

       Force e allora  l’abate Matteo era nel castello; ma non volendo sottostare ai loro ordini, si ritirò

       da castello, mentre gli uomini di Force si sottomisero a Rinaldo, non potendo fare altrimenti. Lo

       stesso giorno Rinaldo si diresse verso Monte Falcone e presso la chiesa di San Gennaro ricevette

       la sottomissione degli uomini di Monte Falcone

15  TEODORI – Ascoli Piceno. P. 12. – “ Le truppe imperiali posero l’assedio Ascoli, nel 1242, ma

       considerando che le fortificazioni della città avrebbero imposto un lungo e difficile assedio,

       entarono uno stratagemma. Chiesero che il loro condottiero potesse ossequiare le autorità

       cittadine, dato che le truppe erano colà di passaggio. Gli Ascolani aprirono una porta sul ponte

       della Torricella, dalla quale entrò il capitano e una piccola schiera. La mattina seguente, si

       trovarono tutte le porte della città aperte, la città invasa e saccheggiata”.

       Il ponte,  la porta e la prima via interna si chiamarono: “Tornasacco”.

16  CATALANI – De Eccl. etc.  append n. LXX

17  CATALANI – Ivi – pp. 182-183 (Gerardo)

18  COLUCCI – A. P. t XXIX n. LVI e LVII p. 102-105

19  COLUCCI – A. P. t XVIII – app. n. XIV

20 FRACASSETTI – Notizie Storiche ecc. pp. 25-26

CAPITOLO VI

FERMO NELLA PRIMA META’ DEL SEC. XIV

     Il Giubileo del 1300, indetto da Bonifacio VIII (1294-1303), durante il quale Roma accolse i 200.000 pellegrini, tra i quali Dante Alighieri, avrebbe dovuto segnare l’inizio di una rinascita non solo religiosa, ma anche politica dell’Europa, che allora contava circa 50 milioni di abitanti.

     Invece segnò l’inizio di un secolo che vide aggravarsi l’aspetto negativo del secolo precedente.

     L’Unità Europea, a stento tenuta in piedi dai Papi, crolla politicamente in questo secolo e il Sacro Romano Impero perde il suo significato.

     Il Poeta “vede in Anagna entrar lo Fiordaliso – e nel Vicario suo Cristo esser capto”; con Filippo il Bello di Francia incomincia il trionfo dell’anticlericalismo e l’oppressione della Chiesa, la quale non ha più la forza di imporre il suo arbitrato nelle discordie delle nazioni europee che si fanno sempre più aspre.

     Ho detto che l’anticlericalismo trionfò con Filippo il Bello, ma quella fu la conclusione conseguente dell’anticlericalismo dei signori italiani, soprattutto romani: difetto di antica data, per cui i papi già una trentina di volte avevano dovuto lasciare Roma; e il Papa fuori di Roma, sua sede naturale, perdeva gran parte della sua efficienza.

     Nel 1305, per i maneggi di Filippo il Bello, fu eletto Papa il francese Clemente V, che non venne mai a Roma, ma invitò i cardinali a recarsi in Francia e, nel 1307, stabilì la sede in Avignone, dove essa rimase per circa settant’anni.

     La permanenza dei Papi in Avignone fu disastrosa per la Chiesa, per l’Europa, per l’Italia.

     Nelle Marche, la lontananza dei Papi causò l’indebolimento del guelfismo, la crisi delle libertà comunali e il pullulare delle piccole signorie, che tolsero pace e libertà alla maggior parte dei comuni Piceni.

     La prevalenza dei Ghibellini però non provocò la disfatta totale del guelfismo.

     Alcuni comuni, anche i potenti come Camerino e S, Vittoria con gran parte dei loro Presidiati, non perdettero la fiducia nella S. Sede e affrontarono con ammirevole coraggio la grave situazione, difendendo strenuamente la propria libertà.

     I Rettori Pontifici della Marca, quasi tutti francesi, con la loro politica dura e poco oculata e con insopportabile esosità, aggravarono la situazione.

     E inominciarono le ribellioni contro il Rettore, il quale rispondeva, inviando armati e multe salate: così avvenne per Fano, nel 1314; così per Macerata, nel 13151.

     Fermo, già compromessa nella stima della S. Sede, per la sua politica indipendente, di fronte a tante forze della Romagna e della Marca ribelli alla Chiesa, seguì anche questa volta la politica che credette favorevole ai suoi interessi: nel 1316 si unì a Recanati, sua alleata, e a Osimo ghibellina contro il Rettore della Marca.

     Ci furono scontri armati tra Guelfi e Ghibellini; ci furono tentativi di accordi tra il Rettore e i ribelli; ci furono minacce e castighi da parte della S. Sede, per ridurre i ribelli all’obbedienza.

     Nel 1319, Recanati fu privata del titolo di città e della sede vescovile, e si arrivò alla battaglia di Osimo del 1323, che avrebbe dovuto essere risolutiva.

     L’esercito guelfo, guidato da Bernardo Varano di Camerino, fu sopraffatto dall’esercito ghibellino, capitanato da Guido di Montefeltro e da Mercenario da Monteverde, che sfogò la sua rabbia in vari Comuni guelfi.

     Il Papa Giovanni XXII finalmente si decise a usare l’unica arma che avrebbe potuto sottomettere i Fermani.

     Il 10 Maggio del 1325 minacciò di privarla della sede arcivescovile del titolo, come aveva fatto con Recanati e con Osimo, e toglierle ogni giurisdizione sui suoi castelli.

     Fermo tremò, perché sapeva quando era difficile mantenere soggetti i suoi castelli.

     La Contea che aveva ereditata dai suoi Vescovi aveva cominciato a sfaldarsi. Macerata era diventato una rivale pericolosa, che minacciava il dominio fermano sui castelli di là del Chienti; Civitanova, S. Elpidio, Ripatransone non tolleravano più la sudditanza Fermo; e lo stesso pericolo correva con Monterubbiano, con Montottone, con Monsampietrangeli; questa ultima ceduta contro sua volontà al Comune di Fermo dal vescovo Gerardo.

     Il 26 Marzo 1326, si riunì il Consiglio Comunale che decise di venire ad accordi con la S. Sede.

     Ma improvvisamente piombarono a Fermo e Ghibellini osimani che uccisero i promotori degli accordi, incendiarono il palazzo priorale e saccheggiarono la città.

     Fu in questa occasione che il ghibellini osimani e fermani occuparono e menarono strage nella guelfa S. Elpidio a Mare.    

     Forse questa città aveva avuto parte nel persuadere Fermo a riconciliarsi con la S. Sede.

MERCENARIO DA MONTEVERDE

     Mercenario, signore di Monteverde, della famiglia dei Brunforte di Massa, della quale facevano parte, o lo erano imparentati, i “signori Contadini” dell’Alto Fermano, ghibellini ricchi e potenti, fu il primo di essi a impadronirsi di Fermo.

     Valoroso capitano, guidò i ghibellini fermano i nella battaglia di Osimo del 1323, nel saccheggio di S. Elpidio nel 1326, e costringere il Comune di Fermo ad aderire allo scomunicato Ludovico il Bavaro.

     Il suo dispotismo fu per Fermo molto funesto.

    La Chiesa Fermana stava attraversando uno dei periodi più neri della sua storia.       

     Sede vacante dal 1314 al 1317, aveva subito il malgoverno e le dilapidazione dei Canonici che non avevano saputo accordarsi sulla elezione di un vescovo.

     I sei anni di episcopato dell’ottimo Francesco I di Mogliano (1318-1324) non furono sufficienti a riparare quei danni, e già alla sua morte si apriva un nuovo più funesto interregno.

     Persistendo Fermo, dominata dai ghibellini di Mercenario, nella ribellione la S. Sede, Giovanni XXII la privò della sede vescovile e del titolo di città.

     Questo dovette avvenire alla fine del 1326, ma non si conosce il documento pontificio relativo.    

     In un documento del 1328 il Papa chiama Fermo: “villa Fermana”2.

      Mercenario e ghibellini per mani non ci piegarono, fidando nella potenza di Ludovico il Bavaro che, alla fine del 1327, scese in Italia per essere incoronato a Roma dai signori laici. In quella occasione (Gennaio 1328), fu eletto pure l’antipapa Niccolò V, il francescano Pietro di Corbara; e anche Fermo ebbe il suo di vescovo: certo Vitale, francescano.

   Nel seguente agosto 1328, Giovanni XXII protestò che solo lui aveva l’autorità di nominare il vescovo: “Per la morte del vescovo Francesco di buona memoria, la chiesa di Fermo è vacante e nessuno fuori di noi ha il diritto di provvederla”; e nominò amministratore della Diocesi Fermana il Vescovo di Firenze, Francesco II di Cingoli, con tutte le prerogative di Vescovo, anche se non doveva risiedere a Fermo.3

     La fortuna degli antivescovi nelle città marchigiane durò poco, poiché, ritirandosi dall’Italia Lodovico il Bavaro, Fermo e le altre città si ribellarono e cacciarono i vescovi eletti dall’antipapa.

   Il declino di Ludovico il Bavaro segnò anche l’indebolimento dei Ghibellini, il Fermo chiese al Papa l’assoluzione dalle censure. 

   Per Mercenario e i suoi ghibellini fu un momento pericoloso, ma egli non intendeva perdere la città e subire la rivalsa dei Guelfi .

     Nel 1331, avendo sufficienti forze economiche e militari, si proclamò signore di Fermo, dichiarando nello stesso tempo di voler aderire alla S. Sede.

     Il rettore della Marca e due incaricati del Papa vennero a Fermo, nel 1332, e sulla piazza, con grande solennità, la città fu riammessa i Sacramenti e le furono restituiti gli antichi privilegi4.

      Tra i castelli che non sopportavano il predominio fermano c’era Monterubbiano, la quale forse in quegli anni sventurati si era dimostrata un po’ troppo ostile verso Fermo.

      Mercenario, o per castigarla e ridurla all’obbedienza o perché la floridezza di quel castello faceva ombra a Fermo o perché aveva bisogno di denaro, nel 1334 l’assalì e la saccheggiò ferocemente.

     “La domenica 20 febbraio 1340, durante il pontificato di Benedetto XII, Mercenario da Monteverde aveva dominato per 10 anni come tiranno è padrone della città di Fermo, e aveva commesso molte ingiustizie, adulteri e scelleratezze.

     Finalmente, come piacque all’Altissimo che è giusto giudice mentre il tiranno cavalcava un po’ distaccato dai sette cavalieri di scorta fuori Porta San Pietro Vecchio5, uscirono dal monastero di San Pietro Gilardino di Giovanni da Sant’Elpidio e Fermo fratello del Priore di San Pietro, presente anche Matteo da Fano con altri tre o quattro cavalieri e con due servitori si gettarono su di lui e lo uccisero.

     Fu sepolto dai frati di San Francesco, senza la presenza o pianto di nessuno. Tuttavia nella città vi fu grande agitazione …. “6.

     Il martedì seguente, tutto il popolo fermano si radunò armato avanti il palazzo del popolo. Erano radunati più di diecimila uomini che gridavano: “Pace, pace, pace: morte a chi tenta di farsi tiranno: si caccino dalla città tutti i “Contadini”. E avvenne che, alla presenza dello stesso popolo, fu eletto Podestà del popolo fermano Masso del signor Tommaso da Montolmo e furono eletti i Priori del Comune.7

GIACOMO VESCOVO E PRINCIPE DI FERMO

     Dalla morte di Francesco I, nel 1324, Fermo non aveva più il Vescovo, poiché Francesco II di Cingoli era Vescovo di Firenze e teneva a Fermo solo l’amministrazione della Diocesi.

     Giovanni XXII, che aveva riservato a sé la designazione dei vescovi delle sedi vacanti, togliendo ai Canonici la facoltà di sceglierli, agì in conformità anche nei riguardi di Fermo e, l’11 Marzo 1334, nominò vescovo il domenicano Giacomo di Cingoli (1334-1342).8

     Si chiamò “Vescovo e Principe di Fermo”, e con questo titolo furono chiamati tutti i suoi successori, fino ai giorni nostri.

“Principe”! Qualche lettore sarà pronto a condannare il vescovo Giacomo come un ambizioso, perché questo titolo lo metteva, lui padre dei poveri nella classe dei potenti.

     Ma io gli ricordo che i personaggi devono essere giudicati nel loro tempo; e i tempi del vescovo Giacomo non erano quelli del Papa Giovanni Paolo II.

     Vuole essere chiamato”Principe”, forse perché lui, umile frate, aveva bisogno di un titolo nobiliare, per imporre la sua autorità in una città nobilissima, dominata dal “nobile contadino” Mercenario da Monteverde.

     Il titolo di Principe doveva essere anche un sostegno morale alla povertà nella quale era caduta la Diocesi Fermana.

     Dell’antica ricchezza erano rimaste delle briciole, insufficienti per un personaggio con gli impegni del Vescovo.

     Giacomo si adoperò attivamente per recuperare alla sua Diocesi tanti beni dispersi o usurpati in quegli anni di disordini e di malgoverno.

     Nel 1336, si rivolge al Papa Benedetto XII, chiedendo che Montolmo fosse chiamata a una riparazione, per aver distrutto il castello di Cerqueto, proprietà della Diocesi; S. Elpidio,  per la distruzione di Castello pure della Diocesi; Macerata, per usurpazione di beni diocesani9.

     Forse nel chiedere e nell’esigere qualche volta esagerò, tanto che fu accusato presso il Papa di molestare e di vessare indebitamente i fedeli10.

     Un’altra colpa si attribuisce al Vescovo Giacomo: l’aver favorito, insieme al Vescovo di Camerino, la setta dei ”Fraticelli”, condannati già da Giovanni XXII per l’esagerato rigore nell’interpretazione della povertà francescana e per altri pericolosi errori11.

     Ma queste sono inezie di fronte ai meriti di questo grande Vescovo.

     Tra essi uno dei più grandi e l’aver favorito la costruzione del primo Ospedale di Fermo.

CONFRATERNITA DI S MARIA

     In quei tempi di odi, di vendette feroci e di sangue, fioriva la carità, la virtù cristiana, che raggiungeva spesso l’eroismo, non solo in azioni di singoli, ma anche in  istituzioni sociali, allora difatti sorgevano Ordini Religiosi che esegevano dai loro seguaci che si dessero schiavi, se necessario, per liberare qualche cristiano schiavo dei Turchi.

     Ma questa era la carità eroica, che non poteva ovviamente essere universale; mentre universale era la pietà verso i diseredati e i bisognosi di assistenza.

     A Fermo era fiorente la Confraternita di S. Maria della Carità, alla quale erano iscritti artigiani, cavalieri e nobili dame, cristiani di fede sentita, persuasi che “la carità copre la moltitudine dei peccati”.

     Sua missione era assistere i malati e i vecchi abbandonati, raccogliere provvedere di un tetto i trovatelli e i vagabondi.    

     Ma la loro opera non aveva una organizzazione sufficiente: disponevano solo di pochi locali e della buona volontà di famiglie private.

     Nel 1341, chiesero al Vescovo Principe Giacomo l’autorizzazione per costruire l’Oratorio e l’Ospedale di S. Maria della carità. In questa costruzione si accentrarono le opere assistenziali della città e del suo territorio.

     L’Ospedale si arricchì di offerte e di lasciti di tutta la Diocesi Fermana, tanto da diventare una potenza economica molto rilevante12.

  Nel 1417, Matteo Mattei, Cavaliere fermano, lasciò con testamento all’Ospedale la grande tenuta di Monte Varmine di cui era signore .

     Del castello di Monte Varmine abbiamo le prime notizie storiche nel 1060, quando passò in proprietà del Vescovo di Fermo13

      Verso la fine delle ‘200 fu posseduto da Guglielmino da Massa, figlio di Guglielmo e fratello del vescovo Gerardo.

     Poi passò in proprietà di altri signori di Massa che, nel 1340, lo incastellarono a Fermo; e fece parte di quel Comune fino al secolo XVIII.

     Alla morte di Matteo Mattei, nel 1431, il brefotrofio ebbe una amministrazione propria e con altri beni gli fu assegnato anche il territorio di Monte Varmine, come nei desideri del testatore.

     Dopo l’unità d’Italia, passate le opere assistenziali all’amministrazione laica, quella del brefotrofio decadde progressivamente, fino alla quasi totale estinzione dei giorni nostri.

GENTILE DA MOGLIANO

     La libertà del Comune di Fermo durò solo otto anni, poiché nel 1348 si impadronì della città Gentile da Mogliano, anche lui dei “signori Contadini” detti sopra.

     Valoroso capitano che aveva militato nell’esercito di Mercenario, era stato chiamato a Fermo per guidare le forze armate del Comune e provvedere alla sicurezza del territorio.

     Incontrò gravissime difficoltà durante la signoria e finì male, come il suo parente predecessore, e come tutti i tiranni di Fermo che lo seguirono.

     Proprio nel 1348, Fermo, come in tutta Italia, infierì una terribile pestilenza che falciò i tre quinti della popolazione14, e per tutto l’anno seguente si scatteranno continui terremoti; qualcuno tanto violento da provocare il suono spontaneo delle campane, per l’oscillazione dei campanili.15

     Il 1 Maggio 1348, gli Ascolani, cacciarono Albertuccio, nipote di Clemente VI e chiamarono come signore della loro città Galeotto Malatesta di Rimini, sedicente guelfo, che si incaponì nel proposito di fiaccare la potenza fermana.

     È interessante osservare come questi feroci signori si azzuffassero accanitamente, incuranti della peste e dei terremoti, come se si sentissero immunizzarti contro questi mali.

   Gli Ascolani, calpestando i diritti di Fermo, negli ultimi tre anni, avevano costruito due torri e sette baluardi presso il mare di Sculcula (Porto d’Ascoli).

     Il 29 Aprile 1348, Gentile assalì quelle fortificazioni e costrinse gli Ascolani a demolirle; consentendo, secondo quanto afferma il Fracassetti, che ne restassi in piedi solo una 16.

     I combattenti Fermani se ne riportarono a casa alcune pietre come trofeo, alcune di esse si possono osservare murate in un costolone  della torre campanaria di S. Agostino.

     Nel 1351, Gentile corse in aiuto dei signori Gozzolino, tiranni di Osimo, i quali erano stati cacciati dalla città; Gentile rioccupò Osimo, ma dovette ritirarsi, perché Galeotto chiamato in aiuto dei Guelfi ebbe il sopravvento.

     Un’altra sconfitta Gentile subì dal Malatesta presso S. Severino, e fu inseguito e assediato Fermo, nel 1353.

     Gli Ordelaffi signori di Forlì, imparentati con Gentile, corsero in suo aiuto, costringendo il Malatesta a togliere l’assedio.

     Gentile restò signore di Fermo fino al 1355, quando il Cardinale Albornoz impresse una svolta alla storia marchigiana.

NOTE

1      COLUCCI – A. P. t XXIX doc. XC – p. 157-158.

2       “Sane quia nos villiam Firmanam olim civitatem , suis demeritis exigentibus, per processus

           nostros solemniter habitos dudum sede episcopali et titulo privomimus civitatis…. Ecclesia

           Firmana olim Catedrali…” (Catalani De Eccl. etc. – append. N. LXXX p. 373).

           Poiché da poco con solenne decisione abbiamo privato la

3        “….. administratorem  Episcopatus et Ecclesiae Firmanae olim Catedralis, cum omnibus

           juribus et pertinentiis suis eo modo quo per Episcopos Firmanos, pro tempore teneri

          consueverunt et regi, administrationem in spiritualibus et temporalibus, gereret, non obstante 

          Sedis Episcopalis privatione”. Catalani – De Eccl. app. n. LXXX.

         …… Amministratore della Chiesa Fermana 1 tempo cattedrale …. Con tutti i diritti e gli attributi, 

         e nella maniera con la quale era tenuta dai vescovi di Fermo; la amministri nelle cose spirituali

         e temporali, nonostante la privazione della sede episcopale.

4      CATALANI – Ivi Franciscus . p. 206

5      Il monastero di S. Pietro Vecchio stava dove è ora la casa delle Benedettine. Era dei Canonici      

         Regolari.

6       ANTON DE NICOLO’ – Cronache.

          “MCCCXL, tempore Benedicti pp. XII, die dominico, XX mensis Februari. Mercenarius de Monte

  Viridi regnaverat tirannus et dominus in civitate Firmi per novem annos, et multas industrias,

  adulteria et scelera in civitate  commiserate t committi fecerat; et demum, ut Deo placuit 

  Altissimo qui est iustus judex, dum ipse tirannus equitaret spatiatum, una cum septem

  equitibus extra portam S. Petri Veteris, exiverunt de monasterio S. Petri Girardinus domini

  Joannis de S. Lupidio et Firmus frater Prioris D. Petri, et interfuit Matteus de Fano cum tribus

  vel quator equitibus et cum  duo bus vel tribus famulis, et supervenerunt in eum et eum

  occiderunt; et sepetus fuit a fratribus S. Francisci, nemine ipsum plorante neque existente,

  tamen fuit in civitate Firmi  magnus rumor—“

7         “Tertia vero die Martis, ibi ante palatium populi, , totus populus Firmanus conventus est

            armatus; ubi fuit multitudo populi ultra decem milia virorum vociferantium ed dicendum

           “pax, pax, pax” et moriantur omnes volentes esse tiranni, et quod expellantur de civitate

           omnes “Contadini”; et ita factum est et coram ipso populo electus fuit in Potestatem populi

            Firmani Massius domini Tomae de Monte Ulmi et fuerunt electi Priores populi etc…”.

8        CATALANI –De Eccl n etc. – Jacobus p. 207

9        CATALANI – app. n. LXXII

10      CATALANI – Jacobus – p. 212

11      CATALANI – Ivi – (..qui eisdem favorem ex causam quadam pietatis praestarunt)

12      Una pergamena dell’Archivio del Brefotrofio di Fermo è riportato un privilegio del Papa, che

           permette alla confraternita di S. Maria di poter esportare i prodotti delle sue terre dove vuole,

           purché non vadano in mano agli infedeli.

13      CATALANI – De Eccl. etc. – Quadalricu p. 119

           G. Michetti – Rocca Monte Varmine – (La Rapida – Fermo 1980).

14      PLATINA – Vita di Clemente VI –“…vix quisque decimus ex millesimo homine superfuerit”.

15      TANURSI in Colucci t XVIII p. 31.

16       ANTON DE NICOLO’ – Cronache – “MCCCXLVIII …. magnificus vir Gentilis de Moliano

            honorabilis gubernator boni status Communis et eius districtus … ivit hostiliter cum copia et

            cum toto populo firmano in obsidione contra Esculanos super edificia Portus prope … quae

            Esculani construerunt in tribus anni set quibquis mensibus, quae edificia habebant duas

            turres maximas et septem turriones in quibus erant  septuaginta merli…”

            Nel 1348 il magnifico Signore Gentile da Mogliano, onorevole curatore dell’incolumità del

           Comune di Fermo e del suo distretto…. Andò in guerra con un forte schiera del popolo

           fermano, per assalire gli Sscolani nelle costruzione del Porto (presso Sculcula) che gli Ascolani

           avevano costruito in tre anni e cinque mesi. Questi edifici consistevano in due grandissime

           torri e sette torrioni, provviste di settantacinque merli.

CAPITOLO VII

FERMO NELLA PRIMA META’ DEL SEC. XIV

     Alla metà del secolo XIV, tutti sentivano che la mancanza di un forte potere centrale era causa di confusione politica, di disordini e di agitazioni insopportabili.1   

      Il Rettore Pontificio della Marca, Vicario del Papa nella regione, era spesso impotente contro i prepotenti signori locali. Conseguenza di questa debolezza era il decadimento delle libertà comunali e il sorgere di tante signorie, alcune delle quali favorite dalle popolazioni locali che preferivano rinunziare del tutto o in parte alla libertà, in cambio di un governo forte, che garantisce ordine e tranquillità.

     I principali signori che dominavano nella Romagna e nella Marca erano: gli Ordelaffi a Forlì; i Malatesta a Rimini; Nolfo di Montefeltro; Lomo di Jesi; gli Alberghetti di Fabriano; Rodolfo Varano di Camerino; Mercenario da Monteverde e poi Gentile da Mogliano, signore di Fermo; Petrocco da Massa Fermana e tanti altri minori.2

     Molti di essi trovavano vantaggioso ostentare fedeltà alla Chiesa e perfino proclamarsi Guelfi; per cui, lettore, puoi capire quale peso si può dare ai vocaboli: “Guelfo e Ghibellino”, correnti politiche di quei tempi; e in genere a quelle di tutti i tempi. Restavano però tanti comuni fedelissimi e gelosi della loro libertà, i quali non conobbero mai nessuna signoria. Cito S. Vittoria in Matenano, dove le leggi comunali proibivano il solo pronunciare la parola “Guelfo o Ghibellino”3; Ripatransone che seppe sempre a reagire a ogni pericolo di dominazione signorile. Restavano pure in quel periodo fedeli alla S. Sede e pagavano a duro prezzo la loro fedeltà Ancona, Ascoli, Camerino con i suoi signori Varano; S. Severino col suo signore Ismeduccio; Macerata con i signori Molucci; Cingoli col suo signore Pangione, e la fedelissima Recanati4. In queste condizioni politiche si trovava la Marca, quando Innocenzo VI, proponendosi di tornare a Roma, mandò nel 1353, il Card. Egidio Albornoz a riordinare lo Stato Pontificio.

PRIMA MISSIONE DEL CARDINALE NELLA MARCA

      Al suo avvicinarsi, quasi tutti i signori marchigiani si affrettarono a dichiararsi al suo servizio; e anche Gentile da Mogliano si recò a incontrare il cardinale a Foligno, nel 1354, e fece atto di sottomissione, per cui fu nominato dall’Albornoz Gonfaloniere di S. Chiesa. Essi erano persuasi che si trattasse di uno dei soliti Legati Pontifici della Marca, i quali in definitiva lasciavano il mondo come lo avevano trovato; ma quando capirono che il Cardinale aveva propositi seri e che intendeva comandare lui solo in nome della Chiesa, si unirono per combatterlo. Gli Ordelaffi di Forlì si allearono con i loro avversari Malatesta di Rimini, e convinsero il loro parente Gentile da Mogliano a ritirare l’obbedienza giurata al Cardinale.

      L’Albornoz era venuto in Italia con un forte esercito di bretoni e inglesi, capitanati da Blasco Fernando di Belvisio, suo nipote. Nel gennaio 1355, si insediò in Ancona e, abilissimo stratega, concentrò il forte del suo esercito a Recanati, località ideale, sia perché poteva ospitare molti soldati per la scarsità di abitanti (ricorda la peste dei sei anni prima) e la ricchezza delle campagne; sia perché in ottima posizione strategica al centro della Marca, divideva le forze dei signori alleati: quelli del Nord  guidati da Galeotto Malatesta; quelle del sud , da Gentile da Mogliano.

     La riconquista della marca avvenne in pochi mesi. Il 29 Aprile 1355, a Paterno presso Polverigi, l’esercito del Cardinale guidato dal nipote Blasco di Belvisio e da Rodolfo Varano di Camerino, si scontrò con l’esercito dei collegati e lo sbaragliò facendo prigioniero anche il suo capitano Galeotto Malatesta. L’onore di farlo prigioniero toccò al tedesco Everardo di Austop che ebbe perciò un ricompensa di 200 fiorini5.

     Subito dopo, il Cardinale inviò il nipote Blasco ad assediare Gentile che si era chiuso sul Girfalco. Dodici giorni durò l’assedio, poi Gentile si arrese, tra manifestazioni festose del popolo fermano. Il Cardinale gli fece grazia della vita, purché uscisse dalle terre della Chiesa, ed egli si rifugiò presso gli Ordelffi di Forlì suoi parenti.

   Nel Giugno 1355, la riconquista armata delle Marche era completa. Col parlamento tenuto a Fermo il 24 di quel mese il Cardinale dava inizio allla riconquista morale, alla pacificazione, con atti di clemenza verso i ribelli e raccogliendo giuramenti di fedeltà alla S Sede.

     Nominò Rettore della Marca il nipote Blasco di Belvisio; trasportò la Curia di Macerata a Fermo, e ne spiegò al Papa il motivo: “Ivi (a Macerata) risiedette quasi continuamente la Curia Generale della regione ed è un luogo molto adatto per la Curia e per i giuristi che vi si debbono recare; ma non è gran tempo  che la città di Fermo fu riportata all’obbedienza della Chiesa. Per meglio trarre i cittadini di quella città all’obbedienza e alla riverenza verso la Chiesa, vi fu trasportata la Curia Generale, dove al presente si trova, di che non sono affatto contenti i cittadini Maceratesi e mi sollecitano spesso perché io riporti la Curia presso di loro. E’ certo che starebbe meglio là, che a Fermo, per la maggiore facilità di accesso e centralità di tutta la regione. Non ho voluto cambiare niente, perché per mani sono neofiti” (cioè di fresco convertiti…..).

   Il Cardinale, pur avendo visto il popolo festante per la liberazione dalla tirannia, non si fidava troppo di Fermo; la definiva “labilis ut anguilla, volubilis ut rota”, alludendo alla mutevolezza della sua astuta politica utilitaria.

     Ammirava Fermo e il suo territorio, per la posizione strategica e per la sua ricchezza in agricoltura e nel commercio: “Poi viene la città di Fermo che la aeconda chiave della Marca e ragguardevole città, dove è un girone che è stimato la più bella fortezza della regione e che è custodito da un gran numero di soldati e da un capitano. E faccia attenzione il mio Signore, che il capitano sia fidato e fedele, come richiede il luogo, poiché quella città fu retta per lungo tempo da tiranni ed è ghibellina per la maggior parte. Benché nel governo non si debba troppo peso alle parole Guelfo o  Ghibellino, pure riguardo allo Stato della Chiesa, sono stimati e sono realmente più fedeli i  Guelfi, che i Ghibellini….”.

       “Questa città possiede il litorale riceve grossi introiti. Questa città ha un bel Contado, con molti bei castelli…”6.

     Anticipando le riforme che sarebbero state poi codificate nelle sue “Constituziones “ , il 22 Settembre 1355 ordinò che tutti i castelli fermani inviassero rappresentanti (sindici) per prestare giuramento di fedeltà avanti a lui, e di sudditanza alla città di Fermo 7.

Thener Documenta….. domini pontificii etc.. l. I descrutiones p. 343

“Queste sono le città e castelli che appartennero sempre al Presidato della Badia di Farfa: città di Fermo, città di Ascoli, Offida, Ripatransone, Monte Rubbiano, Monte Fiore, Penna San Giovanni ecc. (Dal Tenna al Tennacola, fino ai confini del Regno)”.

“Queste sono le città e castelli che appartennero sempre al Presidato Camerinese: città di Camerino, città di Ancona, di Osimo, di Numana, di Recanati, S. Severino, Matelica, Fabriano, Tolentino, Sarnano ecc.”

“Queste sono le città e castelli che appartennero sempre al Presidato di S. Lorenzo in Campo: città di Jesi, di Senigallia, di Fano, di Pesaro, di Fossombrone, di Urbino, di Cagli, Corinaldo, Mondavio, Orciano, Piagge ecc.”

Prima del Card. Albornoz, i Giudici dei Presidati portavano a termine le cause civili e criminali con la stessa autorità del Rettore di Ancona.

COSTITUZIONI EGIDIANE

      Le “Costituzioni Egidiane” sono il primo Codice dello Stato Pontificio. Per le Marche fu promulgato alla presenza di rappresentanti di tutta la Regione, a Fano, il 1° Maggio 1357. L’organizzazione egidiana delle Marche rimase in vigore fino alla legislazione napoleonica e, in parte, fino ai giorni nostri.

     Era necessario dare alla Marca un ordinamento politico e giurisdizionale più organico e unitario, per impedire l’isolamento dei piccoli Comuni, facile preda di tiranni. Il Rettore Pontificio della Marca veniva a trovarsi isolato, senza la possibilità di dominare e governare una regione bollente per passioni politiche, frazionata in una infinità di Comuni gelosi della propria indipendenza, con una amministrazione della giustizia insufficiente e per conseguenza, poco efficiente.

     Le Marche, fino ad allora, erano divisi in tre grandi circoscrizioni giurisdizionali che si chiamavano Presidati8; il Presidato Farfense con sede a S. Vittoria in Matenano, dove il Preside aveva il suo tribunale di appello per i Comuni del territorio Fermano e Ascolano, che comprendeva pressappoco il territorio dell’attuale provincia ascolana, con le città di Fermo, Ascoli, Offida, Ripatransone: il Presidato di Camerino, con sede in quella città che era la seconda delle Marche per le grandezza, che comprendeva il territorio tra il Chienti, l’Esino, dal qualedipendevano anche le città di Recanati, Osimo, Ancona e Fabriano: il Presidato diSan Lorenzo in Campo (Pesaro), che comprendeva il territorio dall’Esino al Foglia, con le città di Jesi, Senigallia, Fano, Pesaro, Fossombrone, Urbino.

     Il Preside, o Giudice del Presidato, aveva piena autorità giuridica nella sua circoscrizione; a lui andavano in appello le cause discusse nei tribunali dei podestà comunali, e definiva ogni controversia legale, con la stessa autorità del rettore9.

A differenza di questi, non sembra però che il preside avesse alcuna autorità in campo politico o militare.

      Le costituzioni e siriane cambiavano completamente questo ordinamento regionale.

     Benché allora fosse Fermo la città principali della Marca, il Cardinale scelse Ancona come sede di un governo regionale; composto da un Rettore, nominato direttamente dal Pontefice; un Tesoriere, pure nominato dal Pontefice con l’incarico di riscuotere le imposte; un Maresciallo e quattro Giudici, che formavano il Tribunale Superiore per la Regione10.

     A questo governo regionale e facevano capo gli “Stati”, o “province”. Essi erano: Ascoli, Fermo, Macerata, Recanati, Ancona,Jesi, Cagli, Pesaro, Urbino, Montefeltro11. Rimanevano poi i tre Presidati, ma ridimensionati nella loro ampiezza territoriale: Presidato Farfense di S. Vittoria, Presidato di Camerino e quello di San Lorenzo in Campo12.

     Ad ognuna di queste città facevano capo un numero più o meno grande di Comuni minori, che subivano l’influenza di esse. Il Cardinale stringe maggiormente vincoli tra questi Comuni e le loro città, esigendo che essi prestassero giuramento di fedeltà e pagassero un tributo a quelle, come a capitali13.

      Con questa organizzazione non ci abolivano i Comuni minori, ma si mettevano sotto il controllo della Città capoluogo di Stato. In essa infatti esisteva, oltre Consiglio Comunale che governava la città, un CONSIGLIO DI STATO che vigilava sui Comuni del contado. Il Consiglio di Stato a Fermo era composto, più o meno, da una decina di consiglieri, scelti dalla Città e dal Contado. Essi sorvegliavano l’amministrazione dei Comuni del contado; nominavano in quelli i Podestà; curavano la relazione tra i Comuni e la Capitale; determinavano i contributi e i servizi civili e militari dovuti da ogni Comune alla Città14.

     Per i Presidati la cosa era diversa. Facevano capo ai Presidatiati i Comuni che non erano inclusi negli Stati, ma dipendevano direttamente dalla S. Sede. Nel Presidato non c’era il Consiglio di Stato. Il Presidato era retto da un giudice che riceveva a nome della S. Sede il giuramento di fedeltà dai Comuni dipendenti e a lui andavano in appello le cause discusse nei tribunali dei comuni. Il Preside non si intrometteva nel governo dei Comuni, i quali erano amministrati dai loro Consigli Comunali e giudicati dai loro Podestà liberamente eletti15. La differenza era questa: mentre nei Presidati i Comuni avevano piena libertà, negli Stati la libertà comunale era limitata dal Consiglio di Stato. Da ciò si spiegano anche i continui contrasti tra Fermo e i maggiori comuni del suo contado.

SECONDA MISSIONE DEL CARD. ALBORNOZ NELLE MARCHE

     Dei signori che avevano dominato sul territorio della Chiesa restavano ancora in piedi Francesco Ordelaffi di Forlì e Giovanni Visconti da Oleggio, signore di Bologna. Costituivano due pericoli da eliminare, sia perché usurpatori di possessi della S. Sede, sia perché rianimando il partito ghibellino, potevano sovvertire il lavoro organizzativo costruito con tanta fatica nella Marca. Difatti l’azione demolitrice di questi signori era cominciata. Gentile da Mogliano, protetto dai parenti Ordelaffi si era accordato con il Conte Lando la cui compagnia stanziava nel Fermano. Ma Gentile cadde di nuovo nelle mani del Cardinale e il Giudice Generale della Marca, con sentenza del 12 Gennaio 1359, lo condannò a morte, insieme al figlio Ruggero e ad altri complici16.

     Battuti gli Ordelaffi e restituita Forlì alla chiesa, il 12 luglio 1359, il Cardinale si preparava a combattere contro i Visconti per riconquistare Bologna; ma Giovanni da Oleggio, signore di quella città, inimicatosi col suo signore Bernabò Visconti, offrì la città all’Albornoz. Questi prese possesso di Bologna e, in ricompensa, con accordi stipulati il 1 Marzo 1360, concesse a Giovanni da Oleggio il Vicariato a vita della città e territorio di Fermo e, l’anno appresso, il Rettorato della Marca d’Ancona; a sua moglie Antonia de Bancionibus il possesso a vita di Marano e Grottammare17.

     Giovanni da Oleggio, benché avesse fama di avere esercitato la signoria di Bologna con tirannia e crudeltà, a Fermo fu un ottimo governatore, mite e benefico coi sudditi; operoso per la città che abbellì di nuovi edifici e cinse di nuove mura. Ma per spiegare questo cambiamento, bisogna ricordare che il Cardinale stava quasi sempre a poca distanza e, in quei tempi, forse all’opposto dei tempi nostri, i buoni cani mordevano solo col permesso dei loro padroni. Governò Fermo per 6 anni e morì l’8 Ottobre 1366. Nella Cattedrale si può ammirare il bel sarcofago fattogli costruire dalla moglie Antonia Bencioni.

     I fastidi che non aveva dato al Comune di Fermo il Governatore li diede, dopo la morte di lui, la vedova Antonia, con continui pretese di denaro; richieste molte volte appoggiate anche da Cardinale, al quale i soldi di Fermo non costavano niente. Ma il Comune non sempre era disposto a pagare; e allora avvenivano screzi fra Comune e il Cardinale, il quale sapeva che con Fermo non bisognava mai tirar troppo la corda18.

FERMO DOPO IL CARD. ALBORNOZ

     Nella seconda metà del secolo XIX, Fermo era la città più grande di tutta la Marca, e la seconda dello Stato Pontificio. Ma quando diciamo città, non dobbiamo intendere, per quei tempi, il centro cittadino isolato, ma considerato unitamente al suo contado: Fermo era una  “Città-Stato”, i sessanta castelli attribuitigli dalle Costituzione egiziane erano considerati quasi sobborghi della città e i loro abitanti cittadini fermani19. Il fatto poi che ogni castello fosse libero Comune non recava pregiudizio alla loro unità con la Città-Stato. A Fermo, mentre un Consiglio comunale governava la capitale, un “Consiglio di Stato”, composto di consiglieri della città e del contado nominava nei vari castelli i Podestà i quali, collaborando con le autorità locali scelte dal popolo, rispondevano della sicurezza della fedeltà di essi verso la città madre.

       I castelli giuravano fedeltà al Comune di Fermo, pagavano adesso un tributo annuo come a capitale ed erano tenuti a mandare una rappresentanza alla cavalcata di Santa Maria(15 Agosto), portanto un “palio”, segno di sudditanza. La cavalcata partiva dalla chiesa di Santa Lucia e si svolgeva fino alla Cattedrale, attraverso vie e piazze fangose d’inverno e polverose d’estate; fiancheggiate da modesti palazzi di ricchi e da molti tuguri e case di terra dei poveri. Era l’annuale ostentazione della potenza fermana; di questa città che avrebbe potuto essere, oltre che ricca, anche felice, se avesse saputo trovare il modo di salvaguardare sempre la propria libertà, senza bisogno di estenuarsi nel dover sopprimere periodicamente i suoi tiranni.

     Però Fermo era veramente potente. Questa città-Stato contava diecimila fuochi, cioè diecimila famiglie che pagavano il focatico (allora come sempre contavano solo i ricchi e quelli che potevano pagare le tasse). Diecimila fuochi equivaleva a circa quarantamila persone; consideriamone il doppio non paganti, e arriviamo a circa centoventimila anime. Una popolazione così numerosa permetteva al Comune di Fermo di approntare, in caso di necessità, eserciti poderosi con poca spesa. Un ordine del Consiglio di Stato imponeva ai singoli castelli  un certo numero di fanti e di guastatori equipaggiati assistiti a spese loro; mentre restava al Comune della Capitale il peso sempre rilevante di ingaggiare qualche compagnia di ventura (gli specialisti della guerra), e di ripagare le possibili perdite di cavalli ai signori “Contadini”.

     Delle continue guerre dei Fermani che la storia ci documenta solo in qualche raro caso era guerra di popolo, poiché il popolo del Fermano era un popolo di pacifici lavoratori e commercianti; la quasi totalità di esse furono volute da tiranni irrequieti, i quali dicevano di agire in nome e a vantaggio del popolo fermano, mentre il popolo non c’entrava affatto. Al popolo interessava solo la pace, senza della quale si vanificavano i frutti della loro attività.

     L’agricoltura, la ricchezza maggiore del Fermano, era seriamente compromessa dalle azioni belliche. Pensate al passaggio, e qualche volta al soggiorno di una o più compagnie di venturieri nel territorio. Erano cinque, seicento e a volte migliaia di cavalli che si sfamavano, calpestando senza freno e divorando foraggere e campi di grano, togliendo gli agricoltori la speranza del raccolto e la possibilità di nutrire il proprio bestiame. E io mi sono domandato spesso, con tutta quella moltitudine di cavalli, che cosa restava per i buoi e per le pecore.

     E anche per gli uomini; poiché quelle migliaia di soldati, i quali avevano intrapreso quel mestiere brigantesco per tentare di far fortuna e di arricchirsi col bottino, presentandosi l’occasione, estorcevano quanto potevano, non contentandosi dello stipendio elargito dai loro capitani, il più delle volte impossibilitati a mantenere la disciplina. Qualche cosa si poteva a stento salvare, fungendo con le bestie e con quel poco che si poteva trasportare in luoghi meno insicuri. Ma il lavoro languiva con la prospettiva di un lungo travaglio per riparare i gravi danni dei campi e dei casolari, e dei due mali che di solito seguivano ogni esercito: la fame e la peste.

     Con la guerra languiva il commercio. Le strade esposte al ladroneggio dei venturieri e alle insidie dei fuorusciti non erano sicure per il trasporto di frumenti, delle lane, della canapa, merci che abbondavano nel contado fermano, ma dovevano raggiungere il Porto per diventare retributive. Alla metà del secolo XIV, il porto di Fermo era ancora molto attivo, benché incominciasse a sentire la crisi che si profilava per i porti minori, causa le modifiche che si stavano introducendo nella costruzione delle navi. La numerosa flottiglia Fermana incominciava a non poter più competere commercialmente con le grandi navi moderne di Venezia e di Ancona, non più a chiglia piatta ma ad angolo, le quali, oltre ad essere più sicure per la maggior immersione, permettevano il raddoppio del carico. Esse non entravano nel porto fermano a causa del basso fondale; e se anche qualcuno aveva la compiacenza di trasbordare merci nelle navi fermane lontano dalla costa, preferivano sempre, per risparmio di tempo, filare direttamente sui porti maggiori. Ma la flotta fermana era sempre valida per il commercio sull’Adriatico: esportava nei porti adriatici prodotti fermani, rilevava dai grandi porti le merci orientali e le commerciava nei porti minori. Si restringeva un po’ il campo d’azione, ma restava sempre forte di lavoro e di ricchezza per lo Stato. Ha ragione il cardinale Albornoz e diceva: “Fermo possiede la costa adriatica, dalla quale riceve grandi introiti”.

RINALDO DA MONTEVERDE

     Il Card. Albornoz e morì ad Orvieto, nell’agosto 1367.

Per sua grandiosa realizzazione politica avrebbe avuto ancora bisogno di lui, perché l’organizzazione dello Stato Pontificio così laboriosamente costruita avrebbe dovuto consolidarsi sotto la sua guida, per aver garanzia di durata.

     Aveva affidato Fermo a Giovanni Visconti da Oleggio, e Ascoli a suo nipote Gomesio conte di Spanta, i quali per un po’ di tempo mantennero ordine nei due Stati, come lo permettevano quei tempi feroci, ma pace e sicurezza non ci furono nemmeno in questo periodo.

     Il Duca di Milano, Bernabò Visconti, incitava i Ghibellini marchigiani, offrendo il suo appoggio; i fuoriusciti e i soldati di ventura, privi di lavoro e di stipendio, si univano in gruppi e si davano al brigantaggio; gli ufficiali di Curia e gli impiegati dello Stato si erano resi insopportabili, per la loro esosità20. Il signore di Ascoli, Conte Gomesio, seppe liberare il suo Stato da una compagnie di ventura, detta “Compagnia degli Inglesi” spedendola a combattere in Sabina contro altri venturieri; ma ormai era invalso l’uso tra i signori e tra i regnanti di affittare queste compagnie di miserabili, che oggi chiameremmo briganti e di legalizzarne le rapine e le atrocità, perché fatte in nome loro che si dicevano signori. E per più di due secoli le Marche furono sottoposte a questo flagello, perché data la posizione la fertilità della Regione, qui si dirigevano, o di passaggio, o di fazione, o per svernare.

     Firenze, dominata da una oligarchia di nobili, si alleò con i Visconti e, nel 1375, costituì una lega ghibellina, alla quale man mano aderivano i signori marchigiani.

     A Fermo il malcontento popolare che era stato esasperato dalla carestia che si era aggiunta agli altri mali nell’annata 137421, sfociò in una ribellione popolare che causò la morte del Podestà Gregorio De Mirto da Ripatransone e la cacciata del vescovo Nicola De Merciariis . Il disordine e la confusione portarono la signoria di Rinaldo da Monteverde, nipote del Mercenario, di funesta memoria. Nel Febbraio 1376, anche Ascoli si ribellò al Conte Gomesio che si chiuse sul Castello del Monte22.

     Con un forte esercito di Fermani, Rinaldo occupò Ascoli, ”per salvarla dalla rovina”, dice Anton de Nicolò, ma in realtà per appoggiare i ghibellini ascolani contro il Conte Gomesio che si difendeva molto bene chiuso sulla fortezza; e questa situazione durò dieci mesi.

     Ma c’era per i ghibellini un altro pericolo: Ripatransone, sempre guelfa e alleata di Ascoli, avrebbe potuto tentare di portare aiuto al Conte Gomesio. Rinaldo la prevenne, spedendo contro di essa una schiera di Fermani, nel Maggio 1376; però la fortezza del luogo, il valore dei cittadini guidati dal loro capitano Carosino, costrinse i Fermani a togliere l’assedio; e se ne andarono, recando, secondo la bestiale usanza di allora, gran guasto alle campagne; bruciando case, tagliando viti e devastando seminati23.

     Questo impegnare le forze fermano in più imprese contemporanee forse non andava a genio a molti Fermani, specialmente ai signori “Contadini”; lo possiamo arguire da una frase delle “Cronache”. Il 4 giugno 1376, tenendo ancora un forte contingente fermano in Ascoli, Rinaldo assalì la guelfa S. Elpidio; Anton De Nicolò dice: “con pochi Fermani e Contadini che lo seguivano malvolentieri”. L’assalto durò solo cinque giorni.

     Di nuovo Fermani e Contadini, tra i quali Ludovico da Mogliano e Boffo da Massa, furono chiamati all’esercito contro Ripa, sotto la guida del capitano fermano Tommaso Iacobucci ( indignus et malus homo). Si trovarono sotto Ripatransone il 13 Settembre 1376; ma tra i capitani dell’esercito fermano successero baruffe, e il giorno stesso l’esercito tornò a Fermo, dove Rinaldo fece decapitare sulla piazza diversi onorati cittadini.

     Finalmente, il 17 Gennaio 1377, Gregorio XI (1370-1378, l’ultimo Papa francese, vinto dalle preghiere di Santa Caterina da Siena, tornò a Roma. Le sue preoccupazioni erano innumerevoli, poiché quasi tutto lo Stato era in rivolta; sulla collaborazione dei Cardinali poteva far poco affidamento; gli ufficiali dello Stato erano corrotti e infedeli.

     Cercò di rianimare la fiducia nelle zone restate sempre fedeli come Santa Vittoria e Camerino, promettendo ricompense e “soldati, ora che il Rettore ne ha tanti”24; ma ahimè, erano soldati di ventura bretoni, i quali, appena un mese dopo il suo ritorno a Roma, gli combinarono la “strage di Cesena” che valse ad accrescere la rabbia ghibellina, a raffreddare i Guelfi e ad aggravare le angustie del Papa che ne morì il 27 Marzo dell’anno dopo.

    La Lega fiorentina si mostrava sempre più irriducibile contro la S. Sede; però fortunatamente tra i Ghibellini non c’era un ideale comune. Le mire personali rendevano precario il loro accordo: Firenze aderiva ai Visconti sapendo che presto avrebbero dovuto combatterli; e i signori delle Marche partecipavano alla Lega fiorentina, ma non avevano nessuna intenzione di farsi dominare da Firenze. E anche tra i signori marchigiani un accordo sincero era impossibile; prova ne sia il fatto che il segretario fiorentino Salutati deve intervenire per mettere d’accordo Rinaldo da Monteverde e il suo lontano parente Boffo da Massa che reclamava il possesso di Carassai; e ambedue facevano parte della Lega25.

     Gregorio XI, stando ancora in Avignone, aveva scritto gli Anconetani che trovassero il modo di combattere contro i Fermani e ridurli all’obbedienza. Ci furono scontri di poca importanza, perché Ancona doveva badare che non intervenisse Venezia, alleata di Fermo. Ma l’11 giugno 1377, giorno di San Barnaba, dice De Nicolò, un esercito di Bretoni, guidato da Rodolfo Varano, occupò S. Elpidio; vinse l’esercito fermano presso il Tenna e si spinge fino al Colle di S. Savino, facendo più di trecento prigionieri fermani. Nel successivo 8 Settembre, “Natività della Vergine”, Rinaldo, appoggiato da seicento lancieri del Conte Luzio (compagnia di ventura), da Bartolomeo di San Severino e da Francesco di Matelica, rioccupò S. Elpidio abbandonandola al saccheggio e incendiandone una metà. Nel bottino fu compresa la preziosa Reliquia della Sacra Spina che fu portata a Fermo e sistemata nel tempio di Sant’Agostino. Poi cacciò da Montegiorgio il Varano e lo inseguì fin nella valle del Fiastra, dove, intervenuti in massa i combattenti di San Ginesio, Rinaldo riportò una terribile sconfitta che accelerò la sua fine.

     Il 24 agosto 1378 (S. Bartolomeo), mentre Rinaldo risiedeva Montegiorgio, i Fermani, aiutati dai comuni di Ancona, Recanati e da Rodolfo di Camerino, espugnarono il Girfalco, permettendo però che la moglie Luchina e figli Mercenario e Luchino che vi si erano rinchiusi si riunissero a lui. Ma, non rassegnandosi a perdere il dominio di Fermo, poco dopo, Rinaldo riordinò il suo esercito rafforzandolo con mercenari, nell’intento di rioccupare la città. I Fermani lo cacciarono da Montegiorgio e lo inseguirono fino a Montefalcone, dove lo assediarono per vari mesi. Sabato 2 Giugno, 1380, il capitano di ventura Egidio da Monte Urano lo tradì per mille ducati e aprì il castello ai Fermani. Rinaldo ed i suoi caddero prigionieri e furono condotti a Fermo. Il giorno di San Bartolomeo fu in seguito dichiarata “festa comunale”26.

     Anton De Nicolò ci ha lasciato una dettagliata descrizione della tragica fine di Rinaldo, della moglie Luchina e dei figli Mercenario e Luchino: “furono presi e condotti a Fermo. Entrarono per porta San Giuliano, ciascuno su un asino, cavalcando alla rovescia, con gran festa del popolo. Furono condotti in piazza avanti ai Priori di Fermo; e cosa da notare, gli abitanti di ogni contrada, specialmente i giovani, fecero abiti nuovi, ogni contrada col proprio colore; e mentre i vari gruppi erano in piazza San Martino festanti intorno ai loro capi, Rinaldo, Mercenario e Luchino suoi figli, nella detta piazza al cospetto di tutti furono decapitati”27.

     Fu messa in piazza San Martino una lapide che recava scolpita la testa di Rinaldo, con scritta: “Tiranno fu pessimo et crudele”.

     Rinaldo fu il terzo di Contadini eliminati in un secolo dai Fermani, per liberarsi dalla loro tirannide: ma non finì con lui questa e genìa di prepotenti.

I CASTELLI

che componevano lo Stato di Fermo, riportati negli Statuti Comunali, erano una ottantina. Qui ne ometto alcuni che non esistono più: o sono difficilmente individuabili.

   Sono distinti in:

    Maggiori

Grottammare – Petritoli – Servigliano – Falerone – Montefiore – Sant’Angelo in Pontano – Loro – Mogliano – Monte S. Pietrangeli.

     Mediocri

San Benedetto in Albula – Massimiano – Campofilone – Altidona – Lapedona -Monte Giberto – Rapagnano – Torre di Palme – Belmonte – Montefalcone – Smerillo -Torre S. Patrizio – Gualdo – Montottone – Marano -Porto (S. Giorgio.)

     Minori

Moregnano – Moresco – Torchiaro – Ponzano – M. Vidon Combatte – Collina –

M. S. Pietro Morico – Ortezzano – M. Leone – Grottazzolina – Acquaviva – S. Andrea – Petriolo – Monte Urano – Francavilla – Magliano – Cerreto – M. Vidon Corrado – Massa – M. Verde – Pedaso – Boccabianca – Castelletta di Petriolo – Mercato – Castrum Guardiae – Partino – Monte Varmine – M. Rinaldo – Alteta – Gabbiano – C. S. Mariae Matris Domini (oggi S. Marco di Ponzano) – Montappone – Poggio fuori Grottazzolina – Chiaromonte – Castello sotto S. Elpidio (oggi Casette) – Bucchiano.

     Cura particolare avevano i Fermani per i Comuni marittimi. Gli abitanti di San Benedetto sono dispensati dalle tasse, ma in cambio devono provvedere alla guardia del castello diurna e notturna e fortificare gli steccati verso il mare. (l. II p.69).

     Guardie per vigilare i porti: dieci a Torre di palme; sei a Boccabianca; dieci a Marano; dieci a Grottammare; quattro a San Benedetto (l II p.57).

NOTE

1       THENER – Documenta Domini Temporalis etc. p. 113 “…..si dictus rector sit bene fortis et  

         habeat ad sufficientiam de stipendiariis, dictaMarchia erit semper in obedientiam … et credit

         quod sufficerent CCCC vel D equites……

         ….. Se il diritto rettore sarà ben forte e avrà mercenari a sufficienza, la marca sarà sempre in

         obbedienza per questo sarebbero sufficienti quattrocento  o cinquecento cavalieri.….

2       COMPAGNONI – Regia Picena . I v. pag. 214 (Macerata MDCLXI).

3       LIBER STATUTORUM (di S. Vittoria). Ecco la rubrica I, del libro III p. 101: “Nessuno osi o

         presuma nominare o acclamare nel nostro paese o nel suo territorio, per la protezione di

        esso…. qualche signore, o Comune, o alcun partito guelfo o ghibellino, pena 200 denari di

        multa”. E questo avveniva anche in altri Comuni.

4      THENER – Documenta Domini Temp. etc.  – vol. II p. 110 –Ismeduccio di San Severino era stato

        focoso ghibellino, ma in questo periodo (circa il 1340) era ardente sostenitore dei diritti del

        Papa.

5     F. FILIPPINI – Il Card. Albornoz . Bologna 1933 c, IV p, 86. Dall’Arch. Vat. Introiti ed esiti- “Die VI

        Junii solutum fuit Everardo Austorp pro captura D. Galeotti de Malatesti in conflictu belli

        Paterni facto die 29 Aprilis ….. pro dicta captione, CC flor

6     THENER – Documenta etc. – v.II Descriptiones p. 356

7      SERAFINO PRETE – Documenti Albornoziani . pp. 16-17-18.

8      THENER – Documenta etc. Descr. March. – v. I p. 343

9      “Ab antiquo est constitutun”, dice il Albornoz, “che il Giudice del Presidato giudichi e porti a

         termine le cause civili e criminali con la stessa autorità del Rettore Generale della Marca. Ma

         siccome è più conveniente secondo il diritto che le cause maggiori siano discusse in un

         tribunale dove ci sia un maggior numero di periti, stabiliamo che le cause riguardanti i diritti e

         il territorio delle varie città; le cause riguardanti rivendicazioni contro la Sede Apostolica e il

         Rettore; le cause tra il fisco e privati, non vengano giudicate dal preside, ma dal Rettore e dai

         suoi giudici”.

10    F. FILIPPINI – Il Cardinale ecc. c. VI p. 142 (Bologna 1933).

11    FRANC. BONASERA – Il  Card. Albornoz nel VI centenario delle Cost. p. 9.

12    POMPEO COMPAGNONI – Regia Picena p. 222.

13    SERAFINO PRETE – Documenti Albornoziani – p. 16 – dalla pergamena 998 dell’archivio di

         Fermo.

14    ANONIMO FERMANO – p. 252, incluso nelle Cronache Fermane del Montani.

15    COLUCCI – A. P. t. XXXI p. 8 e seg. Sono molti i documenti che possono confermare quanto

         esposto. Non mi dilungo a riportarli. Invito piuttosto il lettore ad ammirare il genio

         organizzativo politico del Card. Albornoz e il suo spirito democratico, tanto più mirabile,

         perché attuali, dopo seicento anni.

16    Vedi SERAFINO PRETE – Documenti Albornoziani – doc. IX p. 18.

17    G. DE MINICIS – Di Giovanni Visconti da Oleggio Signore di Fermo(Roma 1840).

18    S. PRETE – ivi doc. XIII – XIV p.20

19   Gli Statuti Comunali alla rubrica 49 pag. 28, dice cittadini Fermani tutti quelli che prestano

         servizio per la città, o lo hanno prestato per cinque anni, o sono iscritti tra i paganti il focatico.

20    Riccardo di Saliceto, in una lettera, diceva al Papa: “(gli Italiani) Mai si allontanarono dalla

         Chiesa e dalla Santità Vostra, ne intendono allontanarsi, ma dai vostri diabolici  ministri…..”.

21    ANTON DE NICOLO’, nella sua cronaca, dice che una salma di grano costava 19 fiorini; una di

         orzo 6 ducati, una di spelta 5.

22    MURATORI – Rer. ital.: “Anno 1376, Asculum oppidum, die ultima mensis Februari defecit

         Ecclesia ubi erat Gomesius de Boniza nepos Card. Egidi; aufugit in arcem ubi se defendit per

         decem menses etc.” (Tanursi in Colucci t. XVIII pp. 41-42).

23     DE NICOLO? – Cronache Fermane

24    COLUCCI – A. P. t. XXIX . doc. VIII p. 202

25    POLINI – Storia di Carassai – p. 75 “Domino Boffo Amice carissime. Lamentatur Dominus

         Rainaldus quod tu contra Statum suum aliquod comitatinos, nobilesque firmanos sub pretestu

         nostri subsidii niteris concitare.Quod si verum foret, foret tua nobilitas multipliciter

         reprehendenda. Scis enim Dominum Rainaldum esse de nostris principalibus colligatis,contra

         quem attentari,  contra unitatem est Ligae etc,

         Amico carissimo. Il signor Rinaldo si lamenta che tu sobilli alcuni nobili di campagna e di città

         contro il suo governo, vantandoti del nostro appoggio. Se ciò fosse vero, la tua nobiltà sarebbe

         molto ripresibile; poiché sai che il signor Rinaldo è uno dei nostri principali collegati. Attentare

         contro di lui attentare contro l’unità della Lega.

26    STATUTI – p. 5 – “Cum populus civitatis Firmanae fuit in die Beati Bartolomei Apostoli

         tirannica rabie liberatus, et ut dona quae capiuntur a Deo intercedentibus meritis Sanctorum

         eiusdem non tradantur oblivioni, statuimus et ordinamus quod singulis annis in perpetuo in

         conservationem memoriae prelibatae,  in die festi et vigilia S. Bartolomei Ap.  de mense

         Augusti, fieri debeat  aliquof festum singulare ad honorem et reverentiam S. Bartolomei

         predicti, secundum deliberationem et voluntatem DD. Priorum populi et Confaloneri iustitiae,    

         qui pro tempore erunt, una cum regolatoribus dictae civitatis; et quod circa festum et

         solemnitatem fiendam in dicto festo possint dicti Domini espendere de pecunia et havere dicti

         Communis usque ad viginticinque libras denariorum absque alia deliberatione Cernitae vel

         Concili specialis, vel generalis”.

27    “Eodem Anno et die II mensis Junii, supradictus dominus Rainaldus cum omnibus

          Supranominatis fuerunt deducti ad civitatem Firmi ad portam Sancti Juliani,

          Quilibet fuit portatus in uno asino cum ore retro, cum corona spinea in capite et fuerunt ducti

          coram dominis Prioribus Firmi per se, iuvenes et etiam alii, fecerunt vestimenta nova, qualibet

          contrada de uno eodomque colore  per se, et aliae per se et sic de singulis,; et illico,  dum

          omnes brigatae essent in platea S. Martini et tripudiarent cum dominis predictis, dominus

          Rainaldus et dominus Mercenarius et Luchinus fuerunt decapitati”. (A. De Nicolò – Cronache p.7.

CAPITOLO VIII

FERMO E LO SCISMA D’OCCIDENTE

DAL 1380 AL 1433

     quando i germani si sollevavano contro qualche tiranno, gridavano “Viva la chiesa e lu popolu liberu”; e anche quando eliminarono Rinaldo da Monteverde, cercarono la libertà nella sottomissione alla Chiesa; ma questa era gravemente malata e non poteva garantire a Fermo quella libertà che nemmeno essa godeva.

     L’8 aprile 1378 era stato eletto Papa Urbano VI (1378-1389), un Papa di vita irreprensibile, ma eccessivamente severo e rigoroso, tanto che più volte Caterina da Siena è costretta a raccomandargli di usare mansuetudine e di non farsi trasportare dall’ira1.

     I Cardinali francesi, il 20 Settembre successivo, si adunarono in Anagni ed elessero Roberto di Ginevra, col nome di Clemente VII, dichiarando irrregolare l’elezione di Urbano VI, avvenuta anche col loro voto pochi mesi prima. Clemente VII si stabilì in Avignone; Urbano VI restò a Roma, e il mondo cattolico si divise; una parte per Avignone, una per Roma, e ne nacque una incredibile confusione, nella quale non ci si raccapezzavano più nemmeno i Santi; vediamo infatti Caterina da Siena, domenicana, sostenere Urbano VI; invece San Vincenzo Ferreri, pure domenicano, parteggiare per l’antipapa.

     Fu forse il più grave disastro mai sopportato la Chiesa2; e uno dei più gravi pericoli che incombé sull’Europa, poiché i Turchi avanzavano nei Balcani, minacciando di ingoiare la civiltà europea.

ANTONIO DE VETULIS

     La Marca fu una delle zone che più ebbero a soffrire in conseguenza dello scisma. A Fermo il primo ad esserne travolto fu il suo Vescovo Antonio de Vetulis (1375-1385), viterbese, uomo di grande intelligenza di profonda cultura giuridica. Fu nominato Vescovo di Fermo da Gregorio XI, nel 1375, in sostituzione del vescovo Nicola Marciari trasferito in altra sede. Forse il Papa fu costretto a quella sostituzione, poiché, benché il Catalani non faccia cenno dei motivi che lo provocarono, Anton de Nicolò dice che il popolo fermano, nel 1375, “rebellavit contra pastorem Ecclesiae”. Sapendo dal Catalani che il vescovo Nicola, dopo essere stato trasferito in varie sedi, finì vescovo titolare, possiamo arguirne che era un vescovo difficile, e accettare la notizia della rivolta popolare. Data la disperazione nella quale in quell’anno 1375, si trovava il popolo fermano, per la carestia cominciata l’anno prima, bastava poco per suscitare una rivolta.

     Sia per questo stato di agitazione, sia perché Antonio de Vetulis quando fu nominato vescovo, benché fosse dottore in legge, aveva solo gli Ordini Minori e si richiedeva un po’ di tempo per ricevere i Maggiori e la consacrazione episcopale, solo nel 1377, partì per la sua diocesi Fermana. In una lettera di quell’anno, Gregorio XI raccomanda al Comune di Santa Vittoria di aiutare il Vescovo con tutti i mezzi ed assisterlo nel recupero di beni diocesani perduti3. Ma qualche mese prima, Rinaldo da Monteverde si era impadronito di Fermo, e il vescovo Antonio dové tornare indietro per rifugiarsi a Roma, dove poté partecipare alla elezione di Urbano VI, l’8 aprile 1378. Eletto nel settembre successivo l’antipapa Clemente VII, forse dietro preghiera di amici francesi, sottoscrisse un livello, nel quale si sosteneva l’invalidità dell’elezione di Urbano VI; ma seguitò a mostrare devozione verso quest’ultimo per parecchi anni.

     Ci possiamo domandare: era persuaso Antonio de Vetulis che la elezione di Urbano VI era invalida?. Conoscendo il suo ingegno e la sua sapienza giuridica, dovremmo rispondere negativamente; ma forse l’argomento era tanto arruffato, da confondere non solo i santi, ma anche i giuristi. Non possiamo però seguire il Catalani quando afferma che il De Vetulis macchiò la sua condotta “turpissimo scelere”. Qui non si tratta di scelleraggine, ma di condotta intelligente e astutissima: quell’astuzia che il vescovo Antonio possedeva in sommo grado, che gli viene attribuita a lode anche nella iscrizione sepolcrale: ”astutus in omni” occupava nella chiesa un alto grado e l’altissima dignità di vescovo di Fermo, la più importante sede vescovile dello Stato Pontificio; non se la sentiva di mettere in pericolo la sua posizione, schierandosi per una delle parti in conflitto, e scelse la poco dignitosa condotta del doppio gioco. Non si poteva sapere quale fine avrebbe fatto Urbano VI, poco amato per la durezza del suo carattere; come non si poteva prevedere la sorte dell’antipapa Clemente VII, seguito forse dai più. Il De Vetulis credette opportuno affidarsi alla propria astuzia e mantenere il piede su due staffe. Andò ad ossequiare l’antipapa in Avignone; partecipò al convegno di Salmatica favorevole a Clemente VII e seguitò ad essere umile servitore di Urbano VI. Astuta condotta politica, con la quale tenta di non farsi travolgere dagli eventi, ma che non intacca affatto la sua fede il suo zelo per la Chiesa e per la sua Diocesi, perché non si trattava di eresia.

     Nel 1385 il suo gioco finì. Chiamato a Genova, dove si trovava temporaneamente il Papa insieme ad alcuni Cardinali tenuti sotto particolare vigilanza (poiché non erano astuti come lui), il Vescovo fermano, sospettando qualche pericolo, fuggì e ritornò a Montottone, sua abituale residenza. Urbano VI ordinò al Comune di Fermo di occupare Montottone, per togliere al Vescovo la possibilità di andare girando liberamente. I Fermani assalirono Montottone, ma furono respinti; tentarono un nuovo assalto, e il castello preferì scendere a patti; però il Vescovo non si trovò in paese, poiché Montottone che gli era affezionato, aveva protetto la sua fuga per destinazione ignota4.

     Al suo posto, Papa Urbano nominò Vescovo Angelo dei Pierleoni (1385-1390) di nobile famiglia romana, che tenne la Diocesi per circa cinque anni.

     Nel 1389, morto Urbano VI, fu eletto Bonifacio IX (1389-1404). L’anno seguente, alla morte di Angelo Pierleoni, a richiesta dei Fermani, Bonifacio IX volle che Antonio De Vetulis riprendesse la Diocesi fermana (1390-1405). In questo 2º periodo di episcopato il De Vetulis fu veramente insigne. Godette della piena fiducia di Bonifacio IX che se ne servì per numerose importanti incarichi, tanto che si può dire Antonio il più grande collaboratore di questo Papa.

     Fermo deve riconoscenza al Vescovo De Vetulis per la sua guida sapiente e per il Palazzo Vescovile, costruito da lui a proprie spese, su un’aria pure acquisita con denaro proprio, nel 13915. Morì nel 1405, un anno dopo Bonifacio IX.

     Soppresso Rinaldo da Monteverde, Fermo riacquistò la libertà, ma non poté goderla, perché quel periodo non permetteva la tranquillità.

