SANTA VITTORIA IN MATENANO STORIA SCRITTA DA GIUSEPPE MICHETTI

Don Giuseppe Michetti

SANTA VITTORIA IN MATENANO

EDITRICE “LA RAPIDA”      – SECONDA EDIZIONE

A Santa Vittoria V. e M.

voluta dai Nostri Padri

con Decreto Statutario

« Avvocata e Governatrice della Città »

dedico

nel Ventunesimo Cinquantenario

da quando le Sue Reliquie

vennero sul Matenano

                                                                           benedicenti

PRESENTAZIONE

Esaurita la prima edizione di questo libro, date le continue richieste, ho creduto utile farne una seconda, riesaminata e corretta, perché c’era da correggere. Che volete ! La prima edizione uscì nel 1969, quindici anni fa; è naturale che l’autore, dopo quindici anni di studio, veda le cose molto più chiaramente e con più precisione.

E’ una storia tanto bella che sembra una fiaba, ma vi assicuro che è scritta sulla base di documenti assolutamente certi e accuratamente controllati.

Spero che i giovani del mio Paese, per ì quali principalmente l’ho scritta, la leggeranno con l’amore che ha guidato me nello scriverla.

La nostra storia comincia nell’897.

Io non intendo farvi la preistoria del paese, cominciando dai cavernicoli, o dai Piceni, o dei Romani della vicina Falerio; voglio scrivere una storia vera, come poche città potrebbero vantarne una.

La difficoltà non la trovo nel procurarmi documenti, ma nello scegliere gli essenziali, per non riuscir troppo prolisso.

Fino al 1039 mi servirò delle notizie che ci fornisce l’Abate Ugo nella « Destructio », riportandone brani tradotti in italiano. Egli fu Abate di Farfa dal 997 al 1039 ed è il primo vero storico di Santa Vittoria in Matenano.

                                                                                                                     L’AUTORE

GIUDIZI SULLA PRIMA EDIZIONE

Quando uscì la prima edizione di questo libro, nel lontano 1969, il settimanale « La Voce delle Marche » n. 27 – Anno LXXVIII, così lo recensì :

E’ uscito in questi giorni, in elegante veste tipografica (Ed. La Rapida di Fermo) il volume di don Giuseppe Michetti intitolato « Santa Vittoria in Matenano ».

L’abbiamo letto tutto d’un fiato e con vero piacere. Il che è buon segno, in questo periodo in cui tanto si scrive, ma purtroppo non sempre ben si scrive. E Michetti ha scritto veramente bene.

Presenta in forma spigliata e piacevole la storia di una città che nel passato è stata centro di interesse per tanta popolazione che guardava con fondata speranza all’attività religioso-sociale degli infaticabili monaci Farfensi. Egli confida che i suoi « giovani compaesani la leggeranno con amore »; di questo siamo certi anche noi.

E proprio perché si rivolge ai giovani studenti, Don Giuseppe ha avuto particolare cura di presentare anche i grandi fenomeni che s’intrecciano con la storia di S. Vittoria in Matenano: i Farfensi, i Guelfi e i ghibellini, i Comuni, i Podestà, il banditismo, le signorie, gli scismi, la rivoluzione francese, il Risorgimento. . . Ne viene fuori un quadro completo che permette di comprendere gli avvenimenti storici, non con la mentalità di oggi (sarebbe un grave errore), ma con la mentalità del tempo, nel pieno dei fenomeni che allora si svolgevano.

Ci rallegriamo con don Giuseppe ed auguriamo alla sua opera la diffusione che, a nostro avviso, ha dimostrato ampiamente di meritare.

                                                          * * *

La tua storia di S. Vittoria in Matenano è una pubblicazione veramente interessante che ho letto tutta d’un fiato ».

                                                                                                       Ing. N. Cesarei

                                                         * * *

Della storia di S. Vittoria in Matenano che dirle? E’ un lavoro semplice, ma completo in ogni sua parte e perfettamente rispondente allo scopo che ella si è prefisso nel dettarla. Mi auguro che sia apprezzato dai suoi concittadini i quali, nel suo libretto, hanno motivi per apprezzare sempre più e sempre meglio il piacere di essere cittadini di un luogo così interessante e di così storica importanza.

S. Benedetto del Tronto, 5 gennaio 1971

                                                                                                    Prof. Enrico Liburdi

INDICE

Presentazione………………………………………………………………………..Pag.  3

Giudizi sulla prima edizione…………………………………………………      “      4

CAPITOLO I

S. VITTORIA NELL’ETÀ’ FEUDALE

Il Castello di S. Maria – Pietro I – Rimone – Ratfredo…………………… “    6

Ratfredo…………………………………………………………………………………… “   7

S. Vittoria V. e M. ………………………………………………………………………. “   7

I “mali Abates”…………………………………………………………………………… “   9

L’incendio del castello………………………………………………………………… “ 10

S. Vittoria e Ottone II – Prima scissione………………………………………… “ 10

I Farfensi……………………………………………………………………………………. “ 11

I Farfensi nel Piceno……………………………………………………………………. “ 13

Ugo I – Il primo Priore – Suppone………………………………………………… “ 15

Berardo I da Orte (1047-1085)…………………………………………………….. “ 15

S. Vittoria in Matenano nel 1050……………………………………………….….. “ 16

Possedimenti Farfensi nel Piceno…………………………………………….…… “ 17

Egemonia di S. Vittoria………………………………………………………………..    “18

Guelfi e Ghibellini……………………………………………………………………….… “19

CAPITOLO II

S. VITTORIA NELL’ETÀ’ DEI COMUNI

Parte I

Il Comune……………………………………………………………………………..…….. “  20

L’Abate Matteo I e i Comuni………………………………………………………..… “  22

Il nostro Comune……………………………………………………………………..….. “  23

L’incastellamento…………………………………………………………………….….. “  24

Odorisio – L’Abate Podestà (1235-1238)………………………………………. “  26

Dopo la guerra del 1240, alleanza con Fermo……………………………….. “  27

Rottura…………………………………………………………………………………….…. “  28

Il privilegio di Urbano IV……………………………………………………………… “  29

Morico di Monte………………………………………………………………………….. “  30

CAPITOLO III

S. VITTORIA NELL’ETÀ’ DEI COMUNI

Parte II

Presidato Farfense di S. Vittoria…………………………………………………… “  30

Podestà………………………………………………………………………………………. “  32

La strage di Sorbelliano……………………………………………………………….. “  33

I banditi………………………………………………………………………………………. “  35

S. Vittoria nel Secolo XIV………………………………………………………………. “  35

Durante il periodo di Avignone…………………………………………………….. “  36

CAPITOLO IV

LE SIGNORIE

Le Signorie…………………………………………………………………………………. “   38

S. Vittoria e le Signorie………………………………………………………………… “   39 

S. Vittoria e Urbano VI…………………………………………………………………. “  41         

S. Vittoria e Bonifacio IX (1388-1404)……………………………………..…….. “ 42

S Vittoria nel secolo XV……………………………………………………………..… “    43        

Durante lo scisma d’occidente………………………………………………….….  “  44

 Dopo lo scisma…………………………………………………………………………..  “  45

La Signoria di Francesco Sforza….………………………………………………..  “    47       

CAPITOLO V

S. VITTORIA NELL’ETÀ’ MODERNA

Declino……………………………………………………………………………………….. “  48         

Artisti di S. Vittoria nel ’400…………………………………………………………. “   49

S. Vittoria nel secolo XVI……………………………………………………………… “   50

Personaggi illustri………………………………………………………………………. “   51

S. Vittoria nel secolo XVII………………………………………………..…………… “   52  

La nuova Basilica Collegiata………………………….……………………………… “  53

Una umile benefattrice…………………………………………………………………. “ 53

Durante la rivoluzione francese…………………………………………………….. “ 53

S. Vittoria e il Risorgimento…………………………………………………………… “ 54

Gli illustri vittoriesi del Risorgimento…………………………………………….. “ 54                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

APPENDICE

Lettura I: Il governo comunale………………………………………………….….. “  55

Lettura II: Alcuni aspetti della vita civile……………………………………………. “   57

CAPITOLO I

S.VITTORIA NELL’ETA’ FEUDALE

IL CASTELLO DI S. MARIA -PIETRO I – RIMONE – RATFREDO

Nel secolo IX e fino al 916, i Saraceni furono la più grande calamità per l’Italia. Essi non erano un popolo di invasori, ma orde di briganti organizzate, che scorazzavano per la Penisola, saccheggiando e seminando distruzioni, senza incontrare serie difficoltà, per lo stato di divisione e quasi di anarchia nella quale l’Italia si trovava. I Saraceni avevano nell’Italia meridionale dei punti fortificati, dai quali partivano e ai quali tornavano col bottino, che poi spedivano verso l’oriente.

Prendevano di mira soprattutto i monasteri, perché là trovavano la migliore ricompensa alle loro scorrerie. Nell’ 890 assalirono la Badia di Farfa, una delle più belle d’Italia e forse la più ricca.

L’Abate Pietro I ( 890-927 ) tenne testa ai briganti saraceni col suo piccolo esercito, per sette anni; poi vedendo che non avrebbe più potuto resistere, fece evacuare il monastero, mandando in luoghi più sicuri i monaci col tesoro; e con una parte di essi venne nelle Marche, dove i farfensi possedevano molti monasteri e molte terre.

L’Abate Ugo così narra l’origine del nostro paese: «L’Abate Pietro venuto nel Comitato Fermano, incominciò ad abitare nel monastero di S. Ippolito e di S. Giovanni detto in Selva (1) insieme ai fratelli che aveva condotto seco dalla Sibilla e a quelli che ci aveva trovati, piangente ed afflitto per la rovina del suo monastero (Farfa). Nel frattempo i saraceni nelle loro scorrerie incominciarono a penetrare anche nel Comitato Fermano, per cui il detto abate, messo di nuovo in apprensione, radunò i suoi monaci e i suoi soldati e fece un castello sul monte Matenano, dove poi fu trasportato il Corpo di S. Vittoria. Ivi rimasero aspettando che finisse quella persecuzione . . . ».

Finalmente nel 916 un fatto nuovo riempì di gaudio l’Abate Pietro I. Il Papa Giovanni X era riuscito a formare una lega di signori italiani per combattere i Saraceni e, partecipando anche lui alla battaglia armato come un guerriero qualunque, aveva conquistato Traietto, dopo tre mesi di assedio. (2)

I Saraceni non c’erano più; si poteva pensare di tornare nell’antico Monastero per riedificarlo, ma non era cosa da poco metter mano a quelle rovine, perché mancavano i mezzi sufficienti; l’età poi cominciava a pesargli.

Una parte dei suoi monaci e i soldati lo convinsero a designare un suo successore che lo coadiuvasse nel governo, nella persona di un certo chierico di nome Rimone, di una potente famiglia che dominava nel Fermano; il che egli fece, nel 919.

Gran parte dei monaci si ribellarono a questa decisione di Pietro I, che difatti era irregolare, ed elessero un monaco che si chiamò Giovanni II, del quale il Chronicon dice di conoscere solo il nome.   

 E difatti che volete che potesse fare l’Abate Giovanni II, di fronte a Rimone, appoggiato dall’Abate legittimo e dalla sua potente famiglia? Le cose si trascinarono così fino al 927, quando Pietro I morì.

Un monaco di nome Campone, di nobile famiglia di Rieti, che Pietro I aveva educato fin dalla fanciullezza e fatto istruire anche nella medicina, lo avvelenò. Fu sepolto a S. Vittoria, nell’oratorio a pianterreno della torre da lui fabbricata.

Morto Pietro I, restò Abate Rimone per un anno, poiché alla fine del 928, venuto nella Marca RE Ugo, cacciò dal Fer-mano i parenti di Rimone e lui con essi, e al suo posto mise un proprio nipote di nome Ratfredo. Rimone andò a Roma, dove l’anno appresso morì avvelenato. (3)

RATFREDO

« Ratfredo, preso il governo della Badia, incominciò ad agire con molto coraggio, perché c’erano rovine dappertutto. Radunate pertanto cento famiglie di uomini liberi e di servi del Comitato Fermano, le condusse con sé nella Sabina, a restaurare il monastero di Farfa, già da molto deserto ».

Dunque l’abate Ratfredo si servì di maestranze e operai piceni per ricostruire Farfa, ed essi riuscirono a compiere quel lavoro gigantesco in due anni: dal 932 al 934. Appena finito il lavoro di Farfa, il 20 giugno del 934, Ratfredo riconduce gli operai nelle Marche, portando insieme a loro sul Matenano il Corpo della martire S. Vittoria (4).

 Lo storico abate Ugo dice così : « Fu lui ( Ratfredo ) a trasportare il Corpo di S. Vittoria dalla Sabina al luogo dove ora si venera, cioè sul monte Matenano. Conferì a quel luogo molti altri benefici e fu lui che fece di nuovo fabbricare e consacrare la chiesa e il monastero, il che è notissimo ».

La chiesa e il monastero costruiti da Ratfredo sul Matenano erano grandiosi : se ne trova la descrizione genuina nei documenti dell’archivio priorale, che è uno degli archivi più interessanti delle Marche. Erano situati sulla cima del colle; caddero in rovina nel secolo XVII; di questi edifici resta solo il prezioso Cappellone.

Da Ratfredo incomincia la grandezza del paese: da quel monastero e da quel Santuario si irradiò per molti secoli la Fede e la Civiltà su tutto il Piceno. I pellegrinaggi incominciarono presto a venire da ogni parte; andavano all’urna della santa, andavano a « S. Vittoria », e il paese si chiamò : « S. Vittoria in Matenano ».

S. VITTORIA V. E MARTIRE

Poiché tutta la storia del nostro paese è legata al nome della Vergine e Martire S. Vittoria, è bene ricordare qui in breve la storia di questa Santa, che gli Statuti Comunali chiamano « Avvocata e Governatrice della città ».