     Nell’agosto 1382, scoppiò una peste che durò tre mesi e falciò nella città circa tremila persone. Nel 1383, l’esercito fermano dovette ricacciare il Duca di Camerino da Sant’Angelo in Pontano. Nel 1385, per ordine del Papa, dové marciare contro Montottone per imprigionare il proprio Vescovo; sbarazzare Montegiorgio dagli avanzi dell’esercito di Rinaldo e mandarvi per podestà Ludovico di Antonio, e ristabilire il governo fermano su altri castelli sottratti allo Stato. Nel 1387, il 4 Settembre, fu ucciso a Carassai Boffo da Massa, e quel Comune insieme a Cossignano e Porchia, che costituivano il suo dominio, tornarono a Fermo6.

     Nello stesso anno, Boldrino da Panigale, mandato nella Marca dal Governo Pontificio in aiuto ai Guelfi con 150 cavalli, per sostenere il suo esercito, razziò la zona tra Monte Urano e Fermo 200 bovini e 600 ovini.

     Nel 1390, Bonifacio IX rimandò a Fermo il Vescovo Antonio di Vetulis molto amato dai Fermani e nominò Rettore della Marca il proprio fratello Andrea Tomacelli, con soddisfazione dei Fermani e in genere di tutti i Marchigiani. I ghibellini intensificarono la loro azione di rivolta e, nel 1392, riescono a formare una lega delle principali città marchigiane: Ancona, Macerata, Fermo, Ascoli e altre; assoldano Biordo dei Micheletti da Perugia e, nel 1393, sconfiggono il Rettore e lo fanno prigioniero. A Fermo, capo della rivolta era Antonio Aceti, Gonfaloniere del Comune, che chiamò Luca di Canale e Conte di Carrara a sostegno del suo partito.

     Bonifacio IX chiamò a guidare l’esercito della Chiesa Antonio Acquaviva, sotto del quale militavano Marino Marinelli e Otto Mazarino Bonterzi, ambedue di S. Vittoria. Il Papa scrisse a questo Comune di accogliere e assistere il fratello Giovannello che stava per arrivare con cinquecento cavalli7. Otto Mazarino Bonterzi riuscì a occupare Fermo e porre l’assedio al Girfalco, mentre per il valore soprattutto della cavalleria di Marino Marinelli, l’esercito dei collegati, guidati da Biordo dei Micheletti, venne disperso a Monte San Giusto e il Rettore liberato. Intanto i Ghibellini fermani si erano risollevati e agitavano la città. Marino Marinelli riuscì a entrare di soppiatto nel Girfalco; rioccupò la città e costrinse Antonio Aceti a cedere il posto al Rettore e a lasciare Fermo. Il Rettore Andrea Tomacelli entrò a Fermo per Porta San Giuliano, festeggiato dal popolo, nel 1397.

     Il Girifalco fu affidato alla custodia del nobile capitano Zambocco  di Napoli. Le conseguenze della guerra si sentirono a lungo per i saccheggi di venturieri, per l’aumentata miseria dei poveri, per le malattie che seguivano sempre le guerre.

     Nel 1398, il Conte di Carrara saccheggiò alcuni paesi dell’Alto Fermano, tra i quali il Monte Vidon Corrado, liberata poi da Marino Marinelli che lo mise in fuga8.

     Nell’estate del 1399, comparve qualche caso di peste. Alcuni pellegrini che tornavano da Terra Santa dissero che il più efficace rimedio contro la peste era la costruzione di una chiesa in onore della Madonna della Misericordia. L’ultimo venerdì di Ottobre 1399, (era il 31 Ottobre, “quarta hora noctis”) si cominciò a costruire la chiesetta della Misericordia; in capo alla piazza San Martino9, e il giorno dopo, sabato 1° Novembre (alle 23 del giorno), fu consacrata con grande solennità; vi fu celebrata pure una Messa Novella10.

     L’anno seguente, la peste infierì più violenta e causò in città la morte di duemila  persone e nel contado più di quattromila.

     In quell’anno cominciarono pure nella nostra regione le processione dei “Bianchi”. A centinaia uomini e donne vestiti di bianco per le gravano da una chiesa all’altra e da un paese all’altro, pregando e cantando l’inno di Jacopone da Todi: “Stabat Mater”11. Non mancavano scene di incredibile fanatismo, da parte di gruppi di penitenti guidati da esaltati e da imbroglioni.

     Molti di questi pellegrinaggi avevano per meta la Cattedrale di Fermo, poiché ricorrendo l’anno del Giubileo, il capitano del Girfalco Zambocco ottenne da Bonifacio IX una bolla, per la quale le indulgenze del Giubileo si potevano lucrare anche nella Chiesa Cattedrale12.

DAL 1400 AL 1417

   Per evitare grande confusione nella mente del lettore, è necessario semplificare la narrazione di questo periodo agitatissimo, attenendosi a fatti principali, necessari per capire la storia fermana.

  Dalla confusione in campo religioso cercavano di trarre vantaggio in campo politico quasi tutti i governanti italiani. Ladislao, Re di Napoli, sostenendo il legittimo Papa, allargava il suo dominio sulle terre della Chiesa; altrettanto tentava di fare la Repubblica di Firenze, che aveva guadagnato l’adesione di molti signori dell’Umbria e delle Marche; e appoggiava l’antipapa. Anche Carlo Malatesta di Rimini, che era forse il più sincero sostenitore del Papa legittimo, aveva i suoi motivi politici per farlo, poiché la potenza della scismatica Firenze era un grave pericolo per il suo piccolo Stato.

     Fermo sopportò tutte le conseguenze disastrose dello Scisma. Nel 1404, fu eletto Papa Innocenzo VII, di Sulmona, che nominò governatore di Fermo e Rettore della Marca il nipote Ludovico Migliorati. Morto il vescovo Antonio De Vetulis nel 1405, il Migliorati ottenne dal Papa che fosse trasferito alla Diocesi di Fermo il Vescovo di Ascoli a Leonardo De Fisicis, pure di Sulmona, che gli storici dicono ubriacone e vizioso13

     A questa sventura si aggiunse, nel 1406, la morte di Innocenzo VII e l’elezione di Gregorio XII, (1406-1416) veneziano, che forse con poca oculatezza politica, volle togliere al Migliorati e la rettoria della Marca e il governo di Fermo. Ludovico Migliorati non si piegò e, pur perdendo la rettoria della Marca, restò signore di Fermo, cercando di mantenere buone relazioni col Re di Napoli.   

   Sentendosi in pericolo perché in disgrazia del Papa, divenne sospettoso e a volte crudele. Nel 1407, in una riunione del consiglio comunale, volendo il Migliorati imporre la sua volontà, si alzò Antonio Aceti14 che lo apostrofò: “in buon hora, lassate fare a li Priori, e se non volete, rimandateli a casa”. Il Migliorati, conoscendo bene il personaggio e vedendo in lui un pericolo per la propria signoria, il giorno dopo, fece prendere e decapitare l’Aceti con alcuni familiari ed amici.

     Nel 1409, si adunò un Concilio a Pisa che, il 26 Giugno di quell’anno, dichiarò deposti i due Papi, Benedetto XIII e Gregorio XII, proclamando solo Papa legittimo Alessandro V, eletto dal Concilio. Il risultato fu che, invece di due Papi se ne ebbero tre, peggiorando la confusione. Ludovico Migliorati, credendolo ormai il partito più sicuro, seguì le parti di Alessandro V, poi del successore Giovanni XXIII, antipapi sostenuti dalla Lega fiorentina, i quali gli confermarono la signoria di Fermo e il rettorato della Marca. Anche la Diocesi Fermana fu per vari anni in sua balìa, poiché osteggiò accanitamente i vescovi nominati da Gregorio XII e costrinse i vari antivescovi che si susseguirono a sottostare al suo arbitrio.

     Ludovico Migliorati fu il più fortunato tra i tiranni di Fermo, poiché, dopo aver tenuto più a lungo di tutti la signoria della città (33 anni), riuscì a morire nel proprio letto; ma nessuno collazionò più umiliazioni di lui, poiché in campo militare fu un imbelle.

     Il 23 Ottobre 1413, Carlo Malatesta si mosse contro Fermo. Da Montolmo assalì Francavilla, espugnando la “con una bombarda grossa che scagliava pietre pesanti più di 100 libbre”15, e in tre giorni, occupò Alteta, Cerreto, Montegiorgio, Falerone, Monte Vidon Corrado, Montappone, Massa, Mogliano.

     Nella notte tra il 26 e 27 Novembre tentò a sorpresa alla occupazione della città. Secondato dal traditore Vanni Andreoli di Fermo, ruppe il muro sotto i Macelli, ma accorsi al rumore i cittadini preferì ritirarsi e seguitare l’occupazione del contado.

     Dal 10 al 26 Dicembre, occupò Monteverde, Rapagnano, Torre San Patrizio, Monte San Pietrangeli, Monturano.

     Il 31 Marzo 1415, seguitò la conquista lo Stato Fermano, occupando Monte Leone, Monsampietro Morico, Montottone, S. Elpidio M. M. Vidon Combatte e Ortezzano. Più sfortunata fu Torchiaro che, mentre trattava la pace, fu occupata a

tradimento da un certo Giorgio da Roma che la saccheggiò e la diede alle fiamme. Gli abitanti di Petritoli, spaventati, abbandonarono tutti il paese. Tra i fuggiaschi c’era anche, colla sua famiglia, Anton de Nicolò, allora Podestà di Petritoli, che ci racconta questi avvenimenti16. Ma nemmeno lui, tanto ossequioso verso il Migliorati e verso Giovanni XXIII, ci riporta alcuna azione bellica di quel signore per contrastare l’occupazione del suo dominio. Forse sapeva che i Fermani non erano con lui, e non si sentiva sicuro fuori del Girfalco.

     Chi invece si mosse contro il Malatesta Rodolfo Varano, che temeva per il suo Ducato di Camerino. Però fu battuto presso San Severino il 21 Maggio 1415, e il Malatesta occupò Montecchio (Treia), Morrovalle, Montecosaro, San Giusto, Montegranaro e Petriolo. Ormai al Migliorati restava solo Fermo e qualche altro castello verso il mare.

      Ma il 1415 fu anche l’anno decisivo per la fine dello scisma. L’imperatore, che allora era a Sigismondo di Lussemburgo, spinto da tanti dottori che gli attribuivano il diritto e il dovere di rimediare ai mali della Chiesa, si accordò con l’antipapa Giovanni XXIII che dei tre era il più seguito, e ottenne da lui la bolla di convocazione di un Concilio che si aprì a Costanza nel Novembre 1414. Giovanni XXIII fu presente fin dalle prime adunanze, ma vedendo di non poterle guidare a modo e a favore suo, nel marzo 1415, di nascosto fuggì. Il Concilio stava già per sciogliersi, quando con intelligenza e magnanimità, proprio nel momento più opportuno, intervenne Gregorio XII. I due antipapi avevano perso ogni credito presso il Concilio per la loro condotta faziosa ed egoistica. Il 4 Luglio 1415, Carlo Malatesta, plenipotenziario di Papa Gregorio si presentò a Costanza con una bolla del Papa che convocava il Concilio, rendendolo così legittimo, e offriva la propria abdicazione.

     Si perse ancora molto tempo nella discussione se si dovesse leggere prima un nuovo Papa, o forse fare prima alcune riforme e, finalmente l’11 Novembre 1417, giorno di S. Martino, fu eletto Papa Ottone Colonna, (non era ancora Diacono), che prese il nome di Martino V; così finì lo scisma d’Occidente che era arrivato 39 anni.

     Carlo Malatesta pagò cara la sua fedeltà Papa Gregorio XII e i suoi servizi alla Chiesa. Firenze e i suoi alleati si videro in pericolo, sia per l’ingloriosa fine del loro antipapa, sia per la potenza del Malatesta che minacciava di accrescersi per il nuovo corso che stavano prendendo gli avvenimenti. Il 13 luglio 1416, Firenze mandò contro il Malatesta, Braccio da Montone che, presso Assisi, lo sconfisse e lo fece prigioniero.

     I castelli fermani che odiavano il Malatesta, sia per spirito di indipendenza, sia perché avevano dovuto troppo soffrire per la rapacità e la crudeltà del suo esercito, approfittarono della sua disavventura, per ritornare tutti alla obbedienza di Fermo.

FERMO E MARTINO V

    Lo Scisma non era stato una eresia, poiché non erano state mai in gioco le verità della Fede, se non in qualche testa di dottore; la cristianità era solo disorientata, e anche Fermo lo era, circa la legittima gerarchia ecclesiastica. Ma non per questo furono minori le difficoltà incontrate da Papa Martino V, che seppe affrontarle con abilità singolare. Possiamo un po’ misurare il suo tatto politico nella sistemazione del Fermano. Qui trattò gli individui senza tener conto dei quale parte avessero seguito durante lo scisma; d’altra parte non sappiamo nemmeno quale parte avesse seguito lui.

    Mostrò benevolenza verso il Migliorati e lo riconfermò nel governo di Fermo. In fondo, questo astuto volpone non era peggiore, né più pericoloso di tanti altri; non valeva la pena di farselo nemico, esautorandolo.

     A Fermo, dal 1412 c’erano due vescovi: Giovanni III De Bertoldis romagnolo, eletto dal legittimo Papa Gregorio XII, e Giovanni IV De Firmonibus, fermano, che era stato trasferito dalla diocesi di Ascoli a Fermo dall’antipapa Giovanni XXIII, dietro preghiera di Ludovico Migliorati. Ambedue erano uomini di grandi qualità; ambedue avevano partecipato al Concilio di Costanza; ma Giovanni IV si era distinto nel sostenere l’antipapa. Bisognava toglierne uno; Martino V, il 15 Dicembre 1417, trasferì a Fano Giovanni III e confermò a Fermo Giovanni IV.

     Tra Ludovico Migliorati e Giovanni IV De Firmonibus seguitò la consueta concordia, ma per il signor Ludovico quello non fu un quinquennio felice. Nell’Ottobre 1416, gli morì la moglie Bellafiore e nel Maggio successivo sposò Taddea, figlia di Pandolfo Malatesta di Pesaro. Nel 1418, Braccio da Montone si mosse contro Fermo e, saccheggiata la Badia di Fiastra, occupò Petriolo, Mogliano, Massa, Loro e Falerone. Il Migliorati, scarso di forze armate, dovette ricomprare la tranquillità con lo sborso di forti somme. Nel 1420, corso in aiuto del suocero che combatteva a Brescia contro il Duca di Milano, cadde prigioniero del Duca: non era mai stato valoroso combattente.

   Erano molti a Fermo i nemici del Migliorati, i quali non andava a genio la troppa amicizia tra lui e il Vescovo. Nel Luglio 1419, un certo Cicconi di Carassai, cittadino fermano, appese fuori Porta San Giuliano  uno scritto, dove si diceva che il Vescovo stava preparando una congiura contro il Migliorati. Questi, fattolo ricercare lo consegnò al Vescovo, perché lo giudicasse. Ciccone confessò di aver agito per inimicare il Vescovo con Ludovico, e fu condannato al carcere perpetuo.

    Del Migliorati conosciamo quattro figli avuti dalla prima moglie, tra i quali Giacomo, avviato fin da bambino alla vita ecclesiastica. Morto il Vescovo Giovanni IV De Firmonibus, il 1 febbraio 1420, il Migliorati pregò Martino V che al figlio Giacomo fosse affidata l’amministrazione a vita della diocesi Fermana. Il Papa (non cerchiamo per quali motivi), il 20 Ottobre 1421, concesse quanto Ludovico chiedeva17. Martino V non intendeva però nominare Giacomo Migliorati Vescovo di Fermo; difatti due anni dopo elesse Cardinale e vescovo di Fermo Domenico Capranica, un nobile chierico romano, di virtù e capacità singolari, che allora aveva ventidue anni; ma non volle rendere ufficiale questa nomina, continuando a servirsi di lui in varie delicate missioni che il giovane Cardinale espletò con singolare perizia.

     Intanto nel 1426, la signora Taddea partorì un figlio e, l’8 Giugno dell’anno appresso morì di peste bubbonica (sotto il braccio sinistro; ci visse tre giorni).

     Il 28 Giugno 1428, morì il Ludovico Migliorati, ma la sua morte fu tenuta segreta fino al 12 Luglio, per dar tempo al figlio Firmano, che stava presso il Duca di Milano, di venire in segreto a Fermo, per prendere possesso del Girfalco. Chi dirigeva tutto era Gentile, fratello di Ludovico.

     I Fermani, quando conobbero la morte del tiranno, assediarono il Girifalco e chiesero al Papa il permesso di distruggerlo, perché era per essi causa continua di oppressione. Martino V pregò il Comune di pazientare qualche giorno, poi avrebbe provveduto lui. L’assedio del Girifalco durò vari mesi, durante i quali si permise solo alle due figlie del Migliorati di uscire per andare spose, una a Ravenna, l’altra in Atri, sposa di Gioisia  Acquaviva.

     Il 13 Ottobre 1428, due albanesi uscirono di nascosto da Girifalco e riferirono ai Priori che Marinuccio Mostacci, offidano agli stipendi del Comune, introduceva nel castello, per un passaggio segreto, armi e vettovaglie. Fu giudicato e fatto impiccare.

     Ma finalmente, per impedire l’inutile strage della famiglia Migliorati, intervenne Martino V, e a quella gente fu permesso di emigrare altrove. Tra essi c’era anche Giacomo amministratore della Diocesi che aveva sempre dimorato nel Girfalco col padre. Così la Diocesi Fermana fu libera per il legittimo titolare Domenico Capranica.

     Fu uno dei più illustri personaggi che portarono il titolo di Vescovo di Fermo; ma come altri suoi predecessori, resse la Diocesi da lontano, per mezzo dei suoi vicari; venne a Fermo solo nel 1446.

      Martino V lo aveva nominato Cardinale e Vescovo di Fermo, ma non aveva reso ufficiale la sua nomina; se la era riservata “in pectore”, come si dice oggi. Dopo la cacciata dei Migliorati, non potendo recarsi a Fermo a causa dei suoi impegni diplomatici, aveva preso possesso della Diocesi per mezzo di un suo vicario, Giacomo Ranieri di Norcia. Morto Martino V, nel Febbraio 1431, il Capranica andò a Roma, ma non fu ammesso al Conclave per l’elezione di Eugenio IV, perché tra i Cardinali era sorta disparità di pareri circa la legittimità della nomina a Cardinale; per alcuni essa era legittima; per altri invece non era valida, perché non era stata completata con l’imposizione del berretto cardinalizio. L’esclusione del Capranica da Conclave suscitò anche qualche polemica circa la validità della elezione di Eugenio IV

     Il Capranica seguitò la sua missione, come se nulla fosse stato, aspettando che le cose si appianassero da loro e la sua nomina a Cardinale fosse col tempo ratificata dal nuovo Papa. Ma ci furono degli invidiosi che cercarono la sua rovina. Male lingue fecero credere a Eugenio IV che il Capranica impugnava la validità dell’elezione del Papa e cospirava con i Colonna contro di lui.

     Nel novembre 1432, il Papa non solo non convalidò al Capranica il titolo di Cardinale, ma gli tolse ogni incarico onorifico e il vescovado di Fermo; ordinò la confisca dei suoi beni e mandò delle guardie per arrestarlo. Il Cardinale, dopo essersi nascosto per due mesi in un romitorio del monte Soratte, si rifugiò presso il Duca di Milano e, nel 1433, seguito dal suo segretario Enea Silvio Piccolomini, un futuro Papa, si recò al Concilio di Basilea, dove espose il suo caso, senza animosità e con tanta umiltà, che il Concilio lo scagionò di tutte le accuse. Dietro la decisione del Concilio, Eugenio IV lo confermò Cardinale e vescovo di Fermo, nel febbraio 1434.

     Di questo secondo periodo di episcopato dovremmo trattare in seguito; ora torniamo al 1430, un anno notevole nella storia fermana.

DOPO LUDOVICO MIGLIORATI

     Dopo trent’anni di governo dittatoriale e poco efficiente, il Consiglio Comunale, che aveva dovuto subire le prepotenze del Migliorati, si trovò di fronte al non facile compito di riorganizzare il libero governo nella Città e nello Stato, per cui era necessaria la forza, ma anche molta prudenza.

     Tra Fermo e Ripatransone non c’era stata mai vera concordia; c’erano stati spesso dissensi e scontri armati. Non era facile tra esse la convivenza, perché Ripatransone si sentiva coartata dalla potenza fermana che dominava su tutta la costa e sul castello di Acquaviva; Fermo vedeva malsicuro il possesso della zona, per la vicinanza di quella forte città alleata di Ascoli.

     In Valtesino, sui confini tra Ripa e Acquaviva, esisteva la chiesa di S. Angelo in Trifonso, che aveva fatto parte del monastero farfense di S. Angelo in Val Tesino. Presso quella chiesa, come avveniva intorno a ogni monastero, accorrevano commercianti da ogni parte, per la fiera dell’8 Maggio che durava parecchi giorni. Il luogo era causa di contese e di zuffe tra fermani e ripani che ne rivendicavano il possesso, non per la Chiesa in sé, ma per i traffici che vi si praticavano e che procuravano rilevanti entrate al Comune che vi riscuoteva i dazi e pedaggi. Ogni anno si ripetevano disordini e scaramucce tra soldati fermani e ripani che presidiavano la fiera.

     Sia il Tanursi, che il Garzoni18, fanno scoppiare una feroce battaglia tra fermani e ripani durante la fiera del 1429; secondo me, è preferibile seguire Anton De Nicolò, scrittore contemporaneo; anche il Garzoni è contemporaneo, ma stava a Bologna. Il De Nicolò non riporta nessuna battaglia, ma dice che il Consiglio Fermano mandò, l’8 Maggio 1430, il “miles Potestatis” a Sant’Angelo con uomini, per sorvegliare la fiera; con l’ordine che, se i ripani li avessero respinti, essi se ne sarebbero dovuti andare, dopo aver fatto stendere un verbale da un notaio. Difatti così avvenne; i soldati ripani respinsero i fermani, che si ritirarono. Ma dopo tre giorni, i Fermani occuparono indisturbati la fiera con quattromila soldati19.

     In quell’anno stanziò a Fermo una carovana di cinquanta zingari che il Nicolò dice: “mala gente, ladri, trafficanti di cavalli”. Anche oggi gli zingari sono quelli di una volta e anche oggi sono in certi luoghi trafficanti di equini. Ma bisogna capire l’espressione dello scrittore, perché il possesso e il traffico dei cavalli era allora sottoposto a rigorose limitazioni legali, dato il largo bisogno di quegli animali per la guerra20. Il traffico degli zingari consisteva come del resto anche oggi, nel comprare o raccogliere per pochi soldi cavalli malandati, che essi curavano pazientemente e, con appropriati esercizi, rimettevano in sesto e rivendevano con qualche profitto a chi ne avesse bisogno per lavoro di poco impegno.

    Nel 1430, i Fermani si accorsero che la loro città, ricca e potente, adorna di splendidi monumenti come Girifalco, la Cattedrale, S. Agostino, S. Francesco, S. Domenico e altri minori, non era bella né pulita; e non poteva esserlo, a causa delle vie fangose o polverose orlate in molte zone di violacciocche e di ciuffi di falasco. Nelle vie secondarie poi non era raro il caso di osservare, vicino all’uscio di casa, la fossa per gettare i rifiuti e la spazzatura. Nell’Ottobre 1430 fu incominciata la seccatura delle vie. Non so se ci fu in proposito una delibera del Consiglio Comunale, ma il fatto che il selciato veniva eseguito dai privati, ognuno avanti la propria casa fino a metà della via; che il selciato cominciò prima vicino a S. Agostino, poi vicino a S. Francesco, ci fa pensare che non fosse estraneo all’opera l’incitamento dei frati.

     Nel 1433, un frate Agostiniano, fra Simone da Camerino, predicando a Fermo, lanciò l’idea che sarebbe stato bene che i Giudei si riconoscessero in pubblico con un distintivo visibile. E poiché le trovate dei frati venivano spesso accolte dai Consigli Comunali, quello di Fermo stabilì che i numerosi Ebrei della città portassero sul vestito una specie di coccarda che li distinguesse.

     Degli Ebrei, della loro attività e perché riscuotesse tanta avversione popolare, parleremo a suo tempo. Ora, per la migliore comprensione del periodo che stiamo trattando, è necessario esporre con la maggiore brevità e chiarezza possibile che cosa era la Signoria e la sua portata politica.

NOTE

 1      Dalle lettere di Caterina: Giustizia senza misericordia piuttosto sarebbe ingiustizia che  

          giustizi …. Babbo mio dolce, fate le cose vostre con modo e con benevolenza e cuore tranquillo. 

          Mitigate un poco, per l’amore del Crocifisso, quelli momenti subitanee che la natura vi porge.

2       Dico “disastro”, non “pericolo”, perché sono credente. Per i credenti la Chiesa non corre mai

          pericolo.

3       COLUCCI – A.P. XXIX – n. CIX p. 203

4       L’assalto di Fermo contro Mondottone probabilmente fu una finzione. I Fermani si fecero  

          respingere al prmo assalto per dar tempo al loro Vescovo, che amavano, di fuggire.

5       “Antonius Episcopus Firmi cum in nostra civitate Firmana domun episcopalem in qua apte

          commorari posset non haberet, de bpnis sibi a Deo collatis … de novo acquisito, episcopale

          palatium pro sua et  successorum abitatione contrui fecit”. (dalla lettera del Papa Bonifacio –

          Catalani – De Eccl. p. 227).

6       Questa data, 4 Settembre, è in contraddizione con quella riportata da Anton de Nicolò dice

         Boffo morto a Monterubbiano, il 30 Luglio; ma mi sembra più sicura, perché desunta dalla

         iscrizione apposta al sepolcro di Beaufort, che si trovava nella distrutta chiesa di S.  Eusebio in

        Carassai.

7      COLUCCI – A. P. XXIX p. 219.

8       ANTON DE NICOLO’ – “Gli abitanti di questa terra mandarono con segretezza a domandare

         aiuto a Marino Marinelli da S. Vittoria, il quale avendo sotto di sé gran numero di soldati col

        suo valore accostandosi con detti soldati riacquistò col cacciare i nemici la Terra e la restituì ai

        Fermani.

9      ANTON DE NICOLO’ – “Locus dictae ecclesiae fuit in capite Plateas S. Martini”.

10   La chiesetta della misericordia fu fatta demolire da Oliverotto Eufreducci per far luogo al

        palazzo del governo, oggi palazzo Apostolico. Costruita, secondo la testimonianza di Anton de

        Nicolò, in 19 ore. Difatti la quarta hora noctis, quando fu cominciata la costruzione,

        corrispondeva alle 10 di sera. Poiché l’inizio del giorno allora si considerava alle sei di sera. Fu

        terminata alle ventitré del giorno successivo che corrisponde alle 5 pomeridiane. In alcuni

        paesi delle Marche e della regione ci sono ancora vecchi orologi da torre che hanno il quadrante

        di sei ore.

11   Il fenomeno dei “Bianchi” non era solo fermano, ma diffuso in tutta Italia, secondo la

         testimonianza del Muratori:

         Rer. It. Script. T. XVII pag. 1171.

         MANOSCRITTI ASCOLANI: “Nell’anno del signore 1400 sorse 1 grandissima manifestazione di

        devozione e pratiche religiose in Italia. Tutti, uomini e donne andavano pellegrinando vestiti di

        bianco, e perdonavano le offese ai propri nemici e si perdonavano a vicenda”.

        ANTON DE NICOLO’ – Cronache pag. 6  – “Nel 1399 nel mese di giugno incominciò 1 certa moda:

        cioè che tutti si vestissero di bianco …. E facevano adunate di popolo e andavano con croce

        visitando chiese, cantando e ripetendo “Misericordia e pace”.

        LUCA COSTANTINI – Aggiunte alle Cronache: “Nel 1399 si formarono delle confraternite di

        devoti che vestendo cappe bianche e cappucci andavano in processione da una città all’altra,

        cantando l’inno: “Stabat Mater dolorosa”.

12   ANTON DE NICOLO’ . Cronache – “Nobilis vir Zamboccus de Neapoli capitaneus in Girone, fecit

         venire bullas Domini Papae etc.”.

13   MURATORI – t III p. 2 col. 834 – “Iste, Camerarius (Leonardo) ita exosus Curiae factus est

        avaritia, ebrietate et alis vitiis notatus, ut famam Innocentii praeteriram detraxerit….”

14   Antonio Aceti, allontanato da Fermo dal Rettore Andrea Tomacelli che gli aveva concesso la

        signoria di Montegranaro, allora era tornato a far parte del Consiglio, essendo cittadino

        fermano.

15   ANTON DE NICOLO’ – Cronache

16   Una seconda volta Anton de Nicolò è podestà di Petritoli e deve fuggire, come vedremo,

        nell’Ottobre 1443.

17   “MCDXXI die lunae, Mensis Octobris fuerunt lectae bullae dei privilegia fili Domini nostri qui

         erat episcopus civitatis Firmi et dicta die cepit possessionem episcopatus”.

18   Le memorie storiche di Ripatransone, sia del Tanursi, sia del Garzoni sono riportate da Colucci-

        A. P. t XVIII.

19   Il Tanursi appoggiato dal Colucci dice falsa la versione del De Nicola, perché farebbe intervenire

        l’esercito fermano il 10 Maggio, a fiera finita. Ma essi dimenticano che la fiera durava non meno

        di una settimana.

20   COLUCCI – A. P. t. XXIX n. XXXI p. 56.

CAPITOLO IX

FRANCESCO SFORZA A FERMO

LA SIGNORIA

     In questo argomento non ho bisogno di dilungarmi troppo, perché dalle pagine precedenti il lettore ha capito che cosa era la signoria: dispotico governo di un signore. Ha capito che nelle Marche le signorie mettevano in crisi l’autorità dello Stato Pontificio, ed erano sommamente dannose all’economia e alla libertà dei Comuni.

     L’origine della Signoria poteva avere varie cause: o era imposta dall’ambizione di qualche nobile che non ci contentava di essere ricco, ma voleva anche dominare; o qualche ufficiale dello stato che aveva avuto il governo di una città se ne faceva padrone, come nel caso di Ludovico Migliorati a Fermo; o qualche venturiero, avendo a disposizione forze sufficienti, imponeva il suo dominio colla forza, come a Fermo Mercenario da Monteverde, Gentile da Mogliano e Francesco Sforza; e in Ascoli Conte di Carrara.

     Nelle pagine precedenti abbiamo scartato la possibilità che un podestà potesse imporre la sua signoria.

     Interessante notare che ordinariamente la Signoria non esclude il governo Comunale, ma lo controlla e lo pone al suo servizio. Il podestà seguita ad amministrare la giustizia e a vigilare sull’ordine pubblico; il Sindaco e Priori  seguitano nel loro ufficio; guidano la città, riscuotono le tasse e pagano i pesanti tributi al signore, il quale ha a sua disposizione l’esercito, quindi ha la forza sufficiente per imporre la sua volontà e imprimere alle cose la direzione da lui voluta. E abbiamo visto sopra come finì male Antonio Aceti che aveva osato reclamare avanti al Migliorati i diritti dei Priori.

     Con la signoria il Comune perdeva il suo significato e diventava servo del potente signore che lo dominava.

     LA SIGNORIA DI FRANCESCO SFORZA

      I Duchi di Milano non avevano mai nascosto le loro mire espansionistiche ed egemoniche sulla Penisola.Bernabò Visconti era sempre sobillato e incoraggiato i ghibellini romagnoli e marchigiani, cercando di accrescere la sua influenza in questa zona, per incunearsi tra Venezia e lo Stato Pontificio.

     Il figlio, Gian Galeazzo portò il Ducato alla massima sua potenza, dominando su tutta la Valle Padana e su gran parte del Veneto.

     Filippo Maria Visconti tentò il colpo grosso: estendere la sua egemonia su tutta l’Italia. Credette fosse giunto il momento buono poiché Venezia era preoccupata per il pericolo turco; lo Stato della Chiesa era travagliato dalle piccole signorie; Firenze in crisi; Genova tremante per la potenza francese da una parte, e dall’altra per Alfonso, re d’Aragona, che già aveva la supremazia sul Mediterraneo, possedendo la Sicilia e la Sardegna, e minacciando la conquista della Corsica e del Regno di Napoli.

     Nel 1433, spedì i due capitani Nicolò Fortebraccio e Francesco Sforza a occupare lo Stato della Chiesa. Il primo occupò in breve tutta la Toscana; Francesco Sforza si diverse occupare la Marca.

     Da Jesi lanciò un proclama, invitando i Comuni marchigiani a ribellarsi al Papa e accettare la propria signoria che sarebbe stata per loro vantaggiosa, perché avrebbero trovato in lui sicurezza, non oppressione; egli avrebbe accettato la loro sottomissione, solo dietro accordi e trattati. Occupata pacificamente Macerata, dovete usare la forza con Montolmo che gli aveva chiuso le porte in faccia e, il 12 Dicembre 1433, quel Comune fu occupato e saccheggiato ferocemente; il che convince molti altri Comuni a sottomettersi volontariamente.

     Fermo, militarmente impreparata, senza poter sperare aiuti da nessuno, perché lo Stato pontificio in sfascio e l’alleata Venezia tremante per la minaccia turca, il 13 Dicembre 1433, mandò ambasciatori a Montolmo, per trattare la sottomissione al Conte. Gli ambasciatori fermani proposero un accordo che includeva il rispetto delle libertà comunali e la salvaguardia dell’integrità territoriale dello Stato Fermano; il Conte accettò le proposte fermane e aggiunse le proprie. Il Consiglio Comunale si riunì il 18 Dicembre, ed esaminate le condizioni imposte dallo Sforza, gli mandò la risposta affermativa. Il Conte mandò subito a Fermo il fratello Alessandro per prenderne possesso e fare i preparativi per il suo prossimo ingresso in quello che aveva già designata capitale del suo dominio.

     Il 3 gennaio 1434, una interminabile processione accolse il Conte Sforza a Porta S. Giuliano, cantando le Litanie dei Santi (cum Litaniis), perché era necessario che anche essi prendessero parte a quella pagliacciata. La presa di possesso del Girfalco fu riservata per il giorno dopo, 4 gennaio 1434.  

     La sottomissione di Fermo, città più prestigiosa delle Marche e sicuramente una delle più forti, produsse uno sbigottimento generale: Montecchio (Treia), Monte Milone (Pollenza) e S. Ginesio tentano di ribellarsi ai signori di Camerino; il Vescovo di Macerata e Recanati, Vitelleschi, allora Rettore della Marca, si imbarca per la Dalmazia; Camerino, tentando di evitare attacchi, si affretta a restituire  S. Angelo e Gualdo allo Stato Fermano, il 6 gennaio 1434. La maggior parte dei Comuni Fermani e Ascolani si sottomisero volontariamente, per evitare mali maggiori. Anche l’irriducibile Ripatransone aprì spontaneamente le porte al signore di Fermo, dopo una tempestosa seduta del Parlamento Generale.

     Nello stesso 1434, Alessandro Sforza occupò Amandola, ma dovette abbandonarla subito, per non cadere prigioniero di Nicolò Maurizi di Tolentino che corse a riconquistarla.

     Nel Marzo di quello stesso anno, Eugenio IV, per distaccarlo dal Duca di Milano, nominò lo Sforza Vicario nella Marca e Gonfaloniere di Santa Chiesa. La mossa politica del Papa riuscì, ma lo Sforza incominciò a lavorare per crearsi un principato proprio, indipendentemente dal Duca e dal Papa.

     Il Visconti, mentre aveva mandato i suoi capitani a occupare la Toscana e le Marche, si era alleato con Genova, alla quale aveva offerto soldati e armi contro Alfonso di Aragona. In una battaglia navale presso Gaeta, i Genovesi ebbero il sopravvento, facendo perfino prigioniero l’Aragonese, nell’agosto 1435.

     Eugenio IV, dopo la sconfitta di Re Alfonso, nel timore che il Duca di Milano potesse impadronirsi del Regno di Napoli, concluse contro di lui una lega con Firenze e Venezia e convince il Conte ad aderirvi.

     Il 23 agosto 1435, il banditore del Comune (trombecta) ordinò ai cittadini fermani che si facessero “focaracci” (falones), per festeggiare l’accordo raggiunto.

     Quei focaracci avevano lo scopo di consolidare la fiducia dei Fermani verso il Conte; far loro sentire che non erano più soli a seguirlo, ma erano alleate con lui altre potenze. Ma chi può dire che c’era nell’animo dei Fermani?

     Certamente non tutti la pensavano allo stesso modo. C’erano gli irriducibili papalini: preti, frati, monache, terz’ordini religiosi e fedeli, che in segreto piangevano sulla Patria strappata alla Chiesa da mani infedeli; essi erano i più, ma contavano di meno.

     C’era la classe dei nobili e dei ricchi, i quali, prepotenti contro il governo papale dal quale non avevano nulla da temere, ora tremavano, perché avevano tutto da perdere con la tirannide.

     E c’era un gran numero di esaltati, prepotenti e faziosi, i quali idolatravano il Conte, attribuendo a onore della Patria la potenza e i successi di lui.

     Un po’ diverso l’atteggiamento del Consiglio Comunale e di quelli che avevano responsabilità nel governo dello Stato. Avere un Signore in città, e per giunta invincibile capitano, anche se costava caro, non era poi gran male, perché il Comune, in caso di bisogno, non avrebbe dovuto arrabattarsi a ingaggiare compagnie di ventura, sempre dannose e malfide; alla sicurezza dello Stato avrebbe pensato il Conte, il quale ostentava rispetto per la libertà del Consiglio e lasciava ad esso la direzione civile delle cose. Ma il loro ottimismo finì quando videro che le guerre non finivano mai, le spese crescevano ogni giorno, e lamentele continue arrivavano dai Comuni dello Stato per le prepotenti requisizioni di derrate.

     Era frequente la richiesta di un soldato per famiglia a servizio dello Stato. Il Conte li trattava bene, ma erano braccia tolte al lavoro e al commercio, e le famiglie non sempre sopportavano questo reclutamento dei figli e spesso il lutto per la loro perdita.

     A rendere meno popolare lo Sforza, si aggiunse, nel Settembre 1435, l’aumento delle tasse. Il Conte ordinò al Comune di elevare il focatico: per i focolari maggiori 40 soldi; per i mediocri 30 soldi; per i piccoli 20 soldi. I Fermati specialmente quelli del contado, reclamarono e chiesero al conte una riduzione, ma ogni protesta fu vana.

     Un modo per fare quattrini usato dai venturieri (e lo Sforza era uno di essi) era avvicinarsi a qualche Comune e imporgli una taglia, che esso si affrettava a pagare, per ottenere che militari si allontanassero. Il 18 Gennaio 1436, il Conte Francesco ordinò che uno per famiglia, sia della città che del contado, si presentasse lui armato e provvisto di vettovaglie per quindici giorni. Radunò così un forte contingente di armati (il De Nicolò dice che solo da Petritoli ne accorsero cento), e si diresse verso Camerino. Lasciò una parte dell’esercito a occupare S. Ginesio e percorse con l’altra molti Comuni camerinesi, fino a Serravalle. Camerino non fu toccata, ma dovette pagare molti ducati. La spedizione durò dieci giorni ed era servita anche per tenere allenato l’esercito. Capiva che gli era necessario un esercito forte e sempre pronto, perché non era tanto difficile conquistare i Comuni marchigiani, quanto tenerli in soggezione; e sapeva che la sua signoria era mal tollerata dal Papa e dal Duca di Milano.

     Nel Settembre 1436, un certo Guerriero, fuoruscito di Ascoli, entrò in quella città, per sollevarla. Alessandro Sorza radunò a Carassai 3000 armati, per correre in Ascoli, ma giunse notizia che i rivoluzionari erano stati espulsi. Alessandro lasciò Carassai e condusse l’esercito fermano ad assalire Acquaviva, posseduta da Gioisia di Atri; però la rocca era ben difesa e i Fermani dovettero ritirarsi, rimandando l’impresa contro gli Acquaviva a tempo più propizio. Dopo quasi due anni, nel Luglio 1438, lo Sforza assalì il Duca di Atri e gli tolse non solo Acquaviva  che restituì ai Fermani, ma anche altre terre e perfino Teramo.

     Poiché ognuno dei grandi contendenti (Roma e Milano) aveva le sue gravissime preoccupazioni, a nessuno conveniva la lotta armata, e tantomeno conveniva allo Sforza, qualunque ne fosse stato l’esito. Nel 1438, per iniziativa del Duca Filippo Maria Visconti, lo Sforza fu eletto arbitro per concludere una pace. Il Conte convocò a Cremona, della quale era signore, i rappresentanti del Papa, di Firenze, di Venezia e di Milano e riuscì a far firmare la pace. In ricompensa chiese ed ottenne la mano di Bianca, figlia unica del Duca di Milano, allora sedicenne. Le nozze, per vari motivi, si celebrarono solo dopo tre anni: il 26 Ottobre 1441, nella città di Cremona, con la partecipazione di molti nobili Fermani ed Ascolani.

OPERE PUBBLICHE

LA GRANDE CARESTIA DEL 1440

     Lo Sforza approfittò di questa tregua, per migliorare la sua Capitale. Nel Maggio 1438, Alessandro ordinò al Comune che si demolisse la chiesa di S. Maria dell’Umiltà, e si togliessero le cassette di legno e le bancarelle dei commercianti, perché la Piazza S. Martino doveva essere ingrandita e abbellita. Il lavoro fu terminato la piazza completamente spianata l’11 Giugno 1442, quando per preparare la venuta della signora Bianca, fu restaurato anche il Castello del Girfalco1.

      Il Conte sapeva bene che non doveva fidare nella pace, perché aveva conquistato le Marche, ma non nel cuore dei Marchigiani. Ribellioni si manifestavano qua e là: Tolentino si ribellò nel 1438, ma si risottomise dopo pochi mesi; e in tutto il Camerinese l’ostilità verso di lui appariva sempre più spesso.

     Oltre che ad abbellire la sua Capitale, pensò anche a fortificarla meglio. Nel Maggio 1440, ordinò al Comune di reclutare un gran numero di operai che lavorarono fino a tutto Agosto, per costruire torrioni e migliorare le mura di cinta, da porta S. Giuliano al Convento di S. Agostino. Di questo grandioso lavoro resta solo qualche rudere.

     Al Comune non fu difficile trovare operai e farli lavorare fino ad Agosto, perché quell’anno i contadini non dovettero sudar troppo per la mietitura e la trebbiatura. Nel mese di Giugno una terribile tempesta, con le spaventose grandinate colpì tutto il Fermano, desolando le campagne. Tra i paesi più colpiti furono Montefortino, Petritoli e Carassai, secondo quanto scrive il De Nicolò, al quale questi paesi interessavano maggiormente. Grano, orzo, oliva furono completamente distrutti. Ogni grano di grandine (granelli) pesava più d’una libbra e sprofondava nel terreno più d’un palmo.

“Mihi Antonio” dice de Nicolò che era originario di Carassai dove aveva delle terre, provocò un danno, di parte sua, di 50 ducati.

     Nel Luglio di quell’anno cominciò la carestia: “La raccolta non ridava la semina”, di olive  “erant ruscatae” e cadevano “fracidatae et verminatae”.

     In Ottobre il Comune dovette preoccuparsi di scongiurare la fame per la città e per il contado. Furono scelti tre cittadini capaci: Cola Pasquali, Antonio Giorgi e Giovanni Vanni, per provvedere a un ammasso di grano che si radunò nella chiesa di S. Martino. Si diede loro l’autorizzazione di imporre taglie e prestazioni di grano ai cittadini e contadini abbienti e di importare frumenti dall’Albania, dalla Schiavonia e dalla Puglia. Una salma di grano venne a costare lire dieci  e quattro soldi; ma se non ci fosse preso questo provvedimento, sarebbe costata più di sei ducati1.

     Nella Quaresima del 1442, i lavori nella Piazza o erano terminati o volgevano alla fine, perché le circa quattromila persone che si radunavano nella piazza per ascoltare le prediche di Fra Giacomo da Monteprandone (S. Giacomo della Marca) non recavano inciampo.

     Il 1442 segna il principio della fine della dominazione sforzesca nelle Marche. Ci saranno ancora tre anni di guerra continua, durante i quali Francesco Sforza, validamente appoggiato dal fratello Alessandro, vince tutte le principali battaglie, ma non riesce a spegnere la rivolta dei Comuni marchigiani che lo costringono a correre ai ripari da un capo all’altro della regione.

     Nonostante che fosse il suo genero, il Duca di Milano voleva la rovina dello Sforza, sia perché col suo tradimento aveva fatto fallire i suoi piani, sia perché il Conte era troppo legato a Venezia, la quale, perdendo terreno in mare contro i Turchi, mirava sempre più a una espansione sul continente. Il 9 Giugno 1443, il Duca di Milano fornì a Nicolò Piccinino un formidabile esercito di ottomila cavalieri e quattromila fanti, per scardinare la potenza sforzesca. Il Piccinino occupate alcune località umbre, passò nel Camerinese, sempre ostile verso il Conte; occupò Camerino, Belforte, S. Ginesio; ma a Sarnano fu sconfitto e fatto prigioniero dallo Sforza, che lo lasciò libero, a patto che non osasse più combattere contro di lui. Il 22 Giugno 1442, la signora Bianca, da Jesi dove aveva soggiornato per un anno, si trasferì a Girfalco abbellito per essa, festeggiata dal popolo fermano.

     Ma anche a Fermo, dove gli Sforza si sentivano più sicuri, covava l’odio è la rivolta contro di essi. Il 13 Agosto furono presi e impiccati alcuni congiurati, che erano venuti da Accumuli, per organizzare una rivolta contro lo Sforza; con essi furono impiccati anche un frate Domenicano e una monaca che consigliavano la ribellione al Conte.

SOLLEVAZIONE A RIPATRANSONE

     Santoro Puci, un condottiero riparano noto per imprese gloriose e capo del partito che si era opposto alla direzione della città allo Sforza, attendeva l’occasione propizia per liberare la patria dai Fermani; essa si presentò nell’Agosto 14422, incontrato un graduato del presidio sforzesco che l’offese, tratta la spada l’uccise e chiamò i cittadini alle armi. In poche ore i Ripani cacciarono dalla città i soldati dello Sforza e i capi del partito che lo sosteneva. Giunta notizia a Fermo, il Conte diede ordine che si radunassero a S. Maria della Fede tutti i combattenti fermani disponibili. Si formò così un esercito di tremila fanti e ottomila cavalieri, che marciò immediatamente ad assediare Ripatransone3. Una parte dell’esercito si accampò sul colle destinato alle esecuzioni capitali (colle dei Cappuccini), l’altra parte presso la chiesa di S. Maria Maddalena. Riuscendo inutile ogni tentativo di conquistare la città, sia per la posizione di essa, sia per il valore dei suoi abitanti, lo Sforza ricorse al tradimento. Invitò il Comune a mandare un gruppo di cittadini di alto rango per trattare accordi. Arrivati questi nel campo, furono rinchiusi nella sacrestia di S. Maria Maddalena; poi fu avvisato del Comune di Ripa che il Conte avrebbe ridato gli ostaggi, tolto l’assedio e concesso generale perdono, solo se fosse accolto amichevolmente entro la città.

     Il lavorio degli amici del Conte, che a Ripa non mancavano e i lamenti delle famiglie degli ostaggi, che temevano dei loro cari in mano allo Sforza, convinsero  le autorità comunali a cedere. Furono imbandite mense per i soldati lungo le vie e furono aperte le porte della città.

     I soldati dello Sforza, o che avessero il consenso dei loro capitani, o che questi non avessero la possibilità di impedirlo, consumate le vivande, si diedero al saccheggio, commettendo atrocità e appiccando incendi.

     Prima di aprire le porte al nemico, le autorità ripane avevano ordinato che le donne restassero chiuse nelle chiese, le quali, come si sa, avevano diritto d’asilo, quindi vietate a gente armata; diritto quasi sempre rispettato dalle milizie cristiane. Ma si capisce che ogni regola può avere le sue eccezioni; e sembra che i panni ebbe, e dolorose4. Ma gli scrittori sono concordi nell’attribuire i delitti contro il sesso debole a venturieri spagnoli; e il De Nicolò si affretta a dirci che i soldati fermani si diedero da fare, per difendere le donne ripane dalla licenza della soldataglia.

     Tra le cose asportate dai Fermani sono contare, secondo il De Nicolò, la campana del palazzo comunale di Ripa; il quadro “Parto della B. Vergine” e una campana mediocre, tolte dalla chiesa di S. Agostino di Ripatransone, e sistemate nella chiesa omonima di Fermo; similmente molti arredi sacri della chiesa di S. Francesco è una piccola campana di S. Lucia vennero dal saccheggio di Ripa.

      Erano passati una quindicina di giorni, durante i quali il Conte aveva ritirato da Ripa l’esercito, lasciandovi un presidio di quattromila armati fermani; Santoro Puci, l’eroico condottiero riparano che nel frattempo era corso a chiedere aiuto al Piccinino, ritornò con una buona schiera di armati, entrò di notte in città, e in poche ore, il 4 Ottobre 1442, cacciò il presidio fermano, e cominciò la ricostruzione.

      Santoro poté lavorare alla ricostruzione della città per più di un anno con una certa sicurezza, perché per lo Sforza la posizione si aggravava. Nicolò Piccinino, con un esercito di 30.000 uomini reso possibile dall’accordo tra Eugenio IV e Alfonso d’Aragona Re di Napoli, riuscì a far ribellare al Conte gran parte dei Comuni Marchigiani; restavano a lui alcune fortezze come Ascoli, Civitella, Fermo, Recanati.

     I comuni marchigiani non furono mai facili per nessun tiranno, e non lo furono nemmeno per Francesco sforza. Dopo 10 anni di continue lotte, nell’agosto 1443, si trovava a ricominciare daccapo: lui, in attesa di aiuti, assediato a Fano dal re Alfonso; il fratello Alessandro, fortificato Fermo, passava le notti insonni sotto la tenda in piazza San Martino, per essere pronto, all’occorrenza, a mettersi a capo dei suoi soldati che affollavano la città, della quale poteva fidarsi poco. La fine degli Sforza sembrava imminente, e lo sarebbe stato, se le forze avversarie fossero state unite concordi, ma non lo erano.

   Il 17 settembre 1443, Re Alfonso, col pretesto di condurre il suo esercito a svernare in Abruzzo, tolse l’assedio a Fano. Francesco Sforza, arrivati aiuti da Firenze da Venezia, affrontò il Piccinino, il cui esercito era stato lasciato solo, e lo sconfisse a Monteluro (Pesaro), il 12 novembre 1443. 

     È chiaro che il Re Alfonso, ottenuto dal Papa il riconoscimento di Re di Napoli, non aveva voglia di combattere e procurarsi gravi perdite, per amore di Eugenio IV. Non sappiamo se ci furono accordi segreti tra il Re e lo Sforza, o se ci furono pressioni da parte di altri potenti; il Re che conduce a svernare l’esercito tre mesi prima dell’inverno, nel momento cruciale della guerra, ha tutta l’aria di un traditore; e mentre i suoi diecimila soldati avrebbero potuto avere un peso decisivo nella guerra, furono solo una comparsa.

SACCHEGGIO DI TORCHIARO E MOREGNANO

     La marcia per il rientro di queste truppe durò più di un mese, e anche Alfonso non volle o non osò5 toccare Fermo, le zone attraversate riportarono danni immani. Anton De Nicolò ci ha lasciato memoria del saccheggio di Torchiaro che aveva subito la stessa sventura una ventina d’anni prima, ma tanti altri luoghi marchigiani avranno subito la stessa sorte. Un gruppo di razziatori napoletani avevano portato via una quantità di di bestiame dal territorio di Petritoli. Un centinaio di armati Petritolesi li raggiungerò a Torchiaro, ne uccisero una ventina e ripresero il bestiame. Poi si vollero fermare un po’, per rinfrescarsi in una bettola. Sopraggiunsero circa trecento saccheggiatori spagnoli che fecero prigionieri una ottantina di petritolesi  e li tennero alcuni giorni, aspettando il riscatto. Nel frattempo saccheggiarono e devastarono Torchiaro e Moregnano. I cittadini di Petritoli, temendo che il loro castello potesse essere assalito, mentre gran parte dei suoi difensori erano prigionieri, fuggirono tutti nei paesi vicini e tornarono dopo passato il pericolo. Tra essi era Anton De Nicolò, allora Podestà di Petritoli, che ci racconta questi episodi. E il lettore concluderà con un sospiro: Che secolo beato il 400!

     La battaglia di Monteluro non fu risolutiva né per una parte, né per l’altra. A Fermo furono ordinati “focaracci” (falones) per celebrare la vittoria del Conte; vittoria che lo riportò nella sua capitale, per ricominciare la riconquista della Marca, seguito passo passo dall’esercito sconfitto del Piccinino, che stabilì il suo quartier generale a Montegranaro.

     La presenza del Piccinino incoraggiava la resistenza dei grossi Comuni, come S. Elpidio che gli permise, il 15 Dicembre la distruzione di Monturano; Monte S. Pietrangeli che, il 17 Dicembre, resistette vittoriosamente allo Sforza; Montegiorgio che il 3 Dicembre devastò il castello di Monte Verde. Ma il Conte era ancora invincibile. Mandò un esercito di diecimila uomini che, dopo aver dato guasto alle campagne, occupò Montegiorgio, il 13 Dicembre 1443 e, nello stesso giorno, Santa Vittoria, capitale del Presidato Farfense6.

 LA BATTAGLIA DI SANTA PRISCA

     Il 15 gennaio 1444, Bianca, moglie del Conte, partorì un figlio che fu battezzato con grande solennità e festa popolare, il 17 Marzo, col nome di Galeazzo Maria Sforza7.  Il lieto evento non interruppe l’attività militare dello Sforza.Con l’occupazione di S. Vittoria, solo Ripatransone restava libera a sud del Tenna dalla dominazione del Conte, e quella città era un potenziale pericolo per il futuro.

     Nel gennaio 1444, un forte esercito fermano si portò nel territorio di Ripatransone; diede il guasto alle campagne e si accampò sul Colle, oggi detto dei Cappuccini. Il condottiero riparano Santoro Puci non aspettò l’assalto dei nemici, confidando nel valore dei suoi soldati inferiori di numero al nemico. Animate le sue schiere con un forte discorso, le divise in due parti. Affidò il drappello più forte al genero Domenico Necchi col compito di portarsi, a tempo debito, sul Colle di Capo di Termine e attaccare di fronte il nemico; egli con l’altra schiera uscì dalla Porta di Cupra (Cupetta) e si nascose nella selva, in attesa di assalire il nemico alle spalle, nel corso della battaglia.

     Ma il suo piano ebbe diversa attuazione, poiché la schiera guidata dal genero sgominò il nemico prima del previsto. I Fermane, assaliti alla sprovvista, furono presi dal panico e si gettarono in fuga verso il mare, per la stretta valle della Cupetta; dove furono assaliti e sterminati dalla schiera di Santoro, uscita dagli agguati. Era il giorno di Santa Prisca, 18 Gennaio 14448.

     In questo fatto di guerra, militava nell’esercito fermano un giovane che, trovate due giovanette di Ripatransone nascoste e sole in una casa di campagna, le portò in salvo, difendendola dai fastidi dei militari e riconsegnandole alla loro famiglia. Fatto prigioniero e condannato a morte, fu difeso dalla famiglia delle due ragazze. Stanco della guerra, fuggì a Camerino, dove ascoltate le prediche di San Giacomo della Marca, si fece Religioso Francescano. Morì nel 1495 a Morrovalle. È il Beato Giorgio Albanese9.

FINE DELLA DOMINAZIONE SFORZESCA

     Lo Sforza sembrava ancora invincibile destinato a riconquistare la Marca. Il 18 Agosto 1444, un esercito guidato da Francesco Piccinino, figlio di Nicolò, assistito dal Card. Capranica Vescovo di Fermo, allora Legato del Papa nella Marche, fu sconfitto dal Conte presso Montolmo; il Piccinino fu fatto prigioniero; il Cardinale si salvò a stento, e il Papa fu costretto a un accordo. Ma il dominio di Francesco Sforza s’avviava al tramonto, perché erano troppe le difficoltà che si opponevano alla formazione di un principato di Fermo.

Prima difficoltà, l’odio di tutti i Comuni marchigiani contro gli Sforza, per le continue guerre e rapine; allo Sforza mancava assolutamente la solidarietà del popolo che non aveva saputo conquistarsi. C’era poi l’avversione di tutte le altre potenze italiane a un Principato di Fermo che avrebbe rotto l’equilibrio politico esistente nella Penisola. Fermo era stata sempre molto legata a Venezia, e lo Sforza si mostrava fedelissimo all’alleanza con quella Repubblica. Ciò avrebbe favorito la minaccia di espansione in terraferma da parte di Venezia che stava perdendo terreno nel Medio Oriente contro i Turchi.

     Il timore della potenza veneziana indusse i  tre grandi: Milano, Roma, Napoli a un accordo finalmente serio, per abbattere lo Sforza. Mentre il Conte era impegnato a nord  contro l’esercito del Piccinino a servizio del Duca, Sigismondo Malatesta di Rimini, preso a servizio da Eugenio IV, a capo di un esercito napoletano di 2000 cavalli e mille fanti, occupò in breve Ascoli, Offida, S. Vittoria e tutto il Presidato. Uno dietro l’altro i Comuni marchigiani si ribellavano e, il 24 Novembre 1445, fu la volta di Fermo. La città si sollevò al grido di: “Viva la Chiesa et la libertà”, e assediò Alessandro Sforza col suo presidio nel Girfalco. I soldati dello Sforza che fuggivano dai Comuni ribelli fuggivano verso Fermo, ma prima che potessero raggiungere la città, venivano disarmati dai Fermani e spogliati di tutto. L’assedio del Girifalco durò più di due mesi.

     Nel frattempo il Card. Domenico Capranica, Vicario del Papa nelle Marche e Vescovo di Fermo, che non era mai potuto venire nella sua Diocesi, il 5 Gennaio 1446, entrò in città, ma per prudenza, si fermò nel convento di S. Francesco, perché era pericoloso per lui abitare nel palazzo vescovile, troppo vicino al Girfalco assediato10. Era venuto per assistere e sostenere il suo popolo in rivolta, ma anche per impedire inutili stragi che si potevano prevedere in quella situazione. Ma stragi non ci furono, e non sappiamo quanta parte ebbe il Cardinale nello sbaglio che i  Fermani fecero, accettando la resa del Girifalco in quella forma.

     Gli assediati erano in condizioni disperate, per mancanza di approvvigionamenti. Il 6 Febbraio, Alessandro Sforza chiese all’autorità fermane di trattare la resa; e la fretta di liberarsi da quel malanno giocò ai Fermani un brutto scherzo. Mentre aspettando pochi giorni, avrebbero costretto lo Sforza a una resa incondizionata e ricavare grandi somme dal riscatto dei prigionieri (e non avrebbero rubato niente a nessuno, ma solo ripreso il proprio da quei briganti), accettarono le proposte di Alessandro. I Fermani si obbligarono a pagare 10.000 fiorini d’oro; e Alessandro Sforza col suo presidio, il 20 Febbraio 1446, sgombrò il Girfalco, armi e bagagli, e si avviò a raggiungere il Conte suo fratello a Pesaro.

     Così Francesco Sforza, dopo dodici anni di tirannide, cessò di firmare le sue carte: “Ex Girifalco nostro Firmiano, invito Petro et Paulo”.

     Il giorno stesso, il 20 febbraio 1446, si adunò il Consiglio Comunale, il quale decise di demolire il Girfalco che si trasformava sempre in sede di tiranni, e adoprare quel materiale edilizio per restaurare le mura della città, che servivano alla difesa di tutto il popolo. Per assistere a queste opere furono scelti sei uomini capaci, uno per contrada.

     Fu pure deciso di presentare in perpetuo dalle tasse Cecco Bianchi e la sua discendenza, per l’eroismo dimostrato nell’assedio del Girifalco.

     Domenico Capranica fu forse il più illustre dei Vescovi di Fermo. un uomo di cultura non comune11, di singolare spiritualità12, abilissimo diplomatico che riusciva a sistemare le questioni più scabrose con l’irresistibile fascino che spirava dalla sua persona. Amò Fermo, curò e migliorò l’Università e fondò a Roma il Collegio Capranica, dove agli studenti fermani erano riservate facilitazioni particolari: privilegio che anche oggi si conserva a favore degli studenti ecclesiastici di Fermo13.

  I Cardinali, alla morte di Callisto III, si erano accordati per eleggere Domenico Capranica, ma egli morì il 28 agosto 1458, e in suo luogo fu eletto Pio II (1458-1464, Enea Silvio Piccolomini, che era stato suo segretario, come ricorderete.

RESTAURAZIONE

     Fermo, dopo tanti anni di depauperamento, di distruzione e di sangue, aveva bisogno di tranquillità, per riorganizzare lo Stato. Nel Consiglio Generale del 28 Maggio 1446, si stabilì di invitare gli Ascolani a una pace perpetua, e si incaricò Fra Giacomo di Monteprandone (S. Giacomo della Marca) di preparare l’incontro tra le due città. Il 3 Giugno successivo Trecento Ascolani affollarono Piazza S. Martino e fraternizzarono con i Fermani per tre giorni.

     Ora che il Girifalco non era più zona riservata ai militari e l’accesso alla Cattedrale controllato da loro, il Vescovo Domenico Capranica pensò di facilitare la salita dalla piazza la Chiesa, sostituendo i sentieri che si arrampicavano su per il colle con scalette di pietra da costruire a proprie spese. Il De Nicolò dice che in Luglio fu cominciata la scala in pietra per unire la Piazza S. Martino con la Chiesa di Santa Maria. Da ciò gli storici fermani, incominciando dal Catalani si meravigliano di non trovare più traccia di questa scala. Forse essi pensavano una scala marmorea che, retto tramite, dalla piazza salisse al Girfalco. Io mi permetto di pensare che non è possibile che sia esistito un ingegnere capace di progettare una scalinata di qualche centinaio di metri, su per un’erta con la pendenza di più dell’80%. Secondo il mio modesto parere, la scala in questione è una delle vie selciate che anche oggi della piazza vanno al Girfalco. Anche un simile lavoro, pur di portata più modesta, meritava la citazione di Anton De Nicolò delle sue “Cronache della città di Fermo”.

NOTE

 1       ANTON DE NICOLO’ – Cronache.

 2       gli storici che trattano questo episodio non concordano nelle date; tutti concordano nell’anno

          1442.

           a)CRONACA RIMINESE: “ Al 29 Agosto 1442, fu fatta la tregua per otto mesi tra il Conte

           Francesco e Nicolò Piccinino, capitano di Santa Chiesa. Al 23 Settembre il Conte Francesco

           mise Ripatransone a saccomanno con unagrandissima crudeltà, e per questa ragione fu rotta

           la tregua”.

           b) GINO CAPPONI: “Ad annum 1442 die 21 Settem. Contes Franciscus de Cutignola oppi dum

           Ripae Transonis in Piceno sibi amicum predat et incendit”.

           c) FRANC: M: TANURSI – in Colucci A.P. t. XVIII p. 54 – l’assedio di Ripatransone il 18 Agosto

           1442 e durò un mese.

           d) ANTON DE NICOLO’ – pone al 20 Settembre la ribellione di Ripa e al 23 Settembre il

           saccheggio.

3        Questo numero di combattenti che può sembrare esagerato è riportato a quasi tutti gli storici

           che trattano questo episodio. Il principale di essi:

           ANTON DE NICOLO’ – Cronache della città di Fermo

           FRANCESCO ADAMI – De rebus in civitate Firmana gestis l. II p.98

           FRANCESCO M: TANURSI – Ivi

           LUDOVICO MURATORI – Rerum Iyal. Script. t. XVIII p. 200

4        TANURSI – in Colucci – A.P. t. XVIII         

5        (Fermo) una grande e ricca città era questa e la più forte di tutte le altre picene. Sorgeva su

           una rupe di tanta altezza da dove, come da eccelsa specola si mirava tutto in Piceno. Nella

           sommità di questa rupe si estendeva un sufficiente ripiano che cinto da muraglia rafforzata da

           parecchie torri, formava una rocca inespugnabile ecc. – Fazio – De rebus gest. Ab Alphonso I        

           Neap. Rege. l. XXXVIII p. 23.

6        DE NICOLO’ “….. in quo fuit maximum guastum olivarum et aliarum arborum fruttiferarum”.

           Vi fu un gran guasto di ulivi e di alberi fruttiferi.

7         ANTON DE NICOLO’ – Cronache – p. 163 – “Nicola Sabbioni, figlio di Angelo, il quale nei giochi

           equestri, che Francesco forza fece preparare quando la signora Bianca sua moglie partorire il 

           figlio sul Castello del Girone, giostrò  tanto strenuamente, che meritò gli fosse concessa

           perpetua facoltà di portare sopra l’armatura un leone portante l’anello della giostra. Lo     

           trasmise ai posteri con motto scritto in zona bianca”.

8        QUATTRINI – in Colucci  A.P. t. XVIIII p. 182 . Il Quattrini dice che i Fermani furono ingannati   

          da uno stratagemma di Santoro. Essi dal loro accampamento osservavano un grande  

          movimento di soldati entro la città e non si accorsero che quei soldati erano donne che

          simulavano manovre, armate di canne bastoni; mentre i soldati veri si erano portati di

          nascosto a poca distanza dall’accampamento, per un assalto improvviso. Dice pure di aver

          letto sulle vecchie mura di Ripa questo distico:”Festo die Priscae Ripanis bella removit Conflictu

          magno Sfortia turba ruit”.

9       P. U. PICCIAFOCO – S. Giacomo della Marca p.125 – Ed. Monteprandone Santuario di S.

         Giacomo.

10    Ricordo che il palazzo vescovile non stava più Girfalco, ma dove sta oggi; però era egualmente

         facile da lassù bombardarlo.

11    M. CATALANI – p. 253 (ed. 1783) testimonianza del Poggi: “Avendo più di 1500 volumi

          riguardanti il diritto pontificio il diritto civile, niente vi era in essi che egli non avesse esaminato

          diligentemente: è la stessa cosa si può dire dei libri di Agostino e Gerolamo. Conobbe tanta storia,

         quanta nessun altro; conosceva tutti poeti e filosofi. Nel suo tempo non ci fu nessun uomo onesto

         e dotto che non gli fosse amicissimo”.

12    S. ANTONINO DI FIRENZE – “Passò da questo mondo santamente, portando un aspro cilicio che 

         assiduamente portava sulla nuda carne. La sua morte causò a tutti quelli che le conoscevano

         grande tristezza e dolore, per le sue insegni qualità. Quest’uomo era veramente santo, amato

         da  tutti per la sua rettitudine, grande per sapienza e prudenza, dotto nel diritto, padre il riposo

         dei religiosi. Dava ai poveri con abbondanza. Sobrio; frequentemente celebrava con devozione 

         e non cessava mai di studiare….”

13    Fondò il collegio Capranica con particolari riguardanti agli studenti poveri di Fermo, difatti ne

         scrisse i regolamenti, ora perduti, intitolati: “Liber Constitutionum collegii pauperum scolarium

         sapientiae Firmanae editus per Revnum Dominicum de Capranica, Cars. Firmanum vulgariter

         nuncupatum etc.”

CAPITOLO X

IL PERICOLO TURCO

     mentre i piccoli Stati spagnoli di Leon e di Castiglia, con mirabile accordo, erano riusciti a liberare la Spagna dalla dominazione degli Arabi, il pericolo ottomano cresceva per l’Italia e per i Balcani. Sembra incredibile che di fronte a un pericolo così tremendo come il pericolo ottomano, le nazioni europee restassero indifferenti e divise da rivalità, senza saper trovare un accordo contro il pericolo comune.

     I Papi del tempo tentano ogni mezzo per ricucire in qualche maniera l’unità europea contro i musulmani, ma i loro sforzi restano vani. Niccolò V (1447-1455) cercò di ristabilire la concordia tra gli Stati europei, per tentare una crociata contro i Turchi. Fu coadiuvato da molti illustri ecclesiastici, come il Card. Bessarione, la cui missione riuscì valida nei paesi germanici, ma in Francia fu insultato dal re Luigi XI; Giovanni da Capistrano e Giacomo della Marca che ottennero dei risultati tra i popoli slavi; Simone da Camerino Agostiniano, nominato sopra, che riuscì a far firmare la pace di Lodi tra Milano e Venezia; il nostro Vescovo Domenico Capranica che convince ad aderire all’accordo Napoli e Firenze.

   Succedette a Niccolò V Callisto III (1455-1458), spagnolo che fece pubblico voto di spendere tutti i tesori della Chiesa per la crociata contro i Turchi, ma visse solo tre anni. Per tener viva nel popolo la preoccupazione del pericolo che correva la cristianità, ordinò che si suonassero le campane a mezzogiorno, oltre che all’Ave della sera e si recitasse l’Angelus, usanza che resta anche oggi. Ma molti lo derisero, perché essendo comparsa del 1456 La cometa di Hallei, si disse che il Papa aveva fatto suonare le campane per esorcizzare la cometa.