Era una giovane di nobile famiglia romana, nata, secondo le più attendibili testimonianze, verso il 230 dopo Cristo. Educata cristianamente, come la sua intima amica Anatolia, era fidanzata con un nobile giovane romano di nome Eugenio, non cristiano.

per lunghi secoli venne celebrata dalla posterità farfense e finì per dare origine e nome, come canterà più tardi il Poeta, a S. Vittoria in Matenano, barriera inespugnabile dello Stato Farfense Piceno ».

Un giorno questi le chiese di fare opera di persuasione presso l’amica Anatolia, a favore di un suo amico, Tito Aurelio, che la voleva in sposa. Vittoria cercò di convincere Anatolia, facendole notare che le nozze non sono contro lo spirito del cristianesimo; anzi per mezzo delle nozze si può fare del bene; si potrebbero anche convertire al cristianesimo i futuri mariti, ora pagani.

Anatolia espose a Vittoria le sue idee in proposito; le parlò di vita consacrata solo a Dio, raccontandole di una visione che spesso aveva: un angelo meraviglioso le parlava sempre della bellezza della verginità, ed ella aveva deciso di dedicarsi e vivere sola con Dio. Le parole di Anatolia furono così persuasive, che Vittoria decise anch’essa di rinunziare alle nozze.

Eugenio, infuriato per questo risultato, ottenne dalle autorità romane che Vittoria fosse relegata nella villa che egli aveva a Trebula Mutuesca, oggi Monteleone Sabina, sperando di cambiare in seguito i pensieri della fidanzata colle lusinghe e coi maltrattamenti.

Tre anni di durissima vita non valsero a mutare la decisione di Lei, per cui Eugenio denunziò Vittoria come cristiana e ottenne che fosse mandato un sicario per toglierle la vita. Così Vittoria morì di pugnale, nel 251.

Poiché a Trebula eran numerosissimi i cristiani, anche per le conversioni operate da Vittoria in quei tre anni di esilio, il corpo di Lei fu da essi sepolto con molta cura, e la sua tomba divenne in seguito meta di pellegrinaggi. Il nome e la devozione a S. Vittoria si diffusero sempre di più non solo in Italia ma anche in altre nazioni.

Durante le invasioni barbariche, il S. Corpo fu sottratto alla profanazione in nascondiglio sicuro (5). Nel sec. VIII quando i Farfensi estesero il loro dominio su gran parte del territorio di Trebula, curarono la costruzione di una chiesa dedicata a S. Vittoria, nella quale si venerarono le S. Reliquie; sopraggiunto il pericolo saraceno, esse furono trasportate nel monastero di Farfa. Il 20 Giugno 934, l’Abate Ratfredo le fece trasportare sul Matenano (6).   

Nel Medioevo, S. Vittoria era una delle Sante più venerate in Italia e fuori. A diffondere questa venerazione furono principalmente i Benedettini; tanto che possiamo affermare essere stato sicuramente proprietà dei monaci un paese, dove si venera S. Vittoria V. e M. (7).

A poca distanza da Monteleone Sabina esiste la bella chiesa che la tradizione dice sorta su le rovine della villa dove visse prigioniera S. Vittoria. Intorno alla chiesa abbondano pietre lavorate che facevano parte della villa. Su quelle, un pellegrino poeta così cantò, un giorno di febbraio 1968 :

« Sullo scosceso colle ove spandeasi Trebula al sole, qualche derelitto rudere resta tra gli ulivi, asilo al rettile e coltivatore inciampo.

La villa ove inumano amor ti tenne prigioniera, Vittoria, non c’è più: tutto travolse il tempo, ma il ricordo Della Fanciulla che sfidò il dragone E’ vivo sempre e ispira eterno amore.

E volò al cielo col petto squarciato Tra queste pietre io vado meditando, E le abbraccio e le bacio. E’ forse questa La pietra ove sedevi a ricamare, anelando al tuo Dio? Su quella forse Il tuo piede leggero s’è posato? Io ricerco una pietra carezzata Dalla tua mano angelica. Qualcuna Di queste pietre rotte, abbandonate Ha udito la tua voce e la preghiera: La tua angoscio ha sentito e ha raccolto Le lacrime segrete. O care pietre,

Qui da tutti obliate, voi non siete freddi sassi per me; Io da lontano Son venuto a sentir la vostra voce; Io son venuto qua dal Matenano Che in urna accoglie le Beate Spoglie Della vostra Vittoria. A me parlate Di Lei, ché son venuto per sentire Più vivo in me il suo spirito aleggiare.

Sul Matenano anch’io, come ogni bimbo, Primieramente con quello di Mamma, Appresi pure il nome di Vittoria Lassù, nel nome di Vittoria Santa, si consacrano i talami e le culle; E sempre a Lei della fuggente vita E’ dedicato l’ultimo sospiro.

I « MALI ABATES »

«Appena morto (Ratfredo), (936), Ildebrando si recò a Pavia da re Ugo, che ancora viveva, e con molto denaro comprò la Badia per il pessimo Campone; indi tornò attraverso la Marca, dove gli corse incontro Campone. Questi, ricevuto il dono trasmessogli dal re, cioè il governo della badia, preso il comando dei soldati marchigiani e assicurato il possesso di tutti i luoghi grandi e piccoli che appartenevano alla Badia, se ne tornarono ambedue in Sabina … ».

« La pace non durò tra loro più di un anno, poi cominciarono le contese. Ildebrando si unì ai marchigiani, accattivandoseli con molto denaro, e tolse a Campone i beni della badia che erano nella Marca, coi’ monaci e i soldati; ma Campone corse nella Marca e, distribuendo ancor più denaro… cacciò Ildebrando dal castello di S. Vittoria e da tutto il territorio della badia. E ritornò trionfante nella Sabina, dove cominciò tranquillamente a distribuire i beni del monastero ai figli ed alle figlie: aveva sette figlie e tre figli le quali e i quali dotò coi beni della badia ».

« Il pricipe di Roma Alberico intervenne nelle cose di Farfa e cacciò Campone. Visto ciò Idelbrando occupò di nuovo il castello di S. Vittoria con tutti i suoi possedimenti e incominciò a distribuir tutto, ai figli e alle figlie, che erano parecchi; diede loro pure la curte di Mogliano grande e splendida ».

« Verso quel tempo si accese una grande guerra tra Salirone e Ascherio per contendersi la Marca Fermana; prevalse Salirone che uccise Ascherio con molti dei suoi e si impadronì della Marca (8).

«Saputa la cosa, re Ugo s’infuriò contro di lui e incominciò a perseguitarlo per l’uccisione di Ascherio che era suo parente prossimo. Allora Salirono, vedendo di non poter in alcun modo sfuggire all’ira del re, indossata la veste di monaco e legatasi una fune al collo, una mattina si presentò al re e si arrese senza condizioni. Re Ugo, mosso a pietà, lo perdonò e lo mise a capo di tutti i monasteri di investitura reale che erano nel territorio della Marca Fermana. Tutti gli abati di quei monasteri si sottomisero, eccettuato l’invasore Ildebrando che gli resistette; ma Salirone per allora prevalse e lo cacciò dal castello di S. Vittoria. Di nuovo tornò Ildebrando e cacciò Salirone, il quale poi riuscì a cacciare una seconda volta Ildebrando e definitivamente; ma visse poco tempo, e là morì e fu sepolto».

Fin qui l’abate Ugo; ed io invito “a considerare un pò quali delizie saranno state per il nostro povero popolo le cagnare di questi pazzi furiosi».

L’INCENDIO DEL CASTELLO

Salirone morì a S. Vittoria nel 945 e così «fu reintegrato in pieno l’infausto possesso di Ildebrando a S. Vittoria. Tutto trionfante per questo successo, un giorno fece preparare un grande festino per la consorte, per i figli e le figlie e per i soldati dei quali ne aveva molti e grossi (multos et magnos); poiché sebbene non fosse mai riuscito a governare sulla Sabina, tuttavia quello che costituiva il patrimonio della badia nella Marca, lo governò come sua proprietà fino al tempo di Ottone I (952-972)».

«Ma il giorno che fu celebrato quel festino, dopo la cena, a notte fatta, essendo tutti intontiti dal vino, e dal gran mangiare, nessuno di loro poté sentire quando il fuoco cominciò a bruciare il castello; in quell’incendio anche tutta la ricca suppellettile portata dalla Sabina andò perduta, bruciata dal fuoco ».

Ildebrando tenne S. Vittoria fino al 971, mentre a Farfa si succedono abati che non hanno forza sufficiente per riconquistare alla badia il dominio del Piceno; finalmente l’abate Giovanni III, eletto a Farfa nel 967, si presentò a Ottone I nel palazzo imperiale di Ravenna, e ottenne dall’imperatore la deposizione di Ildebrando, al quale fu assegnato un vitalizio dall’imperatore stesso.

S. VITTORIA E OTTONE II

A Ottone I, nel 973, successe il figlio Ottone II.

Aveva la mania delle reliquie dei Santi, come il suo consigliere Teodorico, vescovo di Metz, e del resto come tutti in quei tempi.

Recandosi in Calabria per combattere i Saraceni, fu ospite di Fermo. Qui sentì magnificare i miracoli della martire Santa Vittoria e gli venne in testa di far sue quelle Reliquie. Chi sa se in questi panegirici di S. Vittoria, tenuti dai signori di Fermo, non sì nascondesse il segreto fine di danneggiare la vicina rivale, attirando su di essa l’attenzione del tedesco? Tutto è possibile; ma essendo ciò una supposizione, non fa parte della storia.

Il fatto è che Ottone II mandò il vescovo Teodorico con una scorta armata, a vedere di poter convincere l’abate Giovanni con diplomazia, o, se fosse il caso tentare un altro espediente per portar via le venerate Reliquie. Teodorico venne a S. Vittoria, ma trovò una accoglienza troppo solenne, con una numerosa schiera di monaci e di soldati che, per onorare il personaggio, facevano buona guardia giorno e notte dappertutto. Il vescovo capì che quegli amici era meglio non molestarli e se ne partì tranquillo, dopo aver venerato le SS. Reliquie. Al suo ritorno, l’imperatore saltò su tutte le furie, sentendosi deluso per l’insuccesso e, da buon tedesco, si intestardì maggiormente, e mandò a S. Vittoria una buona schiera di soldati, per asportare colla forza il Corpo della Santa. Un forte temporale, che i cittadini ritennero miracoloso, evitò a S. Vittoria una battaglia; poiché i soldati tedeschi, dopo aver vagato tra fulmini che si schiantavano paurosamente, « subita mutatione mentis alienati», non riuscendo a trovare il castello, se ne tornarono mortificati al loro padrone. Il fatto è assegnato dagli storici a circa l’anno 980 (9).

Giovanni III lavorò molto per il riassetto del dominio, ma la nave faceva acqua da ogni parte:” quando stava a Farfa, nascevano guai nelle Marche; quando stava a S. Vittoria, nascevano guai a Farfa.

Il dominio era troppo disunito dai monti. Lamentele poi e ricorsi anche calunniosi arrivarono all’imperatore Ottone II, il quale, preoccupato da altre cose per lui più pressanti, per togliersi il fastidio, ordinò che fosse deposto Giovanni III e fosse eletto Adamo, finché non fosse venuto lui stesso a rendersi conto personalmente della cosa. Questo nel 983. Ma i due abati, invece di ubbidire al decreto imperiale, tanto più che Ottone II morì quasi subito, si divisero il dominio: Giovanni restò a Farfa, e Adamo occupò S. Vittoria (10).

Di queste scissioni tra Farfa e S. Vittoria ne incontreremo parecchie nel corso della nostra storia; sembrava fatale che S. Vittoria non dovesse mai a lungo restare unita a Farfa: contro questa unione giocavano molti fattori: l’ambizione degli abati che erano uomini e non sempre della migliore specie; la lontananza delle due capitali divise dagli Appennini; i signori piceni, compresi i vescovi, che incoraggiavano questa scissione, poiché la potenza farfense era molto incomoda per essi; soprattutto poi c’era la maggior ricchezza del Piceno in uomini e cose, per cui un abate di Farfa non riusciva a snidare da S. Vittoria un intruso, quando vi si fosse annidato. Giovanni III aspettò fino al 990, quando Adamo divenne vescovo di Ascoli e Ottone II era morto. Si rivolse allora alla vedova di lui Teofania, che teneva l’impero in nome del figlio Ottone III ancora giovanetto, ed ottenne quanto desiderava. Ma Adamo non sentiva decreti imperiali e restava a S. Vittoria; finché il 25 maggio 996, Ottone III venne in persona a cacciare Adamo e a riconsegnare il paese a Giovanni.

Giovanni III morì l’anno appresso, il 2 maggio 997, a S. Vittoria e qui fu sepolto, dove era stimato ed amato, perché è storia che si ricordò con solenni riti il giorno della sua morte per molti anni.

I FARFENSI

Una delle Congregazioni monastiche più potenti in Italia fu quella di Farfa. Quando si parla di monaci farfensi, non dobbiamo pensare ai frati di oggi; il loro metodo di vita e di apostolato era diverso. Il loro ministero principale non era il sacerdozio: solo qualche monaco era sacerdote per il servizio interno delle diverse comunità; anche per assistere le popolazioni dipendenti da loro, si servivano di chierici da essi preparati a questo scopo.

 Il principale mezzo di apostolato per essi era il lavoro: lavoro negli scrittoi, nelle officine, nei campi; scuole di lettere di mestieri, di agricoltura. «Ora et labora» per tutti: lavoro e preghiera, ambedue ugualmente importanti, ambedue atte a dare all’uomo la sua dignità.

I farfensi ebbero origine nel secolo settimo.