     Nonostante tutto, qualche successo isolato contro i Turchi si otteneva. Possiamo ricordare la liberazione di Belgrado assediata da Maometto II con 150.000 turchi, avvenuta per opera di Giovanni Corvino Uniade governatore di Ungheria, assistito dal francescano Giovanni da Capistrano. Il 22 Luglio 1456 Maometto II dovette ritirarsi gravemente ferito da una freccia. In ricordo della vittoria Callisto III istituì la festa della Trasfigurazione. Ma di questo e di altri isolati successi delle armi cristiane non vollero approfittare gli Stati europei in lotta tra di loro.

     Pio II (Enea Silvio Piccolomini) (1458-1464) seguitò la opera di Callisto III nel cercare l’unione tra gli Stati europei contro i Turchi. Risultato vano il Convegno di Mantova del 1459, convocato per convincere i governanti europei a unirsi contro il pericolo ottomano, Pio II decise di partire lui stesso per la crociata, a capo di una flotta pontificia affiancata dalla flotta veneziana, l’unica potenza che ascoltò la preghiera del Papa. Ma il 15 Agosto 1464, mentre Pio II vedeva arrivare nel porto di Ancona le navi veneziane, morì, e con lui anche la Crociata.

FERMO E PIO II

     I principi e le città italiane si comportavano come se il pericolo ottomano fosse per essi molto remoto, e si azzuffavano a difesa dei propri particolari e meschini interessi. Fermo e le città marchigiane, molto esposte al pericolo, risposero abbastanza bene all’invito dei Papi.

   Nel 1456, nell’esercito inviato da Callisto III per la liberazione di Costantinopoli militavano più di tremila Fermani. E quando Pio II radunò in Ancona l’armata pontificia e veneziana per la crociata, le città picene, e specialmente Fermo, risposero generosamente. Si legge nella storia di Ripatransone che quella città mandò al Papa in Ancona venti some di grano, e prosciutti per un valore di cinquanta ducati; e Fermo offrì per la crociata 3500 ducati d’oro, il mantenimento di una nave per sei mesi e buona quantità di cereali.

     In questa occasione non si parla di combattenti fermani che sicuramente non mancarono, ma non furono troppi, perché anche per Fermo, come per tutti gli altri staterelli italiani, non mancavano difficoltà interne, e pericoli è beghe con gli stati confinanti. Proprio in quegli anni le agitazioni nelle Marche erano cresciute. Nel 1460 il conte Giacomo Piccinino che si era inimicato Re Ferdinando partiva dalla Romagna per andare in aiuto a Giovanni d’Angiò che voleva conquistare il Regno di Napoli, contro il volere del Papa che aveva riconfermato il Regno a Ferdinando. Federico di Urbino e Alessandro Sforza ebbero l’ordine di combattere il Piccinino e ritardarne la marcia verso Napoli; e anche Fermo e  Ripatransone preparavano le loro forze per prevenire un eventuale attacco delle forze nemiche della S. Sede, o danni dalle truppe amiche1.

     Tutta la costa adriatica sembrava impazzita; pareva che il pericolo ottomano non esistesse per essa, mentre era la zona più esposta. Sigismondo Malatesta  junior occupava Fano, combattuto da Federico di Urbino; Ancona minacciava Jesi difesa dal Legato Pontificio; Ascoli combatteva per tener soggetta Castignano e riconquistare Controguerra occupata da Gioisia Acquaviva2.

     E proprio nell’estate del 1464, appena morto Pio II e fallita la crociata, Fermo occupava Monsampietrangeli e la dava alle fiamme. Ma il Papa Paolo II minacciò gravi castighi a Fermo la quale chiese perdono che le fu concesso per interposti buoni uffici di Ripatransone, a patto che Monsampietrangeli fosse ricostruita a spese dei Fermani, e fossero a quei cittadini restituiti tutti i beni perduti3.

     Gli avvenimenti di questa seconda metà del sec. XV sono così complicati, che è difficile seguirli e valutarli. Nelle interminabili lotte tra i vari Stati italiani furono coinvolti anche i Papi. Paolo II (1464-1471), il grande amatore delle scienze e delle arti, nonché predicatore di pace di concordia, fu costretto a prendere le armi per non perdere Rimini; il suo successore Sisto IV (1471-1484), coinvolto nella fallita congiura dei Pazzi costretto a dichiarare guerra ai Medici di Firenze.

     E intanto i Turchi occupavano l’Albania nel 1468; toglievano ai Veneziani, nel 1470,  il Negroponte; e nel 1480 Maometto II occupò Otranto, facendo strage di quella popolazione. Furono massacrati, insieme al vescovo e a duecento sacerdoti, novemila cittadini di ventiduemila che ne contava quella città4.

     Ormai per la Marca il pericolo ottomano era entrato in casa, poiché c’erano di quelli che, accecati da privati interessi dell’odio politico, favorivano il nemico. Il principale di essi era Boccolino Guzzone che si era impadronito di Osimo. Costui temendo la reazione del Papa, tentava di accordarsi con Maometto II, promettendogli, se fosse venuto in suo aiuto, il possesso della Marca, dalla quale sarebbe stato facile conseguire la conquista di tutta l’Italia.

     I Fermani ebbero la fortuna di scoprire la congiura, facendo prigioniera la nave che portava verso oriente il messaggero di Gozzolino e impadronendosi del testo dell’accordo. Il Papa Innocenzo VIII, con un breve del Novembre 1484, loda e ringrazia i Fermani.

GUERRA PER MONSAMPIETRANGELI

     Il 12 agosto 1484 morì Sisto IV e, come avveniva sempre durante la sede vacante, Fermo assalì Montesampietrangeli. Il Vicedelegato della Marca, deciso a impedire ogni costo la rovina di quel castello, si trasferì col suo esercito a Monte San Giusto e ordinò ad Ascoli e a Ripatransone di inviare soldati, oppure di attaccare il territorio fermano, per dividere le forze di questa città, e rendere a lui più facile la difesa di Montesampietrangeli.

     Quest’ordine era per Ascoli un invito a nozze. Le sue aspirazioni al mare erano sempre vive; questa era l’occasione buona per battere l’esercito fermano nell’interno e recuperare poi San Benedetto in Albula. Un forte esercito ascolano avanzò fino a Montegiorgio, dove nell’Agosto 1444, sbaragliò l’esercito fermano e lo costringe ad abbandonare l’impresa di Montesampietrangeli5.

     Dall’altra parte dell’esercito di Ripatransone, aiutato da quattrocento fanti ascolani, assalì Acquaviva e devastò i vigneti e gli agrumeti della costa.

     Montesampietrangeli fu salva, ma a rendere vane le  aspirazioni marittime di Ascoli intervenne il Papa. Eletto nello stesso Agosto 1484 Papa Innocenzo VIII, impose alle tre città di deporre le armi, sotto pena di gravi castighi6. L’ordine del Papa ottenne solo una stentata tregua di dieci mesi, e corse pure il pericolo di non raggiungere quel termine.

     Difatti: il 12 Febbraio 1485, il giorno delle Ceneri, il Vescovo di Fermo Giambattista Capranica fu ucciso dicono gettato da una finestra da alcuni cittadini fermani7. Per Ripatransone che faceva parte della Diocesi Fermana l’occasione era ottima per rompere la pace con Fermo. Si ingigantì lo scandalo e si proibì il traffico riparano con Fermo. Per Ascoli e per Ripatransone era questo un momento buono per attaccare Fermo, interdetta dal Papa. Il 3 Gennaio 1486, Ascolani e Ripani si accordarono per la guerra contro Fermo e ne concertarono i piani8.

LA BATTAGLIA DI VETRETO

     I primi di maggio 1486, l’esercito alleato di Ascoli e di Ripatransone avanzò verso Acquaviva e la cinse d’assedio. Fermo mandò in difesa di quel castello 13.000 uomini che posero l’accampamento sul Colle della Guardia. I 2 eserciti si disturbavano con scaramucce per diversi giorni, finché gli Ascolani avvisati che i Norcini si muovevano in aiuto dei Fermani, decisero di accelerare i tempi, provocando il nemico in campo aperto. Tolsero l’assedio di Acquaviva e schierarono l’esercito in battaglia sul Colle di Vetreto. Ai per mani non conveniva a combattere prima che arrivassero gli aiuti di Norcia, perché si sentivano meno forti del nemico, ma per non palesare i loro piani, fingere di accettare battaglia e in un breve scontro ebbero dei morti.

     La sera mandarono al campo nemico un trombetta per chiedere la sospensione delle armi allo scopo di seppellire i morti. La tregua fu concessa. Gli Ascolani condussero il trombetta nel loro accampamento e lo invitarono a bere e a far festa con loro, facendogli pensare con la loro allegria che aspettavano presto rinforzi. I Fermani caddero nell’inganno. Il trombetta, ritornato dai suoi, riferì quello che avveniva nel campo nemico; e l’esercito fermano, nel timore che potessero davvero arrivare rinforzi agli Ascolani, si decise di attaccare battaglia subito, senza aspettare gli aiuti di Norcia. Si combatté accanitamente per molte ore, finché l’esercito fermano fu rotto e costretto alla fuga, lasciando i bagagli nell’accampamento, in mano ai nemici9.

     Il Legato Pontificio cercò di concludere una tregua, chiesta da Fermo e il 25 giugno 1486 Ripatransone vi aderì, contro la volontà di Ascoli. Ripa faceva la sua politica: era alleata di Ascoli, ma non voleva correre il pericolo di essere asservita da Ascoli. San Benedetto in Albula, nell’interesse di Ripa, stava meglio in mano ai Fermani, che agli Ascolani; Fermo era stato bene che fosse sconfitta, ma non conveniva che fosse indebolita troppo. 

     Ascoli aderì all’invito del legato; e i soldati ascolani, guidati dal loro condottiero Capuano, scorsero il territorio fermano fin sotto le mura della città, recando guasti e caricandosi di preda10.

     Dietro rinnovate minacce del Papa, Ascoli, Ripatransone, Fermo, Montesampietrangeli, nel monastero di Fonte Avellana, furono costrette a firmare un trattato di pace dettato dallo stesso pontefice11.

NOTE

1       MANOSCRITTI ASCOLANI – “A. D. 1460 die ultima Martii  Comes Jacobus Piccininus venit de

         Romania cum suo exercitu et firmavit se prope Columnellam. Eum sequebatur Comes Urbini et

         Alexander Sfortia cum suis copiis”.

         “A.D. 1460 die 20 Juli Comes Jacobus Piccinini et Comes Julius de Camerino ad una parte,  et

         Comes Urbini et Alexander Sfortia ad alia cum suis exercitibus fecerunt maximum Proelium

         quod inceptum fuit meridie et duravit usque ad tres horas noctis, in quo mortui fuerunt multi

          omines et equi inc, inde, apud S. Fabianum.

2        MANOSCRITTI ASCOLANI – “1459, DIE 19 Decembris populus Asculanus recuperavit

           Controguerram, quam abstulerat D. Josias Aquaviva Domino Pwtro Aquilano, domno dicti  

           castelli”.

3     MANOSCRITTI ASCOLANI – “Anno 1464, die 16 Augusti, Firmani incendedunt Montem Sncti         

           Petri de Allio, quod postea refecerunt sui sumptibus, de mandato Pauli Pontificis”.

         (Il 16 agosto: proprio il giorno dopo la morte di Pio II; il che ci fa supporre che l’assalto a

           Montesampietrangeli era preparato da tempo, e si aspettava solo che il Papa partisse per la

           crociata per effettuarlo).

4         MANOSCRITTI ASCOLANI – “Claris Maumeti Teucri venit in Italiam et expugnavit et cepit

           Regni oppi dum quod dicitur Otranto, ubi necavit Episcopum civitatis et  ducentos sacerdotes

           et octomilia hominum”

5         MANOSCITTI ASCOLANI – Anno 1484 – “Eodem anno, die 12 Augusti mortus est Papa Xistus

           ad horam quartam noctis et per illos dies Firmani obsederunt Montem S. Patri de Angelis. Ad

           auxilium et subsidium ippius oppidi ex precetto D. Gubernatoris populus Asculanus ivit, rupit

           et fugavit Firmanos in territorio S. Mariae in Georgio, ubi fuere occisi multi Firmani de agro et

           de urbe; de Asculani vero pauci…”

6        COLUCCI – A.P. t. XVIII – app. n. LVI-LVII-LVIII

7        Si dice che il vescovo Giambattista Capranica fu preso in casa di una signora Fermana sua

          amante, fosse stato gettato dalla finestra dai fratelli di lei, sarebbe vano cercare i veri motivi di    

         questo delitto. Possiamo accettare la versione corrente, perché in quei tempi tutto era

         possibile.

8      TANURSI – in  Colucci t. XVIII p. 97 e segg.

9      TANURSI – in Colucci t. XVIII p. 97

10    MANOSCRITTI ASCOLANI – “5 Augusti 1486, populus Asculanus fecit maximam incursionem in

         agrum firmanum usque ad portam civitatis et fecit maximam predam. In qua fuit occisus

         Cicchinus Filère cum sex civibus ascolanis, cuis incursionis dux fuit Capuanus”.

11    COLUCCI – A.P. t. XVIII – app. dipl. n. LVIII

CAPITOLO XI

ATTIVITA’ ECONOMICA DI FERMO

NEI SECOLI XV E XVI

     Ho cercato nelle pagine precedenti di illustrare al lettore la potenza di Fermo e la sua privilegiata posizione nello Stato Pontificio. Fermo era una provincia della Chiesa; ma il “mero e misto impero”, cioè l’amministrazione della giustizia in cause civili e criminali, e la zecca o facoltà di batter moneta propria; riconosciutele da Papi e regnanti fin dal 1211, conferiscono a Fermo una quasi sovranità che forse nessuna città marchigiana ebbe mai1.

     Ora, prima di lasciare questo tormentato secolo XV, voglio presentare al lettore un quadro, necessariamente incompleto, delle attività economiche fermane di questo periodo. Ci orizzonteremo, elencando prima i Collegi delle Arti, costituiti nel Consiglio di Cernita del 14 Ottobre 1386. Essi sono:

1º  Giudici, procuratori, notai (erano circa 130);

2°  Medici, farmacisti, orefici, sellari (circa 50);

3°  Mercanti (circa 114);

4°  Beccai, casiolari (= droghieri), barbieri, falegnami, fabbri (circa 125):

5°  Calzolai, mugnai, fornaciari, osti, mulattieri (circa 166);

6°  Sartori, pellicciari, scalpellini, fabbricatori (circa 140).

     Nel sei Collegi delle Arti, codificati nel 1386, non vi figurano agricoltori e pescatori; segno che tali organizzazioni non esistevano.

AGRICOLTURA

     Ma all’agricoltura era ancora la principale ricchezza dello Stato Fermano. Dalle varie forme di conduzione agricola era prevalsa la mezzadria, come metodo più conveniente, sia per il proprietario, come per il coltivatore; poiché l’associazione del capitale col lavoro favoriva gli interessi dell’uno e dell’altro e presentava maggiore sicurezza e giustizia, sia nel rischio, che nel profitto.

     Il territorio fermano è particolarmente adatto allo sviluppo agricolo. Tutto il territorio è solcato da tre fiumi: il Tenna, l‘Ete e l’Aso che formano vaste pianure ricche di culture, e tra un fiume e l’altro si elevano colline di media altezza, assolate e fertilissime; solo una minima parte verso i Sibillini è montagnosa.

     La maggiore produzione agricola era sicuramente il grano che veniva esportato nell’interno dello Stato Pontificio e anche fuori, dopo che si era provveduto a rifornire i granai della Congregazione dell’Abbondanza. Era questa, una istituzione comunale, che, specialmente negli anni favorevoli, imponeva ai castelli una data quantità di frumento, che si immagazzinava per essere usato in tempo di carestia, e per venire incontro ai bisogni dei poveri.

     Buona era la produzione della frutta: pere, mele, pesche, susine, noci, ciliegie, sufficienti al fabbisogno interno dello Stato, e sulla fascia costiera, molto curata la produzione degli agrumi2.

     Non doveva essere molto abbondante la produzione del vino e dell’olio, perché gli Statuti comminano sanzioni contro gli esportatori di questi prodotti e ne favoriscono invece la importazione3.

     La causa principale di questa carenza è da ricercarsi nella cecità degli odi e delle feroci rappresaglie allora in uso, per cui era frequente la rovina delle vigne degli oliveti, come si legge in tanti documenti; nonostante che gli Statuti comminassero pene severissime per simili danni.

     Abbastanza fiorente l’allevamento del bestiame, soprattutto degli ovini e dei suini, poiché negli Statuti troviamo speciali attenzioni per la lana, per i formaggi e per le carni salate.

ARTIGIANATO

     Il grande numero di artigiani nella città di Fermo era insieme indice e causa di benessere. Settant’otto calzolai, sessanta falegnami, ventuno fabbri, quaranta mulattieri e altre numerose attività artigianali significavano che molte centinaia di famiglie vivevano bene del loro lavoro; e per i cittadini significava trovare facilmente il soddisfacimento dei propri bisogni. Un buon artigianato, specialmente in quei tempi (ma da rimpiangersi anche oggi), era la vera base del benessere cittadino.

     Le autorità comunali si preoccupavano di proteggere l’artigianato, difendendolo dalle eccessive imposte del Governo Regionale del Rettore. Per essere sempre a conoscenza delle disposizioni del Governo Centrale e regionale, gli Statuti imponevano la nomina di un rappresentante del Comune (sindicus= ambasciatore) presso la Curia del Rettore e presso la Curia Romana4.

     Il Consiglio Comunale si preoccupava di accrescere l’attività artigianali e il 19 Settembre 1448, il Comune apre a proprie spese una tintoria che nel 1454 si perfeziona con la venuta a Fermo di un tale Cola di Amatrice che incrementa e perfezione l’arte della tintoria della lana, favorito dal Comune con un bellissimo contratto, riportato dal Papalini del suo “Effemeridi della città di Fermo”5.

     Nel 1470 il Comune assegna 1600 ducati a un certo Giovanni Ferri di Ascoli che intende aprire una lavorazione della lana a Fermo, e il 28 Giugno 1471, il Consiglio Comunale elegge tre cittadini capaci, deputandoli a interessarsi dell’arte della lana6.

     Nel 1470 il Consiglio Comunale dà il permesso non solo, ma offre uno stipendio, e assegna una casa e decreta l’esenzione dalle gabelle a un filandaio di S. Severino che vuole stabilirsi a Fermo con la famiglia, per esercitarvi la lavorazione della seta7.

     Nel 1472 il Comune invitò a Fermo un artigiano lombardo, per impiantarvi una fabbrica di berretti8.

     Nel 1485 fa un contratto con Cristiano di Perugia che fonda a Fermo un grande filatoio di seta.

COMMERCIO

     La presenza di settantasette notai e centoquattordii mercanti ci dice quanto sviluppato fosse il commercio a Fermo nel sec. XV. Per il commercio al minuto che si volgeva nelle botteghe cittadine sono da notare le 23 botteghe dei beccai, di proprietà del Comune e da esso controllate, che si davano in appalto a privati cittadini.

    Il mercato del pesce che doveva essere molto abbondante, data l’estensione della costa dello Stato Fermano, era strettamente controllato dal Comune forse dato pure in appalto.

     Il commercio del sale era severamente riservato al monopolio di Stato. I contrabbandieri del sale erano condannati, senza processo, pagare  50 lire di multa e alla requisizione del sale e degli animali che lo trasportavano. Chi denunzia un contrabbandiere di sale, oltreché tutelato dal segreto, può partecipare alla divisione dei beni requisiti9. Le saline, tanto del Tennacola, come di Torre di Palme e di Grottammare erano molto attive, ma anche le necessità dello Stato erano tante.

   Le tredici botteghe dei droghieri venivano rifornite di spezie e di prodotti orientali dai navigli dello Stato i quali, pur messi in crisi dalle grandi navi di Venezia e di Ancona, svolgevano nell’Adriatico una nutrita attività commerciale. 

 LA FIERA DI FERMO

     Molta importanza si dava alle fiere periodiche che si tenevano, e alcune anche oggi si conservano, sia Fermo, che nei castelli dello Stato. Particolare attenzione si prestava ad alcune che si tenevano nelle località di confine, come: Sant’Angelo in Piano (Carassai), S. Angelo in Pontano, S. Claudio al Chienti che aveva sempre grande affluenza, per la sua posizione centrale nella regione. Erano fiere che duravano giorni; attiravano anche mercanti forestieri e vi si realizzavano affari rilevanti .

    Ma la più grande manifestazione della potenza commerciale di Fermo era la fiera che si volgeva nella città, dal 7 Agosto fino a metà Settembre. Era la fiera che interessava tutta la Marca e parte del vicino Regno di Napoli. Un segno della sua importanza è il fatto che, il 7 Agosto 1357, Papa Sisto IV, proibì agli Anconetani di bandire qualsiasi fiera, durante il tempo che si celebrava la fiera di Fermo10.

     Minuziose disposizioni regolavano il buon andamento della fiera11.

     “La feria predicta sia et essere debba franca ad omne persona che venire vorrà nella ditta feria, cioè che nullo cittadino over forestiero et contadino de qualunca donsitione  se sia, possa essere costritto da alcuno suo creditore per veruno debito contratto nante lo tempo de la dicta feria, né per rapresalia de Comune,  né de speziale persona che avesse contra niuno …..”.

     “Che si debia elegere quattro ….. (mediatori) over sensali li quali sieno literati et che sapia scrivere tucti li mercati che se facesse da ventitre in su”.

     Si dovevano pure eleggere due periti, che dovevano controllare se il denaro usato nella fiera era legale; così pure si eleggevano tre cittadini assistiti da un notaio, per dirimere le questioni che sorgessero nell’ambito della fiera.

     Dal libro VI degli Statuti, rubr. 85, possiamo conoscere le merci che alimentavano le fiere di quei tempi:

     “Zafferano; seta sottile Marchigiana; seta di Puglia, cera, zucchero a zolle e in polvere; speciarìa; pepe; miele; allume di Rocca; mandorle, pignoli, uva passa, panno colorato camertone e Eugubino, panni bisi, Stramegno, lana fina, lana grossa, panno di lino, guarnello, canavaccio, funi spaghi e stoppa, lino marchigiano, lino lombardo, panni veronesi, fiorentini e altri panni fini, merceria, stagno, ferro, piombo, acciaio, ferro lavorato, metallo lavorato, rame lavorato e non, pellicceria concia e non concia, pelle francese, pelli e lanute, corame grosso, corame sottile, concio, carta bambagina, carta pecorina, semente di lino, noci e altre biade, peli di cavallo, peli di coda di cavallo, fichi secchi, sego e sogna, pesce salato, carne salata e cascio, legname lavorato, vetro lavorato, cote di pietra, seta sottile di Romagna seta grossa di Romagna, vischio, riso, oro e argento lavorato, coralli, “pater nostri d’ambra”, coltri di seta e di panno ecc.

LA COMUNITA’ EBRAICA A FERMO

      Relativa a questa grande attività economica è la massiccia presenza degli Ebrei a Fermo. Fin dal secolo XII furono sempre numerosi e andarono sempre crescendo di numero fino al secolo XVI , raggiungendo le cinque o seicento unità. Verso la fine di questo secolo, non si hanno più notizie di essi a Fermo12. Forse durante l’episcopato di Pietro Bini acerrimo nemico degli Ebrei, questi se ne andarono, o furono mandati via13.

     Nel fermano gli Ebrei avevano un ambiente favorevole sotto ogni aspetto. Una città come Fermo, dove attivissimi erano il commercio, l’industria e l’artigianato, richiedeva l’impiego di grandi quantità di denaro liquido che solo gli Ebrei erano in grado di fornire; ed essi vi furono accolti con favore e trattate con un certo riguardo, anche se talvolta dovettero subire soprusi e saccheggi, come nel 1396, quando i fuorusciti ghibellini, occupata la città, saccheggiarono e devastarono tutte le case degli Ebrei14; e subire umiliazioni e discriminazioni, come dopo la predicazione dell’Agostiniano Simone da Camerino, quando il Consiglio Comunale approvò la decisione che ogni ebreo portasse sul vestito una coccarda circolare gialla, come segno di riconoscimento15. D’altra parte è ovvio che i saccheggiatori non si muovono contro una religione o una razza, ma contro chi ha quattrini, allora solo gli Ebrei ne avevano in abbondanza; e la discriminazione non era solo colpa dei Cristiani, ma dipendeva soprattutto dagli Ebrei stessi che si erano autodiscriminati, pretendendo di vivere tra le popolazioni cristiane, odiandole e sfruttandole; non amalgamandosi con nessun popolo; restando sempre i più superbi e tenaci razzisti di ogni tempo. È vero che la Chiesa pregava per la conversione dei “perfidi” Giudei (e il più delle volte l’attributo era appropriato), ma non li ha mai chiamati “cani”, epiteto usuale degli Ebrei contro i Cristiani. È vero che da parte di Concili e di papi ci furono disposizioni discriminatorie nei riguardi degli Ebrei, ma chi si desse la pena di esaminarle una, per una (sempre inquadrate nel tempo), le troverà ragionevoli. Molte di esse, come per esempio l’abitazione nei ghetti e l’obbligo di non uscire in pubblico durante la Settimana Santa, più che discriminatorie, erano disposizioni appropriate per proteggere la vita degli Ebrei, generalmente malvisti dal popolo.

     A Fermo un vero ghetto non è mai esistito, fino al sec. XVI. Solo nel 1556, il Card. Carafa di pessima memoria, nipote del Papa e governatore di Fermo, fece organizzare un ghetto per gli Ebrei di questa città, nella contrada S. Bartolomeo, che corrisponde pressappoco a quella zona di scomode viuzze a nord dell’attuale Palazzo di Giustizia, dove era situata la sinagoga. Fino a quel tempo gli Ebrei fermani potevano abitare dove volevano; ma di fatto quasi tutti erano sistemati in contrada S. Bartolomeo e a Campoleggio16.

     Erano anche autorizzati dal Consiglio Comunale esercitare i loro traffici in botteghe, nella via dei magazzini, tra S. Bartolomeo e piazza San Martino17.

IL MONTE DI PIETA’

     A Fermo gli ebrei erano favoriti dalle autorità e protetti dalle leggi comunali, perché i loro prestiti erano utili, sia ai bisogni del Comune, sia al sostegno di traffici; ma erano odiati dal popolo, per motivi di religione e di razza. Ma c’era anche un altro motivo di odio, il più importante, ed era l’usura.

     La principale attività degli Ebrei era prestare denaro a interesse. Il Concilio Lateranense IV del 1215 aveva stabilito che essi non potevano esigere interessi troppo elevati, ma spesso approfittando di necessità particolari e di periodi di emergenza pretendevano tassi enormi, fino al trenta e quaranta per cento. Finché erano le autorità o i grossi mercanti a contrarre il debito, le conseguenze non erano irreparabili; ma quando i debitori erano singole famiglie e per giunta non ricche, le conseguenze erano rovinose per esse, perché gli alti interessi del prestito contratto le faceva presto trovare di fronte a un debito che non erano in grado di pagare, e a un creditore ebreo inesorabile e spietato. E non sono fuori posto alcune risoluzioni pontificie che vietavano che un cristiano diventasse schiavo di Ebrei, perché essi non avrebbero esitato a prendere schiavo un debitore impossibilitato a pagare, purché non si trattasse di un correligionario. A tutto questo aggiungi la predicazione dei frati che definivano immorali e peccaminoso qualsiasi prestito a interesse.

     Contro la disumanità dell’usura ebraica sorsero nel secolo XV  “i Monti di Pietà”, geniale istituzione dei Frati Minori Francescani.

     Si ritiene comunemente che l’ideatore del Monte di Pietà sia stato il Beato Domenico da Teramo, in occasione di una predicazione quaresimale a Perugia, del 1460. Ma poiché un po’ prima altro frate, Beato Domenico da Leonessa, nella quaresima del 1558 istituiva in Ascoli il Monte di Pietà, penso che sia superfluo attribuire l’invenzione di questa grande istituzione a un singolo18. L’ideatore del Monte è l’Ordine Francescano che già nel 1458 dava ai suoi predicatori quaresimalisti l’invito a promuoverlo nella città assegnata alla loro missione.

     A Fermo il Monte di Pietà fu istituito undici anni più tardi, nella quaresima del 1469, dello stesso Beato Domenico da Leonessa19. Ma all’istituzione giuridica di quell’anno non ebbe poi applicazione pratica; difatti nove anni dopo, nel 1478, B. Marco da Montegallo, durante la predicazione quaresimale, pregò il Comune che finalmente si effettuasse la fondazione del Monte di Pietà, e in modo che poi non perisse. Egli stesso ritocco gli Statuti e presiedette le adunanze degli incaricati della direzione del Monte, e l’otto Aprile esso iniziò la sua attività20. Penso che i ritardi e le difficoltà che il Monte di Pietà incontrò a Fermo siano dipese principalmente da due motivi: la freddezza del Comune verso la nuova istituzione e l’ostilità dei frati verso di essa.

     Dobbiamo sempre tener presente che gli Ebrei a Fermo erano molto numerosi e potenti; tenevano in città una quindicina di banchi di prestito. Il Comune, che non riusciva mai a pareggiare i conti, aveva bisogno di prestiti ebraici, come ne avevano bisogno anche le attività cittadine. Il Comune non poteva urtare gli Ebrei, appoggiando il Monte di Pietà istituito proprio contro di essi; difatti è il Vescovo e il suo Vicario che approvano gli statuti del Monte voluto da Fra Domenico da Leonessa; il Comune è assente.

     Riguardo poi ai Frati, a Fermo erano potenti francescani, ma forse anche più potenti erano gli agostiniani e i domenicani, i quali non approvavano i Monti di pietà, perché per essi era contro la morale prestare a interesse, anche se esso si limitava, come nel caso, al due o tre per cento. E forse a causa di questo rigorismo morale, anche tra i francescani sorsero dissensi: i perugini volevano il prestito del Monte “cum merito”, cioè con piccolo interesse; i marchigiani con Fra Marco di Montegallo “sine merito”, cioè del tutto gratis.

     Nel 1468 Frate Marco viene a predicare a Fermo; sveglia le autorità comunali e le convince a interessarsi dei poveri, mettendo un po’ da parte gli interessi degli Ebrei; propone il suo statuto per il Monte, che non può urtare la sensibilità morale delle altre fraterie, poiché i prestiti del Monte sono “sine merito”; e riesce nel suo intento, aiutato dalla generosità di tanti cittadini fermani e dal Consiglio Comunale che, l’otto Aprile 1468, legalizza il Monte di Pietà 21.

     Ma qualche volta i Santi si ingannano, rimettendo tutto nelle mani della Provvidenza, la quale invece vuole la collaborazione fattiva dell’uomo; e anche il Monte di Pietà di Fermo, dopo una trentina di anni, nei quali alle esigue assegnazioni del Comune si erano aggiunte le generose donazioni dei cittadini che gli avevano permesso di prestare “sine merito”, sentì la necessità di cambiare metodo. Fu necessario allinearsi alla regola ormai universale, di ammettere per il Monte un minimo interesse per sostenere le spese di gestione che andavano crescendo. Nel giugno 1506 si riformarono gli statuti del Monte di Pietà e il 25 Agosto il Consiglio Comunale li approvò, destinando al Monte anche il ricavato delle multe 22.

     Dopo questa riforma degli statuti, il Monte di pietà fermano godette prosperità sempre crescente; tanto più che nel 1517 il Concilio Lateranense V fece cadere ogni prevenzione dichiarando il Monte di Pietà “leciti, pii e meritori”, e arricchendola di indulgenze; “lecito un piccolo interesse, per sostenere le spese”23.

NOTE

1      Bolla di Eugenio IV – da Statuta Firmanorum p. 3 “Comunitas Firmana et officiales Rectores

        dictae civitatis habeant et habere debeant merum et mistum imperium et liberam ppotestatem

        cognoscendi et punendi de quibuscunque excessibus et dilictis commissis et committendis in dicta  

        civitate, comitatu et districtu cuiscunque generisexcessus et delicta existant”.

        Rescritto di Ottone IV – Arch. St. Fermo perg. n. 188 – “Nos civibus civitatis Firmanae dilectis

        fidelibus nostris plenam licentiam dedimus et potestatem cudendi et faciendi denarios”.

2      Agrumeti tra Pedaso e San Benedetto ci sono stati fino a pochi anni fa. Ancora si può incontrare

        qualche recinto di pietrame che serviva per proteggere i limoni dai ladri e dal vento.

3      STATUTA FIRM. l. V – rubr. 27-29 – e rubr. 1-2-3

4      STATUTA FIRM. l. II – rubr. 62 pag. 49 (ed.1589)

5      LIBER ISTRUMENTORUM – vol. I Arch. St. – Fermo

6      PAPALINI – Effemeridi p. 93

7      PAPALINI – Opera cit. p. 55

8      PAPALINI – p. 80

9      STATUTA FIR. – l. V rubr. 72

10    PAPALINI – Effemeridi p. 66

11    ACTA DIVERSA – Arch. Com. Fermo – “Capituli de la feria de Fermo”.

12    MARIA TASSI PISANI – La comunità ebraica di Fermo fino al secolo XV tesi di laurea

         Anno Acc. 1968-69 -Urbino. È il miglior lavoro esistente sull’argomento

13    PAPALINI – Effemeridi della città di Fermo – p. 35

14    ANTON DE NICOLO’ – Cronache della città di Fermo.

15    ANTON DE NICOLO’  – “…1433 de mense Mai  venit Firmum quidam frate Eremitanus vocatus

          Frate Simone da Camerino, et predicavit quamplurimus vicibus …. e disse tra le altre cose che i

          Giudei si confondevano coi cristiani; e tanto disse che in 1 grande cernita fu stabilito che tutti i

          Giudei portassero un segno, come un 0 di colore giallo….”

16      ANTON DE NICOLO’ – Cronache etc. – “ricuperata, la città, (27 Maggio 1396), tutti i cavalieri

           incominciarono a occupare le case ….. A rubare e saccheggiare tutta la Giudea, cioè tutti gli

          Ebrei, circa cento case, tra le contrade di S. Bartolomeo e Campoleggio”.

17    STATUTA FIR. – l. I p. 289 – “Dietro la proposta del nobile Cavaliere di Ludovico degli  

         Uffreducci e dietro disposizione del signor Matteo di Luca, fu registrata la legge che gli Ebrei        

         Potessero esercitare il loro mestiere nelle botteghe sulla strada dei fondachi, dalla chiesa di S.

         Bartolomeo in qua verso la piazza San Martino”.

         La via dei fondachi corrisponde al Corso Cefalonia (allora non c’erano ancora i palazzi

         monumentali), e anche oggi è la via delle grandi botteghe.

18    G. FABIANI – Gli Ebrei e il Monte di Pietà in Ascoli.

19    MARINI – Rubriche e trasunti dei libri delle cernite t. II p. 292

         “Deinde die 23 Martii  (1469) habetur capitula Montis Pietatis condita ad persuasionen

        Venerabilis Fratris Dominici de Lionissa ordinis Minorum de Observantia in Ecclesia Cathedrali

        Episcopatus Firmi in Quadragesima proxime exacta,  predicatoris optimi, , revisa et approbata per

        Rvmus Petrum Paulum eius Vicarius”.

20   MARINI – ivi p. 195 e 227 – “23 Gennaio 1478: “Venerabilis Frater Marcus Ordinis Minorum,

        Predicator petit fieri Montem pietatis”.

        “27 Marzo: “…. Proposuit capitula Montis Pietatis aperiendi  in perpetuum ita ut conservaretur

         nec amplius periret”.

        “Deinde habetur adunantia sub 10 Martii pro ordinandis capitulis Montis Pietatis cum venerabili

        Fratre Marco predicatore Ordinis Minorum et Domino Ludovico de Euffredutiis, Domino Antonio   

        de Pedibus, Domino Andrea domini Petri, Pandulfo Rogeri, Parjacobo ser Joannis, Domino Piero

       Angeli, , Sntonio domini Angeli, Joanne Filippi”.

21  “Die octo Aprilis confirmantur capitula Montis Pietatis a Dominis Prioribus, regolatori bus et

        predictis civibus deputatis una cum Domino Venerabili Patre Frate Marco predicatore”.

22   MARINI – Opera citata – II p. 316.

        “Die 25 Augusti in Concilio approbantur capitula Montis Pietatis, delegati eisdem  capitibus

        solidorum de maleficiis et confirmatis deputatis”.

23   LEONE X – Costit. “inter moltiplices”

        “Declaramus et definimus Montis Pietatis per respublicas institutos et auctoritate Sedis

        Apostolicae hactenus approbatos etc. … neque nullo pacto improbari debere tale mutuum

        minime usurarium putari…”.

-ooo0ooo-

APPENDICE

INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

(il numero indica la pagina)

 Abate di S, Vittoria, 44

Abate Farfense, 31,33

Abruzzo, 88

Accumoli, 87

Acquaviva, castello,  45,79,85,96,97

Adelaide, vedova di Lotario, 17

Adenulfo, vescovo di Fermo, 34

Adriano, papa, 7

Adriatico, 7,65

Africa, 8

Agello, castello (poi Ripatransone), 27

Aginulfo, re longobardo, 18

Agricoltori, 99

Agricoltura, 99

Aimone, padre di Gualterio, 15

Alatrino, cardinale legato pontificio, 36,39

Albania, 86,96

Alberghetti, signore di Fabriano, 59

Alberico, conte e vescovo di Fermo, 15,17,29

Alberto di Montecosaro, feudatrio, 28

Albertuccio, nipote di Clemente VI papa, 56

Albornoz, cardinale, 57,59,60,61,62,63,65

Aldobrandino, marchese, 39

Aldonesi, piccoli proprietari, 21,23

Alessandria, 28,29

Alessandro II, papa, 20

Alessandro II, vescovo di Fermo, 27

Alessandro III, papa, 28,29

Alessandro Sforza, fratello di Francesco, 83,85.86,88,91,95

Alessandro V, papa, 75

Alfonso, re di Aragona, 83,84,88

Alfonso, re di Napoli, 89

Alteta, 75

Alto Fermano, 40,44,52,74.

Amandola, 83

Amatrice, 100

Amico, vescovo,18

Anagna, 51

Anagni, 71

Ancona, 7,27,29,31,34,35.39,47,59,61,62.67,73,94,95

Anconetani,  67,101

Andrea Tomacelli, fratello di Bonifacio IX, 73

Angelo dei Pierleoni, vescovo di Fermo, 72

Annibaldo degli Annibaldeschi, 46

Anton de Nicolò, 66,67,58,75.79,80,85,86,88.89.92

Antonia de Bencionibus, moglie di Giovanni da Oleggio, 63

Antonio Aceti, gonfaloniere, 73,75

Antonio Aceti, gonfaloniere, 82

Antonio Acquaviva, condottiero, 73

Antonio de Vetulis, vescovo di Fermo, 71,72,73,74,

Antonio Giorgi, cittadino fermano, 86

Aquileia, 35

Aquisgrana, 34

Arabi, 8,94.

Aragona, 83,84,88.

Arnolfo di Carinzia, 12,13

Artigianato, 100

Ascherio, 16,17

Ascolani, 47,48.5685,92,96,07

Ascoli, 34,45,47,48,59,61,62,65,66,73,75.77,79,62,85,88,91,95,96,97,100,104

Aso,fiume, 15,99

Assisi, 76

Atri, 78,85

Attone, vescovo di Fermo, 23,24,26,27

Avignone, 51,67,71

Azzolino d’Este, marchese,36,39

Azzone VI d’Este,marche di Ancona, 39

Azzone VI, marchese di Este, 34

Azzone VII (Azzolino) d’Este, 35

Azzone VII d’Este, marchese di Ancona, 35

Azzone, vescovo di Fermo, 26

Badia di Farfa, 16,77

Balcani, 71,94

Baldo di Nicola da Firenze, podestà,24,31

Balignano di Falerone, 40

Balignano, 28

Balignano, vescovo di Fermo, 27,28

Basilea, 79

Basilicata, 20

Beato Domenico da Leonessa, 104

Beato Domenico da Teramo, 104

Beato Marco da Montegallo, 104

Beccai, 99

Belforte, 87

Belgrado, 94

Bellafiore, moglie di Ludovico Migliorati, 77

Belvisio, 60

Benedetto XII, papa, 54,55

Benedetto XIII, papa, 75

Benevento, 20

Berardo III, abate, 23

Berengaria, regina, moglie di Guglielmo di Brienne, 48

Berengario del Friuli, 12

Berengario II, 9

Berengrario, 17

Bernabò Visconti, duca di Milano, 65,82

Bertoldo, figlio del Duc di Spoleto, 35

Bessarione, cardinale, 94

Bianca, figlia del duca di Milano e moglie di Francesco Sforza, 85,87,89

Bianchi, 74

Biordo dei Micheletti da Perugia, condottiero, 73

Blasco Fernando di Belvisio, condottiero, 60

Boccolino Guzzone, 96

Boffo da Massa, 66,67.73

Boldrino di Panigale, condottiero, 73

Bologna, 63,79

Bolognesi, 44

Bonifacio IX, papa, 72,73,74

Bonifacio VIII, 51

Borgogna, 16,17

Braccio da Montone, condottiero, 76,77

Brescia, 77

Bretoni, 67

Brindisi, 43

Brunforte da Perugia, condottiero, 47

Cagli, 61,62

Calabria, 17,20

Callisto III, papa, 92,94,95

Calzolari, 99

Camerinesi, 16

Camerino, 45,51,52,55,59,60,61,62,67,73,76,83,85,87,90,102

Campoleggio, 103

Campone, abate di Farfa, 18

Capocci, Card, legato pontificio, 46

Capranica, cardinale di Fermo, 90

Capuano, condottiero ascolano, 97

Carafa, cardinale, 103

Carassai, 67,73,77,85,86

Carlo Magno, 7,8,17

Carlo Malatesta di Rimini, 74,75,76

Carlo Martello, 8

Carolingi, 8

Carosino, capitano di Ripatransone, 66

Carrara, 73,74,82

Casio, castello, 28

Casiolari, 99

Castel S. Angelo, 20

Castello del Girfalco, 48

Castello del Monte, in Ascoli, 66

Castello, 55

Castiglione, località, 45,46

Castignano, 95

Catalani, 71

Cattedrale di Fermo, 36,48,64,74

Cattedrale, 80

Causaria, abbazia presso Torre dei Passeri, 18

Cavalcata di Santa Maria, 64

Cecco Bianchi, fermano, 91

Celestino III, papa, 31,33

Cerqueto, 35

Cerreto, 75

Cesena, 67

Chienti, fiume, 35,45.52,62

Cicala Andrea, condottiero di truppe imperiali, 45

Cicconi di Carassai, 77

Cingoli, 53,55,59

Civitanova, 23,26,32,34,35,36,52

Civitate sul Fortore, 19

Civitella, 88

Clemente V, 51

Clemente VI, papa, 56

Clemente VII, papa, 71,72

Coccarda circolare gialla, 102

Codice dello Stato pontificio, 61

Codice Longobardo, 8,18,26

Codice Romano, 26

Cola di Amatrice, 100

Cola Pasquali, cittadino fermano, 86

Colle dei Cappuccini, in Ripatransone, 87,90

Colle della Guardia, 97

Colle di Capo di Termine, 90

Colle di Vetreto, 97

Colle S. Savino, 67

Collegi delle Arti, 99

Collegio Capranica di Roma, 92

Colonna Giovanni, cardinale legato pontificio, 37,45

Colonna, famiglia romana, 78

Comitato Camertino, 15

Comitato Fermano, 15

Commercio, 101

Como, 29

Compagnia degli Inglesi, compagnia di ventura, 66

Comuni Lombardi, 44

Comunità ebraica, 102

Concili, 103

Concilio di Basilea, 79

Concilio di Costanza, 76,77

Concilio di Lione, 45

Concilio di Pisa, 75

Concilio Lateranense IV, 103

Concilio Lateranense V, 105

Concilio Romano (VI), 21

Conclave, 78

Confraternita di Santa Maria, 55

Congiura dei Pazzi, 95

Congregazione dell’Abbondanza, 99

Consiglio comunale, 46,52.79,80,83,84,91,100,104,105

Consiglio di Cernita, 99

Consiglio di Stato, 62,63,64

Consiglio Generale, 41,92

Consiglio Speciale, 41

Consolino, coppiere dell’imperatore, 35

Conte di Carrara, 73,74,82

Conte di Fermo, 34,35

Conte Luzio da Bartolomeo di S. Severino, 67

Contea dei vescovi, 44

Contea di Fermo, 34,35,36,37,39,40

Controguerra, 95

Convegno di Mantova, 94

Convento di S. Agostino, 86

Convento di S. Francesco,  in Fermo, 91

Corinaldo, 61

Corradino, nipote di Manfredi, 46

Corrado II, 10,11

Cortenova, località, 44

Cossignano, 40,73

Costantinopoli, 8,20,95

Costanza, 76,77

Costanza, impretatrice, 31,32,43

Costituzioni Egidiane, 61

Crema, 29

Cremona, 85

Cristiani, 103

Cristiano di Magonza, cancelliere, 31

Cristiano di Perugia, 101

Cristiano Won Buk (Federico cancelliere), 29

Crociata. 43,94

Cupra Marittima, 12

Curia del Rettore, 100

Curia Generale, 60

Curia Romana, 36,100

Curia, 60

Cursor, balletto, porta ordini, 42

Dalmazia, 31,83

Dante Alighieri, 51

De Mirto Gregorio, podestà di Ripatransone, 66

Desiderio, abate di Montecassino, 20

Desiderio, re, 8

Diocleziano, 9

Doge di Venezia, 47

Domenico Capranica, cardinale e vescovo di Fermo, 77,78,79,91,92,94

Domenico Necchi, genero di Santoro Puci, 90

Duca di Atri, 85

Duca di Camerino, 73

Duca di Milano, 65,77,79,83,84,85,87

Duca di Spoleto, 12,13

Ducato di Camerino, 76

Ducato di Fermo, 9

Ducato di Spoleto, 7,9,15,37

Ducato Spoletino, 20,35

Duchi di Milano, 82

Ebrei, 80,102,103,104

Effemeridi della città di Fermo, 100

Egidio da Monte Urano, capitano di ventura, 68

Egitto, 43

Enea Silvio Piccolomini, segretario di Domenico Capranica, 79,92

Enrico III, imperatore, 19,20

Enrico IV, imperatore, 20,21

Enrico V, imperatore, 27

Enrico, figlio di Federico II, 43

Enzo, figlio di Federico II, 44,45,46

Eremitani di Sant’Agostino, 48

Errico VI, imperatore, 31

Esarcato di Ravenna, 7

Esino, fiume, 62

Ete, fiume, 99

Eugenio IV, papa, 78,83,84,88,89

Europa, 8,10,44,51

Everardo di Austop, 60

Ezzelino da Romano, signore di Verona, 44

Fabbrica di berretti, 101

Fabbricatori, 99

Fabriano, 59,61,62

Fagnano, 75

Falerona, moglie di Rabennone, 15

Falerone, 40,75,77

Fano, 28,54,61,62,77.88,95

Farfa, 16,18,61

Farfensi, 15,47,48

Farmacisti, 99

Federico Barbarossa, 28,31

Federico da Massa, 40

Federico di Urbino, 95

Federico II, 33,34,39

Federico II, figlio di Costanza imperatrice, 31,35,43,44,46

Federico, cancelliere (Cristiano Won Buk), 29

Fermani, 7,19,44,47,48,52,56,66,71,72,73,76,80,84,85,88,91,92,95,96,97,

Fermano, territorio, 15,17,68

Fermano, vescovo, 19

Fermo, 07,9,12,13,15,17,18,19,2021,23,24,26,27,28,29,31,32,33,34,36,3739,49,41,44,45,46,47,48,

Fermo, 52,53,55, 56,57,59,60,61,62,63,64,65,67,6871,72,73,75,76,77,79,80,83,87,88,89,90,91,92,

Fermo, 95,96,97,99,100,101,102,104,105

Fermo, fratello del Priore di S. Pietro (Vecchio), 54

Fiastra, 67

Fiera di Fermo, 101

Fieschi Sinibaldo, legato pontificio, 45

Filatoio di seta, 101

Fildesmido da Mogliano, vicario abbaziale, 40,45

Filippo II, vescovo di Fermo, 36,37,44

Filippo il Bello di Francia, 51

Filippo Maria Visconti, 82,85

Fiordaliso, 51

Firenze, 24,31,54,67,74,76,82,84,85,88,94,95

Firmiano, 91

Foglia, fiume, 62

Foligno, 59

Fonte Avellana, monastero, 97

Force, località, 45

Forcella, 35

Forlì, 57,59,60,63

Fornaciari, 99

Fossalta, località, 44,46

Fossombrone, 61,62

Fra Giacomo da Monteprandone (S. Giacomo della Marca), 86

Fracassetti, 56

Francavilla, 27,75

Francesco di Matelica, 67

Francesco I di Mogliano, vescovo di Fermo 53,54

Francesco II di Cingoli, vescovo di Fermo, 53

Francesco Piccinino, figlio di Nicolò, 90

Francesco Sforza, 82,83,85,87,88,89,90,91

Franchi, 8,40

Francia, 7,51,94

Frati Minori Francescani, 104

Fraticelli, setta, 55

Friuli, 12

Gaeta, 84

Gaidulfo, vescovo, 18

Galeazzo Maria Sforza, figlio di Francesco, 89

Galeotto Malatesta di Rimini, 56,57,60

Gallura, 45

Garigliano, 16

Garzoni, storico, 79

Geltrude, vedova di Guido di Spoleto, 13

Genova, 72,82,84

Genovesi, 84

Gentile da Mogliano, 56,57,59,60,63,82

Gentile Migliorati, fratello di Ludovico, 78

Gerardo, vescovo di Fermo, 46,52,56

Germania, 34,43

Gerusalemme, 43,48

Ghibellini, 31,43,45,46,47,51,52,53,59,61,73

Giacomo da Cingoli, vescovo di Fermo, 54,55

Giacomo della Marca, 94

Giacomo Piccinino, 95

Giacomo Ranieri di Norcia, vicario di Domenico Capranica, 78

Giacomo, figlio di Ludovico Migliorati, 77

Giambattista Capranica, vescovo di Fermo, 96

Gian Galeazzo Visconti, 82

Gilardino di Giovanni da S. Elpidio, 54

Gilberto, conte, padre di Balignano, 27

Gioisia Acquaviva da Atri, 78,85,95

 Giorgio Albanese, beato, 90

Giorgio da Como, architetto 48

Giorgio da Como, architetto, 29

Giorgio da Roma, 75

Giovannello, fratello di Bonifacio IX, 73

Giovanni Corvino Uniade, governatore dell’Ungheria, 94

Giovanni d’Angio, 95

Giovanni da Capistrano, 94

Giovanni di Penna S. Giovanni, 40

Giovanni Ferri di Ascoli, 100

Giovanni II, figlio di Alberico, 17

Giovanni III de Bertoldis, vescovo di Fermo, 77

Giovanni IV de Firmonibus, vescovo di Fermo, 77

Giovanni Paolo II, papa, 54

Giovanni Vanni, cittadino fermano, 86

Giovanni Visconti da Oleggio, 63,65

Giovanni X, papa, 16

Giovanni XXII, papa, 53,55

Giovanni XXIII, antipapa, 75,76,77

Girfalco, , 44

Girfalco, 60,67,73,74,76,78,80,86,87,91,92

Gisone, turore di Azzone VII d’Este, marche di Ancona, 35

Giubileo, 51,74

Giudei, 80,103

Giudice Generale della Marca, 63

Giudici, 99

Giusti di Filippo, massarius, 41

Golfarango (o Wolfango), vescovo di Fermo, 21

Gomesio, conte di Spanta, 65,66

Gonfaloniere della Chiesa, 83

Governo Centrale, 100

Governo pontificio, 47,73

Governo regionale, 100

Gozzolino, tiranno di Osimo, 56

Gregorio di Catino, 16

Gregorio IX, papa, 36,39,43,44

Gregorio Magno, papa, 23

Gregorio VII, papa, 20,21

Gregorio X, papa, 47,67,71.72

Gregorio XII, papa, 75,76

Grimaldo, vescovo di Fermo, 27

Grottammare, 63,101

Gualdo, 83

Gualterio, figlio di Aimone, 15

Guarnerio, marchese di Ancona, 29

Guarnerio, marchese figlio di Guarnerio,28

Guarnerio, marchese,27

Guelfi, 45,46,47,51,53,56,59,61,73

Guerriero, fuoruscito di Ascoli, 85

Guglielmo da Massa, 35,40

Guglielmo da Massa, figlio di Guglielmo, 56

Guglielmo da Massa, padre di Gerardo vescovo di Fermo, 46

Guglielmo da Massa, padre di Guglielmo, 56

Guglielmo di Brienne, re di Gerusalemme, 48

Guido da Landriano, podestà, 41

Guido di Spoleto, 13

Halley, cometa, 94

Ildebrando, duca di Spoleto, 15,20

Ilderico di Causaria, 18

Imperatore di Costantinopoli, 20

Imperatore Spoletino, 15

Imperatore Tedesco, 15

Ingealdo, abate, 15

Innocenzo II, papa, 27

Innocenzo III, papa, 33,34,43,44

Innocenzo VI, papa, 59

Innocenzo VII, papa, 74,75

Innocenzo VIII, papa, 96

Ismeduccio, signore di San Severino, 59

Italia Settentrionale, 7

Italia, 17,28,43,51.53,56,82,94,96

Jacopone da Todi, 74

Jesi, 36,59,61,62,87,95

Judex, paragonabili al nostro segretario comunale, 42

Ladislao, re di Napoli, 74

Lamberto, figlio di Guido di Spoleto, 12,13

Lazio, 7

Lega Fiorentina, 67,75

Legato della Marca, 90

Legato Pontificio di Ancona, 35,95,97

Legnano, 28

Leonardo de Fisiciis, vescovo di Fermo, 75

Leone di Arciprando, 18

Leone III, 7

Leone IX, papa, 19,20

Leonessa, 104

Liberto, vescovo di Fermo, 27

Lione, 45

Liutprando, re longobardo, 18

Lodi, 94

Lomo, signore di Jesi, 59

Longino di Ottone, 16

Longobardi, 7,12,23

Loro, 40,77

Lotario II di Sassonia, imperatore, 27

Lotario, imperatore, 12,15

Luca di Canale, 73

Luchina, moglie di Rinaldo da Monteverde, 67,68

Luchino, figlio di Rinaldo da Monteverde, 67,68

Ludovico di Antonio, podestà, 73

Ludovico il Bavaro, 52,53

Ludovico Migliorati, 76,77,78,79,82

Luigi il Pio, imperatore, 12

Luigi XI, re di Francia, 94

Lupo Ruggero, podestà di Fermo, ghibellino, 47

Lupo, duca di Fermo, 9

Macelli, 75

Macerata, 2326,32,34,35,36,37,45,51,52,59,60,62,73,83

Madonna della Misericordia, 74

Mainardi, signori, 40

Malatesta, signore di Rimini, 59,76

Manfredi, 46,47

Mantova, 94

Maometto II, 94,96

Marano, 35,63

Marca Anconetana, 34

Marca di Ancona, 34,35,37,45

Marca Fermana, 1619,20,34

Marca, 101

Marca, 17,27,29,31,33,34,35,51,52,59,60,61,62,6373,75,83,90.96

Marche, 18,29,46,47,48,51,60,61,62,63,66,67,74,82,83,84,86,95

Marchese di Ancona, 27,31,34,35

Marchese di Este (Azzone VI), 34

Marchigiani, 73,86

Marciari Nicola, vescovo di Fermo, 71

Marcoaldo di Anninuccia, 31

Marcoaldo di Anweller, 31

Marcoaldo, marchese, 32,33

Mare Adriatico, 47

Marino Marinelli da S. Vittoria in Matenano, 73,74

Marinuccio Mostacci da Offida, 78

Martello Marco, riformatore degli statuti di Fermo, 41

Martino V (Ottone Colonna), papa, 76,77,78

Massa, 35,40,46,56,59,66,67,73,75,77

Massarius = Sindicus, 42

Massignano, 40

Masso di Tommaso da Montolmo, podestà, 54

Matelica, 61,67

Mattei Matteo, cavaliere fermano, 55,56

Matteo da Fano, 54

Matteo II, abate farfense, 45

Mauro, presbitero fermano, 15

Medici, 99

Medio Oriente, 43,90

Mediterraneo, 83

Melfi, 20

Mercanti, 99

Mercenario da Monteverde, 52,53,54,56,59,66,82

Mercenario, figlio di Rinaldo da Monteverde, 68

Migliorati Ludovico, 74,75

Milano, 28,29,65,77,82,83,85,87,91,94

Modena, 39

Mogliano, 40,53,56,75,77,82

Molucci, signori di Macerata, 59

Monaldo di Penna S. Giovanni, 40

Mondavio, 61

Monsammartino, 47

Monsampietrangeli, 52,95,96,97

Monsampietro Morico, 75

Montappone, 75

Monte di Pietà, 103,104,105

Monte Fiore, 61

Monte Leone, 75

Monte Matenano, 15

Monte Milone (Pollenza), 83

Monte Rubbiano, 52,53

Monte S. Giusto, 73,96

Monte S. Maria in Georgio, 37

Monte Santo (oggi Potenza Picena), 27,36,37

Monte Soratte, 79

Monte Urano, 73,75,89

Monte Varmine, 55

Monte Varmine, 56

Monte Vidon Combatte, 75

Monte Vidon Corrado, 40,74,75

Montecassino, 20

Montecchio (oggi Treia), 46,76,83

Montecosaro, 28,35,76,

Montefalcone, 45

Montefalcone, 47,67

Montefeltro, 17,59,62

Montefortino, 86

Montegallo, 104

Montegiorgio, 36,40,67,73,75,89,96

Montegiorgio, 40

Montegranaro, 35,76,89

Monteleone, 15

Montelparo, 15

Montelupone, 36,37

Monteluro (Pesaro), 88,89

Monterinaldo, 15

Monterubbiano, 36,37,61

Montesampietrangeli, 48,75.89

Monteverde, 40,52,53,54,59,65,66,67,68,71,72,73,75,82,89

Montolmo, 35,36,37,54,55,75,83,90

Montottone, 35,52,72,73,75

Moregnano, 89

Morrovalle, 28,34,35,36,37,76

Mugnai, 99

Mulattieri, 99

Napoli, 74,75,84,88,89,91,94,95,101

Napoli, 74

Negroponte, 96

Niccolò Fortebraccio, capitano, 83

Niccolò V, antipapa (Pietro di Corbara)

Nicola De Merciariis, vescovo di Ripatransone, 66

Nicolò II, papa, 20

Nicolò Maurizi da Tolentino, condottiero, 83

Nicolò Piccinino, condottiero, 87

Nicolò V, papa, 94

Nolfo, signore di Montefeltro, 59

Norcia, 78,97

Norcini, 97

Normanni, 19,20,27

Notai, 99

Notaio dei danni, messo comunale, esattore di multe, 42

Numana, 61

Offida, 16,23,33.61,78,91

Offoni, signori, 40

Olderico, vescovo di Fermo, 19,21

Oleggio, 63

Onorio III, papa, 34,35,36,43,44

Onorio IV, papa, 46,48

Oratorio di Santa Maria della Carità, 55

Orciano, 61

Ordelaffi Francesco di Forlì, 63

Ordelaffi, signore di Forlì, 57,59,60

Ordine Francescano, 104

Ordini Maggiori, 71

Ordini Minori, 71

Orefici, 99

Oriente, 43

Ortezzano, 15,75

Ortezzano, 75

Osimo, 7,45,52,56,61,62,96

Ospedale di Fermo, 55

Ospedale di Santa Maria della Carità, 55

Osti, 99

Otranto, 96

Otto Mazarino Bonterzi da S. Vittoria in Matenano, 73

Ottone Colonna (papa Martino V), 76

Ottone I di Brunsvik, 17

Ottone II, figlio di Ottone I, 17

Ottone IV di Brunswik, imperatore, 34,44,45

Ottone, padre di Longino, 16

Paccaroni, famiglia fermana, 48

Palazzo di Giustizia, 103

Palazzo Municipale di Fermo, 48

Pandolfo Malatesta di Pesaro, padre di Taddea, 77

Pandolfo, legato pontificio, 35,36,39

Pangione, signore di Cingoli, 59

Paolo II, papa, 95

Parlamento Generale, 42,83

Parma, 44,46

Parto della B. Vergine, quadro, 88

Pasquale I, papa, 12

Passivo, vescovo di Fermo, 23

Patria, 84

Patriarca di Aquileia, 35

Paulo, 91

Pavia, 17,18,28

Pellicciari, 99

Pencirvalle di Oria, condottiero, 46

Penisola, 82,90

Penna San Giovanni, 40,45,47,61

Penne, località, 18

Pentapoli, 7

Perugia, 47,73,101,104

Pesaro, 61,62,77,91

Pescara, 7,12

Pescatori, 99

Petriolo, 40,76,77

Petritoli, 75

Petritoli, 85,86,89

Petro, 91

Petrocco da Massa Fermana, 59

Piagge, 61

Piazza S. Martino, 68,74,85,88,92,103

Piccinino, 91

Piceno, 12,15,16,45

Pieca, castello, 40

Pier Damiani,19

Pietro Bini, vescovo di Fermo, 102

Pietro di Corbara (Nicolò V antipapa), 53Pietro I, vescovo di Fermo, 21

Pietro IV, vescovo di Fermo, 34,35

Pietro, abate, 15

Pio II, papa, 92,94,95

Pipino, re, 7

Pirenei, 8

Pisa, 75

Podestà, giusperito normalmente forestiero, 42

Poggio S. Giuliano (poi Macerata), 26

Polverigi, 33

Pontida, 28

Porchia, 73

Porta di Cupra (Cupetta), 90

Porta S. Giuliano, 68,73,77,83,86

Porta San Pietro Vecchio, 54

Portieri, addetti alle porte del castello, 42

Potenza Picena, 32,35

Potenza,fiume, 34,39,44,45,47

Presbitero, vescovo di Fermo, 31

Presbitero, vescovodi Fermo, 33

Presidato Camerinese, 61

Presidato dell’Abbadia di Farfa, 61

Presidato di Camerino, 62

Presidato di S. Lorenzo in Campo, 61

Presidato di S. Lorenzo in Campo, 62

Presidato di S. Vittoria, 45,91

Presidato Farfense di S. Vittoria, 62

Presidato Farfense, 45,61,89

Presidato, , 51

Principato di Fermo, 90

Priori, uno per ogni contrada, 41

Procuratori, 99

Puglia, 19,20,86

Quercy, 7

Rabennone, conte di Fermo, 15

Rabennone, conte di Fermo, 9

Rainaldo di Monaldo, vescovo di Fermo, 35,36

Rainaldo, vescovo di Fermo, 36,39

Rangone Guglielmo da Modena, 39

Raniero Zeno, doge di Venezia, 47

Raterio, nipote di Re Ugo di Borgogna, 16

Ratfredo, abate di Farfa, 16

Ravenna, 7,78

Re d’Italia, 17

Re di Gallura, 45

Re di Germania, 43

Re di Napoli, 75

Re di Sicilia, 34

Re Ferdinando, 95

Recanati, 52,59,60,61,62.83,88

Reginaldo, console di Fermo, 24

Regno d’Italia, 7,12

Regno di Napoli, 84,95,101

Regno di Sicilia, 34,43,46

Regno Franco, 7

Regno Italico, 16

Regno Longobardo, 7

Regno, 61

Reliquia della Sacra Spina, 67

Repubblica di Firenze, 74

Repubblica di Venezia, 47

Rettore della Marca, 62,73,74,83

Rettore di Ancona, 61

Rettore Pontificio, 61

Rieti, 15

Rimini, 31,56,59,74,95,

Rimone, prete, 16

Rinaldo da Monteverde, 65,66,67,68,71,72

Rinaldo da Petriolo, 40

Rinaldo di Acquaviva. Condottiero, 45

Rinaldo di Loro, 40

Rinaldo di Monteverde, 40,73

Rinaldo di Urslingen, duca di Spoleto, 39,41,43

Ripa, 79

Ripani, 87,96

Ripatransone, 23,32,35,40,47,52,71,66,79,8387,88,90,95,96,07

Roberto da Castiglione, vicario imperiale, 45,46

Roberto di Ginevra, 71

Roberto Guiscardo, 20

Rodolfo da Camerino, 67

Rodolfo Varano da Camerino, 59,60,67,76

Rolando, legato pontificio, 36

Roma, 7,15,17,20,21,51,53,59,67,71,75,78,85,91,

Romagna, 51,59,95

Romani, 12

Ruggero, figlio di Gentile da Mogliano, 63

S. Abundi, curtis, 15

S. Agostino, chiesa di Ripatransone, 88

S. Agostino, chiesa, 48,67,80

S. Agostino, torre campanaria, 56

S. Angelo in Piano (Carassai), 101

S. Angelo in Pontano, 73,83,101

S. Angelo in Trifonso, chiesa, 79

S. Barnaba, 67

S. Bartolomeo, 67,68,103

S. Benedetto in Albula, 47,48,96,97

S. Caterina da Siena, 67,71

S. Caterina, chiesa, 48

S. Claudio al Chienti, 101

S. Domenico, chiesa, 48,80

S. Domenico, predicatore, 48

S. Elpidio Morico, 75

S. Elpidio, 34,35,36,37,52,55,66,67

S. Francesco, 54

S. Francesco, chiesa di Fermo, 48,80,88

S. Germano, località, 43

S. Giacomo della Marca, 86,90

S. Ginesio, 8,83,85

S. Giusto, 35,76

S. Lorenzo in Campo, 61,62

S. Lucia, chiesa di Fermo, 64

S. Lucia, chiesa di Fermo, 88

S. Marco alle Paludi, 47

S. Marco, pieve, (oggi Servigliano), 23

S. Maria dell’umiltà, chiesa di Fermo, 85

S. Maria della Fede, 87

S. Maria Maddalena, chiesa di Ripatransone 87

S. Maria, chiesa di Fermo, 92

S. Marina, monastero, 15

S. Martino, 76

S. Martino, chiesa di Fermo, 86

S. Paterniano, chiesa, 28

S. Pietro (Vecchio), chiesa di Fermo, 54

S. Pietro, 7

S. Pietro, monastero, 48

S. Severino, 57,59,61,67,76,100

S. Silvestro, monastero, 15

S. Vincenzo Ferreri, 71

S. Vittoria in Matenano, 16,23,44,45,57,51,59,61,62,67,72,73,89,90,91

S. Vittoria, 15

S.Ginesio, 40

Sabina, regione, 66

Sacro Romano Impero, 7,8,9,10,17,51

Salirone, 16,17

Salutati, segretario fiorentino, 67

Santa Maria, confraternita, 55

Santa Prisca, 89,90

Santa Sede, 7,19,31,32,37,46,47,51,52,53,59,60,63,67,95

Santoro Puci, condottiero riparano, 87,88,90

Saraceni, 15,16,44

Sardegna, 83

Sarnano, 40

Sarnano, 61,87

Sartori, 99

Sassonia, 27

Scalpellini, 99

Schiavonia, 86

Scisma d’Occidente, 71,74,76

Sculcula (oggi Porto d’Ascoli), 47,56

Sede Apostolica, 41

Sellari, 99

Senigallia, 61,62

Serravalle, 85

Servigliano, 23

Settimana Santa, 103

Shabat, pirata, 12

Sibillini, 99

Sicilia, 31,32,34,83

Siena, 67,71

Sigismondo di Lussemburgo, imperatore, 76

Sigismondo Malatesta di Rimini, 91.95

Simone da Camerino, frate agostiniano, 80,94,102

Sindicus = Massarius, 41

Sisto IV, papa, 95,101

Spagna, 8,94

Spanta, 65,66

Spoletani, 16

Spoletini, 19

Spoleto, 7,9,15,29,39,43

Stato della Chiesa, 82,83

Stato Fermano, 75,83,99

Stato Feudale Farfense, 16

Stato Pontificio, 59,72,82,83,99

Stato Spagnolo di Castglia, 94

Stato Spagnolo di Leon, 94

Statuti, 100

Sulmona, 74,75

Sultano d’Egitto, 43

Taddea, seconda moglie di Ludovico Migliorati, 77,78

Tancredi, 31

Tanursi, storico, 79

Tenna, fiume, 47,61,67,90,99,101

Teramo, 85,104

Terra Santa, 24,74

Tesoriere della Marca, 62

Thener, 61

Todi, 74

Tolentino, 61,83,86

Torchiaro, 75

Torchiaro, 89

Torre di Palme, 101

Torre Matteucci, 48

Torre S. Patrizio, 40,75

Toscana, 7,83,84

Trasfigurazione, festa, 94

Trasone, 18

Trattato di San Germano, 43

Treia, 45

Trento, 28

Tribunale Superiore della Regione, 62

Trombecta, banditore, 42

Tronto, fiume, 20,34,39,44,47

Truento, 12

Turchi, 55,71,87,90,94,96

Turcomanni, 8

Uberto, conte di Fermo, 21

Uberto, vescovo, 18

Uberto, vescovo, 19

Ugo di Monte Vidon Corrado, 40

Ugo II, vescovo di Fermo, 34,35,39

Ugo, abate, 15

Ugo, re di Borgogna, 16

Ugo, re di Borgogna, 16,17

Ugo, re di Borgogna, 17

Ulcandinus (Ugo Candido), 23

Umbria, 7

Ungheria, 94

Università di Fermo, 12,91

Urbano VI, papa, 71

Urbano, VI, papa, 72

Urbino, 61,62,95

Urbisaglia, 40

Val Tesino, 79

Valle del Garigliano, 16

Valle del Tenna, 47

Valle del Tronto, 47

Valle della Cupetta, 90

Valle Padana, 82

Vanni Andreoli di Fermo, 75

Varano Bernardo da Camerino,, 52

Veneto, 82

Venezia, 29,31,37,46,47,67,82,83,84,85,87,88,94

Veneziani, 96

Verona, 15,16,44

Vetreto, 97

Vicario del Papa nelle Marche, 91

Vicario di Cristo, 51

Vicario nella Marca, 83

Vicedelegato della Marca, 96

Villa Firmana, 53

Vipera Antonio, progettista della chiesa di San Francesco, 48

Visconti, 66,67,84

Vitelleschi vescovo di Macerata e Recanati, 83

Vittore IV, antipapa, 28

Wolfango (o Volfarango), vescovo di Fermo, 21

Zambocco di Napoli, capitano, 74

-oo0oo-

GIUSEPPE MICHETTI

ASPETTI MEDIEVALI DI FERMO

~dal dominio dei Franchi alla fine del medio evo~

volume secondo

FERMO – EDIZIONE LA RAPIDA – 1981

Ti voglio presentare questo secondo libro di storia fermana con qualche giudizio autorevole riguardante il primo: « Fermo nella letteratura latina”. Fra i tanti attestati di simpatia i più significativi sono i seguenti:

1° – « Si tratta in verità di una preziosa ricerca che al pregio di una documentazione minuziosa, unisce quello di una narrazione avvincente, impreziosita da intuizioni originali e da argute considerazioni “.