Un pellegrino francese, Tommaso da Morienne, tornando dalla Palestina, sentì parlare a Roma di un monastero abbandonato e semidistrutto, situato presso il fiume Farfa, in territorio di Fara Sabina, tra Roma e Rieti. Vi si recò a vedere e vi stabilì la sua dimora, insieme a pochi compagni che come lui desideravano vivere servendo Dio, lontani dal mondo.

II monastero risorto di Farfa incominciò a ingrandirsi e a prosperare; cresceva il numero dei monaci e crescevano le donazioni dei fedeli, e fu necessario costruire altri monasteri dipendenti per accogliere altri religiosi; e Farfa, adagio, adagio seminò i suoi monasteri in Umbria, nelle Marche, in Abruzzo in Toscana, finché, verso il mille, l’abazia di Farfa era diventata una potenza da competere con qualsiasi potenza feudale del tempo.

Di questi potenti aggregati di monasteri, che si chiamarono poi Congregazioni Benedettine, ne troviamo molte nel Medioevo e possiamo citare nomi gloriosi, come Montecassino, S. Vincenzo al Volturno, Bobbio, S. Apollinare in Classe; congregazioni indipendenti l’una dall’altra, che avevano in comune la regola di S. Benedetto.

Dobbiamo precisare, per avere idee chiare sull’argomento, che il monastero di Farfa risorse dall’abbandono nel 677, per opera di Tommaso da Moriente, il quale non era un monaco benedettino, ma un sant’uomo che volle ritirarsi a Farfa insieme ad altri compagni, per vivere vita monastica. Se poi il monastero si sviluppò tanto, e quel genere di vita si diffuse tanto largamente, da diventare un vero Ordine Religioso, probabilmente non era negli intenti e nelle previsioni del fondatore. Farfa diventò benedettina più tardi.

Nell’817, il Concilio di Aquisgrana prescrisse, come unica regola per tutti i monasteri d’Europa, la Regola di S. Benedetto; e solo dopo molto tempo anche Farfa diventò una congregazione benedettina, come tante altre congregazioni che avevano in comune la Regola di S. Benedetto, ma che si reggevano con statuti propri e tradizioni diverse.

L’abate della congregazione si eleggeva a vita dai monaci e governava tutti i monasteri, preponendo a ognuno di essi un monaco che si chiamava appunto «Praepositus» e amministrava la giustizia per i suoi monaci e per i coloni dipendenti dai vari monasteri; presidiava coi propri soldati i possedimenti della Badia; assegnava ad ogni monastero i mezzi di sussistenza e impiegava a suo arbitrio in miglioramenti quello che in più otteneva dal dominio. La sua condizione era quella di qualsiasi feudatario, perché allora non si concepiva una organizzazione diversa, né forse si poteva.

Però non dovete pensare che l’abate eletto dai monaci fosse scelto tra i migliori elementi del monachismo. Molte volte l’abate era imposto da pressioni di potenti estranei al monastero, specialmente dall’imperatore, che si riteneva padrone di tutto; qualche volta veniva imposto un abate che non era un monaco; e quando l’elezione dell’Abate era regolare cioè fatta dai monaci, essi ordinariamente non sceglievano il più virtuoso, perché si sa che nel santo, rare volte si assommano anche le qualità del principe, e l’abate doveva esercitare l’ufficio di principe. Quindi nell’elezione dell’abate giocavano considerazioni molto umane: abilità negli affari, doti diplomatiche, prestanza fisica, abilità nelle armi, e sopra tutto, nobile origine, che gli avrebbe assicurato l’appoggio di famiglie potenti. In queste condizioni voi capite che del monaco negli abati ne rimaneva ben poco.

Carlomagno arricchì di donativi e di privilegi la badia di Farfa e la costituì Imperiale Abadia Farfense; da qui l’investitura imperiale dei suoi abati e l’importanza politica, a volte decisiva, di Farfa nelle lotte interminabili tra Papa e Imperatore, tra guelfi e ghibellini, come vedremo in parte nel corso della nostra storia.

Con la istituzione del Sacro Romano Impero, nel Natale dell’800, che possiamo considerare il primo tentativo di una Europa Unita, due dovevano essere, teoricamente, le supreme autorità, al cenno delle quali avrebbe dovuto muoversi il mondo cattolico: il Papa e l’Imperatore: il Papa per., dirigere l’organizzazione religiosa; l’Imperatore per dirigere i regni e i potentati civili di tutto il mondo cattolico.

Siccome era il Papa che creava l’imperatore, ecco una parte di dottori che volevano l’autorità del papa sopra quella dell’imperatore; mentre un’altra parte di dottori rispondevano l’imperatore una volta eletto, ha l’autorità suprema indipendente dal papa, anzi superiore.

Siccome in tanti secoli i dottori non si son messi d’accordo, noi accantoniamo la questione e passiamo ad altro.

L’imperiale Badia di Farfa era di investitura imperiale: cioè era l’imperatore a dare l’autorità e il possesso del dominio farfense all’abate eletto dai monaci, solo se esso era di suo gradimento.

Altrimenti ? Altrimenti se ne faceva un altro, perché, sempre in teoria, tutto era dell’imperatore e tutti i re, i duchi, gli abati, ecc. erano affittuari (feudatari) dell’imperatore; un possesso era legittimo, solo se riconosciuto dall’imperatore, e per questo gli abati e gli altri feudatari spesso richiedevano diplomi imperiali che riconfermassero la legittimità del loro feudo. Abbiamo detto teoricamente, perché praticamente tra l’imperatore e i feudatari le relazioni erano regolate dalla forza e l’imperatore arrivava dove la sua forza gli permetteva di arrivare. Per gli abati e per i vescovi c’era una questione particolare: essi erano capi religiosi e capi di un dominio temporale. Alcuni dottori dicevano: il papa nomina il capo religioso e l’imperatore lo investe del dominio temporale; altri dotti invece dicevano: l’imperatore sceglie il vescovo o l’abate feudatario e il papa gli dà l’autorità spirituale; e per secoli si scrisse e si questionò su questo argomento, e si versarono tante lacrime e tanto sangue: la lotta per le investiture.

La questione toccò anche qualche volta la badia di Farfa e, come vedremo, essa fu quasi sempre godente tra i litigi del papa e dell’imperatore.

I FARFENSI NEL PICENO

Abbiamo visto l’abate Pietro fuggire nei suoi possedimenti del Piceno; perché nel secolo X i farfensi avevano già un dominio vastissimo nel Comitato Ascolano, nel Comitato Fermano, nel Comitato di Camerte e altrove nell’Anconitano. I farfensi sono i veri civilizzatori del Piceno, dove nel decorrere di un millennio, lasciarono infinite impronte del loro lavoro nella profonda religiosità del popolo, nella cultura mai inferiore ad altre regioni, nell’arte che ci parla anche oggi con meravigliosi monumenti, quali S. Maria Annunziata di Monte Cosaro, S. Firmano in Val Potenza, S. Maria di Offida. E dove l’incuria degli uomini e l’inclemenza degli elementi hanno prevalso, resta ancora qualche rudere del loro lavoro a dire l’intramontabile grandezza della loro opera civilizzatrice.