2° – « La tua è una ricerca sui documenti letterari, ampia e gioiosa, almeno per quanto riguarda l’epoca romana “.

3° – « La grande mole di notizie di fatti svoltisi nella terra che abitiamo, lo stile sobrio; le osservazioni acute rendono il libro non solo interessante, ma prezioso “.

Voglio anche fornirti una testimonianza negativa. Un amico studioso illustre, un giorno che stavo consultando un « tomo “ del Muratori, mi ha affrontato con brutto cipiglio e mi ha detto testualmente: « Ma lascia andare questi libri vecchi. Il tuo libro non mi piace affatto. La storia non è per te; cambia mestiere “.

Caro amico, sono troppo vecchio per cambiar mestiere. Però le tue parole non mi offendono, perché non ho mai preteso che i miei libri piacessero a tutti.

E tu, lettore? Leggi questo secondo libro di storia fermana poi aggiungerai il tuo parere e mi dirai se è proprio un libro inutile.

Intanto ti saluto

                                                                                                       D. Giuseppe Michetti

                                                                 Chi vive la storia deve sforzarsi

                                                         di far rivivere i sentimenti

                                                              e le passioni dei tempi andati.

                                                                                         (A. Gabelli)

                                                                                                                AL LETTORE

   Per un libro di storia come questo del Prof. D. Giuseppe Michetti di una introduzione non ci sarebbe bisogno.

    In esso niente parole grosse, fumose o superflue: tutto è vivo, schietto, parlato. Perché il linguaggio di Michetti rispecchia il suo carattere: semplice, lineare, tutte cose; egli racconta le vicende con discorso familiare, franco, pulito. Leggendo questo libro ci pare di essere usciti fuori dagli inquinamenti e ammorbamenti cittadini e di respirare quell’aria ossigenata, limpida, fresca della campagna e del poggio di Rocca Monte Varmine, ove Michetti vive e lavora.

   Infatti egli non è alle prime armi per quanto riguarda il suo interesse per la storia locale. Ha dato alle stampe, “In attesa che sia pubblicata la storia più voluminosa e particolareggiata”, un volumetto su S. VITTORIA IN MATENANO (tip. La Rapida di Fermo, 1969); una breve memoria su”ROCCA MONTE VARMINE (tip. La Rapida di Fermo, 1980) che però è una revisione del primo opuscolo pubblicato con lo pseudonimo “Sibillino” (edizioni Paoline – Pescara): “DAL FEUDALESIMO AL GOVERNO COMUNALE NEL PICENO” (tip. La Rapida di Fermo, 1973); “UGO di FARFA” La Destrucio” – traduzione e note – 1980).

   Il primo volume già pubblicato di questa storia di Fermo (G. Michetti – Fermo nella letteratura latina – La Rapida, 1980) reca la dedica: “A tutti i miei scolari mai dimenticati”, con la quale l’autore dichiara apertamente il suo intento.

   Con l’impegno responsabile e vivo senso delle difficoltà egli si appresta a contribuire ad aiutare il lettore a conoscere e a riflettere: a conoscere la storia quanto mai interessante di una antica importante città, quale è Fermo; a riflettere sulle vicende e sui fatti umani che sono sì quelli di ogni tempo, ma che assumono aspetti, modi, colori particolari in ogni epoca storica e che vanno valutati appunto in relazione  ad essa. Con logiche deduzioni e lepide notazioni Michetti “invera il certo”, secondo l’espressione vichiana, promuovendo quei valori che sono patrimonio della società e danno un senso alla vita. L’autore sfronda le intricate vicende, presentandoci nudi fatti, ma non tralascia i suoi bravi e brevi commenti, che sono poi anche quelli del lettore, ben sapendo col Manzoni, che la storia da sola senza immaginazione dice troppo poco, perciò occorre sollecitarla per coglierne i valori eterni e i richiami incisi nella nostra società.

   Il Michetti narra con vigile partecipazione le vicende della città nel periodo medievale, avvertendo che cosa ardua scrivere nella storia, per la quale non bastano affetto, cultura locale. Così ha intrapreso ricerche e indagini sul municipio romano, compulsando archivi e fonti letterarie; e in questo secondo volume rammenta e tiene sempre presente il principio di non scrivere nulla che non sia documentato.

   Ciò non vuol dire che non vi debbano essere altri studiosi che apportino contributi nuovi, più copiosi e larghi, perché la storia di Fermo nel Medioevo non è soltanto la storia di una città, ma ha richiami e implicanze molto più vaste del semplice ambito cittadino e della Marca Fermana, cosicché chi legge finisce per avere davanti a sé l’illuminante profilo della società italiana dei secoli tumultuosi che prepararono le trasformazioni dell’epoca moderna. Opportunamente il Michetti intitola il volume: “Aspetti medievali di Fermo”.

   La lettura di questo secondo lavoro ci rende impazienti e ci fa più pungente il desiderio di leggere il seguito del racconto chiaro, pacato e allusivo che concluderà l’operosa fatica di D. Giuseppe Michetti nell’itinerario storico della città di Fermo fino all’inizio del nostro secolo.

                                                                                                   Prof. Mario Retrosi

INDICE

CAPITOLO I

pag.      7           L’unità europea

“             8         Organizzazione politica di Fermo sotto i Carolingi

“             10         II feudalesimo

“             1o         Vita agricola nel sistema feudale

“             12         Lotario imperatore e l’università di Fermo

CAPITOLO II

“             15         I monaci farfensi nel fermano

“             16         La battaglia del Garigliano

“             17         Fermo sotto gli imperatori tedeschi

“             17         I Vescovi di Fermo nel secolo X

“             19         I normanni a Fermo

CAPITOLO III

“             23         I Vescovi di Fermo preparano i Comuni

“             24         II Comune

“             25         Indole del Comune Fermano

“             27         Difficoltà per Fermo nel sec. XII

“             28         Distruzione di Fermo

CAPITOLO IV

“             31         Fermo alla fine del sec. XII

“             32        Organizzazione politica del fermano nel sec. XIII

“             33         La contea del Vescovo di Fermo

“             34         Ugo II e Pietro IV

“             35         Rainaldo (1223-1227)

CAPITOLO V

“             39         Fermo e Federico II – Fermo capitale della Contea

“             39         Resistenza a Rinaldo di Urslingen Duca di Spoleto

“             41         Organizzazione  comunale

“             43         Federico II e la guerra del 1240

“             44         Fine della Contea dei Vescovi

“             46         Fermo e Re Manfredi

“             48        Sviluppo edilizio a Fermo nel secolo XIII

            CAPITOLO VI

 “         51     Fermo nella prima metà del sec. XIV

“          52     Mercenario da  Monteverde

“          54     Giacomo Vescovo e Principe di Fermo

“          55     Confraternita di S. Maria

“          56     Gentile da Mogliano

CAPITOLO VII

“           59      Fermo nella seconda metà del sec. XIV – Il Card. Albornoz

“           59      Prima missione del Card, nella Marca

“           61      Costituzioni Egidiane

“           63      Seconda missione del Card. Albornoz nelle Marche

“           63      Fermo dopo il Card. Albornoz     

“           65      Rinaldo da Monteverde

 CAPITOLO VIII

“         71      Fermo e lo scisma d’occidente dal 1380 al 1433

“         71      Antonio de Vetulis

“         74      Dal 1400 al 1417

“         76      Fermo e Martino V

“         79      Dopo Ludovico Migliorati

CAPITOLO IX

“        82       Francesco Sforza a Fermo – La Signoria

“        82       La signoria di Francesco Sforza

“        85       Opere pubbliche – La grande carestia del 1440

“        87       Sollevazione a Ripatransone

“        89       Saccheggio di Torchiaro e Moregnano

“        89       La battaglia di Santa Prisca

“        90       Fine della dominazione Sforzesca

“        92       Restaurazione

CAPITOLO X

“        94       II pericolo turco

“        95       Fermo e Pio II

“        96      Guerra per Monsapietrangeli

“         97      La battaglia di Vetreto

CAPITOLO XI

“         99      Attività economica di Fermo nei secoli XV e XVI

“          99     Agricoltura

“         100    Artigianato

“         101    Commercio

“         101    La fiera di Fermo

“         102    La comunità ebraica a Fermo

“         103    II Monte di Pietà

CAPITOLO I

I Longobardi nel Fermano si erano romanizzati più presto che in tante altre zone; la fusione tra l’elemento romano e il longobardo, dopo due secoli era completa, anche se fino al secolo XI molti signori ritenevano titolo onorifico dirsi «Longobardi“, come si può rilevare da alcuni documenti1. Da ciò possiamo argomentare che i Fermani sicuramente non festeggiarono la caduta del Regno Longobardo e l’avvento del Regno Franco.

      Difatti Fermo, Osimo, Ancona, anche per evitare la dominazione franca, si affrettarono a offrire al Papa il loro territorio. Mandarono ambasciatori ad Adriano, per giurare fedeltà al Vicario di S. Pietro, ed egli, in segno di accettazione, tagliò loro un ciuffo di capelli, secondo l’uso romano 2.

Alla caduta del Regno Longobardo, sarebbe dovuto andare in vigore il Patto di Quiercy del 754, col quale Re Pipino assicurava al Papa il possesso di tutta l’Italia Peninsulare3; ma esso non ebbe mai esecuzione, forse perché il cattolicissimo Carlo Magno era anche un grande politico e capiva che affidare al Papa un regno così grande significava vanificare in breve la sua conquista ed esporre l’Italia a grandi disordini, o al pericolo di invasioni esterne, per l’innata debolezza militare della S. Sede; e della plebiscitaria decisione delle città picene non si tenne conto.

Difatti, dopo pochi anni, nel 781, Carlo Magno credette bene dare all’Italia una diversa sistemazione: rinunciando al titolo di Re dei Longobardi, istituì il Regno d’Italia, investendone il figlio Pipino.

Questo regno comprendeva tutta l’Italia Settentrionale, la Toscana e il Ducato di Spoleto che sul versante Adriatico si estendeva fino al Pescara; restava al Papa il Lazio, una piccola parte dell’Umbria, l’Esarcato di Ravenna e le due Pentapoli4. Fermo seguitò ad essere considerata parte del Ducato di Spoleto e come tale fu trattata dai Duchi e dai Re carolingi.

Nel 799, si dimostrò quanto fosse errato il Patto di Quiercy, poiché Papa Leone III (795 -816) dovette fuggire in Francia, per una agitazione popolare provocata dai Signori laziali.

L’UNITA’ EUROPEA

     Verso la fine dell’anno 800, Carlo Magno riaccompagnò papa Leone III a Roma e, nella festa di Natale, fu consacrato da lui « Imperatore del Sacro Romano Impero “.

     In questo Impero “Sacro e Romano“, come il Papa era capo universale della Religione, così l’Imperatore sarebbe stato capo universale di tutte le nazioni cristiane, col compito di guidarle e di difendere il Papa e la Chiesa.

Bisogna valutare bene la portata di questo avvenimento, per poter comprendere nel loro giusto valore i fatti che la storia del Medioevo ci presenta.

     L’istituzione del Sacro Romano Impero non è un regalo che Leone III fa a Carlo Magno, per ringraziamento di averlo riaccompagnato a Roma e consolidato il suo seggio papale.

     Leone III è il genio politico che, insieme a Carlo Magno, dà inizio a una istituzione che dovrà essere la salvezza del mondo Romano – Cristiano,-allora in gravissimo pericolo.

     Il mondo Romano non poteva fare affidamento sugli Imperatori di Costantinopoli, imbelli, fautori di scismi, che odiavano i Romani e il Papa, e perdevano continuamente terreno di fronte agli Arabi e ai Turcomanni che premevano da Oriente. Soprattutto gli Arabi erano un pericolo mortale per la civiltà cristiana.

    Essi non erano come i popoli barbari del Nord, che venivano in cerca di terra e anche di civiltà; ma erano feroci invasori, potenti e organizzati, che si proponevano di annientare la civiltà cristiana e imporre la loro, essenzialmente diversa. La loro espansione sembrava inarrestabile.

     Già avevano occupato tutta l’Africa mediterranea e la Spagna fino ai Pirenei, a stento contenuti a prezzo di sanguinose battaglie da Carlo Martello prima, poi da Carlo Magno.

     Era in atto uno scontro mortale tra due grandi civiltà: la civiltà cristiana e quella islamica.

     Il Sacro Romano Impero aveva lo scopo di estendere il cristianesimo tra le popolazioni germaniche e slave; riunirle sotto una unica guida, l’Imperatore, per salvarle dal tremendo pericolo islamico.

     Il sacro Romano impero è il primo tentativo di Unità Europea: Unità che si ripete oggi, dopo più di un millennio, in condizioni similari, anche se i protagonisti non lo avvertono.

     Questa Europa unita, travagliata attraverso i secoli di mezzo da mille

discordie, ma costretta, nonostante tutto, a restare unita, per opera dei Romani pontefici, salvò la civiltà cristiana e la fece trionfare nel mondo.

     Sotto questa luce bisogna guardare il rito di Natale dell’800; e allora ci accorgeremo che molti Imperatori non compresero la loro missione europea, e ritennero il titolo come un ornamento personale, da sfruttare a proprio vantaggio; che le scomuniche di alcuni Papi contro imperatori regnanti hanno un valore diverso da quello attribuito loro da scrittori cosiddetti laici5.

ORGANIZZAZIONE POLITICA DI FERMO

SOTTO I CAROLINGI

     I Carolingi non portarono in Italia mutamenti sostanziali, che nel progresso civile e nell’arte di governare, i Franchi non erano molto superiori ai Longobardi.

     Carlo Magno, deposto il Re Desiderio, si proclamò Re dei Longobardi, finirono quindi Re Longobardi, ma restarono molti Duchi, che si erano amicati i Franchi; seguitarono i grossi signori terrieri longobardi e restò il Codice Longobardo, poiché Carlo Magno lasciava a ogni nazione conquistata le proprie leggi.

   Specialmente nel Ducato di Spoleto, se nell’organizzazione politica qualche cambiamento, esso fu insignificante.

   I “Comitatus” c’erano prima dei carolingi, e restarono anche per secoli; i Conti nelle “civitates”c’erano prima  e restarono, finché non cedettero il loro ufficio ai Podestà Comunali (per il fermano nei secoli XII e XIII).

     Alla caduta del Regno Longobardo, finì il Ducato di Fermo, e la città fu governata da un Conte, alle dipendenze del Duca di Spoleto.

     Nel 776, difatti era conte di Fermo un certo Lupo6.

     Nelle 778, c’era un Conte a Fermo che si chiamava Rabennone; e c’era un Conte a Spoleto7.

     Il fatto che perfino nella città del duca c’era un Conte dimostra che esso era un ufficio del Duca; un incaricato a governare e ad amministrare la giustizia in nome del sovrano.

     Anche il Conte di Fermo quindi era un funzionario che reggeva il territorio fermano temporaneamente, a disposizione del Duca Spoletino.

     E anche se non abbiamo documenti che ci parlino della organizzazione civica di quei tempi, possiamo essere certi che il Conte non era il padrone della città, non era un despota; ma accanto a lui c’erano altre autorità che collaboravano nel governo di essa.

      Autorità fosse anche eletti dal popolo, che curavano l’andamento civile; mentre al conte era riservata la responsabilità di controllare; l’amministrazione della giustizia; la polizia e le forze armate.

     Affermo questo, perché la sapiente organizzazione romana non poteva sparire con le invasioni barbariche; subirono mutamenti anche deterioramenti nei vari periodi, ma fu nella sostanza mantenuta: la civiltà prevale sempre sulla barbarie.

     Forse durante il secolo IX, si tentò di ricostruire il Ducato di Fermo.

     Ciro suggerisce un diploma di Berengario II8 come altri documenti ci fanno pensare a un Conte di Fermo, alla fine del secolo, con autorità pari a quella del Duca9.

   Nelle campagne, i signori longobardi seguitarono a vivere nei loro castelli e a coltivare le terre, per mezzo di affittuari e servi della gleba: metodo che poi si chiamò “feudale”, che non era stata una loro invenzione, ma istituito almeno cinque  secoli prima e codificato da Diocleziano.

     Questo metodo che oggi possiamo giudicare disumano, perché oppressivo e lesivo della dignità dell’uomo, non impediva che i signori longobardi si convertissero al Cattolicesimo e si sentissero buoni cristiani.

   Semmai qualche scrupolo venisse a turbare la loro coscienza, potevano sempre porci rimedio prima della morte, col destinare parte o tutta la loro possidenza a qualche monastero, o a qualche vescovado; i quali poi seguitavano a condurre l’agricoltura con lo stesso metodo, perché ancora non se ne era inventato un altro.

      Le nuove invenzioni, in certi campi, sono sempre molto difficili!

IL FEUDALESIMO

      Se volessimo tradurre la parola “Feudalesimo”   in una più comprensibile, dovremmo dire: “affittanza”; quindi “feudo” significa “affitto”; feudatario significa “fittavolo”.

     In quale senso?

     Con la istituzione del Sacro Romano Impero (Natale ‘800) si tentava l’organizzazione dell’Europa nell’unità; Unità religiosa che già esisteva, almeno di diritto, nel governo della Romano Pontefice; Unità politica, sul modello della prima rendendo tutti i potentati europei tributari di un solo capo: l’Imperatore. In altre parole: come il mondo religioso dipendeva da un solo capo, il Papa; così il mondo politico avrebbe dovuto essere diretto dal supremo governo dell’Imperatore.

     Questi, ricevendo il potere da Dio, avrebbe dovuto estendere la sua autorità su tutto, come padrone assoluto. Regni, Ducati, Marchesati, Badie, Vescovadi avrebbero dovuto considerarsi come dati in feudo = affitto dall’Imperatore, e i loro padroni considerati legittimi, solo se riconosciuti da lui.

     Questi grossi signori, che si chiamavano “Feudatari”, pagavano all’Imperatore l’affitto o tributo e disponevano del loro feudo liberamente, sempre alle dipendenze dell’Imperatore; e subaffittato ad altri signori più piccoli, che si chiamavano “Valvassori”,  o  “feudatari minori”, le varie parti del loro feudo.

     In teoria, si dava col Sacro Romano Impero una gerarchia al potere:

l’Imperatore, arbitro di tutto; dipendenti direttamente da lui i “Feudatari” (re, duchi, vescovi, abati); dipendenti da feudatari i “valvassori o feudatari minori”10.

Se nella realtà non sempre questa organizzazione raggiunse lo scopo voluto, fu perché all’Imperatore mancò la forza sufficiente per imporre la sua volontà.

     Le due difficoltà, che non furono mai risolte, riguardavano il Papa e i Vescovi; il Papa aveva un dominio temporale legittimo che non poteva essere controllato dall’Imperatore, per non rendere il Papa dipendente da lui; i Vescovi, capi religiosi, avevano anche un feudo, che li sottoponeva all’autorità imperiale; chi avrebbe dovuto sceglierli?

     Queste difficoltà causavano aspre contese che durarono secoli.

VITA AGRICOLA NEL SISTEMA FEUDALE

     Le relazioni reciproche Tra i detti signori erano regolate dal “Diploma Imperiale”, che rendeva il feudatario legittimo possessore del feudo, che poteva lasciare in eredità ai discendenti; o dal “Privilegium”, contratto col quale il feudatario rendeva il Valvassore legittimo possessore del piccolo feudo, a tempo indeterminato o a volontà del feudatario o, come qui da noi, per tre generazioni.

     Questo fino al 1037, quando l’editto di Corrado II, “DE BENEFICIIS” resi ereditari anche i feudi dei valvassori11.

     L’editto di Corrado non aveva valore nel Dominio Pontificio, nel quale l’Imperatore non era sovrano, e se seguitò a dare in feudo le terre per tre generazioni.

     Diplomi, privilegi, editti  riguardavano solo i feudatari e valvassori, quelli cioè che in qualche modo si potevano chiamare signori; ma per la massa dei nullatenenti e per i servi non c’erano diritti.

     La proprietà del feudatari e dei valvassori si estendeva a tutto quello che si trovava nell’ambito del territorio loro affidato: le terre, le selve, i corsi d’acqua ed eventualmente le acque marine; quindi il diritto di caccia, il diritto di pesca, le carbonaia, i mulini, i forni e ogni altra possibile fonte di risorse economiche appartenevano al signore; all’umile gente restava il lavoro12.

     Ma il lavoro libero era quasi inesistente.

     Tutto sia centrava nel castello del signore terriero, perché la fonte principale della ricchezza era l’agricoltura; e alle dipendenze del castello lavoravano i “Vassalli”, fossero essi servi della gleba, colonia affittuari o mezzadri, piccoli proprietari13.

     Sì, anche piccoli proprietari, perché non dobbiamo credere che la parola “Vassallo” significhi uno spiantato che, per campare, stia al servizio di un signore.

     “Vassallo” era uno che aveva obblighi servili verso un signore; e in questo senso, anche i Feudatari erano vassalli; vassalli del governante.

     Vassallo poteva essere un servo della gleba che lavorava la terra e custodiva il bestiame del padrone, alla completa dipendenza da lui; legato alla terra che lavorava, della quale seguiva le sorti, tanto che il valore di questa era misurato anche dalla capacità lavorativa dei servi 14.

     Vassallo poteva essere un colono che riceveva in affitto dal signore un piccolo appezzamento; un mezzadro, cui era affidata della terra che pagava con una parte del prodotto di questa.

     Essi potevano contare su condizioni pattuite, molte volte imposte dal padrone, il quale esigeva anche servizi extra in sovrappiù, sia dagli uomini che dalle donne, le quali eseguivano i vari lavori domestici nel castello.

     Vassallo poteva essere un piccolo proprietario che doveva signore l’”homagium” (servizio di uomo), o perché aveva comprato la terra con obblighi servili, o perché doveva pagare al signore la sicurezza che gli veniva vivendo nell’ambito del territorio feudale.

     I vassalli potevano liberarsi del vassallaggio, pagando un riscatto, ma ciò avveniva raramente, perché non sempre conveniva.

     Ovviamente non conveniva al vassallo proprietario, per motivi di sicurezza; non sempre conveniva agli altri, sia per mancanza di lavoro indipendente; sia perché raramente un vassallo riusciva col magro guadagno a mettere da parte la somma necessaria per il riscatto: somma che era sempre alta, perché il padrone era sempre contrario a concedere il riscatto15.

     Rari sono i casi di fuga, perché raramente si trovava chi volesse appoggiare la fuga di un vassallo, per non crearsi noie.

LOTARIO IMPERATORE

E L’UNIVERSITA’ DI FERMO

     Alla morte di Carlo Magno, prese l’impero il figlio Luigi il Pio, il quale nell’817, si associò al governo il figlio Lotario, destinandolo al regno d’Italia; e nell’823, il Papa Pasquale I lo consacrò Imperatore.

     Poco ci interessa qui se il Lotario si mostrò un po’ anticlericale; se, per finirla con i disturbi continui provocati dai Romani, si intromise negli affari del Papa e ne vigilò il governo non sempre efficiente; Fermo deve a lui riconoscenza, perché qui fondò la prima UNIVERSITA’, nell’829, stabilendovi uno dei nove studi del Regno Italico, al servizio di tutto il Ducato Spoletino16 .

     La scelta di Fermo dipese sicuramente dalla sua posizione preminente e centrale nel Ducato che si estendeva fino al Pescara, ma forse anche dal desiderio di cultura dei Fermani, che era testimoniato dalle scuole molto frequentate, istituite dal Vescovo Lupo, pochi anni prima17.

     Questa UNIVERSITA’ fermana, la prima istituita nel Piceno, giunse con alterne vicende alla rispettabilità di un migliaio di anni.

     Nell’833, sorsero gravi discordie tra Luigi il Pio e altri regnanti carolingi, che si trasformarono in un vera guerra civile, della quale approfittarono i predoni saraceni per scorrazzare impunemente per l’Italia.

     Anche nel Piceno provocarono danni immensi, depredando città e villaggi meno difesi e distruggendo Truento e  Cupra Marittima, verso l’840.

     Fermo non fu toccata, perché per il pirata Shabat sarebbe stato troppo difficile espugnarla, e anche senza la protezione dell’Imperatore, la città era in grado di difendersi da sé.

     Cominciò a crescere l’autorità del Conte, e ad allentarsi la dipendenza dal Duca di Spoleto.

     Nell’893, troviamo un Conte di Fermo che non sembra più un funzionario del Duca. Difatti la frase: “Temporibus Alberici Comitis Firmani, anno eius XVIII” ha tutta l’aria di citare, non un funzionario, ma un quasi sovrano che governa Fermo per 18 anni.

     D’altra parte Guido di Spoleto non ha tempo per pensare a Fermo, e ai saraceni, intento com’è a contendere il Regno d’Italia a Berengario del Friuli e a strappare al Papa il titolo di Imperatore (891).

     In appresso fu consacrato Imperatore anche suo figlio Lamberto, ancora bambino, finché  Guido muore, nell’894.

     Il Papa, stanco dei Duchi Spoletini che definisce “peggiori dei Longobardi”, elegge imperatore Arnolfo di Carinzia.

     La vedova di Guido, a Geltrude, col figlio Lamberto, lascia Spoleto e si rifugia Fermo, considerata la città più forte di tutto il Ducato, dove viene assediata da Arnolfo.

     Ma la Duchessa si ricorda di essere una longobarda e, con astuzia felina, riesce a trovare un traditore che propina al nuovo Imperatore una pozione venefica che lo paralizza; e l’esercito di Arnolfo si allontana da Fermo, portando l’Imperatore su una barella18.

NOTE

1   Ex Reg. Ep. – doc.1055 p.382 – “Rampa, quae Pulcina vocatur mulier longobarda ecc.

2   ANASTASIO BIBLIOTECARIO – Vita PP. Adriani – “Anno 773 excusso per Carolum Magnum  

      Longobardorum jugo, omne abitatores ducatus, Firmani, Auximani, Anconitani, ad Summum 

     Pontificem occurrentes, illius se ter beatitudini tradiderunt, prestitoque iuramento, in fide ac  

     Servitio B. Petri ac eius Vicari fideliter permansuros, more romano tonsurati sunt”. Nell’anno 773, 

     liberati per opera di Carlo Magno dal giogo longobardo, tutti gli abitanti nel Ducato di Fermo, di

     Osimo, si rivolsero al Papa, consegnandosi alla Sua Santità; giurando nelle sue mani di restare

     per sempre fedeli a San Pietro e al suo Vicario. Il Papa tagliò loro 1 ciuffo di capelli, 2º l’uso

     romano.

“Beato Petro eiusque omnibus vicarilis  possidendis”. Il Patto di Quiercy del 754 stabiliva la

      spartizione del regno longobardo, quando fosse conquistato, tra i Franchi e il Papa. I Franchi si

      sarebbero tenuti la Valle padana; al Papa sarebbe andato tutto il territorio sotto la linea 

      Monselice, Passo della Cisa, Luni. Compreso il Ducato di Spoleto e quello di Benevento. (V.

      Todisco – St. delle  Chie. V. III p 88).

4    Pentapoli Marittima: Rimini, pesano, Fano, Senigallia, Ancona.

       Pentapoli Annonaria: Urbino, Fossombrone, Cagli, Jesi, Gubbio.

5    Leggo in un libro moderno che vorrebbe insegnare la storia d’Italia ai giovani(lo dice nella

       presentazione) queste parole: “Fu di sorpresa, e senza nessun previo accordo, che costui (Leone

       III), alla fine della messa di Natale, gli si avvicinò e gli pose sulla testa la corona di imperatore.

       Secondo gli storici Franchi, Carlo se ne mostrò sgradevolmente stupito”Uno scrittore, capace di

      ridurre la cerimonia di Natale 800 a questa farsa, non so che cosa possa capire della storia

      medievale.

6   C. MARANESI – I Placiti del “Regnum Italie” – Roma, 1955 – “Dicembre 776: Lupus Comes de

      Firmo”.

7    GREGORIO DA CATINO – “Cronicon” …… datum iussum Spoleti in palatio nostro anno ducatus 

       nostri XIV mense Augusti in inditione X. SUB GUARINO COMITE genero nostro, ipse  Rabenno

       volontarie monacus effectus est”.

8    “……. in ambobus Ducatibus nostri Firmano ac Spoletino” (dal diploma di Adalberto e Berengario

       II al monastero di San Michele in Barrea).

9     LIBERI LERGITORIUS: hanno 904: “Temporibus Alberici Comitis Firmani, anno eius XIII”.

        Anno 911: “Temporibus Alberici Comitis Firmani, anno eius XVIII

10   In questo nel capitolo seguente, riporto alla lettera dei brani dal mio lavoro “Dal feudalesimo al 

        Governo Comunale nel Piceno”. (La Rapida Fermo 1973).

11   L’editto di Corrado II “De beneficiis – Anno 1037”

        “Ordiniamo pure che, se un valvassore dei maggiori o dei minori se ne va da questo mondo, il

         figlio suo abbia il feudo. Se poi non avrà figli, ma 1 nipote da figlio maschio, questi abbia il

         feudo, mantenendo l’uso dei valvassori maggiori di dare i cavalli e armi al proprio signore”.

12   “Similmente promettiamo che non ci sarà in Marano altro forno, fuorché quello del signore, nel

        quale promettiamo di cuocere il pane di tutto il castello, con proprie legna e pagare buon

        “fornatico”, in modo che il fornaio o la fornaia delle Vescovo faccia il fuoco con le nostre legna,

         non con le sue.

         Circa i forestieri che verranno qui ad abitare in un avranno padrone siano uomini del Vescovo

         e  servano a lui, secondo i patti con lui stabiliti”. (Catalani – De Eccl. etc. app XXXIX p. 347).

13   il piccolo affitto, pagato periodicamente in generi agricoli, e la mezzadria, cioè divisione

        proporzionale o a metà del prodotto dei campi è frequente nello Stato Farfense e nel

        Fermano.

14   (Colucci – A. P. XXIX app. CVII p. 200 – Ivi XXXI app. IV p. 8)

15   “Cola Palonis de Massa …… (libera) Benedictum Gulterutii ab omni nexu vassallaggi et singulis

         debitis servitiis …. pro eo quod dictus Benedictus restituit dicto Colae domun et omnes res 

        quas habuit in feudum …. et promisit sibi dare viginti florenos aureos pro liberatione. Ac etiam

        promisit dare septem salmas cum dimidio grani…..”.

        (Colucci – A. P. XXXI n. XXII p. 33).

        Cola Paloni di Massa (libera) Benedetto Gualterucci da ogni vincolo di vassallaggio e di ogni

        debito di servizi ……. Per il fatto che detto Benedetto ha restituito al detto Cola la casa, e tutto

        ciò che teneva in feudo ……. E ha promesso di dare 20 fiorini d’oro per la liberazione …… ha

        promesso anche di dare sette salme e mezzo di grano….”.

16   L. MURATORI – Rer.Ital. Script. – l I p. II pag. 151

        “Circa l’istruzione che quasi scomparsa dovunque per la pigrizia e la trascuratezza degli

         incaricati, stabiliamo che sia osservato quando noi disponiamo. Cioè, che quelli che per nostra

        disposizione sono stati mandati nei vari luoghi a esercitare l’arte dell’insegnamento, mettano il

        massimo impegno a che i loro scolari progrediscano e si approfondiscano nello studio, come  

        richiede la condizione attuale della cultura.

        Per comodità di tutti, abbiamo scelto delle particolari località per questo esercizio culturale,

        affinché la difficoltà di raggiungere luoghi distanti, e la mancanza di mezzi finanziari non

        costituisca una causa alla trascuratezza. Questi luoghi sono: Primo, in Pavia si radunino presso

        il Duncallo, da Milano, da Brescia etc. A Fermo si radunino dalle città spoletino etc.

17   CATALANI . De Eccl. Fir. Etc. Lupus p. 107

18   LIUTPRANDO – De Rebus Imper. Et REg. I cap. IX “…..il castello che si chiama Fermo di nome, ma lo è anche di fatto per la posizione, viene circondato e si preparano tutte le macchine da guerra per espugnarlo. Trovandosi la moglie di Guido stretta da ogni parte senza nessuna speranza di poter fuggire, incominciò con viperina astuzia a studiare il modo di uccidere il Re. Chiamato pertanto presso di sé un tale molto amico di Re Arnolfo, lo colmò di doni pregandolo di aiutarla. Ma, rispondendo quello che non avrebbe potuto farlo, prima di consegnare la città al suo signore, lo prega calorosamente, offrendogli subito molto oro e promettendogliene di più, che propini al Re suo signore una bevanda preparata da lei stessa: la quale non provocherebbe la morte, ma solo mitigherebbe l’odio. E per confermargli la verità della sua affermazione, alla presenza di lui, da a bere la pozione a un suo servo, che dopo un’ora, si allontanò sano…. Quello prese la bevanda mortale e la propinò al Re, il quale la bevve e fu preso da un sonno profondo, che non valse a svegliarlo, per tre giorni, lo strepito di tutto l’esercito. Si dice che, mentre i familiari lo sollecitavano con grida e con scosse, aprì gli occhi, ma non poté sentire né pronunciare bene una parola; sembrava che muggisse invece di parlare. La conseguenza di tutto questo fu che tutti furono costretti a non combattere, ma a fuggire”.

CAPITOLO II

I MONACI FARFENSI NEL FERMANO

     Proprio in questi anni, ultimi del sec. IX, avvenne un fatto di somma importanza per la storia Fermana.

     Mentre a Fermo l’Imperatore Spoletino e l’Imperatore Tedesco si combattevano accanitamente, come abbiamo visto, i Saraceni erano arrivati a depredare proprio alle porte del Ducato di Spoleto. Mi servo del racconto di Ugo Abate, che traduco in italiano1.

     “…. Sopraggiunsero i Saraceni …… che si sforzarono di occupare la Badia, circondandola da ogni parte, ma non ci riuscirono; poiché il venerabile Pietro, Abate di quel monastero, fidando nell’aiuto di Dio e sostenuto dal valore dei suoi soldati, ricacciandoli più volte la territorio del suo monastero, li faceva inseguire lungamente e uccidendone molti, per qualche tempo riusciva a ottenere un po’ di sicurezza.

     “Ma quei maledetti ritornavano continuamente. L’Abate Pietro, avendo resistito coi suoi monaci e coi suoi soldati per sette anni, sentendo di non poter resistere più a lungo, divisi i monaci e il tesoro in tre parti.

     Una ne mandò a Roma; una nella città di Rieti; la terza poi, presala con sé, la condusse nel Comitato Fermano, lasciando vuoto il monastero.

     “Ma  i Saraceni cominciarono a fare razzie anche in qualche zona del Comitato Fermano.

     “Perciò l’Abate Pietro, messo di nuovo in apprensione, adunò i suoi monaci e i suoi soldati e costruì un castello sul Monte Matenano, dove poi fu collocato il corpo di Santa Vittoria”.

   L’Abate Pietro si trasferì nel Comitato Fermano, perché qui i Farfensi avevano cospicui possessi; e il Conte di Fermo Alberico, che governava da pochi anni (si era nell’897),  sapeva mantenere una certa sicurezza.

     I possedimenti Farfensi nel Piceno erano cospicui e di antica data.

     Nel 787, il Duca di Spoleto Ildebrando aveva affidato alla Badia i beni confiscati al figlio del Conte di Fermo Rabennone e a sua moglie Falerona2, e altri vasti territori a Montelparo, Monteleone, Monterinaldo ecc.; Carlo Magno aveva confermato alla Badia il possesso di Ortezzano3; l’Abate Ingealdo, verso l’832, aveva   rivendicato la Badia il possesso della Curtis S. Abundi” e altre terre “in Comitatu  Camertino”4.

   In un Diploma dell’840 l’Imperatore Lotario aveva confermato alla Badia:

“In Comitatu Firmano, Monasterium S. Silvestri vel Sanctae Marinae cum omni integritate ….. et portum in Aso5, vel alias res quas Ildeprandus dare ei condonavit …… res Gualtierii fili Aimonis … res Rabennobis et uxoris eius; res Mauri presbiteri Firmanae civitatis”.

     Questi vasti territori, dei quali abbiamo riportato solo una parte, in seguito si accrebbero per le spontanee donazioni di signori, soprattutto per la donazione del signore longobardo di Offida Longino di Ottone, nel 938; e costituirono lo Stato Feudale Farfense, che durò ricco e potente fino al 1261, sommamente benemerito del progresso del Piceno.

LA BATTAGLIA DEL GARIGLIANO

     Nel 916, il Papa Giovanni X riuscì a mettere d’accordo alcuni principi italiani, tra i quali Randolfo di Benevento e il Duca di Spoleto e assalì le basi dei Saraceni nella Valle del Garigliano, sterminandoli fino all’ultimo combattente, come afferma Gregorio da Catino6.

   Anche il Papa partecipò alla battaglia, combattendo armato come un soldato qualunque.

   In questa battaglia non si fa menzione di combattenti fermani, ma è ovvio che molti di essi vi prendessero parte, poiché sicuramente si reclutano soldati da tutto il Ducato, se vi parteciparono Spoletani e Camerinesi.

     In questo periodo, dal 911 in poi, non ci sono documenti che ci dicano che governava Fermo e le relazioni tra questa città e Spoleto.

     Ugo dice: “Morto lui (Pietro) il predetto Rimone prese il Governo di quel luogo (Matenano). Ugo, Re di Borgogna, incominciò a governare sopra gli italiani, è venuto nella Marca Fermana7, cacciò dalla loro provincia i parenti di Rimone e anche lui insieme ad essi8.

     Non sappiamo il nome di questa potente famiglia che ha un figlio prete, Rimone: un buon prete che i monaci di Santa Vittoria e i soldati dell’Abate Pietro vogliono loro capo, per avere la protezione della famiglia di lui.

     Re Ugo, appena venuto nella Marca di Fermo (928) di caccia tutti dalla “loro provincia”.

     Da queste parole è lecito che la famiglia di Rimone si fosse impadronita della Marca Fermana e Re Ugo, ovviamente, non poteva tollerare la sua pericolosa potenza.

     Volendo riorganizzare il Regno Italico, che poi governò dal 926 al 944, Ugo aveva bisogno di sostituire i vecchi con nuovi funzionari, capaci e di provata fedeltà, specialmente nei punti principali del Regno, e molto si servì dei suoi parenti.

     Mise come vescovo di Verona il nipote di Raterio; stabilì Abate della Imperiale Badia di Farfa il nipote Ratfredo 9 , e affidò la Marca Fermana a un suo parente di nome Ascherio, come si può ricavare da un brano della “Destructio” dell’Abate Ugo.

     Egli dice:

      “Verso quel tempo (probabilmente 939) si accese una grande guerra tra Salirone e Ascherio, per contendersi la Marca Fermana.

     Prevalse Salirone che uccise Ascherio con molti dei suoi e si impadronì della Marca.

     Saputa la cosa Re Ugo si infuriò contro di lui e incominciò a perseguitarlo per l’uccisione di Ascherio che era suo stretto parente”.

FERMO SOTTO GLI IMPERATORI TEDESCHI

     Ottone I di Brunsvik, chiamato in aiuto da Adelaide vedova di Lotario, figlio del Re Ugo, venne, sposò Adelaide e fu incoronato a Pavia Re d’Italia, nel 951.

     Morto, nel 961, il principe Alberico che si era sempre rifiutato di ricevere Ottone, il figlio di lui Giovanni XII (955-965) lo invitò a Roma e lo incoronò Imperatore del Sacro Romano Impero, ufficio vacante da oltre quarant’anni; e come era nei patti, il 13 febbraio 962, col privilegio di Pavia, Ottone si obbligò a rendere al Papa i territori d’Italia destinati alla Chiesa da Carlo Magno10.

     È difficile giudicare l’operato di questo grande Imperatore.

     Qualcuno potrebbe mettere in dubbio la sua buona fede sul Privilegio di Pavia, perché subito dopo sorsero attriti gravissimi tra lui e il Papa, proprio perché il Privilegio non andava mai a effetti; anzi l’Imperatore gravava la mano sulla chiesa, giungendo a stabilire che l’elezione del Papa doveva avere la conferma imperiale.

     A qualcuno fa meraviglia questa ingerenza da parte di un Imperatore sinceramente cattolico, marito di una santa, la grande Adelaide che sapeva influire sul marito, come seppe poi guidare il figlio Ottone II.

     Ma siamo onesti! Come poteva questo Imperatore che, appena incoronato, dovette scappare da Roma per una rivolta popolare; che stava combattendo per riconquistare le terre della Chiesa contro Berengario annidato nel Montefeltro, affidare l’Italia dei Papi in balia di signori irrequieti, circondati, da un clero indisciplinato e corrotto. Perché tali erano allora le condizioni della Chiesa italiana.

     Da Ottone I cominciò l’ingerenza degli Imperatori tedeschi negli affari interni della chiesa che durò per quasi due secoli; ingerenza insopportabile, inammissibile; ma almeno bisogna salvare la retta intenzione di molti di essi, anche se il fine non giustifica i mezzi.

     A Fermo, durante l’impero degli Ottoni, non succede niente di particolare importanza.

     Nel 982, vi fa sosta Ottone II, che si recava a combattere in Calabria; questo soggiorno, che qualcuno riporta come onorifico per la città, era in effetti una calamità che si prolungò per secoli, rendendo le Marche, e soprattutto il Fermano, zona di transito di innumerevoli soldatesche e, in conseguenza, zona di disordini, di rapine e di lutti.

I VESCOVI DI FERMO NEL SECOLO X

     Poche notizie abbiamo della diocesi di Fermo, fino alla fine del secolo X.

     Di questo secolo conosciamo solo il nome di tre vescovi: Amico (940-960), Gaidulfo (960-977) e Uberto (996-1044), eletto negli ultimi anni del secolo.

     I vescovi fermani che conosciamo, secondo i documenti che ci restano, sono all’altezza del loro alto ufficio.

     Possiamo osservare che essi hanno una posizione preminente nel Piceno, poiché li vediamo intervenire spesso con autorità in affari di altre Diocesi.

     Il vescovo amico arbitra nei contrasti tra un certo Leone di Arciprando e l’Abate Campone della Badia di Farfa, per certi possedimenti nella Sabina; il Vescovo Gaidulfo più volte interviene, insieme al Conte di Fermo Lupo, nelle questioni tra Giovanni Vescovo di Penne e l’Abate Ilderico di Causaria (Abbazia presso Torre de’ Passeri).

     Anche la potenza economica dei vescovi fermani in questo periodo incomincia a crescere enormemente.

     Dobbiamo notare che anche la Chiesa, o meglio, gli uomini che la compongono, nei secoli X e XI, si adeguano ai tempi e poggiano la sicurezza e la libertà nella potenza economica e, per molte ragioni, non possiamo condannarli.

     I vescovi di Fermo erano già ben provvisti, per le donazioni di re longobardi, specialmente di Aginulfo e Liutprando. Ma nella seconda metà del Novecento le donazioni di terre e anche di interi villaggi abbondano, fino a costituire il più potente feudo di Piceno, al pari del potentissimo feudo Farfense.

     Le donazioni fatte alla Chiesa Fermana durante questo secolo sono tante, ma non credo opportuno menzionarle, poiché per il lettore sarebbe cosa inutile, essendo la maggior parte di quelle località non rintracciabile, perché i loro nomi sono cambiati.

     Nel 995, il giovane Trasone dona alla Chiesa Fermana una possidenza di quasi 500 ettari, vicino al mare, tra il Potenza e il Chienti. Il documento afferma che la donazione sarà irrevocabile, come vuole il Codice Longobardo11.

     Fino a tutto il secolo X e oltre, il Vescovo di Fermo (come tutti i vescovi delle Marche) non esercitò un vero governo civile; i poteri civili e militari erano in mano al Conte.

     Il Vescovo influiva molto sul governo comitale, per la sua autorità vescovile e per essere senza confronti più grosso feudatario del Comitato; ma la sua autorità era religiosa e morale, non politica.

     La sua autorità nel campo civile era quella di un grande feudatario con impegni particolari impostigli dalla sua condizione di Vescovo.

     Abbiamo visto come incominciarono a darsi a lui interi villaggi, popolati di povera gente che stentava la vita intorno alle Pievi; gente di nessuno, perché libera da obblighi servili verso altri signori.

     Questa gente aveva bisogno di aiuto, di guida, di difesa, di organizzazione; e il Vescovo feudatario, appunto perché vescovo, non poteva disinteressarsi di essa, come avrebbe potuto fare un signore qualsiasi: quella gente era “la plebe del Vescovo”, ed egli aveva il dovere morale di guidarla; e vedremo come i vescovi di Fermo seppero guidare le loro plebi fino alla libertà comunale.

     Questo interessamento del Vescovo comportava anche dirimere le questioni della gente nel suo feudo, senza intromettersi nel giudicare i delitti che spettavano al Conte, non avendo il vescovo “il mero e misto impero”12.

     Ma un chiarimento è necessario. Di chi era feudatario il vescovo di Fermo?

     La Marca Fermana, di diritto, era proprietà della Santa Sede, perché ancora in vigore il privilegio di Pavia, ma questo non ebbe mai esecuzione, anzi, da Ottone I in poi, gli Imperatori agirono come se l’autorità del Papa dipendesse dalla loro.

     Il Vescovo di Fermo quindi, di diritto era feudatario del Papa, di fatto però dipendeva dall’Imperatore, il quale aveva influenza decisiva anche sulla sua elezione.

     Provvidenzialmente i Vescovi di Fermo nel Novecento e del Mille furono tutti all’altezza del loro Ministero.

I NORMANNI A FERMO

     Nel 1049, finalmente la Chiesa, dopo tanta decadenza, ebbe un degno Papa, Leone IX, Alsaziano e il cugino dell’Imperatore Enrico III.

     Fu il primo dei Papi che, dietro i consigli di Ildebrando (poi Papa Gregorio VII), lavoro seriamente per la riforma della Chiesa, per la quale più volte viaggiò attraverso l’Europa.

     Per la storia nostra, mi sembra di poter affermare che Fermo avesse bisogno della riforma meno di altre diocesi.

     Certamente non possiamo affermare che Fermo fosse immune dai mali del tempo, dei quali tutti è sempre risentono; ma conoscendo i grandi vescovi di questo secolo: Uberto (996-1044), Fermano (1047-1057), Olderico (1057-1075), la loro attività pastorale, la fiducia popolare che godevano, attestata da innumerevoli donazioni; conoscendo infine la relazione amichevole del vescovo fermano col terribile riformista Pier Damiani, siamo autorizzati a credere che a Fermo le cose andavano meno peggio che in altre parti.

     Il pericolo maggiore per Roma, in quel tempo, erano i Normanni che dalla Puglia scorazzavano nelle regioni vicine, razziando e maltrattando ferocemente le popolazioni che facevano resistenza.

     Nel 1053, Leone IX, di ritorno da un viaggio in Germania, condusse con sé una schiera di soldati tedeschi, per rafforzare un esercito di Spoletini e Fermani, pronti per combattere contro i Normanni.

     Anche l’Imperatore Bizantino aveva promesso di inviare un esercito che però, come al solito, non arrivò mai. Il Papa stesso si mise a capo del suo esercito; ma presso Civitate sul Fortore, l’esercito fu sopraffatto dai Normanni e Leone IX preso prigioniero13.

     O che l’imperatore Enrico III, al quale spettava il dovere di difendere il territorio della Chiesa, si fidasse nel suo cugino Papa, che in gioventù era stato un buon capitano; o che il Papa preferisse non far troppo ingerire l’Imperatore negli interessi della Chiesa, Leone IX commise un errore che gli costò sette mesi di prigionia e la morte prematura a soli cinquanta anni; poiché, riportato in barella da Benevento a Roma, vi morì nel marzo 1054.

     Questo, come tanti altri fatti storici, dimostra che, mentre i comuni mortali è concesso di fare molti sbagli, un solo errore può abbattere i grandi.

     Per Fermo questa guerra fu rovinosa, poiché (fortunatamente per pochi anni) i Normanni dilagarono nella Marca Fermana e possiamo solo immaginare, giacché non abbiamo documenti, cosa poterono compiervi quei feroci conquistatori.

      Nel 1059, per interessamento di Ildebrando e di Desiderio, Abate di Montecassino, il Papa Nicolò II (1058-1061) e Roberto Guiscardo si incontrarono a Melfi, per un accordo.

     Col trattato di Melfi, i Normanni si ritirarono da tutte le terre della Chiesa, quindi anche della Marca Fermana e, in cambio, Roberto il Guiscardo veniva investito della Puglia, della Basilicata, della Calabria e giurava fedeltà al Papa, quale feudatario della Chiesa, che si impegnava a difendere.

   Il 22 aprile 1073, alla morte di Alessandro II, fu acclamato Papa, dal popolo romano, Ildebrando che si chiamò Gregorio VII14.

     Roberto di Guiscardo che, finché era stato impegnato a consolidare il suo dominio più che raddoppiato col trattato di Melfi, era stato utile la Chiesa in varie occasioni, cominciò a vagheggiare di nuovo la conquista della Marca Fermana, forse approfittando delle difficoltà che Enrico IV procurava al Papa.

   Ma Gregorio VII non tremò e scomunicò tanto Enrico IV, come anche i Normanni che minacciavano “Marchiam Firmanam et Ducatum Spoletinum”.

     Nel 1084, Gregorio è costretto a chiedere aiuto a Roberto il Guiscardo, allora impegnato contro l’Imperatore di Costantinopoli.

     Enrico IV, seguito da un antipapa, aveva occupato Roma e Gregorio si era chiuso in Castel Sant’Angelo.

   Guiscardo accorre con trentamila soldati normanni e saraceni, mette in fuga il re tedesco e libera il Papa.

  In questa impresa i normanni occuparono anche la marca Fermana; e il Guiscardo, che non si era mosso certo pero solo amore di Dio, volle ripagarsi del servizio reso; e Gregorio VII dovette accontentarsi di cedergli la parte della Marca a sud del Tronto. Quel fiume diventò il confine tra la Marca Fermana il territorio normanno, e anche oggi è il confine meridionale delle Marche   .

     Quanto abbia sofferto la città di Fermo in questa pur breve occupazione normanna non lo sappiamo, poiché sono rarissimi gli storici che si occupano delle sofferenze della povera gente, ma possiamo farcene  un’idea, conoscendo la ferocia di questo esercito di briganti che nella stessa Roma aveva perpetrato stragi crudeli.

     Era Vescovo di Fermo Golfarango, che forse qui si chiamava Wolfango, probabilmente venuto dal Nord, come ci suggerisce il nome. Vale la pena di fermarci un po’ su questo personaggio su alcuni fatti che sono in relazione con lui, perché ci aiuta a conoscere meglio la storia di questo periodo.

     Morto Olderico, verso la fine del 1074, Gregorio VII scrisse al Conte di Fermo Uberto, al clero e a tutti i fedeli che, benché gli fossero state riferite cose riprovevoli nei riguardi dei loro Arcidiacono, pure, conosciute false le accuse, a lui affidava l’amministrazione della Diocesi che, d’accordo col Re (Enrico IV), non si fosse trovata la persona degna dell’Episcopato.

     Intanto si impedisca la dispersione dei beni della diocesi, e “fate in modo di diportarvi come figli fedeli della Chiesa”.

     Questo, perché avveniva sempre che alla morte di un vescovo, clero e popolo saccheggiavano l’episcopio; il che succedeva non solo a Fermo, ma anche altrove15.

     Nei primi mesi del 1075, fu eletto vescovo Pietro I, che l’anno appresso scompare, ma non si sa se per morte, o per rinuncia volontaria, o per rinuncia imposta da Enrico IV.

     Io sospetto che quest’ultima ipotesi sia la più probabile perché a Enrico IV non poteva piacere la fedeltà dei vescovi fermani al Papa, né la loro intraprendenza politica; nel Giugno di quell’anno, loro stesso Pietro I aveva imbrigliato il potere degli Aldonesi, piccoli feudatari, obbligandoli a fare i conti col Comune di Civitanova, già formatosi sotto Olderico e in via di sviluppo16.

     Al principio del 1076, Enrico IV insedia un nuovo vescovo a Spoleto, e a Fermo manda Wolfango, senza sentire il Papa, il quale si lamenta col Re, perché ha osato dare le due diocesi a due sconosciuti, mentre egli non può consacrare se non persone ben conosciute provate. Ma per amore di pace, il Papa consacrò i due vescovi.

     Nel VI Concilio romano che si celebrò nel Febbraio 1079, troviamo Wolfango comunicato insieme ad altri vescovi17.

     Che era successo?

      Si era al colmo della lotta per le investiture, contro la simonia e per il celibato del clero; lotta che Gregorio VII sosteneva con successo da una trentina di anni, prima come segretario dei papi, poi come Papa, e che gli aveva attirato l’odio della gran parte del mondo cattolico.

     Questo piccolo gigante, cui era ignoto il senso della paura, alle minacce tedesche, al pericolo normanno, ai conciliaboli dei vescovi partigiani di Enrico IV che si ribellavano ed eleggevano antipapi, rispose col VI Concilio Romano, dove si scomunicò di nuovo il Re e tutti i vescovi ribelli e, tra questi, per la prima volta si trovò un Vescovo Fermano, Wolfango, il quale come gli altri doveva l’episcopato a Enrico IV.

     Ma per l’opera dei grandi vescovi precedenti, Fermo non era la sede adatta per un vescovo ribelle, e Wolfango o se ne andò, o più probabilmente si riconciliò col Papa dopo poco tempo18.

NOTE

1     UGO DI FARFA – “Destructio” – Traduzione e note di Fiuseppe Michetti (Fermo – La Rapida 

        1980).

2     COLUCCI – A. P. XXXI p.15

3     CHRONICON col. 469 – “Curtem S. Marinae in Ortatiano

4     COLUCCI – XXXI pp. 16-17

5     per attraversare il lasso non c’erano punti. Nei punti dove confluivano le vie di maggiore

       traffico, era organizzato il trasbordo per mezzo di zattere che si chiamavano “Portoria”, e il

       luogo si chiamava portus = dazio, gabella. Il trasbordo dei passeggeri e delle merci era fonte di

       grossi guadagni. Il “portus” di fortezza sano era in proprietà dei monaci di Santa Marina, cui

       monastero era poco lontano.

6     GREGORIO DA CATINO – Cronicon – in Muratori – Scrip. Rer, Ital. t. II – COLUCCI XXIX p. 20 –

      “Denique Joannes Ravennas tunc praesidebat Ecclesiae Romanae, qui consultu Randulfi

       Beneventanorum et Capuanorum principis legatos dixerit ad Imperatorem Costaninopolim, a

      quo acceptis non modicis copiis, simulque accersitis Spoletanis atque Camerinis, contra POenos

      satis studuit pugnam preparare. In quo bello visi sunt a religiosis fidelibus Petrus et Paulus

      Apostoli, quorum precibus cristiani victoriam obtinuerunt et Poenos viriliter effugaverunt”.

      Era a capo della Chiesa Romana Giovanni di Ravenna…..  reclutati spoletini e camerinesi preparò

       accuratamente la guerra contro gli Arabi.

7    E’ la prima volta che troviamo l’espressione: “Marca Fermana”.

8    ABATE UGO – Destructio – in Colucci t. XXIX p. 8.

9     DA CATINO – Chronicon – in Muratori A. I. T. t. II part. II.

10   Patto di Quercy del 754, riconfermato da Carlo Magno nel 774.

11   CATALANI – De Eccl. app n. II – riporto questa donazione per far notare che nei contratti si

        poteva usare il Codice Longobardo o quello Romano. Nel Fermano prelevare l’uso del primo.

12   Et si aliqua quaestio inter nomine praedicti castri oriebatur, ipse Episcopus faciebat

        determinare per iudicem suum” (Catalani – DE Eccl. etc. – App. n. 340).

        E  se sorgeva qualche questione tra gli uomini del detto castello, il Vescovo la faceva a

        dirimere dal suo giudice.

13   Di Leone IX e della guerra contro i Normanni parlano: Bruno di Segni, Anacleta Bollandiana t.      

       XXV; Chalanton – Histoire de la nomination normande en Italie (Parigi 1907).

14   Ildebrando, nato a Savona da umilissima famiglia, fu un monaco Benedettino, poi consigliere

        dei Papi per una ventina di anni. Piccolo di statura, di voce esile, dimostrò meravigliose qualità

        diplomatiche politiche che, insieme a una volontà ferrea, lo pongono tra i più grandi uomini  

        della storia.

15   CATALANI – De E. F. – app. n. XII

        Anche Leone IX, nel 1051, aveva scritto nello stesso modo al clero e al popolo Osimano.

16   Ex Reg. Episc. P. 116

17   “Excomunicati sunt in eadem Sinodo, sine spe recuperationis, Archiepiscopus Narbonensis,

        Tebaldus dictus Archiepiscopus Medionalensis, Sigifridus dictus Episcopus Boboniensis,

        Rolandus Trevisinus, item Episcopi Firmanus et Camerinensis; hique omnes cum seduacibus

        suis tam clericis, quam etiam laicis”.

18   CATALANI – Hist. Eccl. Firm. – Gulfarangus p. 124.

CAPITOLO III

FERMO E I COMUNI

I vescovi di Fermo preparano i Comuni

        L’organizzazione municipale romana, che era sopravvissuta nella “civitas”, era venuta meno nei villaggi e nelle città ridotte a misere borgate per le invasioni barbariche e divenuti, in qualche maniera, tributari dei feudatari, e condizionati dalla potenza dei signori terrieri.

     Alla fine del secolo XI e al principio del secolo XII, l’organizzazione municipale comincia a ricostituirsi nel Piceno, soprattutto per merito dei Vescovi di Fermo e degli Abati di Santa Vittoria.

     Abbiamo accennato ai patti sottoscritti dai signori Aldonesi, nel 1075 per incastellarsi a Civitanova, un Municipio risorto pochi anni prima con un certo autogoverno; difatti tra i firmatari c’è anche un “Massaro” = pubblico amministratore.

     L’attività politica dei vescovi fermani in questo periodo consisteva nel dare una organizzazione civica a questi villaggi, a queste libere plebi, mano mano, che l’ambiente ne presentava la possibilità .

     Così nel 1083, Ulcandinus = Ugo Candido diede organizzazione civica Ripatransone1; l’Abate Berardo III fortificò Offida “et civitatem fecit”, cioè diede organizzazione civica a Offida, nel 10992; nel 1108, il vescovo Attone dettò a diversi signori di campagna i patti per la formazione di un paese fortificato intorno alla pieve di San Marco che poi si chiamò Servigliano3: nello stesso anno, fece la medesima cosa con Macerata4. È chiaro che si tratta di iniziale organizzazione civica.

       Nella città di Fermo non possiamo fare lo stesso discorso che facciamo per gli altri Comuni del contado. Nella città l’organizzazione municipale, pur subendo mutamenti e deterioramenti, non era venuta meno con le invasioni barbariche. L’influente presenza del vescovo e il progressivo incivilimento degli invasori, particolarmente dei Longobardi, avevano mantenuto una organizzazione municipale sufficiente. Circa l’anno 600, in una lettera di Gregorio Magno al vescovo Passivo si parla di “Tributi Fiscali dovuti al Municipio”5. Certo non possiamo ancora parlare di libero Comune; la libertà arriverà dopo parecchi secoli.

     Per mancanza di documenti, non sappiamo i titoli dei reggitori della città di quei tempi. Sappiamo che fino a tutto il secolo XI Fermo fu governato da un Conte; ma questi sicuramente aveva avuto bisogno di collaboratori, per le molteplici e varie esigenze della vita cittadina. È ovvio quindi pensare a un gruppo di persone autorevoli, forse anche elette dal popolo, destinate alla guida civile del Municipio, sotto la vigilanza del Conte.

     Solo nel 1101, conosciamo il nome di un Console: il Console Reginaldo che accompagna in Terra Santa il Vescovo Attone6. Ma la piena autorità di questi Consoli e la relativa piena libertà del Comune di Fermo la troviamo solo nel 1189, quando la città si dà il primo Statuto e al posto del Conte, troviamo un Podestà eletto dal Comune: il Podestà Baldo di Nicola da Firenze.

     L’opera dei vescovi fu compresa e appoggiata pienamente dalla città di Fermo, perché capiva i vantaggi che le potevano derivare dall’organizzazione unitaria di un Feudo così vasto.

   Dopo avere sperimentato quasi inesistente la potenza militare del governo pontificio, in tempi che la forza valeva più del diritto; constatata vana la fiducia nella protezione dell’Imperatore; sofferta l’oppressione dei feroci Normanni, Fermo e il suo vescovo si persuasero che bisognava riorganizzarsi meglio, accrescere la solidarietà e la forza in questa zona, destinata a diventare il punto di scontro tra Tedeschi e Normanni.

     Ma per avere questa forza, questa solidarietà, non bastava il sistema feudale vigente.

     Questo è l’aspetto principale da tenere presente in questo argomento: il sistema feudale favoriva la divisione e l’urto tra i signori dei castelli feudali; e soprattutto favoriva l’indifferenza e il disinteresse della plebe inerme.

     Il Vescovo di Fermo capì che queste plebi che per lui erano state, in qualche modo, un peso, potevano diventare una potenza, qualora fossero costrette a governare se stesse.

     E i Vescovi (essi soli erano in grado di farlo) prepararono le popolazioni all’autogoverno e gradatamente le condussero al Governo Comunale.

     Questo genere di organizzazione però poteva generare un certo frazionamento, favorire un autonomismo esagerato e pericoloso; ed ecco la sapiente politica dei Vescovi: libertà nella solidarietà; Comuni liberi, ma solidali con la capitale Fermo.

     Questa solidarietà e sempre imposta nei contratti comunali: in principio solidarietà col vescovo; poi quando il Comune di Fermo aveva raggiunto una efficienza notevole, si imponeva solidarietà con quella città e speciali riguardi pei suoi cittadini7.

IL COMUNE

     L’istituzione del governo comunale non nasce da una decisione improvvisa e arbitraria di    una popolazione, ma è l’epilogo di una grande preparazione, di una lunga esperienza di autoamministrazione popolare.

     Questa autoamministrazione formatasi in ogni centro anche piccolo, per la necessità, che tutti gli uomini naturalmente sentono di un organismo che regoli le loro relazioni reciproche, diriga, in altre parole, la loro convivenza, fu esercitata da uomini scelti che si chiamarono “Boni Homines”.

     Essi avevano la poca autorità che  loro permetteva l’arbitrio del feudatario, o la prepotenza del signore terriero; autogoverno popolare quindi molto limitato e imperfetto.

     Con la istituzione del Comune questa autogoverno popolare si perfeziona sempre di più; e diventa completo, quando acquista anche il diritto di amministrare la giustizia.

     L’istituzione del Comune quindi non è l’inizio dell’autogoverno popolare, ma la perfezione di esso; e per conseguenza, è l’inizio della libertà responsabile di una popolazione.

     Poiché siamo abituati a dare alla parola “rivoluzione”un significato violento, faremmo meglio a chiamare la lotta per il governo comunale: “evoluzione”; una lenta, ma non violenta evoluzione di più secoli, che porta al libero Comune.

     Ciò non toglie che essa sia una rivoluzione nelle conseguenze, poiché conduce a una radicale trasformazione dell’assetto sociale.

     Le “plebes”, composti di gente libera ma povera; di artieri, di piccoli commercianti anche di professionisti riscoprono l’organizzazione romana dei “Collegia” = corporazione, e sperimenta la grande convenienza della solidarietà.

      Queste plebi crescono, si organizzano e reagiscono contro l’oppressione del nobile signore di campagna che, nel sistema feudale, controllava tutte le fonti della ricchezza, essendo la terra base principale dell’economia.

     Anche una maggiore comprensione popolare della giustizia e della libertà spinse le plebi verso il governo comunale, poiché fece loro sentire la necessità di rompere quella rete di diritti e di privilegi signorili che condizionavano lo sviluppo della stessa vita civile.

     Non era più sopportabile che i pedaggi, per esempio, pagati dai commercianti sulle strade e sui ponti, e la percentuale che la povera gente pagava per servirsi dei mulini e dei forni, tutti in proprietà del signore, andassero completamente a profitto di lui che non si curava affatto delle necessità della plebe, la quale abitava in raggruppamenti di tuguri, tra vie impraticabili per fango e immondizie.

     Questi capi eletti dal popolo difesero la libertà di ogni cittadino, abolendo la servitù della gleba e la prestazione gratuita di servizi obbligati; amministrarono la giustizia secondo le leggi comunali, uguali per tutti; provvidero al bene sociale, organizzarono la vita cittadina con maggiori comodità e più decoro.

     Non si deve però credere che con l’istituzione del Comune sparissero immediatamente gli inconvenienti del feudalesimo; anche il Comune è una istituzione umana e, se è umana, non sicuramente perfetta.

INDOLE DEL COMUNE FERMANO

     Nel fermano, i Comuni nascono con pacifici contratti tra il Vescovo e i rappresentanti delle popolazioni; nessuno colla lotta violenta. E questo perché il Comune era voluto dalla Chiesa, favorendo esso lo sviluppo sociale delle plebei le quali, divenute consapevoli della loro dignità e responsabili di se stesse, avrebbero costituito una forza capace di far fronte, sia allo strapotere dell’Imperatore tedesco, sia all’irrequietezza dei Normanni e di altri potenti signori.

     Nella istituzione dei Comuni la Marca Fermana non fu seconda a nessuno nel tempo. I Comuni Fermani ripeterono molti aspetti del Municipio romano, e molti ne suggerirono all’organizzazione del Municipio moderno.

     Per dimostrare le mie affermazioni, sottopongo all’esame del lettore il contratto che riguarda il Comune di Macerata, poiché gli altri che conosciamo sono redatti pressappoco nello stesso modo.

     Nel 1116, il vescovo Azzone concede il governo comunale a poggio San Giuliano, uno dei castelli che formò poi la città di Macerata, dando tutte le concessioni e i privilegi accordati a Civitanova dal Vescovo Olderico (1057-1074), una cinquantina d’anni prima. La motivazione è motivata:  “ut omnes nostare Ecclesiae minores sudditi juste sibi quaesita possideant” = affinché i nostri sudditi minori posseggano con sicurezza quanto giustamente reclamato”.

     E premette: “da oggi in poi, vi staremo vicini, vi difenderemo, lavoreremo con voi e ci interesseremo di tutti i bisogni del vostro castello.

     Mai valendoci del Codice Longobardo o di quello Romano, vi molesteremo per i mercati e negozi che si terranno nel vostro castello; per essi, non siete tenuti né a tasse, né a dazi.

     Non terremo tribunali per gli abitanti del vostro castello, se non per i quattro delitti che ci riserviamo: insurrezione, omicidio, furto e adulterio incestuoso; e se questi diritti avverranno entro le vostre mura, chiederemo il consenso dei vostri Consoli.

     Non esigeremo il vettovagliamento (forum), se non in caso di visita dell’Imperatore.

     Poiché anche voi avete promesso di stare con noi, di agire d’accordo con noi e di opporvi contro tutti, in fedeltà verso la Chiesa Fermana.

      E se il castello verrà distrutto, lo ricostruirete con noi fino a tre volte.

      Inoltre difendete le cose della nostra Chiesa entro i confini del vostro territorio.

      Potete vendere, con votare, donare le cose vostre, purché non ci inviate le terre situate entro i vostri confini a Conti, a Capitani, o ad altra chiesa (diocesi)8.

      Da questo documento appare chiaramente che gli abitanti di San Giuliano chiesero l’autogoverno comunale; il Vescovo concesse la libertà più ampia; concesse anche l’amministrazione autonoma della giustizia; imponendo però al nuovo Comune la solidarietà con la Chiesa Fermana e la proibizione di vendere terre a estranei.

     Mi pare di poter affermare che il Vescovo Attone, nel suo lungo Pontificato, abbia mirato principalmente a dare una organizzazione unitaria al suo immenso feudo, con lo scopo non confessato di costituire un potente principato fermano, capace di far valere il suo peso nelle interminabili lotte tra il Papato e le potenze avversarie.

     La sua politica fu seguita dai suoi successori Grimaldo, Alessandro II e ancor più da Liberto (1128-1145) che appena eletto costituì il Comune di Monte Santo (Potenza P.); da Presbitero (1184-1202) che il lavoro per consolidare i comuni; fino ad Adenulfo (1205-1213) il primo Vescovo-Conte di Fermo, investito della Contea “per vexillum”, da Papa Innocenzo III.

DIFFICOLTA’ PER FERMO NEL SEC. XII

     Allo stato delle cose, religiosamente positivo, politicamente efficiente nel Fermano, non faceva riscontro una condizione altrettanto positiva per la Chiesa Romana.

     Mentre il vescovo Liberto (1128-1145) aveva bisogno di pace, per organizzare i Comuni Fermani, a Papa Innocenzo II (1130-1143) fu contrapposto l’antipapa Anacleto, sostenuto principalmente da Ruggeri di Sicilia.

     Per difendere l’antipapa, i Normanni occuparono Roma e la Marca Fermana.

     Non sappiamo quale resistenza poteva opporre il Vescovo Liberto coi suoi Comuni, ma la disparità di forze a suo scapito era enorme; e solo con l’intervento dell’Imperatore Lotario II di Sassonia i Normanni furono ricacciati nei loro confini, nel 1137.

     Nella Pasqua di quell’anno, Lotario II passò le feste a Fermo e ricevette la Comunione dalle mani del Vescovo.

     L’ultimo atto del Vescovo Liberto fu l’incastellamento dei signori Gualtieri a San Benedetto in Albula, nel 1145.

     Gli succedette immediatamente, nello stesso anno, il vescovo Balignano (1145-1167, Arcidiacono della Chiesa Fermana.

     Veniva da una nobilissima famiglia comitale, poiché  figlio del conte Giberto.

     Per la sua elezione, i suoi fratelli degli donarono il castello di Francavilla, con tutti i suoi abitanti e le sue pertinenze9.

     Seguito la politica dei suoi predecessori, organizzando sempre meglio e accrescendo il numero dei Comuni Fermani.

     Ricostituire fortificò il castello di Morrovalle, la qual cosa lo portò alla guerra col Marchese di Ancona, un personaggio nuovo nella nostra storia.

     Era successo che, nel 1112, contro l’aperta opposizione del Papa Pasquale II, Enrico V aveva affidato la Marca al Marchese Guarniero, allo scopo di farne una provincia dell’Impero, mentre essa era di diritto pontificio.

     Questo marchese non sembra un arrabbiato antipapalino, perché con una scrittura dello stesso 1112, il vescovo Attone gli diede in enfiteusi per tre generazioni il castello di Agello (Ripatransone); in quel documento il Vescovo loda la bontà di lui e si dice grato di tanti benefici del Marchese verso la Chiesa Fermana10.

     Il Marchese ebbe discordie con il Vescovo Balignano fu il figlio, che si chiamava Guarniero come il Padre. Il fatto è questo.

     Balignano, ricco e potente come vescovo, appoggiato dai suoi vecchi fratelli, vuole fare del villaggio di Morrovalle un grosso castello fortificato, che diede in feudo ad Alberto di Montecosaro, che nominò suo Visconte

     Il Marchese di Ancona Guarnerio non vedeva certo di buon occhio la potenza del vescovo fermano, e tantomeno che si fortificasse verso i suoi confini e, circa il 1153, assalì il territorio fermano.

     L’esercito di Balignano respinge sul principio le forze del Marchese; avanzò anche sul territorio di lui distruggendo il castello di Casio, ma poi dovette ritirarsi e cedette Morrovalle.

     Il tempo era a sfavore del vescovo, poiché Federico Barbarossa era in aspettativa della corona imperiale, che ottenne nel 1155; e Balignano ottenne giustizia solo dopo undici anni. Nel 1164, nel tribunale costituito a Fano presso la chiesa di San Paterniano, presieduto dal vescovo di Trento, Vicario dell’Imperatore, si stabilì che Morrovalle doveva essere restituita al vescovo di Fermo11.

     Forse questa rivincita costò molto cara moralmente al Vescovo Balignano; poiché, esaminando la successione cronologica dei fatti, mi son convinto che fu per ottenerla, che nel conciliabolo di Pavia del 1160, insieme ad altri, anche Balignano firmò a favore dell’antipapa Vittore IV, ivi proclamato.

DISTRUZIONE DI FERMO

     Forse nessun Imperatore si accanì tanto contro gli Italiani e contro il Papa, e forse nessuno raccolse in Italia tante umiliazioni, quante Federico Barbarossa.

     Ogni volta che scendeva nella Penisola, portava il terrore; ma sempre doveva affrettarsi a ripartire a causa di pestilenze, regolarmente inseguito da ribelli italiani che decimavano quella parte del suo esercito risparmiata dalla peste.

     Eppure i Comuni italiani non erano contro l’Imperatore.

     Essi riconoscevano la sua autorità, ma non sopportavano l’oppressione e lo sfruttamento del feudatari che egli difendeva: volevano la libertà.

     E siccome avevano trovato un grande Papa. Alessandro III (1150-1181) che favoriva i loro ideali, non sopportavano che l’imperatore volesse imporre i suoi antipapi, fecero di Alessandro III la loro bandiera; in suo onore fondarono una città, Alessandria; e da quella città iniziò il declino di Barbarossa.

     Tutte le crudeltà dell’Imperatore non valsero a fiaccare i Comuni italiani: nel 1162, distrusse Milano, ma dopo cinque anni i Comuni longobardi concordi l’avevano ricostruita più forte e giurarono a Pontida di difendere la loro libertà, uniti nel nome di Alessandro III.

     Il Barbarossa ridiscese in Italia dopo poco tempo, ma a Legnano, il 29 Maggio 1176, subì una sconfitta che fiaccò per sempre la sua prepotenza.

     Chiese la pace del Papa, con l’intento di separarlo dai Comuni lombardi, ma Alessandro rispose: “Che preferiva essere segato in due dai nemici, piuttosto che fare la pace senza i Comuni”; e questi dall’altra parte: “preferiamo la guerra nell’unità della Chiesa, piuttosto che la pace con la divisione da essa”. Fu durante questi tentativi allo scopo di fiaccare la resistenza del Papa che il cancelliere dei Federico, Cristiano Won Buk, detto “il Cancelliere Cristiano”, rivolse le sue forze contro la Marca Fermana, il territorio della Chiesa più ricco più organizzato.

     Non sappiamo dei danni subiti dai vari Comuni Fermani, perché mancano documenti, ma certo il Cancelliere non ebbe nella Marca la mano tanto leggera, poiché era recente lo smacco subito in Ancona, che non era riuscito a sottomettere; e ricordava sicuramente che i Comuni Fermani, pochi anni prima, concordi col loro Vescovo avevano rintuzzato tanto bene le la prepotenza del Marchese di Ancona Guerniero.

     A Fermo poi, loro capitale, era riservata la sorte di Milano, di Crema e di Spoleto.

     Occupata dalle truppe del Cancelliere, il 21 settembre 1176, saccheggiata e data alle fiamme.

      Nell’incendio perirono, insieme a tanti cittadini, i migliori edifici, compresi la Cattedrale coi suoi tesori e l’archivio; l’episcopio attiguo alla Cattedrale; il vicino palazzo dei Priori12.

      Era vescovo di Fermo Alberico, del quale non conosciamo la fine che deve cadere in quello stesso anno, poiché al convegno di Venezia del 1177, nel quale si firmò la pace tra il Papa, i Comuni e l’Imperatore, insieme ad altri vescovi del Piceno, non figura Alberico.

     Mentre ci sono documenti sulla distruzione di Fermo, nessuno ci parla della sua ricostruzione che sicuramente cominciò subito, dietro la guida dei suoi Consoli.

     Nell’agosto del 1177, da Venezia, Alessandro III scrisse ai vescovi della Marca, e al Comune di Fermo che si interessassero delle chiese della città, imponendo a chi ne fosse detentore la restituzione dei libri e delle suppellettili da esse asportati.

      Esorta i chierici e fedeli ad essere generosi nell’aiutare i canonici nella ricostruzione della cattedrale, al fine di scontare i loro peccati13.

     Nella cattedrale di risorse, ma fu completata solo nel 1227, dell’architetto Giorgio da Como14.

NOTE

1   CATALANI – De Eccl. Firm. – App. n. XV p. 128 “…. in ipso monte qui vocatur Agello qui edificata

      est ipsa civitate quan fecit Ulcandinus….”

2   GIORGI E BALZANI – Reg. Farf. Vol. V – p. 389

3   CATALANI – app. n. XX

4   CATALANI – app. n.XIX

5   CATALANI – De Eccl. Firm. Etc. – Passivus p. 100

6   CATALANI  – Ivi – Actius p. 130

7   Tipico in questo senso è l’accordo del Vescovo Presbitero con la comunità di Monte Santo(leggi

      Potenza Picena). (Catalani – app. n. XXXVIII).

      “Item nostrae civitati Firmanae promisistis hostem seu exercitum et parlamentum cum requisiti

      fueritis a consulibus rectoribus et potestate ….. Item nostrae civitati  promisisyis suis inimicis

      vivam guerram facere et amicis suis vivam pacem tenere …. Item promisistis quod quicunque

       civium Firmanae civitatis intra Monte Santo causas abuerit sicut personas vestras eum tractare

       debetis, et personas et res civium in tota fortia vestra salvare et defendere promisistis”.

       Avete promesso alla nostra città di Fermo accordo e aiuto militare quando ne sarete richiesti dai

      Rettori e dal Podestà …. Che qualunque cittadino fermano avesse interessi a Monte Santo sarà da

      voi trattato come vostro cittadino ecc. …..

8   CATALANI – Ivi app. XXII

9   CATALANI – De Eccl. Firm. – Balignano p. 189

      Forse i fratelli diedero al vescovo Balignano il castello di Francavilla come sua parte di eredità;

      perché, diventato Vescovo, non faceva più parte della famiglia.

10 CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. XXII

11 CATALANI – ivi – app. n. XXVIII e XXIX

12 ANTON DE NICOLO’ – Cronache Fer, – “In festo Beati Mathei mense Septembri, civitas Fermana

      fuit invasa, occupata et destructa ab archiepiscopo Maguntiae, dicto alias Cancellario Cristiano”

13 CATALANI – app. n. XXXII

14 CATALANI – De Eccl, etc. – Diatribe p. 37.

CAPITOLO IV


FERMO ALLA FINE DEl SEC. XII

     Costretto dalla pace di Venezia, Federico Barbarossa più comprensivo verso i comuni italiani. Un “Privilegio” del Cancelliere Cristiano di Magonza, nel 1177, l’anno successivo alla distruzione, ridà a Fermo i beni la libertà che godeva prima della eversione1.

     Fermo seppe approfittarne, e riacquistato un po’ la calma, nel 1189 promulgò il suo primo “Statuto” ed elesse il suo primo “Podestà” nella persona di Baldo di Nicola, da Firenze.

     Nel 1190, muri Federico e l’anno appresso fu consacrato imperatore da Celestino III il figlio Errico VI, al quale non andava troppo a genio la floridezza dei comuni marchigiani; ed anche Fermo ricadde sotto il controllo dei funzionari imperiali.

   Enrico VI, impegnato nella conquista della Sicilia tenuta da Tancredi, ritenne che il marchese d’Ancona fosse troppo arrendevole verso la Chiesa e non desse sufficienti garanzie per il sicuro possesso della Marca, e lo sostituì con Marcoaldo di Anweller, che poi i Fermani per disprezzo chiamarono “Marcoaldo di Anninuccia”2.

     Fu un Marchese feroce contro i Comuni, contro i Vescovi, contro i monasteri e le chiese, tanto da acquistarsi una buona collezione di scomuniche da parte del Papa.

     Particolare impegno unisce nel perseguitare il Vescovo di Fermo, vedendo in lui il principale ostacolo; tanto che il Vescovo Presbitero, non potendone più e non trovando nessun luogo della Marca sicuro per lui chiese al Papa di trasferirsi in Dalmazia. Ma Celestino III gli raccomanda di essere forte e di restare al suo posto, perché attendeva il prossimo arrivo dei rappresentanti dell’Imperatore per trattare certi accordi, avrebbe trattato anche il suo caso3. Se accordi con l’Imperatore ci furono, non lo so; però l’anno appresso il 28 settembre 1197, Enrico VI morì ancora giovanissimo, e nel Dicembre dello stesso anno, Celestino III ordinò al vescovo di Fermo e all’Abate Farfense che raccogliessero dalla città e dai castelli della Marca fino a Rimini, il giuramento “che non obbediranno ai tedeschi (Teutonicis), ma resteranno fedeli alla Santa Sede4”.

     La morte inaspettata dell’Imperatore aveva prodotto un po’ di incertezza tra i Ghibellini della Marca e Celestino III ne approfittò per preparare la riscossa contro Marcoaldo.

     Il Marchese era ancora forte, ma la sua posizione non si presentava più sicura come prima, di fronte a un futuro politico incerto, in una regione che lo odiava e senza l’appoggio del suo imperiale protettore.

     Inoltre, pochi mesi dopo, anche l’imperatrice Costanza morì, lasciando un figlio di tre anni, Federico II.

     Per la morte di Costanza, Marcoaldo dovette recarsi in Sicilia, della quale circostanza approfittarono i Comuni Marchigiani, per prepararsi contro di lui.

      L’urto più feroce dei ghibellini lo sostenne Ripatransone.

      In assenza del Marchese la città si era fortificata di mura, senza il permesso di lui che, tornato dalla Sicilia, volle punirla.

     Assalita da un forte esercito di ghibellini guidati dal marchese, dopo un lungo assedio sostenuto era ovviamente, Ripatransone fu presa e incendiata, nell’Agosto 1198, ma da quella città cominciò la fine di Marcoaldo.

     L’esempio di Ripatransone fu seguito dalle altre città marchigiane, e Marcoaldo dovette fuggire in Sicilia, dove morì poco dopo5.

     Nel 1198, con la fine di Marcoaldo, incomincia per Fermo una nuova epoca di sviluppo, di crescente potenza, e anche di dure lotte.

ORGANIZZAZION POLITICA DEL FERMANO NEL SEC XIII

     Non è una cosa troppo semplice capire la complicata organizzazione politica del Fermano, nel secolo XIII.

     Fermo era un libero Comune, organizzato ben governato dai suoi Priori, dal suo Podestà in una regione spettante di diritto la S. Sede, ma di fatto contesa aspramente tra il Papa e l’Imperatore.

     Nel periodo di prevalenza imperiale, i Priori erano controllati e il Podestà imposto dai messi imperiali; in periodi di prevalenza papale, le autorità erano elettive e godevano di una maggiore libertà d’azione, senza timore di interventi armati, che non erano nello stile e nelle possibilità del governo pontificio.

     Ciò non toglie che l’autorità pontificia fosse molto sentita, poiché, come appare da tanti documenti, il Papa si limitava ad esortare, a raccomandare, ma tutti sapevano che, pur non avendo un forte esercito, aveva un’arma morale capace alla occorrenza di annientare perfino la potenza imperiale.

     Benché i feudatari, i grossi terrieri, cercassero ancora di resistere al Comune, pure cominciavano a piegarsi, costretti dal timore dell’isolamento materiale e morale che li minacciava.

     Il più grande feudatario del fermano era il Vescovo; ma il Comune di Fermo non faceva parte del suo feudo e non c’era nessuna interdipendenza politica tra le due autorità.

     Il vescovo non interferiva nel governo comunale, benché la sua autorità pesasse molto, sia perché Vescovo, sia perché potente signore.

     Tra il Vescovo e il Comune c’era stata sempre intesa e collaborazione, poiché l’uno e l’altro capivano che in questo poggiava la loro sicurezza.

     La collaborazione positiva col Comune di Fermo incoraggiava il Vescovo a estendere accordi similari con altre popolazioni del suo feudo, e così erano sorti Comune di Civitanova, di Macerata, di Potenza Picena, e altri erano in preparazione.

     Non si deve quindi confondere il Comune di Fermo, col feudo del Vescovo di Fermo; erano due cose ben distinte.

     Il Comune governava la popolazione nell’ambito del suo territorio; il Vescovo governava il suo feudo che comprendeva un territorio molto più vasto; con città e villaggi che, anche diventati liberi Comuni, restavano legati a lui e gli giuravano fedeltà come a Caposignore.

     Possiamo quindi comprendere come la potenza del Vescovo fosse maggiore di quella del Comune, il quale però, lo ripetiamo, non dipendeva politicamente da lui.

     Questa libera ma insostituibile alleanza tra il Comune di Fermo il suo Vescovo, nel 1199, alla fine del governo di Marcoaldo, quando i Comuni del Fermano riacquistarono la piena libertà, prese un nuovo indirizzo: i vescovi tentarono una maggiore unità tra i Comuni della loro Diocesi.

      Il loro ideale sarebbe stato trasformare l’immenso feudo in un  principato ecclesiastico con capitale Fermo, ma nel secolo XII non era stato possibile, perché i vari Comuni erano troppo gelosi della loro recente autonomia: Fermo non si sarebbe rassegnata a difendere politicamente dal suo Vescovo; e i Comuni della Diocesi non avrebbero sopportato il predominio di Fermo: i tempi non erano ancora maturi, ma si era su questa via.

     E abbiamo visto come il Vescovo Presbitero, nel 1199, impose al Comune di Potenza, in cambio di tanti privilegi, l’alleanza con la città di Fermo e riguardi particolari per i suoi cittadini6.

LA CONTEA DEL VESCOVO DI FERMO

     Innocenzo III (1198-1216), uno dei più grandi papi della storia, fu anche uno di quelli che più si occuparono delle Marche.

      Nel programma di riordino dello Stato della Chiesa, questa regione richiedeva una particolare attenzione, perché da essa, a lungo dominata dai tedeschi, erano venute tante preoccupazioni alla S. Sede.

       Innocenzo III, come si impegnò a sfrattare dalla Sicilia i feudatari tedeschi, per conservare intatto il regno al suo pupillo Federico II, affidatogli dall’imperatrice Costanza, così si preoccupò di richiamare i Comuni Piceni alla concordia e alla collaborazione, sotto l’autorità della S. Sede, per assicurare la loro futura libertà.

     Niente scissioni, ma concordia e collaborazione, per il bene di tutti.

     Appena eletto Papa, revocò la bolla di Celestino III che istituiva, nel 1192, una quasi Diocesi in Offida e sottraeva quella città al controllo dell’Abate Farfense7; e nel 1203, i Comuni Piceni furono convocati a Polverigi; per giurare perpetua concordia reciproca.

     A parte il feudo Farfense che aveva dimostrato fedeltà alla S. Sede, come a suo tempo l’aveva professata verso l’Imperatore, la zona che nella Marca presentava maggiore affidamento per il futuro era il feudo del Vescovo di Fermo, con i suoi Comuni ben organizzati e vitali.

      Bisognava incrementare l’efficienza di questo immenso territorio che si estendeva dal Potenza al Tronto.

     Nel 1205, fu eletto vescovo di Fermo l’energico Adenulfo, e Innocenzo III lo nominò conte del suo feudo, investendolo  “per vexillum”, come si diceva allora: il primo  Vescovo-Conte di Fermo, con tanto di insegne comitali.

     Col feudo Farfense e colla Contea del Vescovo, la Marca Fermana si poteva considerare abbastanza al sicuro dal Potenza al Tronto.

     Per dare sicurezza alla rimanente regione più a nord, che veniva comunemente chiamata Marca Anconetana, Innocenzo III credette utile affidarla in feudo, nel 1208 al Marchese di Este Azzone VI, nominandolo Marchese di Ancona, con l’incarico di conservarla alla chiesa, difendendola da ogni pericolo di invasione8.

     Intento di Innocenzo, ribadito dai suoi successori, era che la concorde collaborazione tra il Vescovo Conte di Fermo e il Marchese di Ancona desse pace e sicurezza alla regione che era stata sempre al centro di tutte le discordie, sia per la sua ricchezza, sia soprattutto per la sua posizione strategica, costituendo la via naturale tra il Nord e il Regno di Sicilia.

     Ma la concordia in quei tempi era difficilissima.

     Ottone IV di Brunswik, scelto e incoronato  Imperatore, nel 1209, da Innocenzo III, perché è di antica famiglia guelfa, l’anno seguente si mise contro il Papa e progettò l’occupazione del Regno di Sicilia, guadagnandosi la scomunica.

     Anche il Marchese Azzone VI passò all’imperatore, dal quale accettò l’investitura di tutta la Marca di Ancona, intendendosi per la prima volta con questa espressione tutta la Marca, fino all’Ascoli.

     Incominciò allora l’ostilità tra il marchese di Ancona e i vescovi di Fermo che durò una quindicina di anni, degradando qualche volta in scontri armati.

UGO II E PIETRO IV

     Nel gennaio del 1214, morto Adenulfo,  fu eletto vescovo di Fermo Ugo II, al quale Innocenzo III rinnovò l’investitura comitale e i privilegi del suo predecessore9.

      Nell’Agosto di quell’anno, si formò intorno al vescovo una lega di grossi Comuni Fermani, decisi a difendere la loro indipendenza dal Marchese di Ancona.

     Giurarono alleanza fra loro e fedeltà al Vescovo il Comune di Macerata, di Morrovalle, di Civitanova, di S. Elpidio e altri Comuni e signori della Contea.

    Per il momento le pretese del marchese furono arginate, sia per la vivace resistenza dei Comuni, sia perché, nel 1215, le cose cambiarono.

     Innocenzo III fece accompagnare in Germania il giovane Re di Sicilia dal Marchese di Este, e ad Aquisgrana Federico II fu proclamato re di quella nazione.

     Per una decina di anni, Federico II dimostrò ossequio alla gratitudine al suo Papa, e poi al suo maestro Onorio III, eletto nel 1216.

     Morto Ugo II, venne eletto Vescovo di Fermo Pietro IV (1216-1223).

     Il nuovo Papa di rinnovò l’investitura di Conte di Fermo, con tutti i privilegi concessi ai suoi predecessori; ma le difficoltà col Marchese di Ancona, Azzone VII (Azzolino) d’Este, si aggravarono.

     In un diploma del 1219, Onorio III, riconfermò al Vescovo Conte il possesso dei comuni di S. Elpidio, di Civitanova, Montecosaro, Morrovalle, Macerata, Montolmo, S. Giusto, Cerqueto, Montegranaro, Montottone, Ripatransone, Marano e Forcella, e scrisse ai Comuni, ai Conti e baroni della Contea che facessero il loro dovere verso il Vescovo Conte, perché il Papa non era disposto a sopportare la loro avversione e il loro disfattismo né riguardi del Vescovo10.

     Difatti questi signori cercavano di creare difficoltà al Vescovo Conte, incitati sia dal Marchese di Ancona, sia da Consolino coppiere dell’Imperatore e da Bertoldo, figlio del Duca di Spoleto, ai quali si aggiungeva Guglielmo da Massa e altri signori della Marca.

     Dietro le lamentele dei Vescovi, nel 1223, Federico II scrisse loro e a tutti gli abitanti nel Ducato Spoletino e della Marca d’Ancona che egli Imperatore (era stato coronato nel 1220) sconfessava l’operato dei sudditi Consolino e Bertoldo e dichiarava decaduti  tutti gli incarichi conferiti da loro in suo nome.

     Tutti invece debbono riconoscersi vassalli del Romano Pontefice e ubbidire a lui solo11.

     Ma la lettera dell’Imperatore non poteva reintegrare la Contea del Vescovo che aveva subito danni e perdite irreparabili, anche perché contro di essa stava il Legato Pontificio di Ancona.

     Nel 1221 Gisone, tutore procuratore del giovane Marchese di Ancona, Azzone VII  d’Este, per dare un aspetto giuridico alle usurpazioni operate nella Contea, fece nominare arbitri della questione col Vescovo, il Patriarca di Aquileia e Pandolfo, Legato Pontificio.

      I due illustri personaggi sentenziarono che le cose restassero come stavano, per tre anni, passati i quali, il Vescovo avrebbe potuto far valere in giudizio le sue ragioni.

     Noi diremmo: per ora quel che è stato, è stato; appresso si vedrà.

     Ma quel che era stato era tutto a danno del Vescovo, che perdeva, con Montolmo e Macerata, tutta la parte della Contea sopra il Chienti, eccettuata Potenza Picena12.

RAINALDO (1223-1227)

     Nel 1223 morì  Pietro IV, e Onorio III nominò vescovo di Fermoil “nobilem et provi dum et honestum” Rainaldo di Monaldo, e scrisse al clero ed al popolo della città e della Diocesi, ordinando che il Vescovo fosse accolto festosamente (ilariter) e gli fossero riconosciuti tutti i diritti accordati dai Romani Pontefici.

     Il Papa approva fin da ora tutti i provvedimenti che il Vescovo prenderà contro i ribelli13.

     Rainaldo, sostenuto dal Papa, incominciò subito a lottare per la reintegrazione il riordino della contea; ed essendo il principale avversario di essa il Legato Pontificio Pandolfo, Onorio III gli scrive il 24 Marzo 1224, ordinandogli che sia restituita al Vescovo tutta la Contea e tutti gli antichi diritti14.

     Il 20 agosto 1224, il Comune di Fermo, S. Elpidio, Civitanova, Monte Santo, Morrovalle, Montelupone, Macerata, Montolmo, Monte Giorgio, Monterubbiano, nella Cattedrale di Fermo, giurarono fedeltà al Vescovo e collaborazione reciproca, per difendere la loro libertà e i diritti della Chiesa Fermana15.

       Ma il Marchese Azzolino non si rassegnava a sopportare il Vescovo Conte e ordinò spedizioni punitive a Montelupone, a Macerata, a Montolmo e occupò Montegiorgio, recando gravi danni alla Contea.

       Il Vescovo Rainaldo ricorsi al Papa (1225), fornendogli anche la documentazione sulla legittimità del possesso del Vescovo su quei Comuni16.

       Il 3 Novembre 1226, Onorio III , comanda al Marchese di riparare i danni recati alla Contea del Vescovo, rimproverandolo per la sua ribellione agli ordini del Romano Pontefice, e lo minaccia: “Non devi credere che siamo disposti a sopportare le tue prepotenze verso le chiese, perché essi toccano da vicino la nostra persona”17.

     Ma l’anno seguente, con la morte di Onorio III, le cose cambiarono.

     Il successore Gregorio IX, o perché vedeva impossibile un accordo tra Azzolino d’Este e il Vescovo, o perché la potenza del Vescovo Conte faceva ombra alla Curia Romana, chiamò alla sua presenza il Vescovo e il Marchese e stabilì: Monterubbiano, S. Elpidio, Civitanova, Montelupone, Morrovalle, Macerata, Montolmo e Montegiorgio, pur restando proprietà della chiesa di Fermo, passassero sotto l’amministrazione del Legato Pontificio Rolando.

     Il Vescovo si sottomise al volere del Papa, a condizione che questa decisione fosse provvisoria e non recasse pregiudizio, né al diritto di proprietà, né all’attuale economia della sua Chiesa18.

     Spezzata così la Contea, i Vescovi di Fermo dovettero subire il prepotere dei Legati e dei Rettori Pontifici.

      Morto Rainaldo, nel 1227, dopo quasi due anni di amministrazione del Legato Pontificio Alatrino, nel 1229, Gregorio IX trasferì il vescovo Filippo II dalla Sede di Jesi a quella di Fermo, nominandolo Conte con tutti i diritti 19.

“In Dei nomine Amen. Ad honorem et bonum statum Sanctae Firmanae Ecclesiae et librtatis firmanae et Comitatus defendensun, nos Firmani cives et nomine Comitatus, scilicet S. Elpidi, Civitatis Novae, Montis Sancti, Murri, Montis Luponis, Maceratae, Montis Ulmi, Montis S. Mariae, Montis Rubiani simul promittimus jurisdictionem Ecclesiae Firmanae …… defendere et mantenere in suo bono statu pro posse etc. (ex Reg. Episc. P. 123 – Catalani app. n. LI).

“Affine di conservare l’onore e la proprietà della Santa Chiesa Fermana, e la libertà di Fermo e della contea, noi cittadini per mani e gli uomini della contea cioè: di S. Elpidio, Civitanova, Montesanto (Potenza Picena), Morrovalle, Monte Lupone, Macerata, Montolmo (Corridonia), Monte S. Maria (Montegiorgio), Monte Rubbiano, promettiamo di difendere unite, mantenere nell’attuale buona condizione la sovranità della Chiesa Fermana, ecc.”

     ma nel 1231, il escovo dovette vendere (è l’espressione del documento, che però doveva significare qualcosa di più) al Rettore dei beni ecclesiastici del Ducato di Spoleto e della Marca Anconetana i frutti della Contea di due anni, per duemila lire; il documento dice: “per pagare i debiti della Chiesa Fermana20”; e nel 1233, dovette vendere al Rettore della Marca di Ancona, card. Giovanni Colonna le rendite della Contea di tre anni, per quattromila lire21; e con lui svanì la Contea dei Vescovi di Fermo.

     Il Vescovo Conte Filippo II, nell’occupazione di Fermo da parte dell’esercito imperiale, nel 1242, dovette fuggire a Venezia, dove per qualche anno visse di elemosina22.

     D’altra parte la Contea di Fermo aveva terminato la sua missione: aveva consolidato i Comuni Piceni e aveva insegnato loro a difendere la propria libertà, in collaborazione tra di essi e con la Chiesa.

     Il suo compito era finito, ora che il Legato Pontificio della Marca era in grado di imporre l’autorità della S. Sede nella Regione; e si stava profilando uno Stato Pontificio più forte e unitario.

NOTE

1    M. DE MINICIS – Annotazioni alle Cronache Fermane.

       “Copia privilegi Christiani Arch. Magun, confirmantis omnia civitatis Firmanae bona, jura,

       rationes, justitias, terras agros,  vineas ac remittentis eandem civitatem et nomine in eadem

       libertatem, quam ante civitatis destructionem habuerunt, et relevantis eos seu ean intra

      proximos quinque annosa b omni exactione vel dativa quovis modo a quoquam hominum

      exacta”. Dat a. D. 1177, apud Assisium etc. (Ripreso dal belga Michele Hubart).

2    CATALANI – De Eccl. etc. – app. XXXV – Il documento riporta certi accordi tra Guttebaldo e il

       Vescovo Presbitero.

3    CATALANI – Ivi – app. n. XXXVI

4     CATALANI – Ivi – app. n. XXXVII

5     TANURSI – Memorie storiche di Ripatransone – in Colucci – A. P. t XVII

6     CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. XXXVIII

7     La bolla di Celestino III si conserva nell’archivio della collegiata di Offida. Appena eletto, nel

        1198, Innocenzo III conferma all’Abate di Farfa: “Item Monasterium  S.tae Mariae in Offida cum

        eodem castro, cellis et aliis pertinentiis sui set cum ecclesiis”. (Ex arch. Rot. Archininnas Rom.).

8     CATALANI – Ivi – Petrus IV – p. 167

9     CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. XLIV

10   CATALANI – Ivi – Petrus p. 162

11   CATALANI- Ivi – app. n. XLVIII

12   CATALANI – Ivi  app. n. XLVII

13   CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. XLIX

14  CATALANI –  Ivi  app. n- L

15   CATALANI – – app. n. LI – il Comune di Ripatransone si rifiutò di pagare i tributi al vescovo. Nel

        1225, Rainaldo spedì 1 gruppo di armati contro quel Comune, che allora era in guerra con

        Offida.

16    CATALANI – Ivi app. n. XXIII

17    CATALANI – De Eccl. etc. – app. n. LV

18   CATALANI – Ivi app. n. LVIII

19   CATALANI – Ivi app. n. LIX

20   CATALANI – Ivi app.  n. LIX

21   CATALANI – Ivi app. n. LX

22   CATALANI – Ivi app. n. LXIV

CAPITOLO V

FERMO E FEDERICO II

Fermo capitale della Contea

     Nel 1212, Azzone  VI d’Este. Marchese di Ancona, investito da Ottone IV di tutta la Marca, trovò un ostacolo insormontabile nella Contea di Fermo.

     Si tentò allora di dividere Fermo dal suo Vescovo e, a questo scopo l’Imperatore largheggiò di privilegi verso la città: concesse il mero e misto impero; la zecca e il possesso esclusivo del litorale, da Potenza al Tronto.

     Non so come il Comune di Fermo accolse i privilegi e se essi conseguirono l’effetto sperato; intanto essi c’erano, anche se probabilmente il possesso del litorale restò sulla carta per una ventina di anni, perché avrebbe messo il Comune contro il Vescovo Conte, tanto più che, nel 1214, il Marchese Aldobrandino nominò signore di Fermo Guglielmo Rangone di Modena; questo provvedimento sicuramente raffreddò il Comune che non tollerava signori e riaccese lo spirito di libertà nei Comuni della Contea che si strinsero, nell’Agosto di quello anno, intorno al Vescovo Ugo II, giurando di difendere uniti la loro libertà1.

     Se nel 1221, quando l’invadenza del marchese Azzolino d’Este fu favorita dal Legato Pontificio Pandolfo, Fermo fu dominata per breve tempo dal Marchese.

     Ma nel 1224, il Vescovo Rainaldo incominciò a battersi per la reintegrazione della Contea, e Fermo aderì al suo Vescovo Conte e gli prestò, per una decina di anni, la più fedele collaborazione2.

     Nel 1229 per la prima volta, il Comune di Fermo intraprese un’azione politica e diplomatica su vasta scala, e in nome proprio.

       La prepotenza di Azzolino favorita dal legato pontificio e la rettoria della Diocesi Fermana affidata al Card. Alatrino per due anni (1227-1228) avevano indebolito il potere politico del Vescovo Conte, ma avevano accresciuto l’intraprendenza del Comune di Fermo e la sua intenzione di raccogliere l’eredità politica.

     Fermo aveva lavorato e combattuto in collaborazione e sotto la guida del suo Vescovo, ora che questa guida minacciava di venir meno, il Comune si sentiva la forza di seguitare in proprio la politica del Vescovo Conte.

RESISTENZA A RINALDO DI URSLINGEN

              DUCA DI SPOLETO

     nel 1228, Federico Secondo, partendo per l’oriente, aveva lasciato suo luogotenente Rinaldo, duca di Spoleto, il quale si insediò in Ancona E incominciò l’invasione della marca, contro le proteste di Gregorio IX.

     L’ostacolo principale per Rinaldo era costituito da Fermo e dai Comuni della sua Contea.

     Il duca cercò di isolare Fermo, concedendo privilegi a vari comuni e conseguì qualche risultato con S. Ginesio, cui concesse il castello di Pieca; con Ripatransone, alla quale offrì  il permesso di demolire e incastellare Massignano e Cossignano3; e tentò anche l’occupazione di Montegiorgio.

     Il Comune di Fermo pensò di accrescere la resistenza, invitando all’alleanza i signori che ancora dominavano nell’Alto Fermano.

     Questa zona che va dalla linea Monteverde-Mogliano-Petriolo fino ai monti, era posseduta da numerosi signori, quasi tutti parenti tra di loro, che i più tra gli storici dicono discendenti dai Mainardi o dagli Offoni e di provenienza Franchi4.

     Per essi in questa zona tardarono molto le autonomie comunali, se si fa eccezione per Sarnano, S. Ginesio e parzialmente Urbisaglia, che dovettero combattere duramente.

     Essi erano: Fildesmido da Mogliano, Guglielmo e Federico da Massa, Rinaldo da Petriolo, Giovanni e Monaldo di Penna San Giovanni, Rinaldo di Loro, Balignano di Falerone, Rinaldo da Monteverde, Ugo da Monte Vidon Corrado e altri, i quali opprimevano i loro vassalli e in quell’epoca che i comuni del fermano godevano già della più completa autonomia, mantennero rigorosamente il più arretrato sistema Feudale5.

     Appresso vedremo che da questi signori, inseriti si nella vita Fermana vennero quasi tutti i tiranni di quella città.

     Tutti questi signori risposero, nel 1229, all’invito delle Comune di Fermo e accettarono l’alleanza, perché era per loro molto conveniente in quelle pericolose circostanze; ma imposero delle condizioni che Fermo, in tempo diverso, non avrebbe mai accettato, perché lesive dei principi che regolavano le libertà comunali.

       Ma il pericolo che incombeva era grande, e bisognava accordare qualche cosa questi signori che disponevano di ricchezze e di forza militare non indifferenti.

    L’accordo tra il Comune di Fermo e questi signori “Contadini” ha una grande importanza, per la migliore comprensione della storia del tempo6.

     Particolare attenzione meritano alcuni articoli del documento.

     Articolo n. 2: il Comune di Fermo si obbliga a non ricevere in avvenire ivassalli fuggiti dalle terre di quei signori, specialmente da Torre San Patrizio7.

     Questo, perché la fuga dei vassalli dai campi, nei luoghi dove ancora non esistevano le libertà comunali, era diventato un fenomeno impressionante.

     Fuggivano in cerca di libertà e si rifugiavano nei Comuni, dove venivano protetti, sia per accrescere il numero dei cittadini efficienti, sia perché il Comune non tollerava la servitù della gleba.

     Articolo n. 3: il Comune di Fermo si obbliga a costringere i Comuni della sua Contea, a restituire vassalli di quei signori, qualora vi si rifugiassero8.

       Questo articolo suppone una autorità di Fermo sui Comuni della Contea,

       Inoltre ci fa vedere che lo scopo principale dell’accordo, per quei signori, era impedire in ogni maniera la fuga dei loro vassalli; evidentemente questa fuga era il pericolo più grande che incombeva su di essi.

     Articolo. 14: siano salvi i diritti e gli ordini della Sede Apostolica; ma una parte deve aiutare l’altra, se attaccata da una signoria più forte. Si allude al Duca Rinaldo.

     Articolo n. 18 : se il territorio di Fermo sarà attaccato inaspettatamente di qua dal Chienti, noi ”Contadini” correremo in aiuto al cenno del Podestà di Fermo9.

     L’accordo fu firmato nel Consiglio Generale del Comune di Fermo, l’ultima domenica di Settembre del 1229, dal “Sindicus” = incaricato speciale del Comune per questo accordo; avanti al “Potestas” di Fermo: Guido da Landriano: al “Judex” del Comune: Villano;  al “Miles Potestatis”: Antonio; al “Massarius” del Comune: Filippo Giusti.

ORGANIZZAZIONE COMUNALE

     In mancanza di altre testimonianze valide e per non azzardare di scrivere cose non corrispondente a verità, mi appoggio al suddetto documento, per dire qualcosa dell’organizzazione del Comune Fermano di quel tempo.

     Gli “Statuta Firmanorum” che conosciamo sono gli statuti riformati dal fermano Marco Martello, nel 1506. Il complesso delle disposizioni legali saranno state per la gran parte le stesse; però l’organizzazione comunale, con l’andar del tempo, avrà sicuramente subito modifiche e perfezionamenti suggeriti dall’esperienza.

     Dal documento trattato sopra risulta che il Consiglio Generale era composto da 208 consiglieri scelti dal popolo. Erano rappresentate nel Consiglio tutte le classi sociali con esemplare democraticità e senza privilegi; semmai i commercianti e gli artigiani, organizzati in forti associazioni e guidate dai loro “capitani”, facevano sentire maggiormente il loro peso.

     Il Consiglio Generale eleggeva tra i suoi componenti il Consiglio SPECIALE, o consiglio di Cernita, o delle proposte. Era un consiglio di non più di 150 consiglieri, cittadini di condizione popolare, non nobile; dell’età di non meno di 25 anni; con reddito di almeno 50 lire. Aveva l’incarico di preparare gli argomenti da discutere, quando “sono campanae et voce praeconis” si adornava il Consiglio Generale. In esso ogni consigliere poteva prendere la parola, ma dopo aver giurato di parlare senza secondi fini.

     Il Consiglio Generale eleggeva tra i suoi componenti le autorità comunali, che ordinariamente restavano in carica per 6 mesi e vigilavano sulla esecuzione delle delibere del Consiglio. Essi erano:

“Sei PRIORI”, uno per ognuna delle 6 contrade che componevano la città. A capo dei priori un “MASSARIUS = Massaro”, che più tardi si chiamò indifferentemente anche “Sindicus”10.

     Il “Massarius” impersonava il Comune in tutti gli atti ufficiali e, per sei mesi, era il responsabile di tutto l’andamento del Comune; quindi era suo ufficio vigilare sull’operato anche del Podestà e di tutti gli impiegati comunali.

     Il Consiglio Generale eleggeva anche gli impiegati comunali:

1°- “IL PODESTA’ era sempre un  egiurisperito forastiero, che restava in carica  

        ordinariamente per sei mesi. Aveva alle sue dipendenze alcuni “milites” che lo 

        accompagnavano sempre e lo assistevano nell’espletamento delle sue 

        mansioni.

        Il Podestà doveva sedere in tribunale e in giorni determinati: vigilare sull’ordine pubblico; controllare, custodire provvedere all’armamento del Comune e interessarsi della sua efficienza militare. Responsabilità gravi che gli venivano retribuite abbastanza bene, ma che doveva esercitare con grande attenzione, perché al termine dell’ufficio doveva venire “sindacato”, cioè sottoposto al giudizio di una severa giuria scelta dal Consiglio.

        Qualche scrittore parla di podestà che imponevano la loro signoria e diventavano dittatori. Ma no; nelle Marche non conosciamo nessun Podestà dittatore11.

Il podestà era un semplice impiegato comunale; impiegato speciale che impersonava la “POTESTAS” giuridica e militare conferitagli dal popolo; ma era strettamente controllato dall’autorità comunali. E i sei mesi che esercitava il suo ufficio non erano sufficienti per prepararsi una signoria. 

        2°-  Il “JUDEX”, equivale pressappoco al nostro segretario comunale. Doveva essere cittadino fermano; assistere per la parte giuridica il consiglio; presenziare alle sedute consiliari e rediger nei verbali; ordinare la riscossione delle molte delle gabelle; sedere al tribunale per le cause minori e in assenza del podestà. Come lui, alla fine del mandato che poteva durare a tempo indeterminato, veniva “sindacato”.

3°-  Il “NOTAIO DEI DANNI”: era un messo comunale incaricato di notificare 

        riscuotere le multe, dietro ordine del Judex.

4°- Il “CURSOR = valletto”o porta ordini.

5°-   Il “TROMBECTA” o banditore che notificava a voce e a suon di tromba la

        convocazione del consiglio, comunicazione del Comune, e altre notizie utili alla popolazione.

6°-  I “PORTIERI”, che venivano cambiati di frequente per il delicatissimo ufficio di aprire e chiudere le porte della città. Il loro lavoro era sospeso nei periodi di emergenza, quando le forze armate vigilavano le mura della città di giorno e di notte.

     In casi particolari, quando si doveva prendere decisioni di singolare gravità il

Consiglio chiedeva che si adunasse il “PARLAMENTO GENERALE” al quale poteva partecipare un membro di ogni famiglia, con facoltà di intervenire nel dibattito.

FEDERICO II E LA GUERRA DEL 1240

     Di Federico II si è scritto tanto e ogni scrittore l’ha giudicato secondo il proprio punto di vista: grande Imperatore per gli scrittori laici; ateo e perfido per gli scrittori ecclesiastici.

Io preferisco attenermi ai fatti.

     Quando morì la madre, Imperatrice Costanza, Federico aveva circa tre anni e, siccome il Regno di Sicilia era feudo della Chiesa, il piccolo Re passò sotto la tutela del Papa che ripose in lui molte speranze. Innocenzo III liberò il Regno di Sicilia da tanti feudatari tedeschi e cercò di mantenere integro e ordinato il regno del suo pupillo, che cresceva alla scuola del futuro Papa Onorio III.

     Nel 1215, Innocenzo III lo fece eleggere Re di Germania, per aprirgli la strada a un futuro titolo di Imperatore. Di tutte queste premure paterne del Papa, Federico si mostrò grato. In una lettera gli scriveva: “tra le tue braccia fui gettato fin dalla nascita …. Protettore e benefattore nostro, Pontefice venerando, dei cui benefici siamo stati nutriti, protetti al pari e innalzati….”.

     La sua condotta cambiò quando fu Papa Onorio III, che era stato suo educatore. Volendo Federico la dignità imperiale, il Papa gli fece giurare due cose: rinunziare al Regno di Sicilia in favore del figlio Enrico, ritenendo solo il titolo di Re di Germania; e guidare la Crociata per la liberazione di Terra Santa: due richieste ragionevolissime, poiché essendo il Re di Sicilia feudatario della Chiesa, non poteva essere eletto Imperatore; capeggiare poi la Crociata era un dovere per l’Imperatore capo dell’Europa cristiana.

       Federico II fece eleggere il figlio Enrico Re di Germania, dicendo poi che era avvenuto a sua insaputa; e Onorio III per amor di pace e sempre sperando che le cose migliorassero, lo consacrò Imperatore, nel 1220. In seguito sopportò pazientemente che l’Imperatore facesse fallire più volte la Crociata, con gravi perdite per tanti Stati europei che mandavano verso Oriente truppe, in attesa che l’Imperatore ne prendesse la guida.

       L’8 settembre 1227, erano raccolti a Brindisi circa 80.000 crociati di ogni nazione europea: erano scelti combattenti della nobiltà svedese, polacca, tedesca, francese, spagnola. Arrivò l’Imperatore e l’esercito crociato si mise in mare; ma dopo pochi giorni, Federico tornò indietro, dicendosi malato. Gregorio IX non sopportò la perfida condotta dell’Imperatore e lo scomunicò.

     L’anno appresso partì da solo per il Medio Oriente, dove concluse un trattato col sultano d’Egitto che allora dominava anche su Gerusalemme e tornò in Italia nel 1229.

     Per calmare le acque pericolosamente agitate da Rinaldo di Urslingen, Duca di Spoleto e dai signori ghibellini, firmò col Papa Gregorio IX il Trattato di S. Germano, nell’agosto del 1230. Ma la pace non venne, perché nell’Imperatore e nei ghibellini non c’era volontà di pace.

      Federico II fu uno degli Imperatori che non compresero i doveri del loro ufficio. Mentre allora il pericolo tremendo per l’Europa erano i Saraceni. Federico II trova il suo principale nemico nel Papa; immette nel suo esercito circa diecimila saraceni, e con essi causa devastazioni nel territorio della Chiesa, non risparmiando chiese e monasteri.

     Scriveva che odiava i papi, perché “essi hanno avuto sete del nostro sangue fin dalla nostra fanciullezza  ….. essi introdussero nel nostro regno l’Imperatore Ottone, per privarci dell’onore, del regno e della vita ”12.

     giustifica il suo odio con un sacco di bugie, in contraddizione con quanto scriveva a suo tempo a Papa Innocenzo III, nella lettera ricordata sopra, nella quale diceva che dal Papa aveva ricevuto ogni bene.

     Come nel Papa, così vide nei Comuni il principale pericolo per l’autorità imperiale come la intendeva lui. In teoria, era padrone assoluto in Europa; ma siccome nessuno governa meno di un governante assoluto, i ghibellini seppero far sentire il loro peso e, spinto da alcuni signori italiani, specialmente da Ezzelino da Romano, signore di Verona, combatté e vinse i Comuni Lombardi a Cortenova, nel 1237, ma da quella vittoria cominciò la sua fine.

     I comuni italiani, vinti non si arresero, ma continuarono a lottare tra mille difficoltà, per un decennio ancora; fino a che Federico II, dopo la disfatta del suo esercito di ghibellini e saraceni presso Parma, nel 1248; dopo la battaglia di Fossalta del 1249, dove i Bolognesi fecero prigioniero il figlio Enzo, morì a 56 anni, nel 1250.

FINE DELLA CONTEA DEI VESCOVI

     Per il Comune di Fermo gli avvenimenti furono duri, ma meno cruenti. Dietro l’ordine di Onorio III prima, e poi di Gregorio IX, che i comuni Piceni si fortificassero, i Fermani nel 1236, terminarono la costruzione del castello del Girfalco e appoggiarono analoghe operazioni nei Comuni vicini.

     Il Vescovo Conte Filippo Secondo, sentendosi impotente a organizzare una resistenza valida nella sua Contea, rinunziò ad essa. In un documento del 1238, Filippo II si dice grato al Comune di Fermo, per la sincera collaborazione prestatagli sempre; loda il Comune per la sua intelligente ed efficiente organizzazione e cede al Comune tutto il territorio di proprietà della Chiesa Fermana, dal Potenza al Tronto, con l’incarico di dienderla da ogni pericolo di invasione.13

        Le forze del Comune di Fermo, cui erano alleate le armi dei Signori “Contadini” dell’Alto Fermano; affiancate dall’esercito dell’Abate di S. Vittoria, erano all’altezza del loro compito. Queste ingenti forze però mancavano di una direttiva unica e soprattutto di coesione morale, per cui, pur combattendo per il medesimo scopo davano la principale attenzione ai loro particolari interessi. Però questo avveniva non solo nella parte guelfa, ma anche in campo ghibellino; perché quella, in effetti, era una guerra civile tra guelfi e ghibellini italiani, le cui forze si equivalevano. Chi faceva pendere la bilancia dalla parte dei ghibellini erano i 14.000 tedeschi e saraceni che l’Imperatore teneva al suo servizio.

     Nel 1239, Enzo, figlio naturale di Federico II e Re di Gallura, invase la marca Anconetana, invano difesa dal Rettore Pontificio Giov. Colonna.

     Dopo i primi rapidi successi che lo portò alla conquista di Osimo di Macerata, trovò una ostinata resistenza dei guelfi a Treia. Prevedendo le gravi difficoltà che avrebbe incontrato nel Fermano, pensò di aggirare l’ostacolo, e mandò una forte schiera di tedeschi e saraceni, al comando di Rinaldo di Acquaviva ad assalire il Presidiato Farfense. Rinaldo marciò direttamente al cuore del Presidiato, assalendo la fortezza di Force, dove si erano concentrate le milizie di Matteo II, guidate dal Vicario Abaziale Fildesmido da Mogliano. Per l’inferiorità delle forze abbaziali, Force cadde presto e gli imperiali dilagarono per il Presidiato, occupando Montefalcone e S. Vittoria, nel 1240.14

     L’occupazione del Piceno fu dura per gli imperiali che dovettero sostenere una battaglia per ogni Comune, e fu quasi completa nel 1242. In quest’anno, per conquistare Ascoli, città notoriamente imprendibile, fu spedito con un esercito Andrea Cicala che vi entrò a tradimento e la devastò, compiendo saccheggi ed eccidi feroci.15

     Nello stesso anno 1242, Fermo si decise a scendere a patti con il Vicario imperiale Roberto da Castiglione, che risiedeva a Macerata. L’accordo conveniva ad ambedue; al Comune di Fermo, per evitare ulteriore spargimento di sangue, la possibile occupazione violenta e conseguenti disastri da parte delle truppe imperiali; e a Castiglione conveniva eliminare pacificamente e al più presto la potenza Fermana, perché i Guelfi non disarmavano affatto, anzi era chiara la loro volontà di rivincita.

        Per il Comune di Fermo non fu difficile dimostrare al Vicario imperiale che la città era stata sempre imparziale tra guelfi e ghibellini; che non aveva più niente da spartire col vescovo Conte, il quale aveva rinunziato tutto al Comune ed era fuggito a Venezia; che ora Fermo era per l’Imperatore, e si sarebbe potuto legarla per sempre a lui, accordandole patti favorevoli. E in questi patti favorevoli furono compresi i privilegi accordati da Ottone IV, nel 1212: il mero e misto impero; la zecca; il possesso della zona costiera dal Potenza al Tronto.

     L’azione diplomatica, sempre molto valida Fermo, l’aveva salvata dalle stragi subite dalle altre città e le aveva conservato l’autonomia di governo, magari controllata dai messi imperiali.

     Con la caduta di Ascoli e Fermo, i ghibellini avevano occupato quasi tutte le città marchigiane; ma il Legato Pontificio Sinibaldo Fieschi, attestato col suo esercito a Penna San Giovanni e sostenuto da alcuni Comuni del Presidiato di S. Vittoria e di Camerino, stava in attesa che la scomunica del Concilio di Lione del 1246, che aveva deposto Federico II da Imperatore, producesse il suo effetto. Dovette aspettare quasi tre anni.

FERMO E RE MANFREDI

       Eempre il Comune di Fermo praticò l’astuta politica del tornaconto, la migliore politica, che lo salvò da tanti disastri. Abbiamo visto come seppe evitare le stragi della guerra del 1240, accordandosi col conte Roberto da Castiglione e sottomettendosi all’Imperatore; ma “non marciò con lui fino in fondo”. Constatata la disfatta dell’esercito imperiale presso Parma, nel 1247, la prigionia di Enzo a Fossalta, nel 1248, capì che per i Castiglione per Federico II rimanevano poche speranze, e nel 1249, chiese accordi al Legato Pontificio Card. Capocci e ritornò alla S. Sede, dietro conferma però dei privilegi dei quali godeva.

     Morto nel 1250 Federico II, seguitarono gli scontri armati tra Guelfi e Ghibellini. Il legato pontificio Annibaldo degli Annibaldeschi credette di poterli sopire, chiamando i contendenti all’accordo di Montecchio (Treia) del 1256; ma, proprio in quell’anno, Manfredi che reggeva il Regno di Sicilia per il nipote Corradino, spedì nelle Marche un esercito guidato da Pencirvalle di Oria, a sostegno dei Ghibellini. Anche allora il Comune di Fermo seppe evitare il peggio. Mandò ambasciatori a Manfredi, nel 1258, sottomettendosi volontariamente, e ottenendo la conferma dei suoi privilegi. La posizione di Fermo era difficile, ma l’astuta politica del suo Consiglio Comunale, equidistante dai due partiti di lotta, le permise di mantenere l’autonomia, della quale approfittò per incrementare i suoi traffici col Regno di Sicilia e con Venezia, con la quale firmò un’alleanza nel 1260.

     Il lettore non capirà come questa politica autonoma il Comune di Fermo possa accordarsi con la sottomissione al re Manfredi. Ma io lo invito a riflettere che i due partiti di lotta, i Ghibellini sostenuti da Manfredi e i Guelfi sostenuti dal Papa, erano troppo forti, per permettere che una parte prevalesse sull’altra definitivamente; quindi la preoccupazione la tensione da una parte e dall’altra era incessante. In effetti, la sottomissione al re Manfredi era solo il giuramento che Fermo non lo avrebbe infastidito e avrebbe pagato le tasse al regno di Sicilia; ma della politica interna del Comune di Fermo, della sua economia dei suoi accordi commerciali, Manfredi non aveva tempo di interessarsi. È vero che la politica regia, come quella imperiale, era contraria alle libertà comunali, ma bisognava usare prudenza, specialmente con una città potente come Fermo; bastava non averla nemica belligerante.

     La fedeltà di Fermo al re Manfredi era anche assicurata dal suo Vescovo Gerardo che, anche da Vescovo, non sapeva dimenticare di essere figlio del feroce ghibellino Guglielmo da Massa, e si adeguava a lui nella politica e nei costumi. Parteggiava apertamente per Manfredi e, per favorirne la parte, era prodigo di quattrini e di cavalli16 per cui ebbe i richiami e minacce dal Papa Onorio IV che ordinò pure una inchiesta sulla sua condotta morale notoriamente pessima; ma seppe sempre mantenersi a galla, bilanciando gli scandali favoriti nei conventi femminili, con i benefici elargiti in abbondanza alle potenti fraterie della sua Diocesi17.

     Il Comune di Fermo, o perché controllato dai ghibellini, o piuttosto perché sapeva sempre avvantaggiarsi nelle occasioni favorevoli, caldeggiò l’adesione di altri Comuni al partito di Manfredi, mirando sempre al proprio tornaconto; capiva infatti che quei Comuni, diventati manfrediani, sarebbero rimasti legati al carro fermano, anche quando Manfredi fosse tramontato. E nel 1257, col permesso di lui, Fermo occupò penna S. Giovanni, Monsammartino e fortificò Montefalcone che già aveva tolto ai fan pensi, e le tenne per sempre. Convinse S. Vittoria ad allearsi con essa, accettando il regio podestà; alleanza che durò solo quattro mesi18; non riuscì a spuntarla con Ripatransone che proprio in quella circostanza si staccò da Fermo definitivamente19.

       In questa seconda metà del secolo XIII, l’attività diplomatica, ma anche quella bellica del Comune di Fermo fu molto intensa. Il possesso del litorale dal Potenza al Tronto, rinnovatole da Manfredi accese le discordie con Ascoli che desiderava incrementare i suoi traffici sul mare. Nel 1256, preceduti presso il Re dalla diplomazia Fermana, gli Ascolani tentarono con le armi la conquista di S. Benedetto in Albula, per avere un porto degno di tale nome, poiché era poco agibile il porto di Sculcula (oggi Porto d’Ascoli), che già possedevano; ma furono sconfitti dai Fermani, nella Valle del Tronto.

     Erano continui le agitazioni tra Guelfi e Ghibellini nelle Marche, e Fermo necessariamente vi si trovava sempre implicata, non tanto per i contrasti di partiti, quanto per la gelosia che la sua massiccia potenza destava nelle città vicine. Nel 1260, forze guelfe guidate da Brunoforte di Perugia battagliavano qua e là contro i Manfredi a, e Fermo subì una momentanea sconfitta presso S. Marco alle Paludi. In quella battaglia parteciparono contro Fermo anche gli ascolani.

     Nel 1266, appena caduto re Manfredi, Fermo ritornò alla S. Sede. Però Guelfi e Ghibellini, tenuti a freno sotto la forte podesteria del futuro Doge di Venezia, Raniero Zeno, si risvegliarono con la elezione a podestà del ghibellino Ruggero Lupo e, venuti a battaglia nella valle del Tenna, il 4 ottobre 1270, i Ghibellini ebbero la peggio e il Podestà restò ucciso. Ma se il trionfo della parte guelfa ridiede sicurezza di libertà, non finirono le difficoltà per Fermo.

     La Repubblica di Venezia considerava di sua pertinenza il Mare Adriatico, e condizionava in vari modi il traffico delle altre città rivierasche. La prima a ribellarsi a questo stato di cose fu Ancona, la quale, sostenuta dal Papa Gregorio X, nel 1275, intraprese la lotta per la libertà dei mari, che durò vari anni. Fermo, tradizionalmente amica di Venezia, con la quale lo scambio commerciale era attivissimo, considerando che il porto di Ancona e anche più a nord e avrebbero potuto danneggiare il traffico nei suoi molti ma piccoli porti, credette più conveniente schierarsi con Venezia. Questa mossa la mise in contrasto col Governo Pontificio che, da allora e per vari decenni, la concederò come ribelle.

     Di conseguenza si fecero più arditi contro di essa i Comuni rivali. Nel 1276, Fermo saccheggiò e fece massacro a Monsampietramgeli, difesa da Ascoli. L’11 Novembre 1280, gli Ascolani tentarono la conquista di S. Benedetto, ma subirono una sconfitta che fu definitiva, perché l’intervento del Papa Onorio IV costringe i belligeranti a deporre le armi20.

SVILUPPO EDILIZIO A FERMO NEL SECOLO XIII

     In questo secolo XIII, secolo di agitazioni per le Marche e di lotte sanguinose, Fermo seppe consolidare la sua potenza politica ed economica, e seppe riparare i danni della distruzione del 1176, che sembravano irreparabili. In questo secolo si costruirono molti tra i migliori monumenti, dei quali va orgogliosa.

     Nel 1226, fu costruita la chiesa di S. Caterina. Nel 1227, fu riedificata la Cattedrale, su disegno di Giorgio da Como. Nel 1233, fu posta la prima pietra per la costruzione della chiesa di S. Domenico, costruita a spese della regina Berengaria, moglie di Guglielmo di Brienne, re di Gerusalemme, sul suolo donato dalla famiglia Paccaroni la quale aveva ospitato, una quindicina d’anni prima, S. Domenico che predicò a Fermo per due mesi.    

     Anche l’attuale Palazzo Municipale fu incominciato a costruire nel secolo XIII, poi fu rimaneggiato e terminato nel 1525.

     Nel 1236, fu terminata la costruzione del castello delle Girfalco, demolito poi dai Fermani nel 1446.

     Nel 1240, iniziò la costruzione del tempio di S. Francesco, su disegno dell’ascolano Antonio Vipera.

     Nel 1250, fu costruito il tempio di S. Agostino e il grandioso convento degli Eremitani di S. Agostino.

     Nel 1251, i Farfensi ingrandirono il monastero annesso alla chiesa di S. Pietro.

     E’ pure del secolo XIII la Torre Matteucci.

     In questo secolo di odio e di sangue, gli Ordini Religiosi che, appena sorti fondarono i loro studentati a Fermo, diedero nuovo impulso alla pratica della vita cristiana con la loro predicazione e il loro esempio; e alla cultura, con le loro scuole dirette da uomini di grande dottrina.

NOTE

1     CATALANI – De Eccl. etc. appendice doc. n. XLV Reg. p. 230

2     CATALANI – Ivi – app.  dipl. n. LI – Reg. Ep. P. 173

3     COLUCCI – A. P. XVIII app. doc. n. IX p. XIV – “…. Con l’autorità imperiale affidataci, concediamo

        che i castelli di Massignano, Marano, S. Andrea e Penna siano di pertinenza di Ripatransone.

        E se il Comune di Ripatransone vorrà, diamo le facoltà di demolire i detti castelli…..”

4     FABIA DOMITILLA ALLEVI – Mainardi e Offidani (tesi di laurea).

5     Sono molti gli scritti che trattano la storia particolare dei paesi e dei signori di questa vasta

       zona, ma non ho trovato uno scritto che metta in sufficiente evidenza la arretratezza politica di

      questo territorio e di questi signori. Nessuno mette in sufficiente luce il contrasto tra questa

      arretratezza, e il meraviglioso sviluppo delle libertà comunali della Contea dei Vescovi di Fermo.

       E non so se sia effetto della mia ignoranza il fatto che, fuori del Catalani, non ho trovato nessuno

       scrittore che prende in considerazione questa Contea; mentre essa. Per un trentennio  

       suscitatrice e difesa della libertà e del progresso delle Marche.

6      GIACINTO PAGNANI – Patti tra il Comune di Fermo e i nobili del contado nel 1229 – L’autore

        riporta per intero il testo dei “patti”. Tratto dall’Arch. Comunale di Fermo – Pergamena 1708.

7      “Item promittit et convenit Comune Firmi non recipere de cetero nomine qui sunt eorum

         vassalli vel alios de ipso rum segnoria et deterritoriis  de comitatu Firmano et undecunque sint

         de territoriis eorum et specialiter de Turri S. Patritii”.

8      “Item promittit dictum Comune Firmi quod si aliqua Comunitas Comitatus Firmi, vide licet Ripa

         Transonis, Mons Rubeanus, Mons S. Mariae in Georgio, Castrum S. Elpidi, Castrum Montis

         Granari,  Mons Ulmi, Macerata, Murrum, Mons Luponis, Mons Sancti,  Civitanova vel aliud

         castrum de Comitatu Firmano de cetero reciperet aliquem nomine vel nomine vel vassallum vel

         alique de sua segnoria de eorum terris aliquarum vel alici predictorum domino rum. Comune

         Firmi ipsam Communantiam requirat prius ut dictum nomine cun quis rebus restituita domina

         domino repetenti”.

         Se qualche Comune del Comitato Fermano in avvenire accoglierà qualche uomo o vassallo o

        qualcuno della loro signoria, fuggiti dal territorio di detti signori, il Comune di Fermo richiederà

        alla detta comunità che restituisca l’uomo e le sue cose al signore che le reclama.

9      L’impegno dei signori “Contadini” è parziale, limitato al di qua del Chienti, dove anche essi

        avevano interessi da difendere. Il territorio di Fermo arriva fino a Potenza; ma per quella parte

        essi non si obbligano.

10   Il “Sindicus” che troviamo in molti documenti, e anche in quello esaminato sopra, ha significato    

        diverso dal “Massarius”. Non era il capo del Comune, ma una persona scelta dal Consiglio solo  

        per un incarico particolare: non era un ufficio, ma un incarico transitorio, che qualche volta era

        svolto dallo stesso Massaro.

11   GIOACCHINO VOLPE – Medio Evo – Ed. Sansoni –p. 276 “Al posto dei Consoli ecco appare un

        funzionario unico, uomo di guerra e di leggi, rivestito da principio di autorità quasi dittatoria …

        Il Podestà più libero da aderenze locali …. Meglio può nell’amministrazione della giustizia; della

        finanza pubblica del patrimonio comunale…”(Tutte queste amministrazioni il podestà non le ha

        avute mai; almeno nel libero Comune Marchigiano) .

12   “…. Cum a pupillari etate nostra nostrum  sanguinem sitierint…. qui Othonem imperatorem

        introduxerunt in regnum nostrum, ut non honore regno et vita privarent”.

13   CATALANI – De Eccl. – app. LXIII. Documento ha il significato di incastellamento.

14  “Dominus Rainaldus de Acquaviva cum sua gente venit ad castrum Furcis et intravit et cepit

        castrum, in quo erat tunc dictus Abbas qui recessit de ipso castro plorando….”

       Dictus Abbas venit ad castrum Montis de Nove et coadunatis ho minibus ipsius vicinantiae et

       contradae,  predicabit ibi et monuit ut starent fideles in serrvitute Romanae Ecclesiae, et si non

      possent aliud, non paterentur destructionem et fecerent  quam meliu possent, et recessit tunc de

      contrada.Quia gens illa erat ex comunicata et Abbas timebat, aufugit et exivit de dicta terra….”.

      “Nuntiua Imperatoris venit cum Saraceni set militi bus multis ad castrum Furcis et tunxc Avìbbas   

       Matteus erat in ipso castro Furcis, et cum  nollet facere mandata ipso rum, recessit de ipso castro

       et homines ipsius castri Furcis fecerunt mandata (giurarono fedeltà) ipsius Domini Rainaldi, quia

      non poterant aliuds. Et eadem die ivit ipse Dominus Rainaldus versus castrum Montis Falconis ad

      ecclesiamo S. Januarii et ibi recepit nomine Montis Falconis ad mandata,”

      (Società Romana di storia patria – v. XI pp. 327-332-237)

       Rinaldo da Acquaviva venne coi suoi soldati a Force e vi entrò. L’Abate (Matteo II) fuggì nel

       castello di Monte di Nove, radunati gli uomini della contrada, parlò loro e li esortò a restare

       fedeli alla Chiesa Romana, se non potessero far altro cercassero di impedire le distruzioni; e si

       ritirò nel  territorio. Il Nunzio dell’imperatore venne con molti soldati e Saraceni al Castello di

       Force e allora  l’abate Matteo era nel castello; ma non volendo sottostare ai loro ordini, si ritirò

       da castello, mentre gli uomini di Force si sottomisero a Rinaldo, non potendo fare altrimenti. Lo

       stesso giorno Rinaldo si diresse verso Monte Falcone e presso la chiesa di San Gennaro ricevette

       la sottomissione degli uomini di Monte Falcone

15  TEODORI – Ascoli Piceno. P. 12. – “ Le truppe imperiali posero l’assedio Ascoli, nel 1242, ma

       considerando che le fortificazioni della città avrebbero imposto un lungo e difficile assedio,

       entarono uno stratagemma. Chiesero che il loro condottiero potesse ossequiare le autorità

       cittadine, dato che le truppe erano colà di passaggio. Gli Ascolani aprirono una porta sul ponte

       della Torricella, dalla quale entrò il capitano e una piccola schiera. La mattina seguente, si

       trovarono tutte le porte della città aperte, la città invasa e saccheggiata”.

       Il ponte,  la porta e la prima via interna si chiamarono: “Tornasacco”.

16  CATALANI – De Eccl. etc.  append n. LXX

17  CATALANI – Ivi – pp. 182-183 (Gerardo)

18  COLUCCI – A. P. t XXIX n. LVI e LVII p. 102-105

19  COLUCCI – A. P. t XVIII – app. n. XIV

20 FRACASSETTI – Notizie Storiche ecc. pp. 25-26

CAPITOLO VI

FERMO NELLA PRIMA META’ DEL SEC. XIV

     Il Giubileo del 1300, indetto da Bonifacio VIII (1294-1303), durante il quale Roma accolse i 200.000 pellegrini, tra i quali Dante Alighieri, avrebbe dovuto segnare l’inizio di una rinascita non solo religiosa, ma anche politica dell’Europa, che allora contava circa 50 milioni di abitanti.