Un merito particolare hanno i farfensi nell’aver sviluppato l’agricoltura nel Piceno. Chi si indugia ad ammirare le meravigliose campagne del Piceno, resta sbalordito dal senso estetico che guida l’agricoltore nella coltivazione di ogni palmo di terra. Niente è trascurato, niente è fuori posto; il Piceno è un immenso giardino coltivato con amore, con religiosità: chi l’ha coltivato, l’ha fatto pregando.

Ma i farfensi coltivavano essi la terra ? La coltivavano ed insegnavano a coltivarla. Fino a tutto il mille i monasteri benedettini rigurgitavano di monaci: erano anime che cercavano tranquillità; erano soldati stanchi e nauseati delle armi; erano lavoratori che non riuscivano a formarsi una famiglia col loro lavoro; erano anche signori che donavano tutto al monastero e si mettevano a disposizione dell’abate; per tutti valeva la regola di S. Benedetto « ora et labora » ed essi lavoravano, chi studiando e scrivendo; chi esercitando un mestiere; e molti lavorando la terra. Le terre poi che i monaci non lavoravano da sé, si davano in affitto ad altri lavoratori, ai quali il monastero prestava assistenza tecnica per una migliore lavorazione.

In tutti i contratti di affitto ricorre la frase «ad meliorandum» quasi si volesse dire: bada, io ti do la terra ad un canone leggero, ma devi migliorarla: era la premura maggiore dei monaci migliorare la terra. E la terra migliorava perché i monaci, col loro esempio insegnavano ai coloni la religiosità del lavoro; gli affittuari capivano che migliorare la terra era a loro vantaggio, perché potevano trarre da essa quanto bastava per pagare alla Badia il sempre tenue canone, per vivere la famiglia e per formarsi mano, mano, un piccolo capitale, e così l’esempio dei monaci spingeva al miglioramento anche le terre che non erano della Badia.

 Furono i farfensi a far sentire al nostro popolo, dopo le invasioni barbariche, la gioia del lavoro libero.

L’interesse per la terra spingeva spesso l’abate a cedere terre ben coltivate, in cambio di terre incolte, ragguagliando naturalmente il loro rispettivo valore: l’amore al lavoro avrebbe in poco tempo trasformato quelle terre incolte in giardini fioriti.

Dopo il mille, incomincia anche, almeno a S. Vittoria, un nuovo genere di contratto agricolo: la mezzadria.

Il contratto di mezzadria che si conserva nell’archivio priorale, e che forse è l’unico che si conosca, risale al 1201 ed è di una freschezza meravigliosa.

«Io Cencio di Giovanni Guatta faccio questo patto con te Matteo Rollani ed i tuoi eredi, riguardo alla terra che mi hai affidato per coltivarvi la vigna e curare tutto ciò che vi è in essa.

Prometto di darti metà dei frutti che potremo ricavare da detta terra; e metà di tutto il legname; e non debbo accogliere nessuno in quella terra, fuorché il mio fratello Migliore » (11). (Anche fino a pochi decenni fa, nel contratto di mezzadria, si stabiliva il numero dei componenti la famiglia del colono). Il proprietario ed il colono si associavano nel profitto e nel rischio in uguale misura: uno mette il capitale, l’altro il lavoro: il fruttato è diviso a metà tra capitale e lavoro. Non è una conquista sociale mirabile per quei tempi che chiamano barbari ?

Questi erano i farfensi, ai quali il Piceno deve il suo progresso in ogni campo sociale; essi hanno sollevato il nostro popolo dall’avvilimento; lo hanno difeso dall’oppressione; gli hanno aperto la via della libertà e del progresso. 

UGO I – IL PRIMO PRIORE – SUPPONE

Alla morte di Giovanni III fu eletto abate il Preposto di S. Vittoria Alberico, che morì dopo solo sei mesi; quindi fu eletto Ugo I, il grande abate riformatore; a lui dobbiamo la prima storia del nostro paese; «Ilio mortuo, veni ego, Ugo peccator», e venendo lui, io resto senza il suo aiuto nello scrivere la mia storia. Fu eletto abate nel 997, a 26 anni e confermato (cioè ricevette l’investitura) dal papa Gregorio V che ne aveva 25; erano molto giovani, ma erano all’altezza del loro ufficio. Ottone III non sopportò questo modo di agire, perché la Badia era di investitura imperiale, e depose Ugo; ma l’anno dopo dietro insistenza dei monaci, che amavano molto il loro abate, gli riconsegnò il governo della Badia.

Stette un po’ di anni a S. Vittoria per introdurre la riforma cluniacense nei monasteri marchigiani; per quella riforma i Preposti dei monasteri si chiamarono Priori, e fu lui che nominò il primo Priore di S. Vittoria, titolo che anche oggi porta il Parroco della nostra Collegiata.

Ugo morì nel 1039, lo stesso anno che morì Ottone III.

Fu eletto Suppone che governò la badia da S. Vittoria, fino al 1046. Anche lui fece trovare l’imperatore di fronte al fatto compiuto, per cui Enrico III lo depose e inviò a Farfa un abate eletto da lui.

Avveniva però spesso che simili disposizioni imperiali, o a causa di agitazioni e di eventi politici che distraevano altrove la mente dell’Imperatore; o per la lontananza dell’obiettivo da raggiungere, restassero senza effetto, come successe pure questa volta; e Suppone seguitò a fare l’abate a S. Vittoria, dove a fare l’abate c’era più sugo che a Farfa.

All’abate Suppone, nel 1039, Longino d’Attone, un signore di Offida di origine longobarda, donò la sua proprietà consistente in 40.000 moggi di terra, nei paesi di Offida, Castignano, Cossignano, Porchia ecc. Nello stesso anno donarono il loro possedimento Guido Massaro e Longino, figli del fu Guidone, detto Lepre: essi diedero Monteprandone e Sculcula (P. D’Ascoli) (12).

Da simili donazioni era stato costituito il dominio farfense e poi ingrandito come un regno.

BERARDO I DA ORTE (1047 – 1085)

Io non fo storia degli abati di Farfa, ma debbo almeno menzionare quegli abati che hanno avuto speciali rapporti col nostro paese; uno di questi è Berardo I ortano, che fu eletto nel 1047 e governò la badia quasi sempre da S. Vittoria.

La sua residenza in questo paese si può spiegare colla necessità di organizzare l’immenso possesso donato dai signori di Offida e di M. Prandone, e con l’opportunità di seguire da vicino le agitazioni politiche che nel Piceno in quest’epoca cominciano ad acuirsi. Fu molto amico del suo confratello il monaco Ildebrando e favorì la riforma della Chiesa da lui iniziata; e quando Ildebrando diventò Gregorio VII, Berardo seppe essere figlio devoto della Chiesa e, nello stesso tempo, fedele feudatario dell’imperatore, cosa estremamente difficile con Enrico IV e Gregorio VII. Morì vecchio nel 1085.