     Invece segnò l’inizio di un secolo che vide aggravarsi l’aspetto negativo del secolo precedente.

     L’Unità Europea, a stento tenuta in piedi dai Papi, crolla politicamente in questo secolo e il Sacro Romano Impero perde il suo significato.

     Il Poeta “vede in Anagna entrar lo Fiordaliso – e nel Vicario suo Cristo esser capto”; con Filippo il Bello di Francia incomincia il trionfo dell’anticlericalismo e l’oppressione della Chiesa, la quale non ha più la forza di imporre il suo arbitrato nelle discordie delle nazioni europee che si fanno sempre più aspre.

     Ho detto che l’anticlericalismo trionfò con Filippo il Bello, ma quella fu la conclusione conseguente dell’anticlericalismo dei signori italiani, soprattutto romani: difetto di antica data, per cui i papi già una trentina di volte avevano dovuto lasciare Roma; e il Papa fuori di Roma, sua sede naturale, perdeva gran parte della sua efficienza.

     Nel 1305, per i maneggi di Filippo il Bello, fu eletto Papa il francese Clemente V, che non venne mai a Roma, ma invitò i cardinali a recarsi in Francia e, nel 1307, stabilì la sede in Avignone, dove essa rimase per circa settant’anni.

     La permanenza dei Papi in Avignone fu disastrosa per la Chiesa, per l’Europa, per l’Italia.

     Nelle Marche, la lontananza dei Papi causò l’indebolimento del guelfismo, la crisi delle libertà comunali e il pullulare delle piccole signorie, che tolsero pace e libertà alla maggior parte dei comuni Piceni.

     La prevalenza dei Ghibellini però non provocò la disfatta totale del guelfismo.

     Alcuni comuni, anche i potenti come Camerino e S, Vittoria con gran parte dei loro Presidiati, non perdettero la fiducia nella S. Sede e affrontarono con ammirevole coraggio la grave situazione, difendendo strenuamente la propria libertà.

     I Rettori Pontifici della Marca, quasi tutti francesi, con la loro politica dura e poco oculata e con insopportabile esosità, aggravarono la situazione.

     E inominciarono le ribellioni contro il Rettore, il quale rispondeva, inviando armati e multe salate: così avvenne per Fano, nel 1314; così per Macerata, nel 13151.

     Fermo, già compromessa nella stima della S. Sede, per la sua politica indipendente, di fronte a tante forze della Romagna e della Marca ribelli alla Chiesa, seguì anche questa volta la politica che credette favorevole ai suoi interessi: nel 1316 si unì a Recanati, sua alleata, e a Osimo ghibellina contro il Rettore della Marca.

     Ci furono scontri armati tra Guelfi e Ghibellini; ci furono tentativi di accordi tra il Rettore e i ribelli; ci furono minacce e castighi da parte della S. Sede, per ridurre i ribelli all’obbedienza.

     Nel 1319, Recanati fu privata del titolo di città e della sede vescovile, e si arrivò alla battaglia di Osimo del 1323, che avrebbe dovuto essere risolutiva.

     L’esercito guelfo, guidato da Bernardo Varano di Camerino, fu sopraffatto dall’esercito ghibellino, capitanato da Guido di Montefeltro e da Mercenario da Monteverde, che sfogò la sua rabbia in vari Comuni guelfi.

     Il Papa Giovanni XXII finalmente si decise a usare l’unica arma che avrebbe potuto sottomettere i Fermani.

     Il 10 Maggio del 1325 minacciò di privarla della sede arcivescovile del titolo, come aveva fatto con Recanati e con Osimo, e toglierle ogni giurisdizione sui suoi castelli.

     Fermo tremò, perché sapeva quando era difficile mantenere soggetti i suoi castelli.

     La Contea che aveva ereditata dai suoi Vescovi aveva cominciato a sfaldarsi. Macerata era diventato una rivale pericolosa, che minacciava il dominio fermano sui castelli di là del Chienti; Civitanova, S. Elpidio, Ripatransone non tolleravano più la sudditanza Fermo; e lo stesso pericolo correva con Monterubbiano, con Montottone, con Monsampietrangeli; questa ultima ceduta contro sua volontà al Comune di Fermo dal vescovo Gerardo.

     Il 26 Marzo 1326, si riunì il Consiglio Comunale che decise di venire ad accordi con la S. Sede.

     Ma improvvisamente piombarono a Fermo e Ghibellini osimani che uccisero i promotori degli accordi, incendiarono il palazzo priorale e saccheggiarono la città.

     Fu in questa occasione che il ghibellini osimani e fermani occuparono e menarono strage nella guelfa S. Elpidio a Mare.    

     Forse questa città aveva avuto parte nel persuadere Fermo a riconciliarsi con la S. Sede.

MERCENARIO DA MONTEVERDE

     Mercenario, signore di Monteverde, della famiglia dei Brunforte di Massa, della quale facevano parte, o lo erano imparentati, i “signori Contadini” dell’Alto Fermano, ghibellini ricchi e potenti, fu il primo di essi a impadronirsi di Fermo.

     Valoroso capitano, guidò i ghibellini fermano i nella battaglia di Osimo del 1323, nel saccheggio di S. Elpidio nel 1326, e costringere il Comune di Fermo ad aderire allo scomunicato Ludovico il Bavaro.

     Il suo dispotismo fu per Fermo molto funesto.

    La Chiesa Fermana stava attraversando uno dei periodi più neri della sua storia.       

     Sede vacante dal 1314 al 1317, aveva subito il malgoverno e le dilapidazione dei Canonici che non avevano saputo accordarsi sulla elezione di un vescovo.

     I sei anni di episcopato dell’ottimo Francesco I di Mogliano (1318-1324) non furono sufficienti a riparare quei danni, e già alla sua morte si apriva un nuovo più funesto interregno.

     Persistendo Fermo, dominata dai ghibellini di Mercenario, nella ribellione la S. Sede, Giovanni XXII la privò della sede vescovile e del titolo di città.

     Questo dovette avvenire alla fine del 1326, ma non si conosce il documento pontificio relativo.    

     In un documento del 1328 il Papa chiama Fermo: “villa Fermana”2.

      Mercenario e ghibellini per mani non ci piegarono, fidando nella potenza di Ludovico il Bavaro che, alla fine del 1327, scese in Italia per essere incoronato a Roma dai signori laici. In quella occasione (Gennaio 1328), fu eletto pure l’antipapa Niccolò V, il francescano Pietro di Corbara; e anche Fermo ebbe il suo di vescovo: certo Vitale, francescano.

   Nel seguente agosto 1328, Giovanni XXII protestò che solo lui aveva l’autorità di nominare il vescovo: “Per la morte del vescovo Francesco di buona memoria, la chiesa di Fermo è vacante e nessuno fuori di noi ha il diritto di provvederla”; e nominò amministratore della Diocesi Fermana il Vescovo di Firenze, Francesco II di Cingoli, con tutte le prerogative di Vescovo, anche se non doveva risiedere a Fermo.3

     La fortuna degli antivescovi nelle città marchigiane durò poco, poiché, ritirandosi dall’Italia Lodovico il Bavaro, Fermo e le altre città si ribellarono e cacciarono i vescovi eletti dall’antipapa.

   Il declino di Ludovico il Bavaro segnò anche l’indebolimento dei Ghibellini, il Fermo chiese al Papa l’assoluzione dalle censure. 

   Per Mercenario e i suoi ghibellini fu un momento pericoloso, ma egli non intendeva perdere la città e subire la rivalsa dei Guelfi .

     Nel 1331, avendo sufficienti forze economiche e militari, si proclamò signore di Fermo, dichiarando nello stesso tempo di voler aderire alla S. Sede.

     Il rettore della Marca e due incaricati del Papa vennero a Fermo, nel 1332, e sulla piazza, con grande solennità, la città fu riammessa i Sacramenti e le furono restituiti gli antichi privilegi4.

      Tra i castelli che non sopportavano il predominio fermano c’era Monterubbiano, la quale forse in quegli anni sventurati si era dimostrata un po’ troppo ostile verso Fermo.

      Mercenario, o per castigarla e ridurla all’obbedienza o perché la floridezza di quel castello faceva ombra a Fermo o perché aveva bisogno di denaro, nel 1334 l’assalì e la saccheggiò ferocemente.

     “La domenica 20 febbraio 1340, durante il pontificato di Benedetto XII, Mercenario da Monteverde aveva dominato per 10 anni come tiranno è padrone della città di Fermo, e aveva commesso molte ingiustizie, adulteri e scelleratezze.

     Finalmente, come piacque all’Altissimo che è giusto giudice mentre il tiranno cavalcava un po’ distaccato dai sette cavalieri di scorta fuori Porta San Pietro Vecchio5, uscirono dal monastero di San Pietro Gilardino di Giovanni da Sant’Elpidio e Fermo fratello del Priore di San Pietro, presente anche Matteo da Fano con altri tre o quattro cavalieri e con due servitori si gettarono su di lui e lo uccisero.

     Fu sepolto dai frati di San Francesco, senza la presenza o pianto di nessuno. Tuttavia nella città vi fu grande agitazione …. “6.

     Il martedì seguente, tutto il popolo fermano si radunò armato avanti il palazzo del popolo. Erano radunati più di diecimila uomini che gridavano: “Pace, pace, pace: morte a chi tenta di farsi tiranno: si caccino dalla città tutti i “Contadini”. E avvenne che, alla presenza dello stesso popolo, fu eletto Podestà del popolo fermano Masso del signor Tommaso da Montolmo e furono eletti i Priori del Comune.7

GIACOMO VESCOVO E PRINCIPE DI FERMO

     Dalla morte di Francesco I, nel 1324, Fermo non aveva più il Vescovo, poiché Francesco II di Cingoli era Vescovo di Firenze e teneva a Fermo solo l’amministrazione della Diocesi.

     Giovanni XXII, che aveva riservato a sé la designazione dei vescovi delle sedi vacanti, togliendo ai Canonici la facoltà di sceglierli, agì in conformità anche nei riguardi di Fermo e, l’11 Marzo 1334, nominò vescovo il domenicano Giacomo di Cingoli (1334-1342).8

     Si chiamò “Vescovo e Principe di Fermo”, e con questo titolo furono chiamati tutti i suoi successori, fino ai giorni nostri.

“Principe”! Qualche lettore sarà pronto a condannare il vescovo Giacomo come un ambizioso, perché questo titolo lo metteva, lui padre dei poveri nella classe dei potenti.

     Ma io gli ricordo che i personaggi devono essere giudicati nel loro tempo; e i tempi del vescovo Giacomo non erano quelli del Papa Giovanni Paolo II.

     Vuole essere chiamato”Principe”, forse perché lui, umile frate, aveva bisogno di un titolo nobiliare, per imporre la sua autorità in una città nobilissima, dominata dal “nobile contadino” Mercenario da Monteverde.

     Il titolo di Principe doveva essere anche un sostegno morale alla povertà nella quale era caduta la Diocesi Fermana.

     Dell’antica ricchezza erano rimaste delle briciole, insufficienti per un personaggio con gli impegni del Vescovo.

     Giacomo si adoperò attivamente per recuperare alla sua Diocesi tanti beni dispersi o usurpati in quegli anni di disordini e di malgoverno.

     Nel 1336, si rivolge al Papa Benedetto XII, chiedendo che Montolmo fosse chiamata a una riparazione, per aver distrutto il castello di Cerqueto, proprietà della Diocesi; S. Elpidio,  per la distruzione di Castello pure della Diocesi; Macerata, per usurpazione di beni diocesani9.

     Forse nel chiedere e nell’esigere qualche volta esagerò, tanto che fu accusato presso il Papa di molestare e di vessare indebitamente i fedeli10.

     Un’altra colpa si attribuisce al Vescovo Giacomo: l’aver favorito, insieme al Vescovo di Camerino, la setta dei ”Fraticelli”, condannati già da Giovanni XXII per l’esagerato rigore nell’interpretazione della povertà francescana e per altri pericolosi errori11.

     Ma queste sono inezie di fronte ai meriti di questo grande Vescovo.

     Tra essi uno dei più grandi e l’aver favorito la costruzione del primo Ospedale di Fermo.

CONFRATERNITA DI S MARIA

     In quei tempi di odi, di vendette feroci e di sangue, fioriva la carità, la virtù cristiana, che raggiungeva spesso l’eroismo, non solo in azioni di singoli, ma anche in  istituzioni sociali, allora difatti sorgevano Ordini Religiosi che esegevano dai loro seguaci che si dessero schiavi, se necessario, per liberare qualche cristiano schiavo dei Turchi.

     Ma questa era la carità eroica, che non poteva ovviamente essere universale; mentre universale era la pietà verso i diseredati e i bisognosi di assistenza.

     A Fermo era fiorente la Confraternita di S. Maria della Carità, alla quale erano iscritti artigiani, cavalieri e nobili dame, cristiani di fede sentita, persuasi che “la carità copre la moltitudine dei peccati”.

     Sua missione era assistere i malati e i vecchi abbandonati, raccogliere provvedere di un tetto i trovatelli e i vagabondi.    

     Ma la loro opera non aveva una organizzazione sufficiente: disponevano solo di pochi locali e della buona volontà di famiglie private.

     Nel 1341, chiesero al Vescovo Principe Giacomo l’autorizzazione per costruire l’Oratorio e l’Ospedale di S. Maria della carità. In questa costruzione si accentrarono le opere assistenziali della città e del suo territorio.

     L’Ospedale si arricchì di offerte e di lasciti di tutta la Diocesi Fermana, tanto da diventare una potenza economica molto rilevante12.

  Nel 1417, Matteo Mattei, Cavaliere fermano, lasciò con testamento all’Ospedale la grande tenuta di Monte Varmine di cui era signore .

     Del castello di Monte Varmine abbiamo le prime notizie storiche nel 1060, quando passò in proprietà del Vescovo di Fermo13

      Verso la fine delle ‘200 fu posseduto da Guglielmino da Massa, figlio di Guglielmo e fratello del vescovo Gerardo.

     Poi passò in proprietà di altri signori di Massa che, nel 1340, lo incastellarono a Fermo; e fece parte di quel Comune fino al secolo XVIII.

     Alla morte di Matteo Mattei, nel 1431, il brefotrofio ebbe una amministrazione propria e con altri beni gli fu assegnato anche il territorio di Monte Varmine, come nei desideri del testatore.

     Dopo l’unità d’Italia, passate le opere assistenziali all’amministrazione laica, quella del brefotrofio decadde progressivamente, fino alla quasi totale estinzione dei giorni nostri.

GENTILE DA MOGLIANO

     La libertà del Comune di Fermo durò solo otto anni, poiché nel 1348 si impadronì della città Gentile da Mogliano, anche lui dei “signori Contadini” detti sopra.

     Valoroso capitano che aveva militato nell’esercito di Mercenario, era stato chiamato a Fermo per guidare le forze armate del Comune e provvedere alla sicurezza del territorio.

     Incontrò gravissime difficoltà durante la signoria e finì male, come il suo parente predecessore, e come tutti i tiranni di Fermo che lo seguirono.

     Proprio nel 1348, Fermo, come in tutta Italia, infierì una terribile pestilenza che falciò i tre quinti della popolazione14, e per tutto l’anno seguente si scatteranno continui terremoti; qualcuno tanto violento da provocare il suono spontaneo delle campane, per l’oscillazione dei campanili.15

     Il 1 Maggio 1348, gli Ascolani, cacciarono Albertuccio, nipote di Clemente VI e chiamarono come signore della loro città Galeotto Malatesta di Rimini, sedicente guelfo, che si incaponì nel proposito di fiaccare la potenza fermana.

     È interessante osservare come questi feroci signori si azzuffassero accanitamente, incuranti della peste e dei terremoti, come se si sentissero immunizzarti contro questi mali.

   Gli Ascolani, calpestando i diritti di Fermo, negli ultimi tre anni, avevano costruito due torri e sette baluardi presso il mare di Sculcula (Porto d’Ascoli).

     Il 29 Aprile 1348, Gentile assalì quelle fortificazioni e costrinse gli Ascolani a demolirle; consentendo, secondo quanto afferma il Fracassetti, che ne restassi in piedi solo una 16.

     I combattenti Fermani se ne riportarono a casa alcune pietre come trofeo, alcune di esse si possono osservare murate in un costolone  della torre campanaria di S. Agostino.

     Nel 1351, Gentile corse in aiuto dei signori Gozzolino, tiranni di Osimo, i quali erano stati cacciati dalla città; Gentile rioccupò Osimo, ma dovette ritirarsi, perché Galeotto chiamato in aiuto dei Guelfi ebbe il sopravvento.

     Un’altra sconfitta Gentile subì dal Malatesta presso S. Severino, e fu inseguito e assediato Fermo, nel 1353.

     Gli Ordelaffi signori di Forlì, imparentati con Gentile, corsero in suo aiuto, costringendo il Malatesta a togliere l’assedio.

     Gentile restò signore di Fermo fino al 1355, quando il Cardinale Albornoz impresse una svolta alla storia marchigiana.

NOTE

1      COLUCCI – A. P. t XXIX doc. XC – p. 157-158.

2       “Sane quia nos villiam Firmanam olim civitatem , suis demeritis exigentibus, per processus

           nostros solemniter habitos dudum sede episcopali et titulo privomimus civitatis…. Ecclesia

           Firmana olim Catedrali…” (Catalani De Eccl. etc. – append. N. LXXX p. 373).

           Poiché da poco con solenne decisione abbiamo privato la

3        “….. administratorem  Episcopatus et Ecclesiae Firmanae olim Catedralis, cum omnibus

           juribus et pertinentiis suis eo modo quo per Episcopos Firmanos, pro tempore teneri

          consueverunt et regi, administrationem in spiritualibus et temporalibus, gereret, non obstante 

          Sedis Episcopalis privatione”. Catalani – De Eccl. app. n. LXXX.

         …… Amministratore della Chiesa Fermana 1 tempo cattedrale …. Con tutti i diritti e gli attributi, 

         e nella maniera con la quale era tenuta dai vescovi di Fermo; la amministri nelle cose spirituali

         e temporali, nonostante la privazione della sede episcopale.

4      CATALANI – Ivi Franciscus . p. 206

5      Il monastero di S. Pietro Vecchio stava dove è ora la casa delle Benedettine. Era dei Canonici      

         Regolari.

6       ANTON DE NICOLO’ – Cronache.

          “MCCCXL, tempore Benedicti pp. XII, die dominico, XX mensis Februari. Mercenarius de Monte

  Viridi regnaverat tirannus et dominus in civitate Firmi per novem annos, et multas industrias,

  adulteria et scelera in civitate  commiserate t committi fecerat; et demum, ut Deo placuit 

  Altissimo qui est iustus judex, dum ipse tirannus equitaret spatiatum, una cum septem

  equitibus extra portam S. Petri Veteris, exiverunt de monasterio S. Petri Girardinus domini

  Joannis de S. Lupidio et Firmus frater Prioris D. Petri, et interfuit Matteus de Fano cum tribus

  vel quator equitibus et cum  duo bus vel tribus famulis, et supervenerunt in eum et eum

  occiderunt; et sepetus fuit a fratribus S. Francisci, nemine ipsum plorante neque existente,

  tamen fuit in civitate Firmi  magnus rumor—“

7         “Tertia vero die Martis, ibi ante palatium populi, , totus populus Firmanus conventus est

            armatus; ubi fuit multitudo populi ultra decem milia virorum vociferantium ed dicendum

           “pax, pax, pax” et moriantur omnes volentes esse tiranni, et quod expellantur de civitate

           omnes “Contadini”; et ita factum est et coram ipso populo electus fuit in Potestatem populi

            Firmani Massius domini Tomae de Monte Ulmi et fuerunt electi Priores populi etc…”.

8        CATALANI –De Eccl n etc. – Jacobus p. 207

9        CATALANI – app. n. LXXII

10      CATALANI – Jacobus – p. 212

11      CATALANI – Ivi – (..qui eisdem favorem ex causam quadam pietatis praestarunt)

12      Una pergamena dell’Archivio del Brefotrofio di Fermo è riportato un privilegio del Papa, che

           permette alla confraternita di S. Maria di poter esportare i prodotti delle sue terre dove vuole,

           purché non vadano in mano agli infedeli.

13      CATALANI – De Eccl. etc. – Quadalricu p. 119

           G. Michetti – Rocca Monte Varmine – (La Rapida – Fermo 1980).

14      PLATINA – Vita di Clemente VI –“…vix quisque decimus ex millesimo homine superfuerit”.

15      TANURSI in Colucci t XVIII p. 31.

16       ANTON DE NICOLO’ – Cronache – “MCCCXLVIII …. magnificus vir Gentilis de Moliano

            honorabilis gubernator boni status Communis et eius districtus … ivit hostiliter cum copia et

            cum toto populo firmano in obsidione contra Esculanos super edificia Portus prope … quae

            Esculani construerunt in tribus anni set quibquis mensibus, quae edificia habebant duas

            turres maximas et septem turriones in quibus erant  septuaginta merli…”

            Nel 1348 il magnifico Signore Gentile da Mogliano, onorevole curatore dell’incolumità del

           Comune di Fermo e del suo distretto…. Andò in guerra con un forte schiera del popolo

           fermano, per assalire gli Sscolani nelle costruzione del Porto (presso Sculcula) che gli Ascolani

           avevano costruito in tre anni e cinque mesi. Questi edifici consistevano in due grandissime

           torri e sette torrioni, provviste di settantacinque merli.

CAPITOLO VII

FERMO NELLA PRIMA META’ DEL SEC. XIV

     Alla metà del secolo XIV, tutti sentivano che la mancanza di un forte potere centrale era causa di confusione politica, di disordini e di agitazioni insopportabili.1   

      Il Rettore Pontificio della Marca, Vicario del Papa nella regione, era spesso impotente contro i prepotenti signori locali. Conseguenza di questa debolezza era il decadimento delle libertà comunali e il sorgere di tante signorie, alcune delle quali favorite dalle popolazioni locali che preferivano rinunziare del tutto o in parte alla libertà, in cambio di un governo forte, che garantisce ordine e tranquillità.

     I principali signori che dominavano nella Romagna e nella Marca erano: gli Ordelaffi a Forlì; i Malatesta a Rimini; Nolfo di Montefeltro; Lomo di Jesi; gli Alberghetti di Fabriano; Rodolfo Varano di Camerino; Mercenario da Monteverde e poi Gentile da Mogliano, signore di Fermo; Petrocco da Massa Fermana e tanti altri minori.2

     Molti di essi trovavano vantaggioso ostentare fedeltà alla Chiesa e perfino proclamarsi Guelfi; per cui, lettore, puoi capire quale peso si può dare ai vocaboli: “Guelfo e Ghibellino”, correnti politiche di quei tempi; e in genere a quelle di tutti i tempi. Restavano però tanti comuni fedelissimi e gelosi della loro libertà, i quali non conobbero mai nessuna signoria. Cito S. Vittoria in Matenano, dove le leggi comunali proibivano il solo pronunciare la parola “Guelfo o Ghibellino”3; Ripatransone che seppe sempre a reagire a ogni pericolo di dominazione signorile. Restavano pure in quel periodo fedeli alla S. Sede e pagavano a duro prezzo la loro fedeltà Ancona, Ascoli, Camerino con i suoi signori Varano; S. Severino col suo signore Ismeduccio; Macerata con i signori Molucci; Cingoli col suo signore Pangione, e la fedelissima Recanati4. In queste condizioni politiche si trovava la Marca, quando Innocenzo VI, proponendosi di tornare a Roma, mandò nel 1353, il Card. Egidio Albornoz a riordinare lo Stato Pontificio.

PRIMA MISSIONE DEL CARDINALE NELLA MARCA

      Al suo avvicinarsi, quasi tutti i signori marchigiani si affrettarono a dichiararsi al suo servizio; e anche Gentile da Mogliano si recò a incontrare il cardinale a Foligno, nel 1354, e fece atto di sottomissione, per cui fu nominato dall’Albornoz Gonfaloniere di S. Chiesa. Essi erano persuasi che si trattasse di uno dei soliti Legati Pontifici della Marca, i quali in definitiva lasciavano il mondo come lo avevano trovato; ma quando capirono che il Cardinale aveva propositi seri e che intendeva comandare lui solo in nome della Chiesa, si unirono per combatterlo. Gli Ordelaffi di Forlì si allearono con i loro avversari Malatesta di Rimini, e convinsero il loro parente Gentile da Mogliano a ritirare l’obbedienza giurata al Cardinale.

      L’Albornoz era venuto in Italia con un forte esercito di bretoni e inglesi, capitanati da Blasco Fernando di Belvisio, suo nipote. Nel gennaio 1355, si insediò in Ancona e, abilissimo stratega, concentrò il forte del suo esercito a Recanati, località ideale, sia perché poteva ospitare molti soldati per la scarsità di abitanti (ricorda la peste dei sei anni prima) e la ricchezza delle campagne; sia perché in ottima posizione strategica al centro della Marca, divideva le forze dei signori alleati: quelli del Nord  guidati da Galeotto Malatesta; quelle del sud , da Gentile da Mogliano.

     La riconquista della marca avvenne in pochi mesi. Il 29 Aprile 1355, a Paterno presso Polverigi, l’esercito del Cardinale guidato dal nipote Blasco di Belvisio e da Rodolfo Varano di Camerino, si scontrò con l’esercito dei collegati e lo sbaragliò facendo prigioniero anche il suo capitano Galeotto Malatesta. L’onore di farlo prigioniero toccò al tedesco Everardo di Austop che ebbe perciò un ricompensa di 200 fiorini5.

     Subito dopo, il Cardinale inviò il nipote Blasco ad assediare Gentile che si era chiuso sul Girfalco. Dodici giorni durò l’assedio, poi Gentile si arrese, tra manifestazioni festose del popolo fermano. Il Cardinale gli fece grazia della vita, purché uscisse dalle terre della Chiesa, ed egli si rifugiò presso gli Ordelffi di Forlì suoi parenti.

   Nel Giugno 1355, la riconquista armata delle Marche era completa. Col parlamento tenuto a Fermo il 24 di quel mese il Cardinale dava inizio allla riconquista morale, alla pacificazione, con atti di clemenza verso i ribelli e raccogliendo giuramenti di fedeltà alla S Sede.

     Nominò Rettore della Marca il nipote Blasco di Belvisio; trasportò la Curia di Macerata a Fermo, e ne spiegò al Papa il motivo: “Ivi (a Macerata) risiedette quasi continuamente la Curia Generale della regione ed è un luogo molto adatto per la Curia e per i giuristi che vi si debbono recare; ma non è gran tempo  che la città di Fermo fu riportata all’obbedienza della Chiesa. Per meglio trarre i cittadini di quella città all’obbedienza e alla riverenza verso la Chiesa, vi fu trasportata la Curia Generale, dove al presente si trova, di che non sono affatto contenti i cittadini Maceratesi e mi sollecitano spesso perché io riporti la Curia presso di loro. E’ certo che starebbe meglio là, che a Fermo, per la maggiore facilità di accesso e centralità di tutta la regione. Non ho voluto cambiare niente, perché per mani sono neofiti” (cioè di fresco convertiti…..).

   Il Cardinale, pur avendo visto il popolo festante per la liberazione dalla tirannia, non si fidava troppo di Fermo; la definiva “labilis ut anguilla, volubilis ut rota”, alludendo alla mutevolezza della sua astuta politica utilitaria.

     Ammirava Fermo e il suo territorio, per la posizione strategica e per la sua ricchezza in agricoltura e nel commercio: “Poi viene la città di Fermo che la aeconda chiave della Marca e ragguardevole città, dove è un girone che è stimato la più bella fortezza della regione e che è custodito da un gran numero di soldati e da un capitano. E faccia attenzione il mio Signore, che il capitano sia fidato e fedele, come richiede il luogo, poiché quella città fu retta per lungo tempo da tiranni ed è ghibellina per la maggior parte. Benché nel governo non si debba troppo peso alle parole Guelfo o  Ghibellino, pure riguardo allo Stato della Chiesa, sono stimati e sono realmente più fedeli i  Guelfi, che i Ghibellini….”.

       “Questa città possiede il litorale riceve grossi introiti. Questa città ha un bel Contado, con molti bei castelli…”6.

     Anticipando le riforme che sarebbero state poi codificate nelle sue “Constituziones “ , il 22 Settembre 1355 ordinò che tutti i castelli fermani inviassero rappresentanti (sindici) per prestare giuramento di fedeltà avanti a lui, e di sudditanza alla città di Fermo 7.

Thener Documenta….. domini pontificii etc.. l. I descrutiones p. 343

“Queste sono le città e castelli che appartennero sempre al Presidato della Badia di Farfa: città di Fermo, città di Ascoli, Offida, Ripatransone, Monte Rubbiano, Monte Fiore, Penna San Giovanni ecc. (Dal Tenna al Tennacola, fino ai confini del Regno)”.

“Queste sono le città e castelli che appartennero sempre al Presidato Camerinese: città di Camerino, città di Ancona, di Osimo, di Numana, di Recanati, S. Severino, Matelica, Fabriano, Tolentino, Sarnano ecc.”

“Queste sono le città e castelli che appartennero sempre al Presidato di S. Lorenzo in Campo: città di Jesi, di Senigallia, di Fano, di Pesaro, di Fossombrone, di Urbino, di Cagli, Corinaldo, Mondavio, Orciano, Piagge ecc.”

Prima del Card. Albornoz, i Giudici dei Presidati portavano a termine le cause civili e criminali con la stessa autorità del Rettore di Ancona.

COSTITUZIONI EGIDIANE

      Le “Costituzioni Egidiane” sono il primo Codice dello Stato Pontificio. Per le Marche fu promulgato alla presenza di rappresentanti di tutta la Regione, a Fano, il 1° Maggio 1357. L’organizzazione egidiana delle Marche rimase in vigore fino alla legislazione napoleonica e, in parte, fino ai giorni nostri.

     Era necessario dare alla Marca un ordinamento politico e giurisdizionale più organico e unitario, per impedire l’isolamento dei piccoli Comuni, facile preda di tiranni. Il Rettore Pontificio della Marca veniva a trovarsi isolato, senza la possibilità di dominare e governare una regione bollente per passioni politiche, frazionata in una infinità di Comuni gelosi della propria indipendenza, con una amministrazione della giustizia insufficiente e per conseguenza, poco efficiente.

     Le Marche, fino ad allora, erano divisi in tre grandi circoscrizioni giurisdizionali che si chiamavano Presidati8; il Presidato Farfense con sede a S. Vittoria in Matenano, dove il Preside aveva il suo tribunale di appello per i Comuni del territorio Fermano e Ascolano, che comprendeva pressappoco il territorio dell’attuale provincia ascolana, con le città di Fermo, Ascoli, Offida, Ripatransone: il Presidato di Camerino, con sede in quella città che era la seconda delle Marche per le grandezza, che comprendeva il territorio tra il Chienti, l’Esino, dal qualedipendevano anche le città di Recanati, Osimo, Ancona e Fabriano: il Presidato diSan Lorenzo in Campo (Pesaro), che comprendeva il territorio dall’Esino al Foglia, con le città di Jesi, Senigallia, Fano, Pesaro, Fossombrone, Urbino.

     Il Preside, o Giudice del Presidato, aveva piena autorità giuridica nella sua circoscrizione; a lui andavano in appello le cause discusse nei tribunali dei podestà comunali, e definiva ogni controversia legale, con la stessa autorità del rettore9.

A differenza di questi, non sembra però che il preside avesse alcuna autorità in campo politico o militare.

      Le costituzioni e siriane cambiavano completamente questo ordinamento regionale.

     Benché allora fosse Fermo la città principali della Marca, il Cardinale scelse Ancona come sede di un governo regionale; composto da un Rettore, nominato direttamente dal Pontefice; un Tesoriere, pure nominato dal Pontefice con l’incarico di riscuotere le imposte; un Maresciallo e quattro Giudici, che formavano il Tribunale Superiore per la Regione10.

     A questo governo regionale e facevano capo gli “Stati”, o “province”. Essi erano: Ascoli, Fermo, Macerata, Recanati, Ancona,Jesi, Cagli, Pesaro, Urbino, Montefeltro11. Rimanevano poi i tre Presidati, ma ridimensionati nella loro ampiezza territoriale: Presidato Farfense di S. Vittoria, Presidato di Camerino e quello di San Lorenzo in Campo12.

     Ad ognuna di queste città facevano capo un numero più o meno grande di Comuni minori, che subivano l’influenza di esse. Il Cardinale stringe maggiormente vincoli tra questi Comuni e le loro città, esigendo che essi prestassero giuramento di fedeltà e pagassero un tributo a quelle, come a capitali13.

      Con questa organizzazione non ci abolivano i Comuni minori, ma si mettevano sotto il controllo della Città capoluogo di Stato. In essa infatti esisteva, oltre Consiglio Comunale che governava la città, un CONSIGLIO DI STATO che vigilava sui Comuni del contado. Il Consiglio di Stato a Fermo era composto, più o meno, da una decina di consiglieri, scelti dalla Città e dal Contado. Essi sorvegliavano l’amministrazione dei Comuni del contado; nominavano in quelli i Podestà; curavano la relazione tra i Comuni e la Capitale; determinavano i contributi e i servizi civili e militari dovuti da ogni Comune alla Città14.

     Per i Presidati la cosa era diversa. Facevano capo ai Presidatiati i Comuni che non erano inclusi negli Stati, ma dipendevano direttamente dalla S. Sede. Nel Presidato non c’era il Consiglio di Stato. Il Presidato era retto da un giudice che riceveva a nome della S. Sede il giuramento di fedeltà dai Comuni dipendenti e a lui andavano in appello le cause discusse nei tribunali dei comuni. Il Preside non si intrometteva nel governo dei Comuni, i quali erano amministrati dai loro Consigli Comunali e giudicati dai loro Podestà liberamente eletti15. La differenza era questa: mentre nei Presidati i Comuni avevano piena libertà, negli Stati la libertà comunale era limitata dal Consiglio di Stato. Da ciò si spiegano anche i continui contrasti tra Fermo e i maggiori comuni del suo contado.

SECONDA MISSIONE DEL CARD. ALBORNOZ NELLE MARCHE

     Dei signori che avevano dominato sul territorio della Chiesa restavano ancora in piedi Francesco Ordelaffi di Forlì e Giovanni Visconti da Oleggio, signore di Bologna. Costituivano due pericoli da eliminare, sia perché usurpatori di possessi della S. Sede, sia perché rianimando il partito ghibellino, potevano sovvertire il lavoro organizzativo costruito con tanta fatica nella Marca. Difatti l’azione demolitrice di questi signori era cominciata. Gentile da Mogliano, protetto dai parenti Ordelaffi si era accordato con il Conte Lando la cui compagnia stanziava nel Fermano. Ma Gentile cadde di nuovo nelle mani del Cardinale e il Giudice Generale della Marca, con sentenza del 12 Gennaio 1359, lo condannò a morte, insieme al figlio Ruggero e ad altri complici16.

     Battuti gli Ordelaffi e restituita Forlì alla chiesa, il 12 luglio 1359, il Cardinale si preparava a combattere contro i Visconti per riconquistare Bologna; ma Giovanni da Oleggio, signore di quella città, inimicatosi col suo signore Bernabò Visconti, offrì la città all’Albornoz. Questi prese possesso di Bologna e, in ricompensa, con accordi stipulati il 1 Marzo 1360, concesse a Giovanni da Oleggio il Vicariato a vita della città e territorio di Fermo e, l’anno appresso, il Rettorato della Marca d’Ancona; a sua moglie Antonia de Bancionibus il possesso a vita di Marano e Grottammare17.

     Giovanni da Oleggio, benché avesse fama di avere esercitato la signoria di Bologna con tirannia e crudeltà, a Fermo fu un ottimo governatore, mite e benefico coi sudditi; operoso per la città che abbellì di nuovi edifici e cinse di nuove mura. Ma per spiegare questo cambiamento, bisogna ricordare che il Cardinale stava quasi sempre a poca distanza e, in quei tempi, forse all’opposto dei tempi nostri, i buoni cani mordevano solo col permesso dei loro padroni. Governò Fermo per 6 anni e morì l’8 Ottobre 1366. Nella Cattedrale si può ammirare il bel sarcofago fattogli costruire dalla moglie Antonia Bencioni.

     I fastidi che non aveva dato al Comune di Fermo il Governatore li diede, dopo la morte di lui, la vedova Antonia, con continui pretese di denaro; richieste molte volte appoggiate anche da Cardinale, al quale i soldi di Fermo non costavano niente. Ma il Comune non sempre era disposto a pagare; e allora avvenivano screzi fra Comune e il Cardinale, il quale sapeva che con Fermo non bisognava mai tirar troppo la corda18.

FERMO DOPO IL CARD. ALBORNOZ

     Nella seconda metà del secolo XIX, Fermo era la città più grande di tutta la Marca, e la seconda dello Stato Pontificio. Ma quando diciamo città, non dobbiamo intendere, per quei tempi, il centro cittadino isolato, ma considerato unitamente al suo contado: Fermo era una  “Città-Stato”, i sessanta castelli attribuitigli dalle Costituzione egiziane erano considerati quasi sobborghi della città e i loro abitanti cittadini fermani19. Il fatto poi che ogni castello fosse libero Comune non recava pregiudizio alla loro unità con la Città-Stato. A Fermo, mentre un Consiglio comunale governava la capitale, un “Consiglio di Stato”, composto di consiglieri della città e del contado nominava nei vari castelli i Podestà i quali, collaborando con le autorità locali scelte dal popolo, rispondevano della sicurezza della fedeltà di essi verso la città madre.

       I castelli giuravano fedeltà al Comune di Fermo, pagavano adesso un tributo annuo come a capitale ed erano tenuti a mandare una rappresentanza alla cavalcata di Santa Maria(15 Agosto), portanto un “palio”, segno di sudditanza. La cavalcata partiva dalla chiesa di Santa Lucia e si svolgeva fino alla Cattedrale, attraverso vie e piazze fangose d’inverno e polverose d’estate; fiancheggiate da modesti palazzi di ricchi e da molti tuguri e case di terra dei poveri. Era l’annuale ostentazione della potenza fermana; di questa città che avrebbe potuto essere, oltre che ricca, anche felice, se avesse saputo trovare il modo di salvaguardare sempre la propria libertà, senza bisogno di estenuarsi nel dover sopprimere periodicamente i suoi tiranni.

     Però Fermo era veramente potente. Questa città-Stato contava diecimila fuochi, cioè diecimila famiglie che pagavano il focatico (allora come sempre contavano solo i ricchi e quelli che potevano pagare le tasse). Diecimila fuochi equivaleva a circa quarantamila persone; consideriamone il doppio non paganti, e arriviamo a circa centoventimila anime. Una popolazione così numerosa permetteva al Comune di Fermo di approntare, in caso di necessità, eserciti poderosi con poca spesa. Un ordine del Consiglio di Stato imponeva ai singoli castelli  un certo numero di fanti e di guastatori equipaggiati assistiti a spese loro; mentre restava al Comune della Capitale il peso sempre rilevante di ingaggiare qualche compagnia di ventura (gli specialisti della guerra), e di ripagare le possibili perdite di cavalli ai signori “Contadini”.

     Delle continue guerre dei Fermani che la storia ci documenta solo in qualche raro caso era guerra di popolo, poiché il popolo del Fermano era un popolo di pacifici lavoratori e commercianti; la quasi totalità di esse furono volute da tiranni irrequieti, i quali dicevano di agire in nome e a vantaggio del popolo fermano, mentre il popolo non c’entrava affatto. Al popolo interessava solo la pace, senza della quale si vanificavano i frutti della loro attività.

     L’agricoltura, la ricchezza maggiore del Fermano, era seriamente compromessa dalle azioni belliche. Pensate al passaggio, e qualche volta al soggiorno di una o più compagnie di venturieri nel territorio. Erano cinque, seicento e a volte migliaia di cavalli che si sfamavano, calpestando senza freno e divorando foraggere e campi di grano, togliendo gli agricoltori la speranza del raccolto e la possibilità di nutrire il proprio bestiame. E io mi sono domandato spesso, con tutta quella moltitudine di cavalli, che cosa restava per i buoi e per le pecore.

     E anche per gli uomini; poiché quelle migliaia di soldati, i quali avevano intrapreso quel mestiere brigantesco per tentare di far fortuna e di arricchirsi col bottino, presentandosi l’occasione, estorcevano quanto potevano, non contentandosi dello stipendio elargito dai loro capitani, il più delle volte impossibilitati a mantenere la disciplina. Qualche cosa si poteva a stento salvare, fungendo con le bestie e con quel poco che si poteva trasportare in luoghi meno insicuri. Ma il lavoro languiva con la prospettiva di un lungo travaglio per riparare i gravi danni dei campi e dei casolari, e dei due mali che di solito seguivano ogni esercito: la fame e la peste.

     Con la guerra languiva il commercio. Le strade esposte al ladroneggio dei venturieri e alle insidie dei fuorusciti non erano sicure per il trasporto di frumenti, delle lane, della canapa, merci che abbondavano nel contado fermano, ma dovevano raggiungere il Porto per diventare retributive. Alla metà del secolo XIV, il porto di Fermo era ancora molto attivo, benché incominciasse a sentire la crisi che si profilava per i porti minori, causa le modifiche che si stavano introducendo nella costruzione delle navi. La numerosa flottiglia Fermana incominciava a non poter più competere commercialmente con le grandi navi moderne di Venezia e di Ancona, non più a chiglia piatta ma ad angolo, le quali, oltre ad essere più sicure per la maggior immersione, permettevano il raddoppio del carico. Esse non entravano nel porto fermano a causa del basso fondale; e se anche qualcuno aveva la compiacenza di trasbordare merci nelle navi fermane lontano dalla costa, preferivano sempre, per risparmio di tempo, filare direttamente sui porti maggiori. Ma la flotta fermana era sempre valida per il commercio sull’Adriatico: esportava nei porti adriatici prodotti fermani, rilevava dai grandi porti le merci orientali e le commerciava nei porti minori. Si restringeva un po’ il campo d’azione, ma restava sempre forte di lavoro e di ricchezza per lo Stato. Ha ragione il cardinale Albornoz e diceva: “Fermo possiede la costa adriatica, dalla quale riceve grandi introiti”.

RINALDO DA MONTEVERDE

     Il Card. Albornoz e morì ad Orvieto, nell’agosto 1367.

Per sua grandiosa realizzazione politica avrebbe avuto ancora bisogno di lui, perché l’organizzazione dello Stato Pontificio così laboriosamente costruita avrebbe dovuto consolidarsi sotto la sua guida, per aver garanzia di durata.

     Aveva affidato Fermo a Giovanni Visconti da Oleggio, e Ascoli a suo nipote Gomesio conte di Spanta, i quali per un po’ di tempo mantennero ordine nei due Stati, come lo permettevano quei tempi feroci, ma pace e sicurezza non ci furono nemmeno in questo periodo.

     Il Duca di Milano, Bernabò Visconti, incitava i Ghibellini marchigiani, offrendo il suo appoggio; i fuoriusciti e i soldati di ventura, privi di lavoro e di stipendio, si univano in gruppi e si davano al brigantaggio; gli ufficiali di Curia e gli impiegati dello Stato si erano resi insopportabili, per la loro esosità20. Il signore di Ascoli, Conte Gomesio, seppe liberare il suo Stato da una compagnie di ventura, detta “Compagnia degli Inglesi” spedendola a combattere in Sabina contro altri venturieri; ma ormai era invalso l’uso tra i signori e tra i regnanti di affittare queste compagnie di miserabili, che oggi chiameremmo briganti e di legalizzarne le rapine e le atrocità, perché fatte in nome loro che si dicevano signori. E per più di due secoli le Marche furono sottoposte a questo flagello, perché data la posizione la fertilità della Regione, qui si dirigevano, o di passaggio, o di fazione, o per svernare.

     Firenze, dominata da una oligarchia di nobili, si alleò con i Visconti e, nel 1375, costituì una lega ghibellina, alla quale man mano aderivano i signori marchigiani.

     A Fermo il malcontento popolare che era stato esasperato dalla carestia che si era aggiunta agli altri mali nell’annata 137421, sfociò in una ribellione popolare che causò la morte del Podestà Gregorio De Mirto da Ripatransone e la cacciata del vescovo Nicola De Merciariis . Il disordine e la confusione portarono la signoria di Rinaldo da Monteverde, nipote del Mercenario, di funesta memoria. Nel Febbraio 1376, anche Ascoli si ribellò al Conte Gomesio che si chiuse sul Castello del Monte22.

     Con un forte esercito di Fermani, Rinaldo occupò Ascoli, ”per salvarla dalla rovina”, dice Anton de Nicolò, ma in realtà per appoggiare i ghibellini ascolani contro il Conte Gomesio che si difendeva molto bene chiuso sulla fortezza; e questa situazione durò dieci mesi.

     Ma c’era per i ghibellini un altro pericolo: Ripatransone, sempre guelfa e alleata di Ascoli, avrebbe potuto tentare di portare aiuto al Conte Gomesio. Rinaldo la prevenne, spedendo contro di essa una schiera di Fermani, nel Maggio 1376; però la fortezza del luogo, il valore dei cittadini guidati dal loro capitano Carosino, costrinse i Fermani a togliere l’assedio; e se ne andarono, recando, secondo la bestiale usanza di allora, gran guasto alle campagne; bruciando case, tagliando viti e devastando seminati23.

     Questo impegnare le forze fermano in più imprese contemporanee forse non andava a genio a molti Fermani, specialmente ai signori “Contadini”; lo possiamo arguire da una frase delle “Cronache”. Il 4 giugno 1376, tenendo ancora un forte contingente fermano in Ascoli, Rinaldo assalì la guelfa S. Elpidio; Anton De Nicolò dice: “con pochi Fermani e Contadini che lo seguivano malvolentieri”. L’assalto durò solo cinque giorni.

     Di nuovo Fermani e Contadini, tra i quali Ludovico da Mogliano e Boffo da Massa, furono chiamati all’esercito contro Ripa, sotto la guida del capitano fermano Tommaso Iacobucci ( indignus et malus homo). Si trovarono sotto Ripatransone il 13 Settembre 1376; ma tra i capitani dell’esercito fermano successero baruffe, e il giorno stesso l’esercito tornò a Fermo, dove Rinaldo fece decapitare sulla piazza diversi onorati cittadini.

     Finalmente, il 17 Gennaio 1377, Gregorio XI (1370-1378, l’ultimo Papa francese, vinto dalle preghiere di Santa Caterina da Siena, tornò a Roma. Le sue preoccupazioni erano innumerevoli, poiché quasi tutto lo Stato era in rivolta; sulla collaborazione dei Cardinali poteva far poco affidamento; gli ufficiali dello Stato erano corrotti e infedeli.

     Cercò di rianimare la fiducia nelle zone restate sempre fedeli come Santa Vittoria e Camerino, promettendo ricompense e “soldati, ora che il Rettore ne ha tanti”24; ma ahimè, erano soldati di ventura bretoni, i quali, appena un mese dopo il suo ritorno a Roma, gli combinarono la “strage di Cesena” che valse ad accrescere la rabbia ghibellina, a raffreddare i Guelfi e ad aggravare le angustie del Papa che ne morì il 27 Marzo dell’anno dopo.

    La Lega fiorentina si mostrava sempre più irriducibile contro la S. Sede; però fortunatamente tra i Ghibellini non c’era un ideale comune. Le mire personali rendevano precario il loro accordo: Firenze aderiva ai Visconti sapendo che presto avrebbero dovuto combatterli; e i signori delle Marche partecipavano alla Lega fiorentina, ma non avevano nessuna intenzione di farsi dominare da Firenze. E anche tra i signori marchigiani un accordo sincero era impossibile; prova ne sia il fatto che il segretario fiorentino Salutati deve intervenire per mettere d’accordo Rinaldo da Monteverde e il suo lontano parente Boffo da Massa che reclamava il possesso di Carassai; e ambedue facevano parte della Lega25.

     Gregorio XI, stando ancora in Avignone, aveva scritto gli Anconetani che trovassero il modo di combattere contro i Fermani e ridurli all’obbedienza. Ci furono scontri di poca importanza, perché Ancona doveva badare che non intervenisse Venezia, alleata di Fermo. Ma l’11 giugno 1377, giorno di San Barnaba, dice De Nicolò, un esercito di Bretoni, guidato da Rodolfo Varano, occupò S. Elpidio; vinse l’esercito fermano presso il Tenna e si spinge fino al Colle di S. Savino, facendo più di trecento prigionieri fermani. Nel successivo 8 Settembre, “Natività della Vergine”, Rinaldo, appoggiato da seicento lancieri del Conte Luzio (compagnia di ventura), da Bartolomeo di San Severino e da Francesco di Matelica, rioccupò S. Elpidio abbandonandola al saccheggio e incendiandone una metà. Nel bottino fu compresa la preziosa Reliquia della Sacra Spina che fu portata a Fermo e sistemata nel tempio di Sant’Agostino. Poi cacciò da Montegiorgio il Varano e lo inseguì fin nella valle del Fiastra, dove, intervenuti in massa i combattenti di San Ginesio, Rinaldo riportò una terribile sconfitta che accelerò la sua fine.

     Il 24 agosto 1378 (S. Bartolomeo), mentre Rinaldo risiedeva Montegiorgio, i Fermani, aiutati dai comuni di Ancona, Recanati e da Rodolfo di Camerino, espugnarono il Girfalco, permettendo però che la moglie Luchina e figli Mercenario e Luchino che vi si erano rinchiusi si riunissero a lui. Ma, non rassegnandosi a perdere il dominio di Fermo, poco dopo, Rinaldo riordinò il suo esercito rafforzandolo con mercenari, nell’intento di rioccupare la città. I Fermani lo cacciarono da Montegiorgio e lo inseguirono fino a Montefalcone, dove lo assediarono per vari mesi. Sabato 2 Giugno, 1380, il capitano di ventura Egidio da Monte Urano lo tradì per mille ducati e aprì il castello ai Fermani. Rinaldo ed i suoi caddero prigionieri e furono condotti a Fermo. Il giorno di San Bartolomeo fu in seguito dichiarata “festa comunale”26.

     Anton De Nicolò ci ha lasciato una dettagliata descrizione della tragica fine di Rinaldo, della moglie Luchina e dei figli Mercenario e Luchino: “furono presi e condotti a Fermo. Entrarono per porta San Giuliano, ciascuno su un asino, cavalcando alla rovescia, con gran festa del popolo. Furono condotti in piazza avanti ai Priori di Fermo; e cosa da notare, gli abitanti di ogni contrada, specialmente i giovani, fecero abiti nuovi, ogni contrada col proprio colore; e mentre i vari gruppi erano in piazza San Martino festanti intorno ai loro capi, Rinaldo, Mercenario e Luchino suoi figli, nella detta piazza al cospetto di tutti furono decapitati”27.

     Fu messa in piazza San Martino una lapide che recava scolpita la testa di Rinaldo, con scritta: “Tiranno fu pessimo et crudele”.

     Rinaldo fu il terzo di Contadini eliminati in un secolo dai Fermani, per liberarsi dalla loro tirannide: ma non finì con lui questa e genìa di prepotenti.

I CASTELLI

che componevano lo Stato di Fermo, riportati negli Statuti Comunali, erano una ottantina. Qui ne ometto alcuni che non esistono più: o sono difficilmente individuabili.

   Sono distinti in:

    Maggiori

Grottammare – Petritoli – Servigliano – Falerone – Montefiore – Sant’Angelo in Pontano – Loro – Mogliano – Monte S. Pietrangeli.

     Mediocri

San Benedetto in Albula – Massimiano – Campofilone – Altidona – Lapedona -Monte Giberto – Rapagnano – Torre di Palme – Belmonte – Montefalcone – Smerillo -Torre S. Patrizio – Gualdo – Montottone – Marano -Porto (S. Giorgio.)

     Minori

Moregnano – Moresco – Torchiaro – Ponzano – M. Vidon Combatte – Collina –

M. S. Pietro Morico – Ortezzano – M. Leone – Grottazzolina – Acquaviva – S. Andrea – Petriolo – Monte Urano – Francavilla – Magliano – Cerreto – M. Vidon Corrado – Massa – M. Verde – Pedaso – Boccabianca – Castelletta di Petriolo – Mercato – Castrum Guardiae – Partino – Monte Varmine – M. Rinaldo – Alteta – Gabbiano – C. S. Mariae Matris Domini (oggi S. Marco di Ponzano) – Montappone – Poggio fuori Grottazzolina – Chiaromonte – Castello sotto S. Elpidio (oggi Casette) – Bucchiano.

     Cura particolare avevano i Fermani per i Comuni marittimi. Gli abitanti di San Benedetto sono dispensati dalle tasse, ma in cambio devono provvedere alla guardia del castello diurna e notturna e fortificare gli steccati verso il mare. (l. II p.69).

     Guardie per vigilare i porti: dieci a Torre di palme; sei a Boccabianca; dieci a Marano; dieci a Grottammare; quattro a San Benedetto (l II p.57).

NOTE

1       THENER – Documenta Domini Temporalis etc. p. 113 “…..si dictus rector sit bene fortis et  

         habeat ad sufficientiam de stipendiariis, dictaMarchia erit semper in obedientiam … et credit

         quod sufficerent CCCC vel D equites……

         ….. Se il diritto rettore sarà ben forte e avrà mercenari a sufficienza, la marca sarà sempre in

         obbedienza per questo sarebbero sufficienti quattrocento  o cinquecento cavalieri.….

2       COMPAGNONI – Regia Picena . I v. pag. 214 (Macerata MDCLXI).

3       LIBER STATUTORUM (di S. Vittoria). Ecco la rubrica I, del libro III p. 101: “Nessuno osi o

         presuma nominare o acclamare nel nostro paese o nel suo territorio, per la protezione di

        esso…. qualche signore, o Comune, o alcun partito guelfo o ghibellino, pena 200 denari di

        multa”. E questo avveniva anche in altri Comuni.

4      THENER – Documenta Domini Temp. etc.  – vol. II p. 110 –Ismeduccio di San Severino era stato

        focoso ghibellino, ma in questo periodo (circa il 1340) era ardente sostenitore dei diritti del

        Papa.

5     F. FILIPPINI – Il Card. Albornoz . Bologna 1933 c, IV p, 86. Dall’Arch. Vat. Introiti ed esiti- “Die VI

        Junii solutum fuit Everardo Austorp pro captura D. Galeotti de Malatesti in conflictu belli

        Paterni facto die 29 Aprilis ….. pro dicta captione, CC flor

6     THENER – Documenta etc. – v.II Descriptiones p. 356

7      SERAFINO PRETE – Documenti Albornoziani . pp. 16-17-18.

8      THENER – Documenta etc. Descr. March. – v. I p. 343

9      “Ab antiquo est constitutun”, dice il Albornoz, “che il Giudice del Presidato giudichi e porti a

         termine le cause civili e criminali con la stessa autorità del Rettore Generale della Marca. Ma

         siccome è più conveniente secondo il diritto che le cause maggiori siano discusse in un

         tribunale dove ci sia un maggior numero di periti, stabiliamo che le cause riguardanti i diritti e

         il territorio delle varie città; le cause riguardanti rivendicazioni contro la Sede Apostolica e il

         Rettore; le cause tra il fisco e privati, non vengano giudicate dal preside, ma dal Rettore e dai

         suoi giudici”.

10    F. FILIPPINI – Il Cardinale ecc. c. VI p. 142 (Bologna 1933).

11    FRANC. BONASERA – Il  Card. Albornoz nel VI centenario delle Cost. p. 9.

12    POMPEO COMPAGNONI – Regia Picena p. 222.

13    SERAFINO PRETE – Documenti Albornoziani – p. 16 – dalla pergamena 998 dell’archivio di

         Fermo.

14    ANONIMO FERMANO – p. 252, incluso nelle Cronache Fermane del Montani.

15    COLUCCI – A. P. t. XXXI p. 8 e seg. Sono molti i documenti che possono confermare quanto

         esposto. Non mi dilungo a riportarli. Invito piuttosto il lettore ad ammirare il genio

         organizzativo politico del Card. Albornoz e il suo spirito democratico, tanto più mirabile,

         perché attuali, dopo seicento anni.

16    Vedi SERAFINO PRETE – Documenti Albornoziani – doc. IX p. 18.

17    G. DE MINICIS – Di Giovanni Visconti da Oleggio Signore di Fermo(Roma 1840).

18    S. PRETE – ivi doc. XIII – XIV p.20

19   Gli Statuti Comunali alla rubrica 49 pag. 28, dice cittadini Fermani tutti quelli che prestano

         servizio per la città, o lo hanno prestato per cinque anni, o sono iscritti tra i paganti il focatico.

20    Riccardo di Saliceto, in una lettera, diceva al Papa: “(gli Italiani) Mai si allontanarono dalla

         Chiesa e dalla Santità Vostra, ne intendono allontanarsi, ma dai vostri diabolici  ministri…..”.

21    ANTON DE NICOLO’, nella sua cronaca, dice che una salma di grano costava 19 fiorini; una di

         orzo 6 ducati, una di spelta 5.

22    MURATORI – Rer. ital.: “Anno 1376, Asculum oppidum, die ultima mensis Februari defecit

         Ecclesia ubi erat Gomesius de Boniza nepos Card. Egidi; aufugit in arcem ubi se defendit per

         decem menses etc.” (Tanursi in Colucci t. XVIII pp. 41-42).

23     DE NICOLO? – Cronache Fermane

24    COLUCCI – A. P. t. XXIX . doc. VIII p. 202

25    POLINI – Storia di Carassai – p. 75 “Domino Boffo Amice carissime. Lamentatur Dominus

         Rainaldus quod tu contra Statum suum aliquod comitatinos, nobilesque firmanos sub pretestu

         nostri subsidii niteris concitare.Quod si verum foret, foret tua nobilitas multipliciter

         reprehendenda. Scis enim Dominum Rainaldum esse de nostris principalibus colligatis,contra

         quem attentari,  contra unitatem est Ligae etc,

         Amico carissimo. Il signor Rinaldo si lamenta che tu sobilli alcuni nobili di campagna e di città

         contro il suo governo, vantandoti del nostro appoggio. Se ciò fosse vero, la tua nobiltà sarebbe

         molto ripresibile; poiché sai che il signor Rinaldo è uno dei nostri principali collegati. Attentare

         contro di lui attentare contro l’unità della Lega.

26    STATUTI – p. 5 – “Cum populus civitatis Firmanae fuit in die Beati Bartolomei Apostoli

         tirannica rabie liberatus, et ut dona quae capiuntur a Deo intercedentibus meritis Sanctorum

         eiusdem non tradantur oblivioni, statuimus et ordinamus quod singulis annis in perpetuo in

         conservationem memoriae prelibatae,  in die festi et vigilia S. Bartolomei Ap.  de mense

         Augusti, fieri debeat  aliquof festum singulare ad honorem et reverentiam S. Bartolomei

         predicti, secundum deliberationem et voluntatem DD. Priorum populi et Confaloneri iustitiae,    

         qui pro tempore erunt, una cum regolatoribus dictae civitatis; et quod circa festum et

         solemnitatem fiendam in dicto festo possint dicti Domini espendere de pecunia et havere dicti

         Communis usque ad viginticinque libras denariorum absque alia deliberatione Cernitae vel

         Concili specialis, vel generalis”.

27    “Eodem Anno et die II mensis Junii, supradictus dominus Rainaldus cum omnibus

          Supranominatis fuerunt deducti ad civitatem Firmi ad portam Sancti Juliani,

          Quilibet fuit portatus in uno asino cum ore retro, cum corona spinea in capite et fuerunt ducti

          coram dominis Prioribus Firmi per se, iuvenes et etiam alii, fecerunt vestimenta nova, qualibet

          contrada de uno eodomque colore  per se, et aliae per se et sic de singulis,; et illico,  dum

          omnes brigatae essent in platea S. Martini et tripudiarent cum dominis predictis, dominus

          Rainaldus et dominus Mercenarius et Luchinus fuerunt decapitati”. (A. De Nicolò – Cronache p.7.

CAPITOLO VIII

FERMO E LO SCISMA D’OCCIDENTE

DAL 1380 AL 1433

     quando i germani si sollevavano contro qualche tiranno, gridavano “Viva la chiesa e lu popolu liberu”; e anche quando eliminarono Rinaldo da Monteverde, cercarono la libertà nella sottomissione alla Chiesa; ma questa era gravemente malata e non poteva garantire a Fermo quella libertà che nemmeno essa godeva.

     L’8 aprile 1378 era stato eletto Papa Urbano VI (1378-1389), un Papa di vita irreprensibile, ma eccessivamente severo e rigoroso, tanto che più volte Caterina da Siena è costretta a raccomandargli di usare mansuetudine e di non farsi trasportare dall’ira1.

     I Cardinali francesi, il 20 Settembre successivo, si adunarono in Anagni ed elessero Roberto di Ginevra, col nome di Clemente VII, dichiarando irrregolare l’elezione di Urbano VI, avvenuta anche col loro voto pochi mesi prima. Clemente VII si stabilì in Avignone; Urbano VI restò a Roma, e il mondo cattolico si divise; una parte per Avignone, una per Roma, e ne nacque una incredibile confusione, nella quale non ci si raccapezzavano più nemmeno i Santi; vediamo infatti Caterina da Siena, domenicana, sostenere Urbano VI; invece San Vincenzo Ferreri, pure domenicano, parteggiare per l’antipapa.

     Fu forse il più grave disastro mai sopportato la Chiesa2; e uno dei più gravi pericoli che incombé sull’Europa, poiché i Turchi avanzavano nei Balcani, minacciando di ingoiare la civiltà europea.

ANTONIO DE VETULIS

     La Marca fu una delle zone che più ebbero a soffrire in conseguenza dello scisma. A Fermo il primo ad esserne travolto fu il suo Vescovo Antonio de Vetulis (1375-1385), viterbese, uomo di grande intelligenza di profonda cultura giuridica. Fu nominato Vescovo di Fermo da Gregorio XI, nel 1375, in sostituzione del vescovo Nicola Marciari trasferito in altra sede. Forse il Papa fu costretto a quella sostituzione, poiché, benché il Catalani non faccia cenno dei motivi che lo provocarono, Anton de Nicolò dice che il popolo fermano, nel 1375, “rebellavit contra pastorem Ecclesiae”. Sapendo dal Catalani che il vescovo Nicola, dopo essere stato trasferito in varie sedi, finì vescovo titolare, possiamo arguirne che era un vescovo difficile, e accettare la notizia della rivolta popolare. Data la disperazione nella quale in quell’anno 1375, si trovava il popolo fermano, per la carestia cominciata l’anno prima, bastava poco per suscitare una rivolta.

     Sia per questo stato di agitazione, sia perché Antonio de Vetulis quando fu nominato vescovo, benché fosse dottore in legge, aveva solo gli Ordini Minori e si richiedeva un po’ di tempo per ricevere i Maggiori e la consacrazione episcopale, solo nel 1377, partì per la sua diocesi Fermana. In una lettera di quell’anno, Gregorio XI raccomanda al Comune di Santa Vittoria di aiutare il Vescovo con tutti i mezzi ed assisterlo nel recupero di beni diocesani perduti3. Ma qualche mese prima, Rinaldo da Monteverde si era impadronito di Fermo, e il vescovo Antonio dové tornare indietro per rifugiarsi a Roma, dove poté partecipare alla elezione di Urbano VI, l’8 aprile 1378. Eletto nel settembre successivo l’antipapa Clemente VII, forse dietro preghiera di amici francesi, sottoscrisse un livello, nel quale si sosteneva l’invalidità dell’elezione di Urbano VI; ma seguitò a mostrare devozione verso quest’ultimo per parecchi anni.

     Ci possiamo domandare: era persuaso Antonio de Vetulis che la elezione di Urbano VI era invalida?. Conoscendo il suo ingegno e la sua sapienza giuridica, dovremmo rispondere negativamente; ma forse l’argomento era tanto arruffato, da confondere non solo i santi, ma anche i giuristi. Non possiamo però seguire il Catalani quando afferma che il De Vetulis macchiò la sua condotta “turpissimo scelere”. Qui non si tratta di scelleraggine, ma di condotta intelligente e astutissima: quell’astuzia che il vescovo Antonio possedeva in sommo grado, che gli viene attribuita a lode anche nella iscrizione sepolcrale: ”astutus in omni” occupava nella chiesa un alto grado e l’altissima dignità di vescovo di Fermo, la più importante sede vescovile dello Stato Pontificio; non se la sentiva di mettere in pericolo la sua posizione, schierandosi per una delle parti in conflitto, e scelse la poco dignitosa condotta del doppio gioco. Non si poteva sapere quale fine avrebbe fatto Urbano VI, poco amato per la durezza del suo carattere; come non si poteva prevedere la sorte dell’antipapa Clemente VII, seguito forse dai più. Il De Vetulis credette opportuno affidarsi alla propria astuzia e mantenere il piede su due staffe. Andò ad ossequiare l’antipapa in Avignone; partecipò al convegno di Salmatica favorevole a Clemente VII e seguitò ad essere umile servitore di Urbano VI. Astuta condotta politica, con la quale tenta di non farsi travolgere dagli eventi, ma che non intacca affatto la sua fede il suo zelo per la Chiesa e per la sua Diocesi, perché non si trattava di eresia.

     Nel 1385 il suo gioco finì. Chiamato a Genova, dove si trovava temporaneamente il Papa insieme ad alcuni Cardinali tenuti sotto particolare vigilanza (poiché non erano astuti come lui), il Vescovo fermano, sospettando qualche pericolo, fuggì e ritornò a Montottone, sua abituale residenza. Urbano VI ordinò al Comune di Fermo di occupare Montottone, per togliere al Vescovo la possibilità di andare girando liberamente. I Fermani assalirono Montottone, ma furono respinti; tentarono un nuovo assalto, e il castello preferì scendere a patti; però il Vescovo non si trovò in paese, poiché Montottone che gli era affezionato, aveva protetto la sua fuga per destinazione ignota4.

     Al suo posto, Papa Urbano nominò Vescovo Angelo dei Pierleoni (1385-1390) di nobile famiglia romana, che tenne la Diocesi per circa cinque anni.

     Nel 1389, morto Urbano VI, fu eletto Bonifacio IX (1389-1404). L’anno seguente, alla morte di Angelo Pierleoni, a richiesta dei Fermani, Bonifacio IX volle che Antonio De Vetulis riprendesse la Diocesi fermana (1390-1405). In questo 2º periodo di episcopato il De Vetulis fu veramente insigne. Godette della piena fiducia di Bonifacio IX che se ne servì per numerose importanti incarichi, tanto che si può dire Antonio il più grande collaboratore di questo Papa.

     Fermo deve riconoscenza al Vescovo De Vetulis per la sua guida sapiente e per il Palazzo Vescovile, costruito da lui a proprie spese, su un’aria pure acquisita con denaro proprio, nel 13915. Morì nel 1405, un anno dopo Bonifacio IX.

     Soppresso Rinaldo da Monteverde, Fermo riacquistò la libertà, ma non poté goderla, perché quel periodo non permetteva la tranquillità.

     Nell’agosto 1382, scoppiò una peste che durò tre mesi e falciò nella città circa tremila persone. Nel 1383, l’esercito fermano dovette ricacciare il Duca di Camerino da Sant’Angelo in Pontano. Nel 1385, per ordine del Papa, dové marciare contro Montottone per imprigionare il proprio Vescovo; sbarazzare Montegiorgio dagli avanzi dell’esercito di Rinaldo e mandarvi per podestà Ludovico di Antonio, e ristabilire il governo fermano su altri castelli sottratti allo Stato. Nel 1387, il 4 Settembre, fu ucciso a Carassai Boffo da Massa, e quel Comune insieme a Cossignano e Porchia, che costituivano il suo dominio, tornarono a Fermo6.

     Nello stesso anno, Boldrino da Panigale, mandato nella Marca dal Governo Pontificio in aiuto ai Guelfi con 150 cavalli, per sostenere il suo esercito, razziò la zona tra Monte Urano e Fermo 200 bovini e 600 ovini.

     Nel 1390, Bonifacio IX rimandò a Fermo il Vescovo Antonio di Vetulis molto amato dai Fermani e nominò Rettore della Marca il proprio fratello Andrea Tomacelli, con soddisfazione dei Fermani e in genere di tutti i Marchigiani. I ghibellini intensificarono la loro azione di rivolta e, nel 1392, riescono a formare una lega delle principali città marchigiane: Ancona, Macerata, Fermo, Ascoli e altre; assoldano Biordo dei Micheletti da Perugia e, nel 1393, sconfiggono il Rettore e lo fanno prigioniero. A Fermo, capo della rivolta era Antonio Aceti, Gonfaloniere del Comune, che chiamò Luca di Canale e Conte di Carrara a sostegno del suo partito.

     Bonifacio IX chiamò a guidare l’esercito della Chiesa Antonio Acquaviva, sotto del quale militavano Marino Marinelli e Otto Mazarino Bonterzi, ambedue di S. Vittoria. Il Papa scrisse a questo Comune di accogliere e assistere il fratello Giovannello che stava per arrivare con cinquecento cavalli7. Otto Mazarino Bonterzi riuscì a occupare Fermo e porre l’assedio al Girfalco, mentre per il valore soprattutto della cavalleria di Marino Marinelli, l’esercito dei collegati, guidati da Biordo dei Micheletti, venne disperso a Monte San Giusto e il Rettore liberato. Intanto i Ghibellini fermani si erano risollevati e agitavano la città. Marino Marinelli riuscì a entrare di soppiatto nel Girfalco; rioccupò la città e costrinse Antonio Aceti a cedere il posto al Rettore e a lasciare Fermo. Il Rettore Andrea Tomacelli entrò a Fermo per Porta San Giuliano, festeggiato dal popolo, nel 1397.

     Il Girifalco fu affidato alla custodia del nobile capitano Zambocco  di Napoli. Le conseguenze della guerra si sentirono a lungo per i saccheggi di venturieri, per l’aumentata miseria dei poveri, per le malattie che seguivano sempre le guerre.

     Nel 1398, il Conte di Carrara saccheggiò alcuni paesi dell’Alto Fermano, tra i quali il Monte Vidon Corrado, liberata poi da Marino Marinelli che lo mise in fuga8.

     Nell’estate del 1399, comparve qualche caso di peste. Alcuni pellegrini che tornavano da Terra Santa dissero che il più efficace rimedio contro la peste era la costruzione di una chiesa in onore della Madonna della Misericordia. L’ultimo venerdì di Ottobre 1399, (era il 31 Ottobre, “quarta hora noctis”) si cominciò a costruire la chiesetta della Misericordia; in capo alla piazza San Martino9, e il giorno dopo, sabato 1° Novembre (alle 23 del giorno), fu consacrata con grande solennità; vi fu celebrata pure una Messa Novella10.

     L’anno seguente, la peste infierì più violenta e causò in città la morte di duemila  persone e nel contado più di quattromila.

     In quell’anno cominciarono pure nella nostra regione le processione dei “Bianchi”. A centinaia uomini e donne vestiti di bianco per le gravano da una chiesa all’altra e da un paese all’altro, pregando e cantando l’inno di Jacopone da Todi: “Stabat Mater”11. Non mancavano scene di incredibile fanatismo, da parte di gruppi di penitenti guidati da esaltati e da imbroglioni.

     Molti di questi pellegrinaggi avevano per meta la Cattedrale di Fermo, poiché ricorrendo l’anno del Giubileo, il capitano del Girfalco Zambocco ottenne da Bonifacio IX una bolla, per la quale le indulgenze del Giubileo si potevano lucrare anche nella Chiesa Cattedrale12.

DAL 1400 AL 1417

   Per evitare grande confusione nella mente del lettore, è necessario semplificare la narrazione di questo periodo agitatissimo, attenendosi a fatti principali, necessari per capire la storia fermana.

  Dalla confusione in campo religioso cercavano di trarre vantaggio in campo politico quasi tutti i governanti italiani. Ladislao, Re di Napoli, sostenendo il legittimo Papa, allargava il suo dominio sulle terre della Chiesa; altrettanto tentava di fare la Repubblica di Firenze, che aveva guadagnato l’adesione di molti signori dell’Umbria e delle Marche; e appoggiava l’antipapa. Anche Carlo Malatesta di Rimini, che era forse il più sincero sostenitore del Papa legittimo, aveva i suoi motivi politici per farlo, poiché la potenza della scismatica Firenze era un grave pericolo per il suo piccolo Stato.

     Fermo sopportò tutte le conseguenze disastrose dello Scisma. Nel 1404, fu eletto Papa Innocenzo VII, di Sulmona, che nominò governatore di Fermo e Rettore della Marca il nipote Ludovico Migliorati. Morto il vescovo Antonio De Vetulis nel 1405, il Migliorati ottenne dal Papa che fosse trasferito alla Diocesi di Fermo il Vescovo di Ascoli a Leonardo De Fisicis, pure di Sulmona, che gli storici dicono ubriacone e vizioso13

     A questa sventura si aggiunse, nel 1406, la morte di Innocenzo VII e l’elezione di Gregorio XII, (1406-1416) veneziano, che forse con poca oculatezza politica, volle togliere al Migliorati e la rettoria della Marca e il governo di Fermo. Ludovico Migliorati non si piegò e, pur perdendo la rettoria della Marca, restò signore di Fermo, cercando di mantenere buone relazioni col Re di Napoli.   

   Sentendosi in pericolo perché in disgrazia del Papa, divenne sospettoso e a volte crudele. Nel 1407, in una riunione del consiglio comunale, volendo il Migliorati imporre la sua volontà, si alzò Antonio Aceti14 che lo apostrofò: “in buon hora, lassate fare a li Priori, e se non volete, rimandateli a casa”. Il Migliorati, conoscendo bene il personaggio e vedendo in lui un pericolo per la propria signoria, il giorno dopo, fece prendere e decapitare l’Aceti con alcuni familiari ed amici.

     Nel 1409, si adunò un Concilio a Pisa che, il 26 Giugno di quell’anno, dichiarò deposti i due Papi, Benedetto XIII e Gregorio XII, proclamando solo Papa legittimo Alessandro V, eletto dal Concilio. Il risultato fu che, invece di due Papi se ne ebbero tre, peggiorando la confusione. Ludovico Migliorati, credendolo ormai il partito più sicuro, seguì le parti di Alessandro V, poi del successore Giovanni XXIII, antipapi sostenuti dalla Lega fiorentina, i quali gli confermarono la signoria di Fermo e il rettorato della Marca. Anche la Diocesi Fermana fu per vari anni in sua balìa, poiché osteggiò accanitamente i vescovi nominati da Gregorio XII e costrinse i vari antivescovi che si susseguirono a sottostare al suo arbitrio.

     Ludovico Migliorati fu il più fortunato tra i tiranni di Fermo, poiché, dopo aver tenuto più a lungo di tutti la signoria della città (33 anni), riuscì a morire nel proprio letto; ma nessuno collazionò più umiliazioni di lui, poiché in campo militare fu un imbelle.

     Il 23 Ottobre 1413, Carlo Malatesta si mosse contro Fermo. Da Montolmo assalì Francavilla, espugnando la “con una bombarda grossa che scagliava pietre pesanti più di 100 libbre”15, e in tre giorni, occupò Alteta, Cerreto, Montegiorgio, Falerone, Monte Vidon Corrado, Montappone, Massa, Mogliano.

     Nella notte tra il 26 e 27 Novembre tentò a sorpresa alla occupazione della città. Secondato dal traditore Vanni Andreoli di Fermo, ruppe il muro sotto i Macelli, ma accorsi al rumore i cittadini preferì ritirarsi e seguitare l’occupazione del contado.

     Dal 10 al 26 Dicembre, occupò Monteverde, Rapagnano, Torre San Patrizio, Monte San Pietrangeli, Monturano.

     Il 31 Marzo 1415, seguitò la conquista lo Stato Fermano, occupando Monte Leone, Monsampietro Morico, Montottone, S. Elpidio M. M. Vidon Combatte e Ortezzano. Più sfortunata fu Torchiaro che, mentre trattava la pace, fu occupata a

tradimento da un certo Giorgio da Roma che la saccheggiò e la diede alle fiamme. Gli abitanti di Petritoli, spaventati, abbandonarono tutti il paese. Tra i fuggiaschi c’era anche, colla sua famiglia, Anton de Nicolò, allora Podestà di Petritoli, che ci racconta questi avvenimenti16. Ma nemmeno lui, tanto ossequioso verso il Migliorati e verso Giovanni XXIII, ci riporta alcuna azione bellica di quel signore per contrastare l’occupazione del suo dominio. Forse sapeva che i Fermani non erano con lui, e non si sentiva sicuro fuori del Girfalco.

     Chi invece si mosse contro il Malatesta Rodolfo Varano, che temeva per il suo Ducato di Camerino. Però fu battuto presso San Severino il 21 Maggio 1415, e il Malatesta occupò Montecchio (Treia), Morrovalle, Montecosaro, San Giusto, Montegranaro e Petriolo. Ormai al Migliorati restava solo Fermo e qualche altro castello verso il mare.

      Ma il 1415 fu anche l’anno decisivo per la fine dello scisma. L’imperatore, che allora era a Sigismondo di Lussemburgo, spinto da tanti dottori che gli attribuivano il diritto e il dovere di rimediare ai mali della Chiesa, si accordò con l’antipapa Giovanni XXIII che dei tre era il più seguito, e ottenne da lui la bolla di convocazione di un Concilio che si aprì a Costanza nel Novembre 1414. Giovanni XXIII fu presente fin dalle prime adunanze, ma vedendo di non poterle guidare a modo e a favore suo, nel marzo 1415, di nascosto fuggì. Il Concilio stava già per sciogliersi, quando con intelligenza e magnanimità, proprio nel momento più opportuno, intervenne Gregorio XII. I due antipapi avevano perso ogni credito presso il Concilio per la loro condotta faziosa ed egoistica. Il 4 Luglio 1415, Carlo Malatesta, plenipotenziario di Papa Gregorio si presentò a Costanza con una bolla del Papa che convocava il Concilio, rendendolo così legittimo, e offriva la propria abdicazione.

     Si perse ancora molto tempo nella discussione se si dovesse leggere prima un nuovo Papa, o forse fare prima alcune riforme e, finalmente l’11 Novembre 1417, giorno di S. Martino, fu eletto Papa Ottone Colonna, (non era ancora Diacono), che prese il nome di Martino V; così finì lo scisma d’Occidente che era arrivato 39 anni.

     Carlo Malatesta pagò cara la sua fedeltà Papa Gregorio XII e i suoi servizi alla Chiesa. Firenze e i suoi alleati si videro in pericolo, sia per l’ingloriosa fine del loro antipapa, sia per la potenza del Malatesta che minacciava di accrescersi per il nuovo corso che stavano prendendo gli avvenimenti. Il 13 luglio 1416, Firenze mandò contro il Malatesta, Braccio da Montone che, presso Assisi, lo sconfisse e lo fece prigioniero.

     I castelli fermani che odiavano il Malatesta, sia per spirito di indipendenza, sia perché avevano dovuto troppo soffrire per la rapacità e la crudeltà del suo esercito, approfittarono della sua disavventura, per ritornare tutti alla obbedienza di Fermo.

FERMO E MARTINO V

    Lo Scisma non era stato una eresia, poiché non erano state mai in gioco le verità della Fede, se non in qualche testa di dottore; la cristianità era solo disorientata, e anche Fermo lo era, circa la legittima gerarchia ecclesiastica. Ma non per questo furono minori le difficoltà incontrate da Papa Martino V, che seppe affrontarle con abilità singolare. Possiamo un po’ misurare il suo tatto politico nella sistemazione del Fermano. Qui trattò gli individui senza tener conto dei quale parte avessero seguito durante lo scisma; d’altra parte non sappiamo nemmeno quale parte avesse seguito lui.

    Mostrò benevolenza verso il Migliorati e lo riconfermò nel governo di Fermo. In fondo, questo astuto volpone non era peggiore, né più pericoloso di tanti altri; non valeva la pena di farselo nemico, esautorandolo.

     A Fermo, dal 1412 c’erano due vescovi: Giovanni III De Bertoldis romagnolo, eletto dal legittimo Papa Gregorio XII, e Giovanni IV De Firmonibus, fermano, che era stato trasferito dalla diocesi di Ascoli a Fermo dall’antipapa Giovanni XXIII, dietro preghiera di Ludovico Migliorati. Ambedue erano uomini di grandi qualità; ambedue avevano partecipato al Concilio di Costanza; ma Giovanni IV si era distinto nel sostenere l’antipapa. Bisognava toglierne uno; Martino V, il 15 Dicembre 1417, trasferì a Fano Giovanni III e confermò a Fermo Giovanni IV.

     Tra Ludovico Migliorati e Giovanni IV De Firmonibus seguitò la consueta concordia, ma per il signor Ludovico quello non fu un quinquennio felice. Nell’Ottobre 1416, gli morì la moglie Bellafiore e nel Maggio successivo sposò Taddea, figlia di Pandolfo Malatesta di Pesaro. Nel 1418, Braccio da Montone si mosse contro Fermo e, saccheggiata la Badia di Fiastra, occupò Petriolo, Mogliano, Massa, Loro e Falerone. Il Migliorati, scarso di forze armate, dovette ricomprare la tranquillità con lo sborso di forti somme. Nel 1420, corso in aiuto del suocero che combatteva a Brescia contro il Duca di Milano, cadde prigioniero del Duca: non era mai stato valoroso combattente.

   Erano molti a Fermo i nemici del Migliorati, i quali non andava a genio la troppa amicizia tra lui e il Vescovo. Nel Luglio 1419, un certo Cicconi di Carassai, cittadino fermano, appese fuori Porta San Giuliano  uno scritto, dove si diceva che il Vescovo stava preparando una congiura contro il Migliorati. Questi, fattolo ricercare lo consegnò al Vescovo, perché lo giudicasse. Ciccone confessò di aver agito per inimicare il Vescovo con Ludovico, e fu condannato al carcere perpetuo.

    Del Migliorati conosciamo quattro figli avuti dalla prima moglie, tra i quali Giacomo, avviato fin da bambino alla vita ecclesiastica. Morto il Vescovo Giovanni IV De Firmonibus, il 1 febbraio 1420, il Migliorati pregò Martino V che al figlio Giacomo fosse affidata l’amministrazione a vita della diocesi Fermana. Il Papa (non cerchiamo per quali motivi), il 20 Ottobre 1421, concesse quanto Ludovico chiedeva17. Martino V non intendeva però nominare Giacomo Migliorati Vescovo di Fermo; difatti due anni dopo elesse Cardinale e vescovo di Fermo Domenico Capranica, un nobile chierico romano, di virtù e capacità singolari, che allora aveva ventidue anni; ma non volle rendere ufficiale questa nomina, continuando a servirsi di lui in varie delicate missioni che il giovane Cardinale espletò con singolare perizia.

     Intanto nel 1426, la signora Taddea partorì un figlio e, l’8 Giugno dell’anno appresso morì di peste bubbonica (sotto il braccio sinistro; ci visse tre giorni).

     Il 28 Giugno 1428, morì il Ludovico Migliorati, ma la sua morte fu tenuta segreta fino al 12 Luglio, per dar tempo al figlio Firmano, che stava presso il Duca di Milano, di venire in segreto a Fermo, per prendere possesso del Girfalco. Chi dirigeva tutto era Gentile, fratello di Ludovico.

     I Fermani, quando conobbero la morte del tiranno, assediarono il Girifalco e chiesero al Papa il permesso di distruggerlo, perché era per essi causa continua di oppressione. Martino V pregò il Comune di pazientare qualche giorno, poi avrebbe provveduto lui. L’assedio del Girifalco durò vari mesi, durante i quali si permise solo alle due figlie del Migliorati di uscire per andare spose, una a Ravenna, l’altra in Atri, sposa di Gioisia  Acquaviva.

     Il 13 Ottobre 1428, due albanesi uscirono di nascosto da Girifalco e riferirono ai Priori che Marinuccio Mostacci, offidano agli stipendi del Comune, introduceva nel castello, per un passaggio segreto, armi e vettovaglie. Fu giudicato e fatto impiccare.

     Ma finalmente, per impedire l’inutile strage della famiglia Migliorati, intervenne Martino V, e a quella gente fu permesso di emigrare altrove. Tra essi c’era anche Giacomo amministratore della Diocesi che aveva sempre dimorato nel Girfalco col padre. Così la Diocesi Fermana fu libera per il legittimo titolare Domenico Capranica.

     Fu uno dei più illustri personaggi che portarono il titolo di Vescovo di Fermo; ma come altri suoi predecessori, resse la Diocesi da lontano, per mezzo dei suoi vicari; venne a Fermo solo nel 1446.

      Martino V lo aveva nominato Cardinale e Vescovo di Fermo, ma non aveva reso ufficiale la sua nomina; se la era riservata “in pectore”, come si dice oggi. Dopo la cacciata dei Migliorati, non potendo recarsi a Fermo a causa dei suoi impegni diplomatici, aveva preso possesso della Diocesi per mezzo di un suo vicario, Giacomo Ranieri di Norcia. Morto Martino V, nel Febbraio 1431, il Capranica andò a Roma, ma non fu ammesso al Conclave per l’elezione di Eugenio IV, perché tra i Cardinali era sorta disparità di pareri circa la legittimità della nomina a Cardinale; per alcuni essa era legittima; per altri invece non era valida, perché non era stata completata con l’imposizione del berretto cardinalizio. L’esclusione del Capranica da Conclave suscitò anche qualche polemica circa la validità della elezione di Eugenio IV

     Il Capranica seguitò la sua missione, come se nulla fosse stato, aspettando che le cose si appianassero da loro e la sua nomina a Cardinale fosse col tempo ratificata dal nuovo Papa. Ma ci furono degli invidiosi che cercarono la sua rovina. Male lingue fecero credere a Eugenio IV che il Capranica impugnava la validità dell’elezione del Papa e cospirava con i Colonna contro di lui.

     Nel novembre 1432, il Papa non solo non convalidò al Capranica il titolo di Cardinale, ma gli tolse ogni incarico onorifico e il vescovado di Fermo; ordinò la confisca dei suoi beni e mandò delle guardie per arrestarlo. Il Cardinale, dopo essersi nascosto per due mesi in un romitorio del monte Soratte, si rifugiò presso il Duca di Milano e, nel 1433, seguito dal suo segretario Enea Silvio Piccolomini, un futuro Papa, si recò al Concilio di Basilea, dove espose il suo caso, senza animosità e con tanta umiltà, che il Concilio lo scagionò di tutte le accuse. Dietro la decisione del Concilio, Eugenio IV lo confermò Cardinale e vescovo di Fermo, nel febbraio 1434.

     Di questo secondo periodo di episcopato dovremmo trattare in seguito; ora torniamo al 1430, un anno notevole nella storia fermana.

DOPO LUDOVICO MIGLIORATI

     Dopo trent’anni di governo dittatoriale e poco efficiente, il Consiglio Comunale, che aveva dovuto subire le prepotenze del Migliorati, si trovò di fronte al non facile compito di riorganizzare il libero governo nella Città e nello Stato, per cui era necessaria la forza, ma anche molta prudenza.

     Tra Fermo e Ripatransone non c’era stata mai vera concordia; c’erano stati spesso dissensi e scontri armati. Non era facile tra esse la convivenza, perché Ripatransone si sentiva coartata dalla potenza fermana che dominava su tutta la costa e sul castello di Acquaviva; Fermo vedeva malsicuro il possesso della zona, per la vicinanza di quella forte città alleata di Ascoli.

     In Valtesino, sui confini tra Ripa e Acquaviva, esisteva la chiesa di S. Angelo in Trifonso, che aveva fatto parte del monastero farfense di S. Angelo in Val Tesino. Presso quella chiesa, come avveniva intorno a ogni monastero, accorrevano commercianti da ogni parte, per la fiera dell’8 Maggio che durava parecchi giorni. Il luogo era causa di contese e di zuffe tra fermani e ripani che ne rivendicavano il possesso, non per la Chiesa in sé, ma per i traffici che vi si praticavano e che procuravano rilevanti entrate al Comune che vi riscuoteva i dazi e pedaggi. Ogni anno si ripetevano disordini e scaramucce tra soldati fermani e ripani che presidiavano la fiera.

     Sia il Tanursi, che il Garzoni18, fanno scoppiare una feroce battaglia tra fermani e ripani durante la fiera del 1429; secondo me, è preferibile seguire Anton De Nicolò, scrittore contemporaneo; anche il Garzoni è contemporaneo, ma stava a Bologna. Il De Nicolò non riporta nessuna battaglia, ma dice che il Consiglio Fermano mandò, l’8 Maggio 1430, il “miles Potestatis” a Sant’Angelo con uomini, per sorvegliare la fiera; con l’ordine che, se i ripani li avessero respinti, essi se ne sarebbero dovuti andare, dopo aver fatto stendere un verbale da un notaio. Difatti così avvenne; i soldati ripani respinsero i fermani, che si ritirarono. Ma dopo tre giorni, i Fermani occuparono indisturbati la fiera con quattromila soldati19.

     In quell’anno stanziò a Fermo una carovana di cinquanta zingari che il Nicolò dice: “mala gente, ladri, trafficanti di cavalli”. Anche oggi gli zingari sono quelli di una volta e anche oggi sono in certi luoghi trafficanti di equini. Ma bisogna capire l’espressione dello scrittore, perché il possesso e il traffico dei cavalli era allora sottoposto a rigorose limitazioni legali, dato il largo bisogno di quegli animali per la guerra20. Il traffico degli zingari consisteva come del resto anche oggi, nel comprare o raccogliere per pochi soldi cavalli malandati, che essi curavano pazientemente e, con appropriati esercizi, rimettevano in sesto e rivendevano con qualche profitto a chi ne avesse bisogno per lavoro di poco impegno.

    Nel 1430, i Fermani si accorsero che la loro città, ricca e potente, adorna di splendidi monumenti come Girifalco, la Cattedrale, S. Agostino, S. Francesco, S. Domenico e altri minori, non era bella né pulita; e non poteva esserlo, a causa delle vie fangose o polverose orlate in molte zone di violacciocche e di ciuffi di falasco. Nelle vie secondarie poi non era raro il caso di osservare, vicino all’uscio di casa, la fossa per gettare i rifiuti e la spazzatura. Nell’Ottobre 1430 fu incominciata la seccatura delle vie. Non so se ci fu in proposito una delibera del Consiglio Comunale, ma il fatto che il selciato veniva eseguito dai privati, ognuno avanti la propria casa fino a metà della via; che il selciato cominciò prima vicino a S. Agostino, poi vicino a S. Francesco, ci fa pensare che non fosse estraneo all’opera l’incitamento dei frati.

     Nel 1433, un frate Agostiniano, fra Simone da Camerino, predicando a Fermo, lanciò l’idea che sarebbe stato bene che i Giudei si riconoscessero in pubblico con un distintivo visibile. E poiché le trovate dei frati venivano spesso accolte dai Consigli Comunali, quello di Fermo stabilì che i numerosi Ebrei della città portassero sul vestito una specie di coccarda che li distinguesse.

     Degli Ebrei, della loro attività e perché riscuotesse tanta avversione popolare, parleremo a suo tempo. Ora, per la migliore comprensione del periodo che stiamo trattando, è necessario esporre con la maggiore brevità e chiarezza possibile che cosa era la Signoria e la sua portata politica.

NOTE

 1      Dalle lettere di Caterina: Giustizia senza misericordia piuttosto sarebbe ingiustizia che  

          giustizi …. Babbo mio dolce, fate le cose vostre con modo e con benevolenza e cuore tranquillo. 

          Mitigate un poco, per l’amore del Crocifisso, quelli momenti subitanee che la natura vi porge.

2       Dico “disastro”, non “pericolo”, perché sono credente. Per i credenti la Chiesa non corre mai

          pericolo.

3       COLUCCI – A.P. XXIX – n. CIX p. 203

4       L’assalto di Fermo contro Mondottone probabilmente fu una finzione. I Fermani si fecero  

          respingere al prmo assalto per dar tempo al loro Vescovo, che amavano, di fuggire.

5       “Antonius Episcopus Firmi cum in nostra civitate Firmana domun episcopalem in qua apte

          commorari posset non haberet, de bpnis sibi a Deo collatis … de novo acquisito, episcopale

          palatium pro sua et  successorum abitatione contrui fecit”. (dalla lettera del Papa Bonifacio –

          Catalani – De Eccl. p. 227).

6       Questa data, 4 Settembre, è in contraddizione con quella riportata da Anton de Nicolò dice

         Boffo morto a Monterubbiano, il 30 Luglio; ma mi sembra più sicura, perché desunta dalla

         iscrizione apposta al sepolcro di Beaufort, che si trovava nella distrutta chiesa di S.  Eusebio in

        Carassai.

7      COLUCCI – A. P. XXIX p. 219.

8       ANTON DE NICOLO’ – “Gli abitanti di questa terra mandarono con segretezza a domandare

         aiuto a Marino Marinelli da S. Vittoria, il quale avendo sotto di sé gran numero di soldati col

        suo valore accostandosi con detti soldati riacquistò col cacciare i nemici la Terra e la restituì ai

        Fermani.

9      ANTON DE NICOLO’ – “Locus dictae ecclesiae fuit in capite Plateas S. Martini”.

10   La chiesetta della misericordia fu fatta demolire da Oliverotto Eufreducci per far luogo al

        palazzo del governo, oggi palazzo Apostolico. Costruita, secondo la testimonianza di Anton de

        Nicolò, in 19 ore. Difatti la quarta hora noctis, quando fu cominciata la costruzione,

        corrispondeva alle 10 di sera. Poiché l’inizio del giorno allora si considerava alle sei di sera. Fu

        terminata alle ventitré del giorno successivo che corrisponde alle 5 pomeridiane. In alcuni

        paesi delle Marche e della regione ci sono ancora vecchi orologi da torre che hanno il quadrante

        di sei ore.

11   Il fenomeno dei “Bianchi” non era solo fermano, ma diffuso in tutta Italia, secondo la

         testimonianza del Muratori:

         Rer. It. Script. T. XVII pag. 1171.

         MANOSCRITTI ASCOLANI: “Nell’anno del signore 1400 sorse 1 grandissima manifestazione di

        devozione e pratiche religiose in Italia. Tutti, uomini e donne andavano pellegrinando vestiti di

        bianco, e perdonavano le offese ai propri nemici e si perdonavano a vicenda”.

        ANTON DE NICOLO’ – Cronache pag. 6  – “Nel 1399 nel mese di giugno incominciò 1 certa moda:

        cioè che tutti si vestissero di bianco …. E facevano adunate di popolo e andavano con croce

        visitando chiese, cantando e ripetendo “Misericordia e pace”.

        LUCA COSTANTINI – Aggiunte alle Cronache: “Nel 1399 si formarono delle confraternite di

        devoti che vestendo cappe bianche e cappucci andavano in processione da una città all’altra,

        cantando l’inno: “Stabat Mater dolorosa”.

12   ANTON DE NICOLO’ . Cronache – “Nobilis vir Zamboccus de Neapoli capitaneus in Girone, fecit

         venire bullas Domini Papae etc.”.

13   MURATORI – t III p. 2 col. 834 – “Iste, Camerarius (Leonardo) ita exosus Curiae factus est

        avaritia, ebrietate et alis vitiis notatus, ut famam Innocentii praeteriram detraxerit….”

14   Antonio Aceti, allontanato da Fermo dal Rettore Andrea Tomacelli che gli aveva concesso la

        signoria di Montegranaro, allora era tornato a far parte del Consiglio, essendo cittadino

        fermano.

15   ANTON DE NICOLO’ – Cronache

16   Una seconda volta Anton de Nicolò è podestà di Petritoli e deve fuggire, come vedremo,

        nell’Ottobre 1443.

17   “MCDXXI die lunae, Mensis Octobris fuerunt lectae bullae dei privilegia fili Domini nostri qui

         erat episcopus civitatis Firmi et dicta die cepit possessionem episcopatus”.

18   Le memorie storiche di Ripatransone, sia del Tanursi, sia del Garzoni sono riportate da Colucci-

        A. P. t XVIII.

19   Il Tanursi appoggiato dal Colucci dice falsa la versione del De Nicola, perché farebbe intervenire

        l’esercito fermano il 10 Maggio, a fiera finita. Ma essi dimenticano che la fiera durava non meno

        di una settimana.

20   COLUCCI – A. P. t. XXIX n. XXXI p. 56.

CAPITOLO IX

FRANCESCO SFORZA A FERMO

LA SIGNORIA

     In questo argomento non ho bisogno di dilungarmi troppo, perché dalle pagine precedenti il lettore ha capito che cosa era la signoria: dispotico governo di un signore. Ha capito che nelle Marche le signorie mettevano in crisi l’autorità dello Stato Pontificio, ed erano sommamente dannose all’economia e alla libertà dei Comuni.

     L’origine della Signoria poteva avere varie cause: o era imposta dall’ambizione di qualche nobile che non ci contentava di essere ricco, ma voleva anche dominare; o qualche ufficiale dello stato che aveva avuto il governo di una città se ne faceva padrone, come nel caso di Ludovico Migliorati a Fermo; o qualche venturiero, avendo a disposizione forze sufficienti, imponeva il suo dominio colla forza, come a Fermo Mercenario da Monteverde, Gentile da Mogliano e Francesco Sforza; e in Ascoli Conte di Carrara.

     Nelle pagine precedenti abbiamo scartato la possibilità che un podestà potesse imporre la sua signoria.

     Interessante notare che ordinariamente la Signoria non esclude il governo Comunale, ma lo controlla e lo pone al suo servizio. Il podestà seguita ad amministrare la giustizia e a vigilare sull’ordine pubblico; il Sindaco e Priori  seguitano nel loro ufficio; guidano la città, riscuotono le tasse e pagano i pesanti tributi al signore, il quale ha a sua disposizione l’esercito, quindi ha la forza sufficiente per imporre la sua volontà e imprimere alle cose la direzione da lui voluta. E abbiamo visto sopra come finì male Antonio Aceti che aveva osato reclamare avanti al Migliorati i diritti dei Priori.

     Con la signoria il Comune perdeva il suo significato e diventava servo del potente signore che lo dominava.

     LA SIGNORIA DI FRANCESCO SFORZA

      I Duchi di Milano non avevano mai nascosto le loro mire espansionistiche ed egemoniche sulla Penisola.Bernabò Visconti era sempre sobillato e incoraggiato i ghibellini romagnoli e marchigiani, cercando di accrescere la sua influenza in questa zona, per incunearsi tra Venezia e lo Stato Pontificio.

     Il figlio, Gian Galeazzo portò il Ducato alla massima sua potenza, dominando su tutta la Valle Padana e su gran parte del Veneto.

     Filippo Maria Visconti tentò il colpo grosso: estendere la sua egemonia su tutta l’Italia. Credette fosse giunto il momento buono poiché Venezia era preoccupata per il pericolo turco; lo Stato della Chiesa era travagliato dalle piccole signorie; Firenze in crisi; Genova tremante per la potenza francese da una parte, e dall’altra per Alfonso, re d’Aragona, che già aveva la supremazia sul Mediterraneo, possedendo la Sicilia e la Sardegna, e minacciando la conquista della Corsica e del Regno di Napoli.

     Nel 1433, spedì i due capitani Nicolò Fortebraccio e Francesco Sforza a occupare lo Stato della Chiesa. Il primo occupò in breve tutta la Toscana; Francesco Sforza si diverse occupare la Marca.

     Da Jesi lanciò un proclama, invitando i Comuni marchigiani a ribellarsi al Papa e accettare la propria signoria che sarebbe stata per loro vantaggiosa, perché avrebbero trovato in lui sicurezza, non oppressione; egli avrebbe accettato la loro sottomissione, solo dietro accordi e trattati. Occupata pacificamente Macerata, dovete usare la forza con Montolmo che gli aveva chiuso le porte in faccia e, il 12 Dicembre 1433, quel Comune fu occupato e saccheggiato ferocemente; il che convince molti altri Comuni a sottomettersi volontariamente.

     Fermo, militarmente impreparata, senza poter sperare aiuti da nessuno, perché lo Stato pontificio in sfascio e l’alleata Venezia tremante per la minaccia turca, il 13 Dicembre 1433, mandò ambasciatori a Montolmo, per trattare la sottomissione al Conte. Gli ambasciatori fermani proposero un accordo che includeva il rispetto delle libertà comunali e la salvaguardia dell’integrità territoriale dello Stato Fermano; il Conte accettò le proposte fermane e aggiunse le proprie. Il Consiglio Comunale si riunì il 18 Dicembre, ed esaminate le condizioni imposte dallo Sforza, gli mandò la risposta affermativa. Il Conte mandò subito a Fermo il fratello Alessandro per prenderne possesso e fare i preparativi per il suo prossimo ingresso in quello che aveva già designata capitale del suo dominio.

     Il 3 gennaio 1434, una interminabile processione accolse il Conte Sforza a Porta S. Giuliano, cantando le Litanie dei Santi (cum Litaniis), perché era necessario che anche essi prendessero parte a quella pagliacciata. La presa di possesso del Girfalco fu riservata per il giorno dopo, 4 gennaio 1434.  

     La sottomissione di Fermo, città più prestigiosa delle Marche e sicuramente una delle più forti, produsse uno sbigottimento generale: Montecchio (Treia), Monte Milone (Pollenza) e S. Ginesio tentano di ribellarsi ai signori di Camerino; il Vescovo di Macerata e Recanati, Vitelleschi, allora Rettore della Marca, si imbarca per la Dalmazia; Camerino, tentando di evitare attacchi, si affretta a restituire  S. Angelo e Gualdo allo Stato Fermano, il 6 gennaio 1434. La maggior parte dei Comuni Fermani e Ascolani si sottomisero volontariamente, per evitare mali maggiori. Anche l’irriducibile Ripatransone aprì spontaneamente le porte al signore di Fermo, dopo una tempestosa seduta del Parlamento Generale.

     Nello stesso 1434, Alessandro Sforza occupò Amandola, ma dovette abbandonarla subito, per non cadere prigioniero di Nicolò Maurizi di Tolentino che corse a riconquistarla.

     Nel Marzo di quello stesso anno, Eugenio IV, per distaccarlo dal Duca di Milano, nominò lo Sforza Vicario nella Marca e Gonfaloniere di Santa Chiesa. La mossa politica del Papa riuscì, ma lo Sforza incominciò a lavorare per crearsi un principato proprio, indipendentemente dal Duca e dal Papa.

     Il Visconti, mentre aveva mandato i suoi capitani a occupare la Toscana e le Marche, si era alleato con Genova, alla quale aveva offerto soldati e armi contro Alfonso di Aragona. In una battaglia navale presso Gaeta, i Genovesi ebbero il sopravvento, facendo perfino prigioniero l’Aragonese, nell’agosto 1435.

     Eugenio IV, dopo la sconfitta di Re Alfonso, nel timore che il Duca di Milano potesse impadronirsi del Regno di Napoli, concluse contro di lui una lega con Firenze e Venezia e convince il Conte ad aderirvi.

     Il 23 agosto 1435, il banditore del Comune (trombecta) ordinò ai cittadini fermani che si facessero “focaracci” (falones), per festeggiare l’accordo raggiunto.

     Quei focaracci avevano lo scopo di consolidare la fiducia dei Fermani verso il Conte; far loro sentire che non erano più soli a seguirlo, ma erano alleate con lui altre potenze. Ma chi può dire che c’era nell’animo dei Fermani?

     Certamente non tutti la pensavano allo stesso modo. C’erano gli irriducibili papalini: preti, frati, monache, terz’ordini religiosi e fedeli, che in segreto piangevano sulla Patria strappata alla Chiesa da mani infedeli; essi erano i più, ma contavano di meno.

     C’era la classe dei nobili e dei ricchi, i quali, prepotenti contro il governo papale dal quale non avevano nulla da temere, ora tremavano, perché avevano tutto da perdere con la tirannide.

     E c’era un gran numero di esaltati, prepotenti e faziosi, i quali idolatravano il Conte, attribuendo a onore della Patria la potenza e i successi di lui.

     Un po’ diverso l’atteggiamento del Consiglio Comunale e di quelli che avevano responsabilità nel governo dello Stato. Avere un Signore in città, e per giunta invincibile capitano, anche se costava caro, non era poi gran male, perché il Comune, in caso di bisogno, non avrebbe dovuto arrabattarsi a ingaggiare compagnie di ventura, sempre dannose e malfide; alla sicurezza dello Stato avrebbe pensato il Conte, il quale ostentava rispetto per la libertà del Consiglio e lasciava ad esso la direzione civile delle cose. Ma il loro ottimismo finì quando videro che le guerre non finivano mai, le spese crescevano ogni giorno, e lamentele continue arrivavano dai Comuni dello Stato per le prepotenti requisizioni di derrate.

     Era frequente la richiesta di un soldato per famiglia a servizio dello Stato. Il Conte li trattava bene, ma erano braccia tolte al lavoro e al commercio, e le famiglie non sempre sopportavano questo reclutamento dei figli e spesso il lutto per la loro perdita.

     A rendere meno popolare lo Sforza, si aggiunse, nel Settembre 1435, l’aumento delle tasse. Il Conte ordinò al Comune di elevare il focatico: per i focolari maggiori 40 soldi; per i mediocri 30 soldi; per i piccoli 20 soldi. I Fermati specialmente quelli del contado, reclamarono e chiesero al conte una riduzione, ma ogni protesta fu vana.

     Un modo per fare quattrini usato dai venturieri (e lo Sforza era uno di essi) era avvicinarsi a qualche Comune e imporgli una taglia, che esso si affrettava a pagare, per ottenere che militari si allontanassero. Il 18 Gennaio 1436, il Conte Francesco ordinò che uno per famiglia, sia della città che del contado, si presentasse lui armato e provvisto di vettovaglie per quindici giorni. Radunò così un forte contingente di armati (il De Nicolò dice che solo da Petritoli ne accorsero cento), e si diresse verso Camerino. Lasciò una parte dell’esercito a occupare S. Ginesio e percorse con l’altra molti Comuni camerinesi, fino a Serravalle. Camerino non fu toccata, ma dovette pagare molti ducati. La spedizione durò dieci giorni ed era servita anche per tenere allenato l’esercito. Capiva che gli era necessario un esercito forte e sempre pronto, perché non era tanto difficile conquistare i Comuni marchigiani, quanto tenerli in soggezione; e sapeva che la sua signoria era mal tollerata dal Papa e dal Duca di Milano.

     Nel Settembre 1436, un certo Guerriero, fuoruscito di Ascoli, entrò in quella città, per sollevarla. Alessandro Sorza radunò a Carassai 3000 armati, per correre in Ascoli, ma giunse notizia che i rivoluzionari erano stati espulsi. Alessandro lasciò Carassai e condusse l’esercito fermano ad assalire Acquaviva, posseduta da Gioisia di Atri; però la rocca era ben difesa e i Fermani dovettero ritirarsi, rimandando l’impresa contro gli Acquaviva a tempo più propizio. Dopo quasi due anni, nel Luglio 1438, lo Sforza assalì il Duca di Atri e gli tolse non solo Acquaviva  che restituì ai Fermani, ma anche altre terre e perfino Teramo.

     Poiché ognuno dei grandi contendenti (Roma e Milano) aveva le sue gravissime preoccupazioni, a nessuno conveniva la lotta armata, e tantomeno conveniva allo Sforza, qualunque ne fosse stato l’esito. Nel 1438, per iniziativa del Duca Filippo Maria Visconti, lo Sforza fu eletto arbitro per concludere una pace. Il Conte convocò a Cremona, della quale era signore, i rappresentanti del Papa, di Firenze, di Venezia e di Milano e riuscì a far firmare la pace. In ricompensa chiese ed ottenne la mano di Bianca, figlia unica del Duca di Milano, allora sedicenne. Le nozze, per vari motivi, si celebrarono solo dopo tre anni: il 26 Ottobre 1441, nella città di Cremona, con la partecipazione di molti nobili Fermani ed Ascolani.

OPERE PUBBLICHE

LA GRANDE CARESTIA DEL 1440

     Lo Sforza approfittò di questa tregua, per migliorare la sua Capitale. Nel Maggio 1438, Alessandro ordinò al Comune che si demolisse la chiesa di S. Maria dell’Umiltà, e si togliessero le cassette di legno e le bancarelle dei commercianti, perché la Piazza S. Martino doveva essere ingrandita e abbellita. Il lavoro fu terminato la piazza completamente spianata l’11 Giugno 1442, quando per preparare la venuta della signora Bianca, fu restaurato anche il Castello del Girfalco1.

      Il Conte sapeva bene che non doveva fidare nella pace, perché aveva conquistato le Marche, ma non nel cuore dei Marchigiani. Ribellioni si manifestavano qua e là: Tolentino si ribellò nel 1438, ma si risottomise dopo pochi mesi; e in tutto il Camerinese l’ostilità verso di lui appariva sempre più spesso.

     Oltre che ad abbellire la sua Capitale, pensò anche a fortificarla meglio. Nel Maggio 1440, ordinò al Comune di reclutare un gran numero di operai che lavorarono fino a tutto Agosto, per costruire torrioni e migliorare le mura di cinta, da porta S. Giuliano al Convento di S. Agostino. Di questo grandioso lavoro resta solo qualche rudere.

     Al Comune non fu difficile trovare operai e farli lavorare fino ad Agosto, perché quell’anno i contadini non dovettero sudar troppo per la mietitura e la trebbiatura. Nel mese di Giugno una terribile tempesta, con le spaventose grandinate colpì tutto il Fermano, desolando le campagne. Tra i paesi più colpiti furono Montefortino, Petritoli e Carassai, secondo quanto scrive il De Nicolò, al quale questi paesi interessavano maggiormente. Grano, orzo, oliva furono completamente distrutti. Ogni grano di grandine (granelli) pesava più d’una libbra e sprofondava nel terreno più d’un palmo.

“Mihi Antonio” dice de Nicolò che era originario di Carassai dove aveva delle terre, provocò un danno, di parte sua, di 50 ducati.

     Nel Luglio di quell’anno cominciò la carestia: “La raccolta non ridava la semina”, di olive  “erant ruscatae” e cadevano “fracidatae et verminatae”.

     In Ottobre il Comune dovette preoccuparsi di scongiurare la fame per la città e per il contado. Furono scelti tre cittadini capaci: Cola Pasquali, Antonio Giorgi e Giovanni Vanni, per provvedere a un ammasso di grano che si radunò nella chiesa di S. Martino. Si diede loro l’autorizzazione di imporre taglie e prestazioni di grano ai cittadini e contadini abbienti e di importare frumenti dall’Albania, dalla Schiavonia e dalla Puglia. Una salma di grano venne a costare lire dieci  e quattro soldi; ma se non ci fosse preso questo provvedimento, sarebbe costata più di sei ducati1.

     Nella Quaresima del 1442, i lavori nella Piazza o erano terminati o volgevano alla fine, perché le circa quattromila persone che si radunavano nella piazza per ascoltare le prediche di Fra Giacomo da Monteprandone (S. Giacomo della Marca) non recavano inciampo.

     Il 1442 segna il principio della fine della dominazione sforzesca nelle Marche. Ci saranno ancora tre anni di guerra continua, durante i quali Francesco Sforza, validamente appoggiato dal fratello Alessandro, vince tutte le principali battaglie, ma non riesce a spegnere la rivolta dei Comuni marchigiani che lo costringono a correre ai ripari da un capo all’altro della regione.

     Nonostante che fosse il suo genero, il Duca di Milano voleva la rovina dello Sforza, sia perché col suo tradimento aveva fatto fallire i suoi piani, sia perché il Conte era troppo legato a Venezia, la quale, perdendo terreno in mare contro i Turchi, mirava sempre più a una espansione sul continente. Il 9 Giugno 1443, il Duca di Milano fornì a Nicolò Piccinino un formidabile esercito di ottomila cavalieri e quattromila fanti, per scardinare la potenza sforzesca. Il Piccinino occupate alcune località umbre, passò nel Camerinese, sempre ostile verso il Conte; occupò Camerino, Belforte, S. Ginesio; ma a Sarnano fu sconfitto e fatto prigioniero dallo Sforza, che lo lasciò libero, a patto che non osasse più combattere contro di lui. Il 22 Giugno 1442, la signora Bianca, da Jesi dove aveva soggiornato per un anno, si trasferì a Girfalco abbellito per essa, festeggiata dal popolo fermano.

     Ma anche a Fermo, dove gli Sforza si sentivano più sicuri, covava l’odio è la rivolta contro di essi. Il 13 Agosto furono presi e impiccati alcuni congiurati, che erano venuti da Accumuli, per organizzare una rivolta contro lo Sforza; con essi furono impiccati anche un frate Domenicano e una monaca che consigliavano la ribellione al Conte.

SOLLEVAZIONE A RIPATRANSONE

     Santoro Puci, un condottiero riparano noto per imprese gloriose e capo del partito che si era opposto alla direzione della città allo Sforza, attendeva l’occasione propizia per liberare la patria dai Fermani; essa si presentò nell’Agosto 14422, incontrato un graduato del presidio sforzesco che l’offese, tratta la spada l’uccise e chiamò i cittadini alle armi. In poche ore i Ripani cacciarono dalla città i soldati dello Sforza e i capi del partito che lo sosteneva. Giunta notizia a Fermo, il Conte diede ordine che si radunassero a S. Maria della Fede tutti i combattenti fermani disponibili. Si formò così un esercito di tremila fanti e ottomila cavalieri, che marciò immediatamente ad assediare Ripatransone3. Una parte dell’esercito si accampò sul colle destinato alle esecuzioni capitali (colle dei Cappuccini), l’altra parte presso la chiesa di S. Maria Maddalena. Riuscendo inutile ogni tentativo di conquistare la città, sia per la posizione di essa, sia per il valore dei suoi abitanti, lo Sforza ricorse al tradimento. Invitò il Comune a mandare un gruppo di cittadini di alto rango per trattare accordi. Arrivati questi nel campo, furono rinchiusi nella sacrestia di S. Maria Maddalena; poi fu avvisato del Comune di Ripa che il Conte avrebbe ridato gli ostaggi, tolto l’assedio e concesso generale perdono, solo se fosse accolto amichevolmente entro la città.

     Il lavorio degli amici del Conte, che a Ripa non mancavano e i lamenti delle famiglie degli ostaggi, che temevano dei loro cari in mano allo Sforza, convinsero  le autorità comunali a cedere. Furono imbandite mense per i soldati lungo le vie e furono aperte le porte della città.

     I soldati dello Sforza, o che avessero il consenso dei loro capitani, o che questi non avessero la possibilità di impedirlo, consumate le vivande, si diedero al saccheggio, commettendo atrocità e appiccando incendi.

     Prima di aprire le porte al nemico, le autorità ripane avevano ordinato che le donne restassero chiuse nelle chiese, le quali, come si sa, avevano diritto d’asilo, quindi vietate a gente armata; diritto quasi sempre rispettato dalle milizie cristiane. Ma si capisce che ogni regola può avere le sue eccezioni; e sembra che i panni ebbe, e dolorose4. Ma gli scrittori sono concordi nell’attribuire i delitti contro il sesso debole a venturieri spagnoli; e il De Nicolò si affretta a dirci che i soldati fermani si diedero da fare, per difendere le donne ripane dalla licenza della soldataglia.

     Tra le cose asportate dai Fermani sono contare, secondo il De Nicolò, la campana del palazzo comunale di Ripa; il quadro “Parto della B. Vergine” e una campana mediocre, tolte dalla chiesa di S. Agostino di Ripatransone, e sistemate nella chiesa omonima di Fermo; similmente molti arredi sacri della chiesa di S. Francesco è una piccola campana di S. Lucia vennero dal saccheggio di Ripa.

      Erano passati una quindicina di giorni, durante i quali il Conte aveva ritirato da Ripa l’esercito, lasciandovi un presidio di quattromila armati fermani; Santoro Puci, l’eroico condottiero riparano che nel frattempo era corso a chiedere aiuto al Piccinino, ritornò con una buona schiera di armati, entrò di notte in città, e in poche ore, il 4 Ottobre 1442, cacciò il presidio fermano, e cominciò la ricostruzione.

      Santoro poté lavorare alla ricostruzione della città per più di un anno con una certa sicurezza, perché per lo Sforza la posizione si aggravava. Nicolò Piccinino, con un esercito di 30.000 uomini reso possibile dall’accordo tra Eugenio IV e Alfonso d’Aragona Re di Napoli, riuscì a far ribellare al Conte gran parte dei Comuni Marchigiani; restavano a lui alcune fortezze come Ascoli, Civitella, Fermo, Recanati.

     I comuni marchigiani non furono mai facili per nessun tiranno, e non lo furono nemmeno per Francesco sforza. Dopo 10 anni di continue lotte, nell’agosto 1443, si trovava a ricominciare daccapo: lui, in attesa di aiuti, assediato a Fano dal re Alfonso; il fratello Alessandro, fortificato Fermo, passava le notti insonni sotto la tenda in piazza San Martino, per essere pronto, all’occorrenza, a mettersi a capo dei suoi soldati che affollavano la città, della quale poteva fidarsi poco. La fine degli Sforza sembrava imminente, e lo sarebbe stato, se le forze avversarie fossero state unite concordi, ma non lo erano.

   Il 17 settembre 1443, Re Alfonso, col pretesto di condurre il suo esercito a svernare in Abruzzo, tolse l’assedio a Fano. Francesco Sforza, arrivati aiuti da Firenze da Venezia, affrontò il Piccinino, il cui esercito era stato lasciato solo, e lo sconfisse a Monteluro (Pesaro), il 12 novembre 1443. 

     È chiaro che il Re Alfonso, ottenuto dal Papa il riconoscimento di Re di Napoli, non aveva voglia di combattere e procurarsi gravi perdite, per amore di Eugenio IV. Non sappiamo se ci furono accordi segreti tra il Re e lo Sforza, o se ci furono pressioni da parte di altri potenti; il Re che conduce a svernare l’esercito tre mesi prima dell’inverno, nel momento cruciale della guerra, ha tutta l’aria di un traditore; e mentre i suoi diecimila soldati avrebbero potuto avere un peso decisivo nella guerra, furono solo una comparsa.

SACCHEGGIO DI TORCHIARO E MOREGNANO

     La marcia per il rientro di queste truppe durò più di un mese, e anche Alfonso non volle o non osò5 toccare Fermo, le zone attraversate riportarono danni immani. Anton De Nicolò ci ha lasciato memoria del saccheggio di Torchiaro che aveva subito la stessa sventura una ventina d’anni prima, ma tanti altri luoghi marchigiani avranno subito la stessa sorte. Un gruppo di razziatori napoletani avevano portato via una quantità di di bestiame dal territorio di Petritoli. Un centinaio di armati Petritolesi li raggiungerò a Torchiaro, ne uccisero una ventina e ripresero il bestiame. Poi si vollero fermare un po’, per rinfrescarsi in una bettola. Sopraggiunsero circa trecento saccheggiatori spagnoli che fecero prigionieri una ottantina di petritolesi  e li tennero alcuni giorni, aspettando il riscatto. Nel frattempo saccheggiarono e devastarono Torchiaro e Moregnano. I cittadini di Petritoli, temendo che il loro castello potesse essere assalito, mentre gran parte dei suoi difensori erano prigionieri, fuggirono tutti nei paesi vicini e tornarono dopo passato il pericolo. Tra essi era Anton De Nicolò, allora Podestà di Petritoli, che ci racconta questi episodi. E il lettore concluderà con un sospiro: Che secolo beato il 400!

     La battaglia di Monteluro non fu risolutiva né per una parte, né per l’altra. A Fermo furono ordinati “focaracci” (falones) per celebrare la vittoria del Conte; vittoria che lo riportò nella sua capitale, per ricominciare la riconquista della Marca, seguito passo passo dall’esercito sconfitto del Piccinino, che stabilì il suo quartier generale a Montegranaro.

     La presenza del Piccinino incoraggiava la resistenza dei grossi Comuni, come S. Elpidio che gli permise, il 15 Dicembre la distruzione di Monturano; Monte S. Pietrangeli che, il 17 Dicembre, resistette vittoriosamente allo Sforza; Montegiorgio che il 3 Dicembre devastò il castello di Monte Verde. Ma il Conte era ancora invincibile. Mandò un esercito di diecimila uomini che, dopo aver dato guasto alle campagne, occupò Montegiorgio, il 13 Dicembre 1443 e, nello stesso giorno, Santa Vittoria, capitale del Presidato Farfense6.

 LA BATTAGLIA DI SANTA PRISCA

     Il 15 gennaio 1444, Bianca, moglie del Conte, partorì un figlio che fu battezzato con grande solennità e festa popolare, il 17 Marzo, col nome di Galeazzo Maria Sforza7.  Il lieto evento non interruppe l’attività militare dello Sforza.Con l’occupazione di S. Vittoria, solo Ripatransone restava libera a sud del Tenna dalla dominazione del Conte, e quella città era un potenziale pericolo per il futuro.

     Nel gennaio 1444, un forte esercito fermano si portò nel territorio di Ripatransone; diede il guasto alle campagne e si accampò sul Colle, oggi detto dei Cappuccini. Il condottiero riparano Santoro Puci non aspettò l’assalto dei nemici, confidando nel valore dei suoi soldati inferiori di numero al nemico. Animate le sue schiere con un forte discorso, le divise in due parti. Affidò il drappello più forte al genero Domenico Necchi col compito di portarsi, a tempo debito, sul Colle di Capo di Termine e attaccare di fronte il nemico; egli con l’altra schiera uscì dalla Porta di Cupra (Cupetta) e si nascose nella selva, in attesa di assalire il nemico alle spalle, nel corso della battaglia.

     Ma il suo piano ebbe diversa attuazione, poiché la schiera guidata dal genero sgominò il nemico prima del previsto. I Fermane, assaliti alla sprovvista, furono presi dal panico e si gettarono in fuga verso il mare, per la stretta valle della Cupetta; dove furono assaliti e sterminati dalla schiera di Santoro, uscita dagli agguati. Era il giorno di Santa Prisca, 18 Gennaio 14448.

     In questo fatto di guerra, militava nell’esercito fermano un giovane che, trovate due giovanette di Ripatransone nascoste e sole in una casa di campagna, le portò in salvo, difendendola dai fastidi dei militari e riconsegnandole alla loro famiglia. Fatto prigioniero e condannato a morte, fu difeso dalla famiglia delle due ragazze. Stanco della guerra, fuggì a Camerino, dove ascoltate le prediche di San Giacomo della Marca, si fece Religioso Francescano. Morì nel 1495 a Morrovalle. È il Beato Giorgio Albanese9.

FINE DELLA DOMINAZIONE SFORZESCA

     Lo Sforza sembrava ancora invincibile destinato a riconquistare la Marca. Il 18 Agosto 1444, un esercito guidato da Francesco Piccinino, figlio di Nicolò, assistito dal Card. Capranica Vescovo di Fermo, allora Legato del Papa nella Marche, fu sconfitto dal Conte presso Montolmo; il Piccinino fu fatto prigioniero; il Cardinale si salvò a stento, e il Papa fu costretto a un accordo. Ma il dominio di Francesco Sforza s’avviava al tramonto, perché erano troppe le difficoltà che si opponevano alla formazione di un principato di Fermo.

Prima difficoltà, l’odio di tutti i Comuni marchigiani contro gli Sforza, per le continue guerre e rapine; allo Sforza mancava assolutamente la solidarietà del popolo che non aveva saputo conquistarsi. C’era poi l’avversione di tutte le altre potenze italiane a un Principato di Fermo che avrebbe rotto l’equilibrio politico esistente nella Penisola. Fermo era stata sempre molto legata a Venezia, e lo Sforza si mostrava fedelissimo all’alleanza con quella Repubblica. Ciò avrebbe favorito la minaccia di espansione in terraferma da parte di Venezia che stava perdendo terreno nel Medio Oriente contro i Turchi.

     Il timore della potenza veneziana indusse i  tre grandi: Milano, Roma, Napoli a un accordo finalmente serio, per abbattere lo Sforza. Mentre il Conte era impegnato a nord  contro l’esercito del Piccinino a servizio del Duca, Sigismondo Malatesta di Rimini, preso a servizio da Eugenio IV, a capo di un esercito napoletano di 2000 cavalli e mille fanti, occupò in breve Ascoli, Offida, S. Vittoria e tutto il Presidato. Uno dietro l’altro i Comuni marchigiani si ribellavano e, il 24 Novembre 1445, fu la volta di Fermo. La città si sollevò al grido di: “Viva la Chiesa et la libertà”, e assediò Alessandro Sforza col suo presidio nel Girfalco. I soldati dello Sforza che fuggivano dai Comuni ribelli fuggivano verso Fermo, ma prima che potessero raggiungere la città, venivano disarmati dai Fermani e spogliati di tutto. L’assedio del Girifalco durò più di due mesi.

     Nel frattempo il Card. Domenico Capranica, Vicario del Papa nelle Marche e Vescovo di Fermo, che non era mai potuto venire nella sua Diocesi, il 5 Gennaio 1446, entrò in città, ma per prudenza, si fermò nel convento di S. Francesco, perché era pericoloso per lui abitare nel palazzo vescovile, troppo vicino al Girfalco assediato10. Era venuto per assistere e sostenere il suo popolo in rivolta, ma anche per impedire inutili stragi che si potevano prevedere in quella situazione. Ma stragi non ci furono, e non sappiamo quanta parte ebbe il Cardinale nello sbaglio che i  Fermani fecero, accettando la resa del Girifalco in quella forma.

     Gli assediati erano in condizioni disperate, per mancanza di approvvigionamenti. Il 6 Febbraio, Alessandro Sforza chiese all’autorità fermane di trattare la resa; e la fretta di liberarsi da quel malanno giocò ai Fermani un brutto scherzo. Mentre aspettando pochi giorni, avrebbero costretto lo Sforza a una resa incondizionata e ricavare grandi somme dal riscatto dei prigionieri (e non avrebbero rubato niente a nessuno, ma solo ripreso il proprio da quei briganti), accettarono le proposte di Alessandro. I Fermani si obbligarono a pagare 10.000 fiorini d’oro; e Alessandro Sforza col suo presidio, il 20 Febbraio 1446, sgombrò il Girfalco, armi e bagagli, e si avviò a raggiungere il Conte suo fratello a Pesaro.

     Così Francesco Sforza, dopo dodici anni di tirannide, cessò di firmare le sue carte: “Ex Girifalco nostro Firmiano, invito Petro et Paulo”.

     Il giorno stesso, il 20 febbraio 1446, si adunò il Consiglio Comunale, il quale decise di demolire il Girfalco che si trasformava sempre in sede di tiranni, e adoprare quel materiale edilizio per restaurare le mura della città, che servivano alla difesa di tutto il popolo. Per assistere a queste opere furono scelti sei uomini capaci, uno per contrada.

     Fu pure deciso di presentare in perpetuo dalle tasse Cecco Bianchi e la sua discendenza, per l’eroismo dimostrato nell’assedio del Girifalco.

     Domenico Capranica fu forse il più illustre dei Vescovi di Fermo. un uomo di cultura non comune11, di singolare spiritualità12, abilissimo diplomatico che riusciva a sistemare le questioni più scabrose con l’irresistibile fascino che spirava dalla sua persona. Amò Fermo, curò e migliorò l’Università e fondò a Roma il Collegio Capranica, dove agli studenti fermani erano riservate facilitazioni particolari: privilegio che anche oggi si conserva a favore degli studenti ecclesiastici di Fermo13.

  I Cardinali, alla morte di Callisto III, si erano accordati per eleggere Domenico Capranica, ma egli morì il 28 agosto 1458, e in suo luogo fu eletto Pio II (1458-1464, Enea Silvio Piccolomini, che era stato suo segretario, come ricorderete.

RESTAURAZIONE

     Fermo, dopo tanti anni di depauperamento, di distruzione e di sangue, aveva bisogno di tranquillità, per riorganizzare lo Stato. Nel Consiglio Generale del 28 Maggio 1446, si stabilì di invitare gli Ascolani a una pace perpetua, e si incaricò Fra Giacomo di Monteprandone (S. Giacomo della Marca) di preparare l’incontro tra le due città. Il 3 Giugno successivo Trecento Ascolani affollarono Piazza S. Martino e fraternizzarono con i Fermani per tre giorni.

     Ora che il Girifalco non era più zona riservata ai militari e l’accesso alla Cattedrale controllato da loro, il Vescovo Domenico Capranica pensò di facilitare la salita dalla piazza la Chiesa, sostituendo i sentieri che si arrampicavano su per il colle con scalette di pietra da costruire a proprie spese. Il De Nicolò dice che in Luglio fu cominciata la scala in pietra per unire la Piazza S. Martino con la Chiesa di Santa Maria. Da ciò gli storici fermani, incominciando dal Catalani si meravigliano di non trovare più traccia di questa scala. Forse essi pensavano una scala marmorea che, retto tramite, dalla piazza salisse al Girfalco. Io mi permetto di pensare che non è possibile che sia esistito un ingegnere capace di progettare una scalinata di qualche centinaio di metri, su per un’erta con la pendenza di più dell’80%. Secondo il mio modesto parere, la scala in questione è una delle vie selciate che anche oggi della piazza vanno al Girfalco. Anche un simile lavoro, pur di portata più modesta, meritava la citazione di Anton De Nicolò delle sue “Cronache della città di Fermo”.

NOTE

 1       ANTON DE NICOLO’ – Cronache.

 2       gli storici che trattano questo episodio non concordano nelle date; tutti concordano nell’anno

          1442.

           a)CRONACA RIMINESE: “ Al 29 Agosto 1442, fu fatta la tregua per otto mesi tra il Conte

           Francesco e Nicolò Piccinino, capitano di Santa Chiesa. Al 23 Settembre il Conte Francesco

           mise Ripatransone a saccomanno con unagrandissima crudeltà, e per questa ragione fu rotta

           la tregua”.

           b) GINO CAPPONI: “Ad annum 1442 die 21 Settem. Contes Franciscus de Cutignola oppi dum

           Ripae Transonis in Piceno sibi amicum predat et incendit”.

           c) FRANC: M: TANURSI – in Colucci A.P. t. XVIII p. 54 – l’assedio di Ripatransone il 18 Agosto

           1442 e durò un mese.

           d) ANTON DE NICOLO’ – pone al 20 Settembre la ribellione di Ripa e al 23 Settembre il

           saccheggio.

3        Questo numero di combattenti che può sembrare esagerato è riportato a quasi tutti gli storici

           che trattano questo episodio. Il principale di essi:

           ANTON DE NICOLO’ – Cronache della città di Fermo

           FRANCESCO ADAMI – De rebus in civitate Firmana gestis l. II p.98

           FRANCESCO M: TANURSI – Ivi

           LUDOVICO MURATORI – Rerum Iyal. Script. t. XVIII p. 200

4        TANURSI – in Colucci – A.P. t. XVIII         

5        (Fermo) una grande e ricca città era questa e la più forte di tutte le altre picene. Sorgeva su

           una rupe di tanta altezza da dove, come da eccelsa specola si mirava tutto in Piceno. Nella

           sommità di questa rupe si estendeva un sufficiente ripiano che cinto da muraglia rafforzata da

           parecchie torri, formava una rocca inespugnabile ecc. – Fazio – De rebus gest. Ab Alphonso I        

           Neap. Rege. l. XXXVIII p. 23.

6        DE NICOLO’ “….. in quo fuit maximum guastum olivarum et aliarum arborum fruttiferarum”.

           Vi fu un gran guasto di ulivi e di alberi fruttiferi.

7         ANTON DE NICOLO’ – Cronache – p. 163 – “Nicola Sabbioni, figlio di Angelo, il quale nei giochi

           equestri, che Francesco forza fece preparare quando la signora Bianca sua moglie partorire il 

           figlio sul Castello del Girone, giostrò  tanto strenuamente, che meritò gli fosse concessa

           perpetua facoltà di portare sopra l’armatura un leone portante l’anello della giostra. Lo     

           trasmise ai posteri con motto scritto in zona bianca”.

8        QUATTRINI – in Colucci  A.P. t. XVIIII p. 182 . Il Quattrini dice che i Fermani furono ingannati   

          da uno stratagemma di Santoro. Essi dal loro accampamento osservavano un grande  

          movimento di soldati entro la città e non si accorsero che quei soldati erano donne che

          simulavano manovre, armate di canne bastoni; mentre i soldati veri si erano portati di

          nascosto a poca distanza dall’accampamento, per un assalto improvviso. Dice pure di aver

          letto sulle vecchie mura di Ripa questo distico:”Festo die Priscae Ripanis bella removit Conflictu

          magno Sfortia turba ruit”.

9       P. U. PICCIAFOCO – S. Giacomo della Marca p.125 – Ed. Monteprandone Santuario di S.

         Giacomo.

10    Ricordo che il palazzo vescovile non stava più Girfalco, ma dove sta oggi; però era egualmente

         facile da lassù bombardarlo.

11    M. CATALANI – p. 253 (ed. 1783) testimonianza del Poggi: “Avendo più di 1500 volumi

          riguardanti il diritto pontificio il diritto civile, niente vi era in essi che egli non avesse esaminato

          diligentemente: è la stessa cosa si può dire dei libri di Agostino e Gerolamo. Conobbe tanta storia,

         quanta nessun altro; conosceva tutti poeti e filosofi. Nel suo tempo non ci fu nessun uomo onesto

         e dotto che non gli fosse amicissimo”.

12    S. ANTONINO DI FIRENZE – “Passò da questo mondo santamente, portando un aspro cilicio che 

         assiduamente portava sulla nuda carne. La sua morte causò a tutti quelli che le conoscevano

         grande tristezza e dolore, per le sue insegni qualità. Quest’uomo era veramente santo, amato

         da  tutti per la sua rettitudine, grande per sapienza e prudenza, dotto nel diritto, padre il riposo

         dei religiosi. Dava ai poveri con abbondanza. Sobrio; frequentemente celebrava con devozione 

         e non cessava mai di studiare….”

13    Fondò il collegio Capranica con particolari riguardanti agli studenti poveri di Fermo, difatti ne

         scrisse i regolamenti, ora perduti, intitolati: “Liber Constitutionum collegii pauperum scolarium

         sapientiae Firmanae editus per Revnum Dominicum de Capranica, Cars. Firmanum vulgariter

         nuncupatum etc.”

CAPITOLO X

IL PERICOLO TURCO

     mentre i piccoli Stati spagnoli di Leon e di Castiglia, con mirabile accordo, erano riusciti a liberare la Spagna dalla dominazione degli Arabi, il pericolo ottomano cresceva per l’Italia e per i Balcani. Sembra incredibile che di fronte a un pericolo così tremendo come il pericolo ottomano, le nazioni europee restassero indifferenti e divise da rivalità, senza saper trovare un accordo contro il pericolo comune.

     I Papi del tempo tentano ogni mezzo per ricucire in qualche maniera l’unità europea contro i musulmani, ma i loro sforzi restano vani. Niccolò V (1447-1455) cercò di ristabilire la concordia tra gli Stati europei, per tentare una crociata contro i Turchi. Fu coadiuvato da molti illustri ecclesiastici, come il Card. Bessarione, la cui missione riuscì valida nei paesi germanici, ma in Francia fu insultato dal re Luigi XI; Giovanni da Capistrano e Giacomo della Marca che ottennero dei risultati tra i popoli slavi; Simone da Camerino Agostiniano, nominato sopra, che riuscì a far firmare la pace di Lodi tra Milano e Venezia; il nostro Vescovo Domenico Capranica che convince ad aderire all’accordo Napoli e Firenze.

   Succedette a Niccolò V Callisto III (1455-1458), spagnolo che fece pubblico voto di spendere tutti i tesori della Chiesa per la crociata contro i Turchi, ma visse solo tre anni. Per tener viva nel popolo la preoccupazione del pericolo che correva la cristianità, ordinò che si suonassero le campane a mezzogiorno, oltre che all’Ave della sera e si recitasse l’Angelus, usanza che resta anche oggi. Ma molti lo derisero, perché essendo comparsa del 1456 La cometa di Hallei, si disse che il Papa aveva fatto suonare le campane per esorcizzare la cometa.

     Nonostante tutto, qualche successo isolato contro i Turchi si otteneva. Possiamo ricordare la liberazione di Belgrado assediata da Maometto II con 150.000 turchi, avvenuta per opera di Giovanni Corvino Uniade governatore di Ungheria, assistito dal francescano Giovanni da Capistrano. Il 22 Luglio 1456 Maometto II dovette ritirarsi gravemente ferito da una freccia. In ricordo della vittoria Callisto III istituì la festa della Trasfigurazione. Ma di questo e di altri isolati successi delle armi cristiane non vollero approfittare gli Stati europei in lotta tra di loro.

     Pio II (Enea Silvio Piccolomini) (1458-1464) seguitò la opera di Callisto III nel cercare l’unione tra gli Stati europei contro i Turchi. Risultato vano il Convegno di Mantova del 1459, convocato per convincere i governanti europei a unirsi contro il pericolo ottomano, Pio II decise di partire lui stesso per la crociata, a capo di una flotta pontificia affiancata dalla flotta veneziana, l’unica potenza che ascoltò la preghiera del Papa. Ma il 15 Agosto 1464, mentre Pio II vedeva arrivare nel porto di Ancona le navi veneziane, morì, e con lui anche la Crociata.

FERMO E PIO II

     I principi e le città italiane si comportavano come se il pericolo ottomano fosse per essi molto remoto, e si azzuffavano a difesa dei propri particolari e meschini interessi. Fermo e le città marchigiane, molto esposte al pericolo, risposero abbastanza bene all’invito dei Papi.