S. VITTORIA IN MATENANO NEL 1050

S. Vittoria era giuridicamente la succursale di Farfa, cioè il centro amministrativo di quella parte del dominio farfense che era di qua dell’Appennino. Spesso era la vera capitale del dominio, perché spesso l’Abate teneva la sua curia nel magnifico monastero del Matenano; e se consideriamo il tempo che gli abati risiedono a S. Vittoria, o per loro scelta, o per scissione tra le due parti del vasto dominio, è molto di più il tempo che gli abati passano a S. Vittoria, di quello che passano a Farfa. Quando poi l’abate risiedeva a Farfa, teneva a S. Vittoria un Preposito o un Priore che faceva le sue veci nel governo delle chiese del dominio, e un Giudice che in suo nome amministrava la giustizia.

Urbanisticamente non era gran che, stava però all’altezza delle altre capitali: case, la maggior parte di terra battuta, come le case delle altre città; e se altre avevano un episcopio, essa aveva un monastero imponente.

L’orgoglio cittadino poi si sentiva lusingato dal continuo affluire di pellegrini e di sudditi entro le sue mura: i pellegrini venivano a venerare la Santa, che era la loro Santa: i sudditi venivano a portare i tributi al Monastero, che era il loro Monastero; e i cittadini, dalla vicinanza del padrone, si sentivano un po’ anch’essi padroni. E un pò di bene ne veniva loro realmente, perché qualche lavoro retributivo, o qualche impiego lo potevano ottenere tutti con facilità: magari una missione nelle guarnigioni costiere o di confine, o alla peggio, una modesta carriera militare. E’ ovvio che i cittadini di S. Vittoria con più facilità di altri ottenessero impieghi nello stato, sia perché più vicini agli abati e più in vista, sia perché potevano avere una maggiore preparazione nella scuola del Monastero.

S. Vittoria nel Mille e cinquanta era una umile città, cui però non mancavano cose invidiabili, come il monastero e il Santuario, e non mancava il benessere dei cittadini. Fonti di questo benessere erano i diversi mestieri che sapevano esercitare alla perfezione; il continuo afflusso dei forestieri e il movimento dei militari che arrivavano e partivano dalla capitale. Questo benessere si poteva constatare nei giorni solenni, quando la popolazione usciva vestita con sfarzo, per partecipare alle funzioni nella basilica della Santa o alla processione solenne; o quando si recava ad assistere alla sfilata dei cortei che recavano, su carri addobbati, i tributi in generi agricoli, alla Badia, nelle feste di Natale, di Pasqua e di Maria Assunta. Erano le occasioni nelle quali le signore e le ragazze del paese potevano fare sfoggio di vesti e di monili che i loro mariti e i loro fidanzati avevano portato da lontano, in occasione di qualche missione svolta.

E la sera, nelle osterie del paese o presso il focolare, fiorivano i racconti di imprese coraggiose, di incontri strani, di pericoli superati miracolosamente nelle diverse spedizioni in lontane terre del dominio, nei porti dell’Adriatico, o magari anche su una nave da carico della Badia diretta a Venezia, a Ragusa o a Bari. Quegli uomini si sentivano fieri di essere qualcuno, di conoscere il mondo; e le donne di essere le loro donne.

Gli abati potevano chiedere tutto a quei cittadini, perché essi sentivano che la Badia era per loro sicurezza, benessere, vita dignitosa.

POSSEDIMENTI FARFENSI DEL PICENO

Quali erano i luoghi farfensi che gravitavano intorno a S. Vittoria? Non possiamo darne una rassegna completa, non già per mancanza di documenti, che ce ne sono anche troppi, ma per il continuo fluttuare degli avvenimenti politici del tempo che portavano frequenti cambiamenti geografici nei confini dei diversi statarelli d’Italia

Ne daremo un breve cenno, basandoci sul Diploma di Enrico IV, del 1084.

Incominciamo col dire che il possesso di uno Stato allora non era continuo, cioè, non si racchiudeva in confini ben determinati, come potrebbe pensare un moderno, ma consisteva in latifondi con relativi castelli, e anche in poderi, in-tersecati da altri latifondi e da altri poderi in proprietà di altri Stati o di altri signori.

La Badia poteva possedere un paese nella sua totalità; di un altro paese poteva possedere una gran parte; di un altro una contrada appena, o magari pochi poderi.

Da qui possiamo comprendere l’enorme fatica che un abate trovava nel governo del suo dominio; possiamo anche comprendere le interminabili liti e guerriglie di quei tempi. Guerriglie fomentate anche dall’astuzia dei piccoli feudatari, che speravano sempre di essere i terzi godenti nei litigi dei signori maggiori.

Alla morte dell’abate Suppone, colla donazione di Longino d’Attone, signore d’Offida, il dominio farfense nelle Marche viene a comprendere la maggior parte della provincia di Ascoli Piceno e gran parte della provincia di Macerata

Il nucleo centrale di tutto il dominio farfense piceno è costituito costantemente da S. Vittoria, Montelparo, M. Falcone. con Perticara dove risiedeva una specie di stato maggiore delle milizie della Badia. Sempre gli abati si erano preoccupati di conservare unito ed intero questo nucleo centrale, inespugnabile baluardo dello Stato; tanto che M. Falcone fu ricomprata da Ratfredo «magno pretio» e sempre gelosamente custodita con grandi spese.

Da questo nucleo centrale il dominio si estendeva da una parte fino ai Sibillini, dall’altra fino al mare, intrecciandosi lungo i tre fiumi Tenna, Aso, Tesino coi possessi del Vescovo di Fermo.

Verso i Sibillini, nel Comitato di Ascoli, i Farfensi possedevano chiese e territori vastissimi in Amandola, Comunan-za, Montemonaco, Montegallo con la zona del Fluvione, Venarotta e fino ad Ascoli dove avevano S. Maria in Solestà «cum pertinentiis magnis et optimis».

Fra il Tronto e il Tesino, quasi por intero avevano i territori di Offida, Castignano, Rotella col monte Polesio, M. Prandone donato dai figli di Guidone detto Lepre e Sculcula (oggi Porto d’Ascoli).

Tra l’Aso ed il Tesino: parte di Ripatransone, Cossignano Porchia, Patrignone, Montedinove con Rovetino e per intero Force.

Tra l’Aso e il Tenna nel Comitato di Fermo: terre in Ortezzano, uno dei più antichi possessi farfensi. (13) Monte Leone, Belmonte, Montottone, Ponzano, Petritoli e Altidona con una fascia costiera dalla foce dell’Aso a quella dell’Ete. 

Diverse chiese possedevano pure in territorio fermano, tra le quali S. Palaziata verso il mare con mille moggi di terra.

Sulla sinistra del Tenna: terre in Monsammartino, Penna San Giovanni, S. Angelo in Pontano, M. Giorgio con Cerrete e Alteta, Rapagnano, Mogliano, Torre S. Patrizio, Montegranaro, chiese in S. Elpidio. Monasteri e chiese lungo la valle del Fiastra e del Chienti, con S. Maria Rotonda, S. Benedetto in Ripa e S. Maria a pie’ del Chienti.