   Nel 1456, nell’esercito inviato da Callisto III per la liberazione di Costantinopoli militavano più di tremila Fermani. E quando Pio II radunò in Ancona l’armata pontificia e veneziana per la crociata, le città picene, e specialmente Fermo, risposero generosamente. Si legge nella storia di Ripatransone che quella città mandò al Papa in Ancona venti some di grano, e prosciutti per un valore di cinquanta ducati; e Fermo offrì per la crociata 3500 ducati d’oro, il mantenimento di una nave per sei mesi e buona quantità di cereali.

     In questa occasione non si parla di combattenti fermani che sicuramente non mancarono, ma non furono troppi, perché anche per Fermo, come per tutti gli altri staterelli italiani, non mancavano difficoltà interne, e pericoli è beghe con gli stati confinanti. Proprio in quegli anni le agitazioni nelle Marche erano cresciute. Nel 1460 il conte Giacomo Piccinino che si era inimicato Re Ferdinando partiva dalla Romagna per andare in aiuto a Giovanni d’Angiò che voleva conquistare il Regno di Napoli, contro il volere del Papa che aveva riconfermato il Regno a Ferdinando. Federico di Urbino e Alessandro Sforza ebbero l’ordine di combattere il Piccinino e ritardarne la marcia verso Napoli; e anche Fermo e  Ripatransone preparavano le loro forze per prevenire un eventuale attacco delle forze nemiche della S. Sede, o danni dalle truppe amiche1.

     Tutta la costa adriatica sembrava impazzita; pareva che il pericolo ottomano non esistesse per essa, mentre era la zona più esposta. Sigismondo Malatesta  junior occupava Fano, combattuto da Federico di Urbino; Ancona minacciava Jesi difesa dal Legato Pontificio; Ascoli combatteva per tener soggetta Castignano e riconquistare Controguerra occupata da Gioisia Acquaviva2.

     E proprio nell’estate del 1464, appena morto Pio II e fallita la crociata, Fermo occupava Monsampietrangeli e la dava alle fiamme. Ma il Papa Paolo II minacciò gravi castighi a Fermo la quale chiese perdono che le fu concesso per interposti buoni uffici di Ripatransone, a patto che Monsampietrangeli fosse ricostruita a spese dei Fermani, e fossero a quei cittadini restituiti tutti i beni perduti3.

     Gli avvenimenti di questa seconda metà del sec. XV sono così complicati, che è difficile seguirli e valutarli. Nelle interminabili lotte tra i vari Stati italiani furono coinvolti anche i Papi. Paolo II (1464-1471), il grande amatore delle scienze e delle arti, nonché predicatore di pace di concordia, fu costretto a prendere le armi per non perdere Rimini; il suo successore Sisto IV (1471-1484), coinvolto nella fallita congiura dei Pazzi costretto a dichiarare guerra ai Medici di Firenze.

     E intanto i Turchi occupavano l’Albania nel 1468; toglievano ai Veneziani, nel 1470,  il Negroponte; e nel 1480 Maometto II occupò Otranto, facendo strage di quella popolazione. Furono massacrati, insieme al vescovo e a duecento sacerdoti, novemila cittadini di ventiduemila che ne contava quella città4.

     Ormai per la Marca il pericolo ottomano era entrato in casa, poiché c’erano di quelli che, accecati da privati interessi dell’odio politico, favorivano il nemico. Il principale di essi era Boccolino Guzzone che si era impadronito di Osimo. Costui temendo la reazione del Papa, tentava di accordarsi con Maometto II, promettendogli, se fosse venuto in suo aiuto, il possesso della Marca, dalla quale sarebbe stato facile conseguire la conquista di tutta l’Italia.

     I Fermani ebbero la fortuna di scoprire la congiura, facendo prigioniera la nave che portava verso oriente il messaggero di Gozzolino e impadronendosi del testo dell’accordo. Il Papa Innocenzo VIII, con un breve del Novembre 1484, loda e ringrazia i Fermani.

GUERRA PER MONSAMPIETRANGELI

     Il 12 agosto 1484 morì Sisto IV e, come avveniva sempre durante la sede vacante, Fermo assalì Montesampietrangeli. Il Vicedelegato della Marca, deciso a impedire ogni costo la rovina di quel castello, si trasferì col suo esercito a Monte San Giusto e ordinò ad Ascoli e a Ripatransone di inviare soldati, oppure di attaccare il territorio fermano, per dividere le forze di questa città, e rendere a lui più facile la difesa di Montesampietrangeli.

     Quest’ordine era per Ascoli un invito a nozze. Le sue aspirazioni al mare erano sempre vive; questa era l’occasione buona per battere l’esercito fermano nell’interno e recuperare poi San Benedetto in Albula. Un forte esercito ascolano avanzò fino a Montegiorgio, dove nell’Agosto 1444, sbaragliò l’esercito fermano e lo costringe ad abbandonare l’impresa di Montesampietrangeli5.

     Dall’altra parte dell’esercito di Ripatransone, aiutato da quattrocento fanti ascolani, assalì Acquaviva e devastò i vigneti e gli agrumeti della costa.

     Montesampietrangeli fu salva, ma a rendere vane le  aspirazioni marittime di Ascoli intervenne il Papa. Eletto nello stesso Agosto 1484 Papa Innocenzo VIII, impose alle tre città di deporre le armi, sotto pena di gravi castighi6. L’ordine del Papa ottenne solo una stentata tregua di dieci mesi, e corse pure il pericolo di non raggiungere quel termine.

     Difatti: il 12 Febbraio 1485, il giorno delle Ceneri, il Vescovo di Fermo Giambattista Capranica fu ucciso dicono gettato da una finestra da alcuni cittadini fermani7. Per Ripatransone che faceva parte della Diocesi Fermana l’occasione era ottima per rompere la pace con Fermo. Si ingigantì lo scandalo e si proibì il traffico riparano con Fermo. Per Ascoli e per Ripatransone era questo un momento buono per attaccare Fermo, interdetta dal Papa. Il 3 Gennaio 1486, Ascolani e Ripani si accordarono per la guerra contro Fermo e ne concertarono i piani8.

LA BATTAGLIA DI VETRETO

     I primi di maggio 1486, l’esercito alleato di Ascoli e di Ripatransone avanzò verso Acquaviva e la cinse d’assedio. Fermo mandò in difesa di quel castello 13.000 uomini che posero l’accampamento sul Colle della Guardia. I 2 eserciti si disturbavano con scaramucce per diversi giorni, finché gli Ascolani avvisati che i Norcini si muovevano in aiuto dei Fermani, decisero di accelerare i tempi, provocando il nemico in campo aperto. Tolsero l’assedio di Acquaviva e schierarono l’esercito in battaglia sul Colle di Vetreto. Ai per mani non conveniva a combattere prima che arrivassero gli aiuti di Norcia, perché si sentivano meno forti del nemico, ma per non palesare i loro piani, fingere di accettare battaglia e in un breve scontro ebbero dei morti.

     La sera mandarono al campo nemico un trombetta per chiedere la sospensione delle armi allo scopo di seppellire i morti. La tregua fu concessa. Gli Ascolani condussero il trombetta nel loro accampamento e lo invitarono a bere e a far festa con loro, facendogli pensare con la loro allegria che aspettavano presto rinforzi. I Fermani caddero nell’inganno. Il trombetta, ritornato dai suoi, riferì quello che avveniva nel campo nemico; e l’esercito fermano, nel timore che potessero davvero arrivare rinforzi agli Ascolani, si decise di attaccare battaglia subito, senza aspettare gli aiuti di Norcia. Si combatté accanitamente per molte ore, finché l’esercito fermano fu rotto e costretto alla fuga, lasciando i bagagli nell’accampamento, in mano ai nemici9.

     Il Legato Pontificio cercò di concludere una tregua, chiesta da Fermo e il 25 giugno 1486 Ripatransone vi aderì, contro la volontà di Ascoli. Ripa faceva la sua politica: era alleata di Ascoli, ma non voleva correre il pericolo di essere asservita da Ascoli. San Benedetto in Albula, nell’interesse di Ripa, stava meglio in mano ai Fermani, che agli Ascolani; Fermo era stato bene che fosse sconfitta, ma non conveniva che fosse indebolita troppo. 

     Ascoli aderì all’invito del legato; e i soldati ascolani, guidati dal loro condottiero Capuano, scorsero il territorio fermano fin sotto le mura della città, recando guasti e caricandosi di preda10.

     Dietro rinnovate minacce del Papa, Ascoli, Ripatransone, Fermo, Montesampietrangeli, nel monastero di Fonte Avellana, furono costrette a firmare un trattato di pace dettato dallo stesso pontefice11.

NOTE

1       MANOSCRITTI ASCOLANI – “A. D. 1460 die ultima Martii  Comes Jacobus Piccininus venit de

         Romania cum suo exercitu et firmavit se prope Columnellam. Eum sequebatur Comes Urbini et

         Alexander Sfortia cum suis copiis”.

         “A.D. 1460 die 20 Juli Comes Jacobus Piccinini et Comes Julius de Camerino ad una parte,  et

         Comes Urbini et Alexander Sfortia ad alia cum suis exercitibus fecerunt maximum Proelium

         quod inceptum fuit meridie et duravit usque ad tres horas noctis, in quo mortui fuerunt multi

          omines et equi inc, inde, apud S. Fabianum.

2        MANOSCRITTI ASCOLANI – “1459, DIE 19 Decembris populus Asculanus recuperavit

           Controguerram, quam abstulerat D. Josias Aquaviva Domino Pwtro Aquilano, domno dicti  

           castelli”.

3     MANOSCRITTI ASCOLANI – “Anno 1464, die 16 Augusti, Firmani incendedunt Montem Sncti         

           Petri de Allio, quod postea refecerunt sui sumptibus, de mandato Pauli Pontificis”.

         (Il 16 agosto: proprio il giorno dopo la morte di Pio II; il che ci fa supporre che l’assalto a

           Montesampietrangeli era preparato da tempo, e si aspettava solo che il Papa partisse per la

           crociata per effettuarlo).

4         MANOSCRITTI ASCOLANI – “Claris Maumeti Teucri venit in Italiam et expugnavit et cepit

           Regni oppi dum quod dicitur Otranto, ubi necavit Episcopum civitatis et  ducentos sacerdotes

           et octomilia hominum”

5         MANOSCITTI ASCOLANI – Anno 1484 – “Eodem anno, die 12 Augusti mortus est Papa Xistus

           ad horam quartam noctis et per illos dies Firmani obsederunt Montem S. Patri de Angelis. Ad

           auxilium et subsidium ippius oppidi ex precetto D. Gubernatoris populus Asculanus ivit, rupit

           et fugavit Firmanos in territorio S. Mariae in Georgio, ubi fuere occisi multi Firmani de agro et

           de urbe; de Asculani vero pauci…”

6        COLUCCI – A.P. t. XVIII – app. n. LVI-LVII-LVIII

7        Si dice che il vescovo Giambattista Capranica fu preso in casa di una signora Fermana sua

          amante, fosse stato gettato dalla finestra dai fratelli di lei, sarebbe vano cercare i veri motivi di    

         questo delitto. Possiamo accettare la versione corrente, perché in quei tempi tutto era

         possibile.

8      TANURSI – in  Colucci t. XVIII p. 97 e segg.

9      TANURSI – in Colucci t. XVIII p. 97

10    MANOSCRITTI ASCOLANI – “5 Augusti 1486, populus Asculanus fecit maximam incursionem in

         agrum firmanum usque ad portam civitatis et fecit maximam predam. In qua fuit occisus

         Cicchinus Filère cum sex civibus ascolanis, cuis incursionis dux fuit Capuanus”.

11    COLUCCI – A.P. t. XVIII – app. dipl. n. LVIII

CAPITOLO XI

ATTIVITA’ ECONOMICA DI FERMO

NEI SECOLI XV E XVI

     Ho cercato nelle pagine precedenti di illustrare al lettore la potenza di Fermo e la sua privilegiata posizione nello Stato Pontificio. Fermo era una provincia della Chiesa; ma il “mero e misto impero”, cioè l’amministrazione della giustizia in cause civili e criminali, e la zecca o facoltà di batter moneta propria; riconosciutele da Papi e regnanti fin dal 1211, conferiscono a Fermo una quasi sovranità che forse nessuna città marchigiana ebbe mai1.

     Ora, prima di lasciare questo tormentato secolo XV, voglio presentare al lettore un quadro, necessariamente incompleto, delle attività economiche fermane di questo periodo. Ci orizzonteremo, elencando prima i Collegi delle Arti, costituiti nel Consiglio di Cernita del 14 Ottobre 1386. Essi sono:

1º  Giudici, procuratori, notai (erano circa 130);

2°  Medici, farmacisti, orefici, sellari (circa 50);

3°  Mercanti (circa 114);

4°  Beccai, casiolari (= droghieri), barbieri, falegnami, fabbri (circa 125):

5°  Calzolai, mugnai, fornaciari, osti, mulattieri (circa 166);

6°  Sartori, pellicciari, scalpellini, fabbricatori (circa 140).

     Nel sei Collegi delle Arti, codificati nel 1386, non vi figurano agricoltori e pescatori; segno che tali organizzazioni non esistevano.

AGRICOLTURA

     Ma all’agricoltura era ancora la principale ricchezza dello Stato Fermano. Dalle varie forme di conduzione agricola era prevalsa la mezzadria, come metodo più conveniente, sia per il proprietario, come per il coltivatore; poiché l’associazione del capitale col lavoro favoriva gli interessi dell’uno e dell’altro e presentava maggiore sicurezza e giustizia, sia nel rischio, che nel profitto.

     Il territorio fermano è particolarmente adatto allo sviluppo agricolo. Tutto il territorio è solcato da tre fiumi: il Tenna, l‘Ete e l’Aso che formano vaste pianure ricche di culture, e tra un fiume e l’altro si elevano colline di media altezza, assolate e fertilissime; solo una minima parte verso i Sibillini è montagnosa.

     La maggiore produzione agricola era sicuramente il grano che veniva esportato nell’interno dello Stato Pontificio e anche fuori, dopo che si era provveduto a rifornire i granai della Congregazione dell’Abbondanza. Era questa, una istituzione comunale, che, specialmente negli anni favorevoli, imponeva ai castelli una data quantità di frumento, che si immagazzinava per essere usato in tempo di carestia, e per venire incontro ai bisogni dei poveri.

     Buona era la produzione della frutta: pere, mele, pesche, susine, noci, ciliegie, sufficienti al fabbisogno interno dello Stato, e sulla fascia costiera, molto curata la produzione degli agrumi2.

     Non doveva essere molto abbondante la produzione del vino e dell’olio, perché gli Statuti comminano sanzioni contro gli esportatori di questi prodotti e ne favoriscono invece la importazione3.

     La causa principale di questa carenza è da ricercarsi nella cecità degli odi e delle feroci rappresaglie allora in uso, per cui era frequente la rovina delle vigne degli oliveti, come si legge in tanti documenti; nonostante che gli Statuti comminassero pene severissime per simili danni.

     Abbastanza fiorente l’allevamento del bestiame, soprattutto degli ovini e dei suini, poiché negli Statuti troviamo speciali attenzioni per la lana, per i formaggi e per le carni salate.

ARTIGIANATO

     Il grande numero di artigiani nella città di Fermo era insieme indice e causa di benessere. Settant’otto calzolai, sessanta falegnami, ventuno fabbri, quaranta mulattieri e altre numerose attività artigianali significavano che molte centinaia di famiglie vivevano bene del loro lavoro; e per i cittadini significava trovare facilmente il soddisfacimento dei propri bisogni. Un buon artigianato, specialmente in quei tempi (ma da rimpiangersi anche oggi), era la vera base del benessere cittadino.

     Le autorità comunali si preoccupavano di proteggere l’artigianato, difendendolo dalle eccessive imposte del Governo Regionale del Rettore. Per essere sempre a conoscenza delle disposizioni del Governo Centrale e regionale, gli Statuti imponevano la nomina di un rappresentante del Comune (sindicus= ambasciatore) presso la Curia del Rettore e presso la Curia Romana4.

     Il Consiglio Comunale si preoccupava di accrescere l’attività artigianali e il 19 Settembre 1448, il Comune apre a proprie spese una tintoria che nel 1454 si perfeziona con la venuta a Fermo di un tale Cola di Amatrice che incrementa e perfezione l’arte della tintoria della lana, favorito dal Comune con un bellissimo contratto, riportato dal Papalini del suo “Effemeridi della città di Fermo”5.

     Nel 1470 il Comune assegna 1600 ducati a un certo Giovanni Ferri di Ascoli che intende aprire una lavorazione della lana a Fermo, e il 28 Giugno 1471, il Consiglio Comunale elegge tre cittadini capaci, deputandoli a interessarsi dell’arte della lana6.

     Nel 1470 il Consiglio Comunale dà il permesso non solo, ma offre uno stipendio, e assegna una casa e decreta l’esenzione dalle gabelle a un filandaio di S. Severino che vuole stabilirsi a Fermo con la famiglia, per esercitarvi la lavorazione della seta7.

     Nel 1472 il Comune invitò a Fermo un artigiano lombardo, per impiantarvi una fabbrica di berretti8.

     Nel 1485 fa un contratto con Cristiano di Perugia che fonda a Fermo un grande filatoio di seta.

COMMERCIO

     La presenza di settantasette notai e centoquattordii mercanti ci dice quanto sviluppato fosse il commercio a Fermo nel sec. XV. Per il commercio al minuto che si volgeva nelle botteghe cittadine sono da notare le 23 botteghe dei beccai, di proprietà del Comune e da esso controllate, che si davano in appalto a privati cittadini.

    Il mercato del pesce che doveva essere molto abbondante, data l’estensione della costa dello Stato Fermano, era strettamente controllato dal Comune forse dato pure in appalto.

     Il commercio del sale era severamente riservato al monopolio di Stato. I contrabbandieri del sale erano condannati, senza processo, pagare  50 lire di multa e alla requisizione del sale e degli animali che lo trasportavano. Chi denunzia un contrabbandiere di sale, oltreché tutelato dal segreto, può partecipare alla divisione dei beni requisiti9. Le saline, tanto del Tennacola, come di Torre di Palme e di Grottammare erano molto attive, ma anche le necessità dello Stato erano tante.

   Le tredici botteghe dei droghieri venivano rifornite di spezie e di prodotti orientali dai navigli dello Stato i quali, pur messi in crisi dalle grandi navi di Venezia e di Ancona, svolgevano nell’Adriatico una nutrita attività commerciale. 

 LA FIERA DI FERMO

     Molta importanza si dava alle fiere periodiche che si tenevano, e alcune anche oggi si conservano, sia Fermo, che nei castelli dello Stato. Particolare attenzione si prestava ad alcune che si tenevano nelle località di confine, come: Sant’Angelo in Piano (Carassai), S. Angelo in Pontano, S. Claudio al Chienti che aveva sempre grande affluenza, per la sua posizione centrale nella regione. Erano fiere che duravano giorni; attiravano anche mercanti forestieri e vi si realizzavano affari rilevanti .

    Ma la più grande manifestazione della potenza commerciale di Fermo era la fiera che si volgeva nella città, dal 7 Agosto fino a metà Settembre. Era la fiera che interessava tutta la Marca e parte del vicino Regno di Napoli. Un segno della sua importanza è il fatto che, il 7 Agosto 1357, Papa Sisto IV, proibì agli Anconetani di bandire qualsiasi fiera, durante il tempo che si celebrava la fiera di Fermo10.

     Minuziose disposizioni regolavano il buon andamento della fiera11.

     “La feria predicta sia et essere debba franca ad omne persona che venire vorrà nella ditta feria, cioè che nullo cittadino over forestiero et contadino de qualunca donsitione  se sia, possa essere costritto da alcuno suo creditore per veruno debito contratto nante lo tempo de la dicta feria, né per rapresalia de Comune,  né de speziale persona che avesse contra niuno …..”.

     “Che si debia elegere quattro ….. (mediatori) over sensali li quali sieno literati et che sapia scrivere tucti li mercati che se facesse da ventitre in su”.

     Si dovevano pure eleggere due periti, che dovevano controllare se il denaro usato nella fiera era legale; così pure si eleggevano tre cittadini assistiti da un notaio, per dirimere le questioni che sorgessero nell’ambito della fiera.

     Dal libro VI degli Statuti, rubr. 85, possiamo conoscere le merci che alimentavano le fiere di quei tempi:

     “Zafferano; seta sottile Marchigiana; seta di Puglia, cera, zucchero a zolle e in polvere; speciarìa; pepe; miele; allume di Rocca; mandorle, pignoli, uva passa, panno colorato camertone e Eugubino, panni bisi, Stramegno, lana fina, lana grossa, panno di lino, guarnello, canavaccio, funi spaghi e stoppa, lino marchigiano, lino lombardo, panni veronesi, fiorentini e altri panni fini, merceria, stagno, ferro, piombo, acciaio, ferro lavorato, metallo lavorato, rame lavorato e non, pellicceria concia e non concia, pelle francese, pelli e lanute, corame grosso, corame sottile, concio, carta bambagina, carta pecorina, semente di lino, noci e altre biade, peli di cavallo, peli di coda di cavallo, fichi secchi, sego e sogna, pesce salato, carne salata e cascio, legname lavorato, vetro lavorato, cote di pietra, seta sottile di Romagna seta grossa di Romagna, vischio, riso, oro e argento lavorato, coralli, “pater nostri d’ambra”, coltri di seta e di panno ecc.

LA COMUNITA’ EBRAICA A FERMO

      Relativa a questa grande attività economica è la massiccia presenza degli Ebrei a Fermo. Fin dal secolo XII furono sempre numerosi e andarono sempre crescendo di numero fino al secolo XVI , raggiungendo le cinque o seicento unità. Verso la fine di questo secolo, non si hanno più notizie di essi a Fermo12. Forse durante l’episcopato di Pietro Bini acerrimo nemico degli Ebrei, questi se ne andarono, o furono mandati via13.

     Nel fermano gli Ebrei avevano un ambiente favorevole sotto ogni aspetto. Una città come Fermo, dove attivissimi erano il commercio, l’industria e l’artigianato, richiedeva l’impiego di grandi quantità di denaro liquido che solo gli Ebrei erano in grado di fornire; ed essi vi furono accolti con favore e trattate con un certo riguardo, anche se talvolta dovettero subire soprusi e saccheggi, come nel 1396, quando i fuorusciti ghibellini, occupata la città, saccheggiarono e devastarono tutte le case degli Ebrei14; e subire umiliazioni e discriminazioni, come dopo la predicazione dell’Agostiniano Simone da Camerino, quando il Consiglio Comunale approvò la decisione che ogni ebreo portasse sul vestito una coccarda circolare gialla, come segno di riconoscimento15. D’altra parte è ovvio che i saccheggiatori non si muovono contro una religione o una razza, ma contro chi ha quattrini, allora solo gli Ebrei ne avevano in abbondanza; e la discriminazione non era solo colpa dei Cristiani, ma dipendeva soprattutto dagli Ebrei stessi che si erano autodiscriminati, pretendendo di vivere tra le popolazioni cristiane, odiandole e sfruttandole; non amalgamandosi con nessun popolo; restando sempre i più superbi e tenaci razzisti di ogni tempo. È vero che la Chiesa pregava per la conversione dei “perfidi” Giudei (e il più delle volte l’attributo era appropriato), ma non li ha mai chiamati “cani”, epiteto usuale degli Ebrei contro i Cristiani. È vero che da parte di Concili e di papi ci furono disposizioni discriminatorie nei riguardi degli Ebrei, ma chi si desse la pena di esaminarle una, per una (sempre inquadrate nel tempo), le troverà ragionevoli. Molte di esse, come per esempio l’abitazione nei ghetti e l’obbligo di non uscire in pubblico durante la Settimana Santa, più che discriminatorie, erano disposizioni appropriate per proteggere la vita degli Ebrei, generalmente malvisti dal popolo.

     A Fermo un vero ghetto non è mai esistito, fino al sec. XVI. Solo nel 1556, il Card. Carafa di pessima memoria, nipote del Papa e governatore di Fermo, fece organizzare un ghetto per gli Ebrei di questa città, nella contrada S. Bartolomeo, che corrisponde pressappoco a quella zona di scomode viuzze a nord dell’attuale Palazzo di Giustizia, dove era situata la sinagoga. Fino a quel tempo gli Ebrei fermani potevano abitare dove volevano; ma di fatto quasi tutti erano sistemati in contrada S. Bartolomeo e a Campoleggio16.

     Erano anche autorizzati dal Consiglio Comunale esercitare i loro traffici in botteghe, nella via dei magazzini, tra S. Bartolomeo e piazza San Martino17.

IL MONTE DI PIETA’

     A Fermo gli ebrei erano favoriti dalle autorità e protetti dalle leggi comunali, perché i loro prestiti erano utili, sia ai bisogni del Comune, sia al sostegno di traffici; ma erano odiati dal popolo, per motivi di religione e di razza. Ma c’era anche un altro motivo di odio, il più importante, ed era l’usura.

     La principale attività degli Ebrei era prestare denaro a interesse. Il Concilio Lateranense IV del 1215 aveva stabilito che essi non potevano esigere interessi troppo elevati, ma spesso approfittando di necessità particolari e di periodi di emergenza pretendevano tassi enormi, fino al trenta e quaranta per cento. Finché erano le autorità o i grossi mercanti a contrarre il debito, le conseguenze non erano irreparabili; ma quando i debitori erano singole famiglie e per giunta non ricche, le conseguenze erano rovinose per esse, perché gli alti interessi del prestito contratto le faceva presto trovare di fronte a un debito che non erano in grado di pagare, e a un creditore ebreo inesorabile e spietato. E non sono fuori posto alcune risoluzioni pontificie che vietavano che un cristiano diventasse schiavo di Ebrei, perché essi non avrebbero esitato a prendere schiavo un debitore impossibilitato a pagare, purché non si trattasse di un correligionario. A tutto questo aggiungi la predicazione dei frati che definivano immorali e peccaminoso qualsiasi prestito a interesse.

     Contro la disumanità dell’usura ebraica sorsero nel secolo XV  “i Monti di Pietà”, geniale istituzione dei Frati Minori Francescani.

     Si ritiene comunemente che l’ideatore del Monte di Pietà sia stato il Beato Domenico da Teramo, in occasione di una predicazione quaresimale a Perugia, del 1460. Ma poiché un po’ prima altro frate, Beato Domenico da Leonessa, nella quaresima del 1558 istituiva in Ascoli il Monte di Pietà, penso che sia superfluo attribuire l’invenzione di questa grande istituzione a un singolo18. L’ideatore del Monte è l’Ordine Francescano che già nel 1458 dava ai suoi predicatori quaresimalisti l’invito a promuoverlo nella città assegnata alla loro missione.

     A Fermo il Monte di Pietà fu istituito undici anni più tardi, nella quaresima del 1469, dello stesso Beato Domenico da Leonessa19. Ma all’istituzione giuridica di quell’anno non ebbe poi applicazione pratica; difatti nove anni dopo, nel 1478, B. Marco da Montegallo, durante la predicazione quaresimale, pregò il Comune che finalmente si effettuasse la fondazione del Monte di Pietà, e in modo che poi non perisse. Egli stesso ritocco gli Statuti e presiedette le adunanze degli incaricati della direzione del Monte, e l’otto Aprile esso iniziò la sua attività20. Penso che i ritardi e le difficoltà che il Monte di Pietà incontrò a Fermo siano dipese principalmente da due motivi: la freddezza del Comune verso la nuova istituzione e l’ostilità dei frati verso di essa.

     Dobbiamo sempre tener presente che gli Ebrei a Fermo erano molto numerosi e potenti; tenevano in città una quindicina di banchi di prestito. Il Comune, che non riusciva mai a pareggiare i conti, aveva bisogno di prestiti ebraici, come ne avevano bisogno anche le attività cittadine. Il Comune non poteva urtare gli Ebrei, appoggiando il Monte di Pietà istituito proprio contro di essi; difatti è il Vescovo e il suo Vicario che approvano gli statuti del Monte voluto da Fra Domenico da Leonessa; il Comune è assente.

     Riguardo poi ai Frati, a Fermo erano potenti francescani, ma forse anche più potenti erano gli agostiniani e i domenicani, i quali non approvavano i Monti di pietà, perché per essi era contro la morale prestare a interesse, anche se esso si limitava, come nel caso, al due o tre per cento. E forse a causa di questo rigorismo morale, anche tra i francescani sorsero dissensi: i perugini volevano il prestito del Monte “cum merito”, cioè con piccolo interesse; i marchigiani con Fra Marco di Montegallo “sine merito”, cioè del tutto gratis.

     Nel 1468 Frate Marco viene a predicare a Fermo; sveglia le autorità comunali e le convince a interessarsi dei poveri, mettendo un po’ da parte gli interessi degli Ebrei; propone il suo statuto per il Monte, che non può urtare la sensibilità morale delle altre fraterie, poiché i prestiti del Monte sono “sine merito”; e riesce nel suo intento, aiutato dalla generosità di tanti cittadini fermani e dal Consiglio Comunale che, l’otto Aprile 1468, legalizza il Monte di Pietà 21.

     Ma qualche volta i Santi si ingannano, rimettendo tutto nelle mani della Provvidenza, la quale invece vuole la collaborazione fattiva dell’uomo; e anche il Monte di Pietà di Fermo, dopo una trentina di anni, nei quali alle esigue assegnazioni del Comune si erano aggiunte le generose donazioni dei cittadini che gli avevano permesso di prestare “sine merito”, sentì la necessità di cambiare metodo. Fu necessario allinearsi alla regola ormai universale, di ammettere per il Monte un minimo interesse per sostenere le spese di gestione che andavano crescendo. Nel giugno 1506 si riformarono gli statuti del Monte di Pietà e il 25 Agosto il Consiglio Comunale li approvò, destinando al Monte anche il ricavato delle multe 22.

     Dopo questa riforma degli statuti, il Monte di pietà fermano godette prosperità sempre crescente; tanto più che nel 1517 il Concilio Lateranense V fece cadere ogni prevenzione dichiarando il Monte di Pietà “leciti, pii e meritori”, e arricchendola di indulgenze; “lecito un piccolo interesse, per sostenere le spese”23.

NOTE

1      Bolla di Eugenio IV – da Statuta Firmanorum p. 3 “Comunitas Firmana et officiales Rectores

        dictae civitatis habeant et habere debeant merum et mistum imperium et liberam ppotestatem

        cognoscendi et punendi de quibuscunque excessibus et dilictis commissis et committendis in dicta  

        civitate, comitatu et districtu cuiscunque generisexcessus et delicta existant”.

        Rescritto di Ottone IV – Arch. St. Fermo perg. n. 188 – “Nos civibus civitatis Firmanae dilectis

        fidelibus nostris plenam licentiam dedimus et potestatem cudendi et faciendi denarios”.

2      Agrumeti tra Pedaso e San Benedetto ci sono stati fino a pochi anni fa. Ancora si può incontrare

        qualche recinto di pietrame che serviva per proteggere i limoni dai ladri e dal vento.

3      STATUTA FIRM. l. V – rubr. 27-29 – e rubr. 1-2-3

4      STATUTA FIRM. l. II – rubr. 62 pag. 49 (ed.1589)

5      LIBER ISTRUMENTORUM – vol. I Arch. St. – Fermo

6      PAPALINI – Effemeridi p. 93

7      PAPALINI – Opera cit. p. 55

8      PAPALINI – p. 80

9      STATUTA FIR. – l. V rubr. 72

10    PAPALINI – Effemeridi p. 66

11    ACTA DIVERSA – Arch. Com. Fermo – “Capituli de la feria de Fermo”.

12    MARIA TASSI PISANI – La comunità ebraica di Fermo fino al secolo XV tesi di laurea

         Anno Acc. 1968-69 -Urbino. È il miglior lavoro esistente sull’argomento

13    PAPALINI – Effemeridi della città di Fermo – p. 35

14    ANTON DE NICOLO’ – Cronache della città di Fermo.

15    ANTON DE NICOLO’  – “…1433 de mense Mai  venit Firmum quidam frate Eremitanus vocatus

          Frate Simone da Camerino, et predicavit quamplurimus vicibus …. e disse tra le altre cose che i

          Giudei si confondevano coi cristiani; e tanto disse che in 1 grande cernita fu stabilito che tutti i

          Giudei portassero un segno, come un 0 di colore giallo….”

16      ANTON DE NICOLO’ – Cronache etc. – “ricuperata, la città, (27 Maggio 1396), tutti i cavalieri

           incominciarono a occupare le case ….. A rubare e saccheggiare tutta la Giudea, cioè tutti gli

          Ebrei, circa cento case, tra le contrade di S. Bartolomeo e Campoleggio”.

17    STATUTA FIR. – l. I p. 289 – “Dietro la proposta del nobile Cavaliere di Ludovico degli  

         Uffreducci e dietro disposizione del signor Matteo di Luca, fu registrata la legge che gli Ebrei        

         Potessero esercitare il loro mestiere nelle botteghe sulla strada dei fondachi, dalla chiesa di S.

         Bartolomeo in qua verso la piazza San Martino”.

         La via dei fondachi corrisponde al Corso Cefalonia (allora non c’erano ancora i palazzi

         monumentali), e anche oggi è la via delle grandi botteghe.

18    G. FABIANI – Gli Ebrei e il Monte di Pietà in Ascoli.

19    MARINI – Rubriche e trasunti dei libri delle cernite t. II p. 292

         “Deinde die 23 Martii  (1469) habetur capitula Montis Pietatis condita ad persuasionen

        Venerabilis Fratris Dominici de Lionissa ordinis Minorum de Observantia in Ecclesia Cathedrali

        Episcopatus Firmi in Quadragesima proxime exacta,  predicatoris optimi, , revisa et approbata per

        Rvmus Petrum Paulum eius Vicarius”.

20   MARINI – ivi p. 195 e 227 – “23 Gennaio 1478: “Venerabilis Frater Marcus Ordinis Minorum,

        Predicator petit fieri Montem pietatis”.

        “27 Marzo: “…. Proposuit capitula Montis Pietatis aperiendi  in perpetuum ita ut conservaretur

         nec amplius periret”.

        “Deinde habetur adunantia sub 10 Martii pro ordinandis capitulis Montis Pietatis cum venerabili

        Fratre Marco predicatore Ordinis Minorum et Domino Ludovico de Euffredutiis, Domino Antonio   

        de Pedibus, Domino Andrea domini Petri, Pandulfo Rogeri, Parjacobo ser Joannis, Domino Piero

       Angeli, , Sntonio domini Angeli, Joanne Filippi”.

21  “Die octo Aprilis confirmantur capitula Montis Pietatis a Dominis Prioribus, regolatori bus et

        predictis civibus deputatis una cum Domino Venerabili Patre Frate Marco predicatore”.

22   MARINI – Opera citata – II p. 316.

        “Die 25 Augusti in Concilio approbantur capitula Montis Pietatis, delegati eisdem  capitibus

        solidorum de maleficiis et confirmatis deputatis”.

23   LEONE X – Costit. “inter moltiplices”

        “Declaramus et definimus Montis Pietatis per respublicas institutos et auctoritate Sedis

        Apostolicae hactenus approbatos etc. … neque nullo pacto improbari debere tale mutuum

        minime usurarium putari…”.

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APPENDICE

INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

(il numero indica la pagina)

 Abate di S, Vittoria, 44

Abate Farfense, 31,33

Abruzzo, 88

Accumoli, 87

Acquaviva, castello,  45,79,85,96,97

Adelaide, vedova di Lotario, 17

Adenulfo, vescovo di Fermo, 34

Adriano, papa, 7

Adriatico, 7,65

Africa, 8

Agello, castello (poi Ripatransone), 27

Aginulfo, re longobardo, 18

Agricoltori, 99

Agricoltura, 99

Aimone, padre di Gualterio, 15

Alatrino, cardinale legato pontificio, 36,39

Albania, 86,96

Alberghetti, signore di Fabriano, 59

Alberico, conte e vescovo di Fermo, 15,17,29

Alberto di Montecosaro, feudatrio, 28

Albertuccio, nipote di Clemente VI papa, 56

Albornoz, cardinale, 57,59,60,61,62,63,65

Aldobrandino, marchese, 39

Aldonesi, piccoli proprietari, 21,23

Alessandria, 28,29

Alessandro II, papa, 20

Alessandro II, vescovo di Fermo, 27

Alessandro III, papa, 28,29

Alessandro Sforza, fratello di Francesco, 83,85.86,88,91,95

Alessandro V, papa, 75

Alfonso, re di Aragona, 83,84,88

Alfonso, re di Napoli, 89

Alteta, 75

Alto Fermano, 40,44,52,74.

Amandola, 83

Amatrice, 100

Amico, vescovo,18

Anagna, 51

Anagni, 71

Ancona, 7,27,29,31,34,35.39,47,59,61,62.67,73,94,95

Anconetani,  67,101

Andrea Tomacelli, fratello di Bonifacio IX, 73

Angelo dei Pierleoni, vescovo di Fermo, 72

Annibaldo degli Annibaldeschi, 46

Anton de Nicolò, 66,67,58,75.79,80,85,86,88.89.92

Antonia de Bencionibus, moglie di Giovanni da Oleggio, 63

Antonio Aceti, gonfaloniere, 73,75

Antonio Aceti, gonfaloniere, 82

Antonio Acquaviva, condottiero, 73

Antonio de Vetulis, vescovo di Fermo, 71,72,73,74,

Antonio Giorgi, cittadino fermano, 86

Aquileia, 35

Aquisgrana, 34

Arabi, 8,94.

Aragona, 83,84,88.

Arnolfo di Carinzia, 12,13

Artigianato, 100

Ascherio, 16,17

Ascolani, 47,48.5685,92,96,07

Ascoli, 34,45,47,48,59,61,62,65,66,73,75.77,79,62,85,88,91,95,96,97,100,104

Aso,fiume, 15,99

Assisi, 76

Atri, 78,85

Attone, vescovo di Fermo, 23,24,26,27

Avignone, 51,67,71

Azzolino d’Este, marchese,36,39

Azzone VI d’Este,marche di Ancona, 39

Azzone VI, marchese di Este, 34

Azzone VII (Azzolino) d’Este, 35

Azzone VII d’Este, marchese di Ancona, 35

Azzone, vescovo di Fermo, 26

Badia di Farfa, 16,77

Balcani, 71,94

Baldo di Nicola da Firenze, podestà,24,31

Balignano di Falerone, 40

Balignano, 28

Balignano, vescovo di Fermo, 27,28

Basilea, 79

Basilicata, 20

Beato Domenico da Leonessa, 104

Beato Domenico da Teramo, 104

Beato Marco da Montegallo, 104

Beccai, 99

Belforte, 87

Belgrado, 94

Bellafiore, moglie di Ludovico Migliorati, 77

Belvisio, 60

Benedetto XII, papa, 54,55

Benedetto XIII, papa, 75

Benevento, 20

Berardo III, abate, 23

Berengaria, regina, moglie di Guglielmo di Brienne, 48

Berengario del Friuli, 12

Berengario II, 9

Berengrario, 17

Bernabò Visconti, duca di Milano, 65,82

Bertoldo, figlio del Duc di Spoleto, 35

Bessarione, cardinale, 94

Bianca, figlia del duca di Milano e moglie di Francesco Sforza, 85,87,89

Bianchi, 74

Biordo dei Micheletti da Perugia, condottiero, 73

Blasco Fernando di Belvisio, condottiero, 60

Boccolino Guzzone, 96

Boffo da Massa, 66,67.73

Boldrino di Panigale, condottiero, 73

Bologna, 63,79

Bolognesi, 44

Bonifacio IX, papa, 72,73,74

Bonifacio VIII, 51

Borgogna, 16,17

Braccio da Montone, condottiero, 76,77

Brescia, 77

Bretoni, 67

Brindisi, 43

Brunforte da Perugia, condottiero, 47

Cagli, 61,62

Calabria, 17,20

Callisto III, papa, 92,94,95

Calzolari, 99

Camerinesi, 16

Camerino, 45,51,52,55,59,60,61,62,67,73,76,83,85,87,90,102

Campoleggio, 103

Campone, abate di Farfa, 18

Capocci, Card, legato pontificio, 46

Capranica, cardinale di Fermo, 90

Capuano, condottiero ascolano, 97

Carafa, cardinale, 103

Carassai, 67,73,77,85,86

Carlo Magno, 7,8,17

Carlo Malatesta di Rimini, 74,75,76

Carlo Martello, 8

Carolingi, 8

Carosino, capitano di Ripatransone, 66

Carrara, 73,74,82

Casio, castello, 28

Casiolari, 99

Castel S. Angelo, 20

Castello del Girfalco, 48

Castello del Monte, in Ascoli, 66

Castello, 55

Castiglione, località, 45,46

Castignano, 95

Catalani, 71

Cattedrale di Fermo, 36,48,64,74

Cattedrale, 80

Causaria, abbazia presso Torre dei Passeri, 18

Cavalcata di Santa Maria, 64

Cecco Bianchi, fermano, 91

Celestino III, papa, 31,33

Cerqueto, 35

Cerreto, 75

Cesena, 67

Chienti, fiume, 35,45.52,62

Cicala Andrea, condottiero di truppe imperiali, 45

Cicconi di Carassai, 77

Cingoli, 53,55,59

Civitanova, 23,26,32,34,35,36,52

Civitate sul Fortore, 19

Civitella, 88

Clemente V, 51

Clemente VI, papa, 56

Clemente VII, papa, 71,72

Coccarda circolare gialla, 102

Codice dello Stato pontificio, 61

Codice Longobardo, 8,18,26

Codice Romano, 26

Cola di Amatrice, 100

Cola Pasquali, cittadino fermano, 86

Colle dei Cappuccini, in Ripatransone, 87,90

Colle della Guardia, 97

Colle di Capo di Termine, 90

Colle di Vetreto, 97

Colle S. Savino, 67

Collegi delle Arti, 99

Collegio Capranica di Roma, 92

Colonna Giovanni, cardinale legato pontificio, 37,45

Colonna, famiglia romana, 78

Comitato Camertino, 15

Comitato Fermano, 15

Commercio, 101

Como, 29

Compagnia degli Inglesi, compagnia di ventura, 66

Comuni Lombardi, 44

Comunità ebraica, 102

Concili, 103

Concilio di Basilea, 79

Concilio di Costanza, 76,77

Concilio di Lione, 45

Concilio di Pisa, 75

Concilio Lateranense IV, 103

Concilio Lateranense V, 105

Concilio Romano (VI), 21

Conclave, 78

Confraternita di Santa Maria, 55

Congiura dei Pazzi, 95

Congregazione dell’Abbondanza, 99

Consiglio comunale, 46,52.79,80,83,84,91,100,104,105

Consiglio di Cernita, 99

Consiglio di Stato, 62,63,64

Consiglio Generale, 41,92

Consiglio Speciale, 41

Consolino, coppiere dell’imperatore, 35

Conte di Carrara, 73,74,82

Conte di Fermo, 34,35

Conte Luzio da Bartolomeo di S. Severino, 67

Contea dei vescovi, 44

Contea di Fermo, 34,35,36,37,39,40

Controguerra, 95

Convegno di Mantova, 94

Convento di S. Agostino, 86

Convento di S. Francesco,  in Fermo, 91

Corinaldo, 61

Corradino, nipote di Manfredi, 46

Corrado II, 10,11

Cortenova, località, 44

Cossignano, 40,73

Costantinopoli, 8,20,95

Costanza, 76,77

Costanza, impretatrice, 31,32,43

Costituzioni Egidiane, 61

Crema, 29

Cremona, 85

Cristiani, 103

Cristiano di Magonza, cancelliere, 31

Cristiano di Perugia, 101

Cristiano Won Buk (Federico cancelliere), 29

Crociata. 43,94

Cupra Marittima, 12

Curia del Rettore, 100

Curia Generale, 60

Curia Romana, 36,100

Curia, 60

Cursor, balletto, porta ordini, 42

Dalmazia, 31,83

Dante Alighieri, 51

De Mirto Gregorio, podestà di Ripatransone, 66

Desiderio, abate di Montecassino, 20

Desiderio, re, 8

Diocleziano, 9

Doge di Venezia, 47

Domenico Capranica, cardinale e vescovo di Fermo, 77,78,79,91,92,94

Domenico Necchi, genero di Santoro Puci, 90

Duca di Atri, 85

Duca di Camerino, 73

Duca di Milano, 65,77,79,83,84,85,87

Duca di Spoleto, 12,13

Ducato di Camerino, 76

Ducato di Fermo, 9

Ducato di Spoleto, 7,9,15,37

Ducato Spoletino, 20,35

Duchi di Milano, 82

Ebrei, 80,102,103,104

Effemeridi della città di Fermo, 100

Egidio da Monte Urano, capitano di ventura, 68

Egitto, 43

Enea Silvio Piccolomini, segretario di Domenico Capranica, 79,92

Enrico III, imperatore, 19,20

Enrico IV, imperatore, 20,21

Enrico V, imperatore, 27

Enrico, figlio di Federico II, 43

Enzo, figlio di Federico II, 44,45,46

Eremitani di Sant’Agostino, 48

Errico VI, imperatore, 31

Esarcato di Ravenna, 7

Esino, fiume, 62

Ete, fiume, 99

Eugenio IV, papa, 78,83,84,88,89

Europa, 8,10,44,51

Everardo di Austop, 60

Ezzelino da Romano, signore di Verona, 44

Fabbrica di berretti, 101

Fabbricatori, 99

Fabriano, 59,61,62

Fagnano, 75

Falerona, moglie di Rabennone, 15

Falerone, 40,75,77

Fano, 28,54,61,62,77.88,95

Farfa, 16,18,61

Farfensi, 15,47,48

Farmacisti, 99

Federico Barbarossa, 28,31

Federico da Massa, 40

Federico di Urbino, 95

Federico II, 33,34,39

Federico II, figlio di Costanza imperatrice, 31,35,43,44,46

Federico, cancelliere (Cristiano Won Buk), 29

Fermani, 7,19,44,47,48,52,56,66,71,72,73,76,80,84,85,88,91,92,95,96,97,

Fermano, territorio, 15,17,68

Fermano, vescovo, 19

Fermo, 07,9,12,13,15,17,18,19,2021,23,24,26,27,28,29,31,32,33,34,36,3739,49,41,44,45,46,47,48,

Fermo, 52,53,55, 56,57,59,60,61,62,63,64,65,67,6871,72,73,75,76,77,79,80,83,87,88,89,90,91,92,

Fermo, 95,96,97,99,100,101,102,104,105

Fermo, fratello del Priore di S. Pietro (Vecchio), 54

Fiastra, 67

Fiera di Fermo, 101

Fieschi Sinibaldo, legato pontificio, 45

Filatoio di seta, 101

Fildesmido da Mogliano, vicario abbaziale, 40,45

Filippo II, vescovo di Fermo, 36,37,44

Filippo il Bello di Francia, 51

Filippo Maria Visconti, 82,85

Fiordaliso, 51

Firenze, 24,31,54,67,74,76,82,84,85,88,94,95

Firmiano, 91

Foglia, fiume, 62

Foligno, 59

Fonte Avellana, monastero, 97

Force, località, 45

Forcella, 35

Forlì, 57,59,60,63

Fornaciari, 99

Fossalta, località, 44,46

Fossombrone, 61,62

Fra Giacomo da Monteprandone (S. Giacomo della Marca), 86

Fracassetti, 56

Francavilla, 27,75

Francesco di Matelica, 67

Francesco I di Mogliano, vescovo di Fermo 53,54

Francesco II di Cingoli, vescovo di Fermo, 53

Francesco Piccinino, figlio di Nicolò, 90

Francesco Sforza, 82,83,85,87,88,89,90,91

Franchi, 8,40

Francia, 7,51,94

Frati Minori Francescani, 104

Fraticelli, setta, 55

Friuli, 12

Gaeta, 84

Gaidulfo, vescovo, 18

Galeazzo Maria Sforza, figlio di Francesco, 89

Galeotto Malatesta di Rimini, 56,57,60

Gallura, 45

Garigliano, 16

Garzoni, storico, 79

Geltrude, vedova di Guido di Spoleto, 13

Genova, 72,82,84

Genovesi, 84

Gentile da Mogliano, 56,57,59,60,63,82

Gentile Migliorati, fratello di Ludovico, 78

Gerardo, vescovo di Fermo, 46,52,56

Germania, 34,43

Gerusalemme, 43,48

Ghibellini, 31,43,45,46,47,51,52,53,59,61,73

Giacomo da Cingoli, vescovo di Fermo, 54,55

Giacomo della Marca, 94

Giacomo Piccinino, 95

Giacomo Ranieri di Norcia, vicario di Domenico Capranica, 78

Giacomo, figlio di Ludovico Migliorati, 77

Giambattista Capranica, vescovo di Fermo, 96

Gian Galeazzo Visconti, 82

Gilardino di Giovanni da S. Elpidio, 54

Gilberto, conte, padre di Balignano, 27

Gioisia Acquaviva da Atri, 78,85,95

 Giorgio Albanese, beato, 90

Giorgio da Como, architetto 48

Giorgio da Como, architetto, 29

Giorgio da Roma, 75

Giovannello, fratello di Bonifacio IX, 73

Giovanni Corvino Uniade, governatore dell’Ungheria, 94

Giovanni d’Angio, 95

Giovanni da Capistrano, 94

Giovanni di Penna S. Giovanni, 40

Giovanni Ferri di Ascoli, 100

Giovanni II, figlio di Alberico, 17

Giovanni III de Bertoldis, vescovo di Fermo, 77

Giovanni IV de Firmonibus, vescovo di Fermo, 77

Giovanni Paolo II, papa, 54

Giovanni Vanni, cittadino fermano, 86

Giovanni Visconti da Oleggio, 63,65

Giovanni X, papa, 16

Giovanni XXII, papa, 53,55

Giovanni XXIII, antipapa, 75,76,77

Girfalco, , 44

Girfalco, 60,67,73,74,76,78,80,86,87,91,92

Gisone, turore di Azzone VII d’Este, marche di Ancona, 35

Giubileo, 51,74

Giudei, 80,103

Giudice Generale della Marca, 63

Giudici, 99

Giusti di Filippo, massarius, 41

Golfarango (o Wolfango), vescovo di Fermo, 21

Gomesio, conte di Spanta, 65,66

Gonfaloniere della Chiesa, 83

Governo Centrale, 100

Governo pontificio, 47,73

Governo regionale, 100

Gozzolino, tiranno di Osimo, 56

Gregorio di Catino, 16

Gregorio IX, papa, 36,39,43,44

Gregorio Magno, papa, 23

Gregorio VII, papa, 20,21

Gregorio X, papa, 47,67,71.72

Gregorio XII, papa, 75,76

Grimaldo, vescovo di Fermo, 27

Grottammare, 63,101

Gualdo, 83

Gualterio, figlio di Aimone, 15

Guarnerio, marchese di Ancona, 29

Guarnerio, marchese figlio di Guarnerio,28

Guarnerio, marchese,27

Guelfi, 45,46,47,51,53,56,59,61,73

Guerriero, fuoruscito di Ascoli, 85

Guglielmo da Massa, 35,40

Guglielmo da Massa, figlio di Guglielmo, 56

Guglielmo da Massa, padre di Gerardo vescovo di Fermo, 46

Guglielmo da Massa, padre di Guglielmo, 56

Guglielmo di Brienne, re di Gerusalemme, 48

Guido da Landriano, podestà, 41

Guido di Spoleto, 13

Halley, cometa, 94

Ildebrando, duca di Spoleto, 15,20

Ilderico di Causaria, 18

Imperatore di Costantinopoli, 20

Imperatore Spoletino, 15

Imperatore Tedesco, 15

Ingealdo, abate, 15

Innocenzo II, papa, 27

Innocenzo III, papa, 33,34,43,44

Innocenzo VI, papa, 59

Innocenzo VII, papa, 74,75

Innocenzo VIII, papa, 96

Ismeduccio, signore di San Severino, 59

Italia Settentrionale, 7

Italia, 17,28,43,51.53,56,82,94,96

Jacopone da Todi, 74

Jesi, 36,59,61,62,87,95

Judex, paragonabili al nostro segretario comunale, 42

Ladislao, re di Napoli, 74

Lamberto, figlio di Guido di Spoleto, 12,13

Lazio, 7

Lega Fiorentina, 67,75

Legato della Marca, 90

Legato Pontificio di Ancona, 35,95,97

Legnano, 28

Leonardo de Fisiciis, vescovo di Fermo, 75

Leone di Arciprando, 18

Leone III, 7

Leone IX, papa, 19,20

Leonessa, 104

Liberto, vescovo di Fermo, 27

Lione, 45

Liutprando, re longobardo, 18

Lodi, 94

Lomo, signore di Jesi, 59

Longino di Ottone, 16

Longobardi, 7,12,23

Loro, 40,77

Lotario II di Sassonia, imperatore, 27

Lotario, imperatore, 12,15

Luca di Canale, 73

Luchina, moglie di Rinaldo da Monteverde, 67,68

Luchino, figlio di Rinaldo da Monteverde, 67,68

Ludovico di Antonio, podestà, 73

Ludovico il Bavaro, 52,53

Ludovico Migliorati, 76,77,78,79,82

Luigi il Pio, imperatore, 12

Luigi XI, re di Francia, 94

Lupo Ruggero, podestà di Fermo, ghibellino, 47

Lupo, duca di Fermo, 9

Macelli, 75

Macerata, 2326,32,34,35,36,37,45,51,52,59,60,62,73,83

Madonna della Misericordia, 74

Mainardi, signori, 40

Malatesta, signore di Rimini, 59,76

Manfredi, 46,47

Mantova, 94

Maometto II, 94,96

Marano, 35,63

Marca Anconetana, 34

Marca di Ancona, 34,35,37,45

Marca Fermana, 1619,20,34

Marca, 101

Marca, 17,27,29,31,33,34,35,51,52,59,60,61,62,6373,75,83,90.96

Marche, 18,29,46,47,48,51,60,61,62,63,66,67,74,82,83,84,86,95

Marchese di Ancona, 27,31,34,35

Marchese di Este (Azzone VI), 34

Marchigiani, 73,86

Marciari Nicola, vescovo di Fermo, 71

Marcoaldo di Anninuccia, 31

Marcoaldo di Anweller, 31

Marcoaldo, marchese, 32,33

Mare Adriatico, 47

Marino Marinelli da S. Vittoria in Matenano, 73,74

Marinuccio Mostacci da Offida, 78

Martello Marco, riformatore degli statuti di Fermo, 41

Martino V (Ottone Colonna), papa, 76,77,78

Massa, 35,40,46,56,59,66,67,73,75,77

Massarius = Sindicus, 42

Massignano, 40

Masso di Tommaso da Montolmo, podestà, 54

Matelica, 61,67

Mattei Matteo, cavaliere fermano, 55,56

Matteo da Fano, 54

Matteo II, abate farfense, 45

Mauro, presbitero fermano, 15

Medici, 99

Medio Oriente, 43,90

Mediterraneo, 83

Melfi, 20

Mercanti, 99

Mercenario da Monteverde, 52,53,54,56,59,66,82

Mercenario, figlio di Rinaldo da Monteverde, 68

Migliorati Ludovico, 74,75

Milano, 28,29,65,77,82,83,85,87,91,94

Modena, 39

Mogliano, 40,53,56,75,77,82

Molucci, signori di Macerata, 59

Monaldo di Penna S. Giovanni, 40

Mondavio, 61

Monsammartino, 47

Monsampietrangeli, 52,95,96,97

Monsampietro Morico, 75

Montappone, 75

Monte di Pietà, 103,104,105

Monte Fiore, 61

Monte Leone, 75

Monte Matenano, 15

Monte Milone (Pollenza), 83

Monte Rubbiano, 52,53

Monte S. Giusto, 73,96

Monte S. Maria in Georgio, 37

Monte Santo (oggi Potenza Picena), 27,36,37

Monte Soratte, 79

Monte Urano, 73,75,89

Monte Varmine, 55

Monte Varmine, 56

Monte Vidon Combatte, 75

Monte Vidon Corrado, 40,74,75

Montecassino, 20

Montecchio (oggi Treia), 46,76,83

Montecosaro, 28,35,76,

Montefalcone, 45

Montefalcone, 47,67

Montefeltro, 17,59,62

Montefortino, 86

Montegallo, 104

Montegiorgio, 36,40,67,73,75,89,96

Montegiorgio, 40

Montegranaro, 35,76,89

Monteleone, 15

Montelparo, 15

Montelupone, 36,37

Monteluro (Pesaro), 88,89

Monterinaldo, 15

Monterubbiano, 36,37,61

Montesampietrangeli, 48,75.89

Monteverde, 40,52,53,54,59,65,66,67,68,71,72,73,75,82,89

Montolmo, 35,36,37,54,55,75,83,90

Montottone, 35,52,72,73,75

Moregnano, 89

Morrovalle, 28,34,35,36,37,76

Mugnai, 99

Mulattieri, 99

Napoli, 74,75,84,88,89,91,94,95,101

Napoli, 74

Negroponte, 96

Niccolò Fortebraccio, capitano, 83

Niccolò V, antipapa (Pietro di Corbara)

Nicola De Merciariis, vescovo di Ripatransone, 66

Nicolò II, papa, 20

Nicolò Maurizi da Tolentino, condottiero, 83

Nicolò Piccinino, condottiero, 87

Nicolò V, papa, 94

Nolfo, signore di Montefeltro, 59

Norcia, 78,97

Norcini, 97

Normanni, 19,20,27

Notai, 99

Notaio dei danni, messo comunale, esattore di multe, 42

Numana, 61

Offida, 16,23,33.61,78,91

Offoni, signori, 40

Olderico, vescovo di Fermo, 19,21

Oleggio, 63

Onorio III, papa, 34,35,36,43,44

Onorio IV, papa, 46,48

Oratorio di Santa Maria della Carità, 55

Orciano, 61

Ordelaffi Francesco di Forlì, 63

Ordelaffi, signore di Forlì, 57,59,60

Ordine Francescano, 104

Ordini Maggiori, 71

Ordini Minori, 71

Orefici, 99

Oriente, 43

Ortezzano, 15,75

Ortezzano, 75

Osimo, 7,45,52,56,61,62,96

Ospedale di Fermo, 55

Ospedale di Santa Maria della Carità, 55

Osti, 99

Otranto, 96

Otto Mazarino Bonterzi da S. Vittoria in Matenano, 73

Ottone Colonna (papa Martino V), 76

Ottone I di Brunsvik, 17

Ottone II, figlio di Ottone I, 17

Ottone IV di Brunswik, imperatore, 34,44,45

Ottone, padre di Longino, 16

Paccaroni, famiglia fermana, 48

Palazzo di Giustizia, 103

Palazzo Municipale di Fermo, 48

Pandolfo Malatesta di Pesaro, padre di Taddea, 77

Pandolfo, legato pontificio, 35,36,39

Pangione, signore di Cingoli, 59

Paolo II, papa, 95

Parlamento Generale, 42,83

Parma, 44,46

Parto della B. Vergine, quadro, 88

Pasquale I, papa, 12

Passivo, vescovo di Fermo, 23

Patria, 84

Patriarca di Aquileia, 35

Paulo, 91

Pavia, 17,18,28

Pellicciari, 99

Pencirvalle di Oria, condottiero, 46

Penisola, 82,90

Penna San Giovanni, 40,45,47,61

Penne, località, 18

Pentapoli, 7

Perugia, 47,73,101,104

Pesaro, 61,62,77,91

Pescara, 7,12

Pescatori, 99

Petriolo, 40,76,77

Petritoli, 75

Petritoli, 85,86,89

Petro, 91

Petrocco da Massa Fermana, 59

Piagge, 61

Piazza S. Martino, 68,74,85,88,92,103

Piccinino, 91

Piceno, 12,15,16,45

Pieca, castello, 40

Pier Damiani,19

Pietro Bini, vescovo di Fermo, 102

Pietro di Corbara (Nicolò V antipapa), 53Pietro I, vescovo di Fermo, 21

Pietro IV, vescovo di Fermo, 34,35

Pietro, abate, 15

Pio II, papa, 92,94,95

Pipino, re, 7

Pirenei, 8

Pisa, 75

Podestà, giusperito normalmente forestiero, 42

Poggio S. Giuliano (poi Macerata), 26

Polverigi, 33

Pontida, 28

Porchia, 73

Porta di Cupra (Cupetta), 90

Porta S. Giuliano, 68,73,77,83,86

Porta San Pietro Vecchio, 54

Portieri, addetti alle porte del castello, 42

Potenza Picena, 32,35

Potenza,fiume, 34,39,44,45,47

Presbitero, vescovo di Fermo, 31

Presbitero, vescovodi Fermo, 33

Presidato Camerinese, 61

Presidato dell’Abbadia di Farfa, 61

Presidato di Camerino, 62

Presidato di S. Lorenzo in Campo, 61

Presidato di S. Lorenzo in Campo, 62

Presidato di S. Vittoria, 45,91

Presidato Farfense di S. Vittoria, 62

Presidato Farfense, 45,61,89

Presidato, , 51

Principato di Fermo, 90

Priori, uno per ogni contrada, 41

Procuratori, 99

Puglia, 19,20,86

Quercy, 7

Rabennone, conte di Fermo, 15

Rabennone, conte di Fermo, 9

Rainaldo di Monaldo, vescovo di Fermo, 35,36

Rainaldo, vescovo di Fermo, 36,39

Rangone Guglielmo da Modena, 39

Raniero Zeno, doge di Venezia, 47

Raterio, nipote di Re Ugo di Borgogna, 16

Ratfredo, abate di Farfa, 16

Ravenna, 7,78

Re d’Italia, 17

Re di Gallura, 45

Re di Germania, 43

Re di Napoli, 75

Re di Sicilia, 34

Re Ferdinando, 95

Recanati, 52,59,60,61,62.83,88

Reginaldo, console di Fermo, 24

Regno d’Italia, 7,12

Regno di Napoli, 84,95,101

Regno di Sicilia, 34,43,46

Regno Franco, 7

Regno Italico, 16

Regno Longobardo, 7

Regno, 61

Reliquia della Sacra Spina, 67

Repubblica di Firenze, 74

Repubblica di Venezia, 47

Rettore della Marca, 62,73,74,83

Rettore di Ancona, 61

Rettore Pontificio, 61

Rieti, 15

Rimini, 31,56,59,74,95,

Rimone, prete, 16

Rinaldo da Monteverde, 65,66,67,68,71,72

Rinaldo da Petriolo, 40

Rinaldo di Acquaviva. Condottiero, 45

Rinaldo di Loro, 40

Rinaldo di Monteverde, 40,73

Rinaldo di Urslingen, duca di Spoleto, 39,41,43

Ripa, 79

Ripani, 87,96

Ripatransone, 23,32,35,40,47,52,71,66,79,8387,88,90,95,96,07

Roberto da Castiglione, vicario imperiale, 45,46

Roberto di Ginevra, 71

Roberto Guiscardo, 20

Rodolfo da Camerino, 67

Rodolfo Varano da Camerino, 59,60,67,76

Rolando, legato pontificio, 36

Roma, 7,15,17,20,21,51,53,59,67,71,75,78,85,91,

Romagna, 51,59,95

Romani, 12

Ruggero, figlio di Gentile da Mogliano, 63

S. Abundi, curtis, 15

S. Agostino, chiesa di Ripatransone, 88

S. Agostino, chiesa, 48,67,80

S. Agostino, torre campanaria, 56

S. Angelo in Piano (Carassai), 101

S. Angelo in Pontano, 73,83,101

S. Angelo in Trifonso, chiesa, 79

S. Barnaba, 67

S. Bartolomeo, 67,68,103

S. Benedetto in Albula, 47,48,96,97

S. Caterina da Siena, 67,71

S. Caterina, chiesa, 48

S. Claudio al Chienti, 101

S. Domenico, chiesa, 48,80

S. Domenico, predicatore, 48

S. Elpidio Morico, 75

S. Elpidio, 34,35,36,37,52,55,66,67

S. Francesco, 54

S. Francesco, chiesa di Fermo, 48,80,88

S. Germano, località, 43

S. Giacomo della Marca, 86,90

S. Ginesio, 8,83,85

S. Giusto, 35,76

S. Lorenzo in Campo, 61,62

S. Lucia, chiesa di Fermo, 64

S. Lucia, chiesa di Fermo, 88

S. Marco alle Paludi, 47

S. Marco, pieve, (oggi Servigliano), 23

S. Maria dell’umiltà, chiesa di Fermo, 85

S. Maria della Fede, 87

S. Maria Maddalena, chiesa di Ripatransone 87

S. Maria, chiesa di Fermo, 92

S. Marina, monastero, 15

S. Martino, 76

S. Martino, chiesa di Fermo, 86

S. Paterniano, chiesa, 28

S. Pietro (Vecchio), chiesa di Fermo, 54

S. Pietro, 7

S. Pietro, monastero, 48

S. Severino, 57,59,61,67,76,100

S. Silvestro, monastero, 15

S. Vincenzo Ferreri, 71

S. Vittoria in Matenano, 16,23,44,45,57,51,59,61,62,67,72,73,89,90,91

S. Vittoria, 15

S.Ginesio, 40

Sabina, regione, 66

Sacro Romano Impero, 7,8,9,10,17,51

Salirone, 16,17

Salutati, segretario fiorentino, 67

Santa Maria, confraternita, 55

Santa Prisca, 89,90

Santa Sede, 7,19,31,32,37,46,47,51,52,53,59,60,63,67,95

Santoro Puci, condottiero riparano, 87,88,90

Saraceni, 15,16,44

Sardegna, 83

Sarnano, 40

Sarnano, 61,87

Sartori, 99

Sassonia, 27

Scalpellini, 99

Schiavonia, 86

Scisma d’Occidente, 71,74,76

Sculcula (oggi Porto d’Ascoli), 47,56

Sede Apostolica, 41

Sellari, 99

Senigallia, 61,62

Serravalle, 85

Servigliano, 23

Settimana Santa, 103

Shabat, pirata, 12

Sibillini, 99

Sicilia, 31,32,34,83

Siena, 67,71

Sigismondo di Lussemburgo, imperatore, 76

Sigismondo Malatesta di Rimini, 91.95

Simone da Camerino, frate agostiniano, 80,94,102

Sindicus = Massarius, 41

Sisto IV, papa, 95,101

Spagna, 8,94

Spanta, 65,66

Spoletani, 16

Spoletini, 19

Spoleto, 7,9,15,29,39,43

Stato della Chiesa, 82,83

Stato Fermano, 75,83,99

Stato Feudale Farfense, 16

Stato Pontificio, 59,72,82,83,99

Stato Spagnolo di Castglia, 94

Stato Spagnolo di Leon, 94

Statuti, 100

Sulmona, 74,75

Sultano d’Egitto, 43

Taddea, seconda moglie di Ludovico Migliorati, 77,78

Tancredi, 31

Tanursi, storico, 79

Tenna, fiume, 47,61,67,90,99,101

Teramo, 85,104

Terra Santa, 24,74

Tesoriere della Marca, 62

Thener, 61

Todi, 74

Tolentino, 61,83,86

Torchiaro, 75

Torchiaro, 89

Torre di Palme, 101

Torre Matteucci, 48

Torre S. Patrizio, 40,75

Toscana, 7,83,84

Trasfigurazione, festa, 94

Trasone, 18

Trattato di San Germano, 43

Treia, 45

Trento, 28

Tribunale Superiore della Regione, 62

Trombecta, banditore, 42

Tronto, fiume, 20,34,39,44,47

Truento, 12

Turchi, 55,71,87,90,94,96

Turcomanni, 8

Uberto, conte di Fermo, 21

Uberto, vescovo, 18

Uberto, vescovo, 19

Ugo di Monte Vidon Corrado, 40

Ugo II, vescovo di Fermo, 34,35,39

Ugo, abate, 15

Ugo, re di Borgogna, 16

Ugo, re di Borgogna, 16,17

Ugo, re di Borgogna, 17

Ulcandinus (Ugo Candido), 23

Umbria, 7

Ungheria, 94

Università di Fermo, 12,91

Urbano VI, papa, 71

Urbano, VI, papa, 72

Urbino, 61,62,95

Urbisaglia, 40

Val Tesino, 79

Valle del Garigliano, 16

Valle del Tenna, 47

Valle del Tronto, 47

Valle della Cupetta, 90

Valle Padana, 82

Vanni Andreoli di Fermo, 75

Varano Bernardo da Camerino,, 52

Veneto, 82

Venezia, 29,31,37,46,47,67,82,83,84,85,87,88,94

Veneziani, 96

Verona, 15,16,44

Vetreto, 97

Vicario del Papa nelle Marche, 91

Vicario di Cristo, 51

Vicario nella Marca, 83

Vicedelegato della Marca, 96

Villa Firmana, 53

Vipera Antonio, progettista della chiesa di San Francesco, 48

Visconti, 66,67,84

Vitelleschi vescovo di Macerata e Recanati, 83

Vittore IV, antipapa, 28

Wolfango (o Volfarango), vescovo di Fermo, 21

Zambocco di Napoli, capitano, 74

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