Questi immensi territori costituivano la zona picena dello Stato Farfense uno Stato che incuteva rispetto per la sua potenza e la sua ricchezza. La sua potenza dipendeva sì dalla molta popolazione che comprendeva, ma soprattutto dalla fine politica degli abati; una politica interna oculata e paterna legava i sudditi con una fedeltà a tutta prova; una politica estera astuta e prudente attirava sul dominio infiniti privilegi da parte dell’lmperatore e del Papa; dal primo, perché, un feudo abaziale di quel genere era garanzia di dominio nell’Italia centromeridionale; dal secondo, perché, se fosse riuscito a trarre dalla sua parte l’abate di Farfa, avrebbe potuto usare coll’imperatore altro linguaggio. La politica dello stato farfense era tutta nel destreggiarsi tra l’imperatore e il papa.

EGEMONIA DI S. VITTORIA

Ormai S. Vittoria non è più la figlia di Farfa spesso ribelle, ma addirittura l’emula e l’antagonista; per due secoli, dal 1085 al 1220, l’abate solo raramente risiederà a Farfa, ma governerà il dominio da S. Vittoria.

Alla morte di Berardo I, nel 1085, i monaci piceni eleggono abate a S. Vittoria Berardo II, fiorentino, ma priore in un monastero delle Marche. Appena eletto corre colle armi a Farfa, dove avevano eletto Rainaldo II, e impone con la forza la volontà dei piceni.

Alla sua morte, nel 1099, sono ancora i piceni a prevalere, eleggendo abate Berardo III, priore di Offida, di nobilissima famiglia, che lo Scuster dice reatina.

Questo grande abate merita la riconoscenza di tanti paesi piceni che a lui debbono la loro fortuna. Ingrandì Offida e ne fece una città fortificata; ricostruì quasi dalle fondamenta Montedinove e la cinse di mura; comprò e fortificò Arquata e Trisungo; fortificò Montegiorgio e preparò il suo territorio piceno alle lotte future con una chiaroveggenza meravigliosa (14).

Fu un fine diplomatico; nella lotta tra il papa e l’imperatore sembrò più incline verso l’imperatore, ma non si piegò quando Enrico V impose un antipapa: Farfa fu sempre per il legittimo papa Callisto II. Berardo III morì nel 1119.

I marchigiani insistono eleggendo Berardo IV che governa a S. Vittoria per sei anni, mentre a Farfa si eleggono contemporaneamente due abati. Nel 1126 tutti e tre sono invitati da Callisto II ad abdicare e al loro posto venne eletto Adenulfo I (l5). 

Adenulfo appena eletto corre nelle Marche, e per chiudere l’adito ad ogni scisma, si nomina priore di S. Vittoria : abate e priore; i marchigiani si contentano, e per vent’anni vivono calmi e soddisfatti sotto il governo sapiente dell’abate priore. Coi soldati della Badia cacciò gli antipapi Anacleto e Vittore in favore di Eugenio III. Fu eletto cardinale nel 1142 e morì due anni dopo.

Berardo V eletto nel 1152 si preoccupa della indigenza dei monaci di S. Vittoria e assegna loro dei mezzi di sussistenza: assegna tra le altre cose: i denari che si raccolgono nella fiera di S. Maria, (la fiera che ha luogo a S. Vittoria a mezz’Agosto) e tutto quello che spetta al monastero di Farfa per tali mercati, sarà diviso a metà con S. Vittoria, dedotto prima quanto spetta alla Curia. (Fa curia era il governo centrale di Farfa, composto dai consiglieri dell’abate: il consiglio dei ministri di allora); e parimenti sarà dato a S. Vittoria l’olio e il sale che viene raccolto sul mercato di Altidona. ( Si tratta di dazi che si riscuotevano in generi o in denaro ). Una concessione da notare è: « quanto la curia dà ogni anno per gli uomini di Montefalcone e per i soldati di Perticara, sarà d’ora innanzi versato direttamente al monastero di S. Vittoria. Quindi anche i soldati riceveranno lo stipendio da S. Vittoria; non ci manca più niente per essere indipendenti da Farfa.

Due anni dopo, nel 1154, Berardo V viene deposto e non ne sappiamo il perché. Il fatto che il suo successore Rustico (1154 – 1168) tenta di annullare le concessioni fatte da Berardo a S. Vittoria, ci fa pensare che Farfa si era accorta di aver concesso troppo; ma a S. Vittoria c’era un grande priore, il priore Alberto, che aveva amicizie alla corte dell’imperatore, e le concessioni di Berardo V restarono come erano.

Adenulfo II (1168 – 1183) deve restaurare Farfa, quindi ha bisogno di denaro. Come al solito, in questi casi, le somme necessarie si possono raccogliere nel Piceno; pone la sua residenza a S. Vittoria e invita tutti gli affittuari a recarsi a pagare in anticipo il dovuto « a noi nel monastero di S. Vittoria ».

Gli succede Pandolfo (1183 – 1193) che seguitò l’opera sua e, finito di restaurare Farfa coi soldi di S. Vittoria, fu fatto cardinale Presbitero di S. Romana Chiesa.

Così sono due monaci che da S‘. Vittoria passano al cardinalato: Adenulfo I, abate priore; Pandolfo, solo abate.

GUELFI E GHIBELLINI

Poiché nella nostra storia si parla continuamente di lotte tra guelfi e ghibellini, è necessario, per i meno provvisti, un cenno che sia sufficiente a dare una idea chiara su questi due partiti politici che fanno tutta la storia del Medioevo.

Guelfi e ghibellini erano partigiani di due famiglie regnanti tedesche; quindi agli italiani avrebbero dovuto interessare fino a un certo punto; invece no, vediamo gli italiani dividersi in due fazioni e ammazzarsi con molto zelo, per il trionfo dell’una o dell’altra; è perché per gli italiani, quella lotta aveva un significato più reale e pratico.

Dal fatto che i guelfi si appoggiavano al papa e i ghibellini all’Imperatore, molti si sono fatta l’idea che questa fosse una lotta per la supremazia dell’uno o dell’altro; quindi i guelfi avrebbero lottato per la supremazia del papa o per la religione; i ghibellini per la supremazia dell’imperatore contro la Chiesa: non è proprio questo il significato della lotta: essa è una lotta per un assetto sociale.

I poveri, gli artigiani, i piccoli affittuari si appoggiavano al Papa per le loro rivendicazioni sociali, per un autogoverno comunale (guelfi); contro i grossi feudatari e i ricchi egoisti e oppressori, che si appoggiavano all’imperatore (ghibellini), per opporsi alle libertà comunali, nelle quali non ci sarebbero stati più per essi privilegi di casta e di potere. Non è, badate bene, che i ghibellini non volessero il Comune; lo volevano ma a modo loro. Mentre il Comune guelfo doveva essere governo di popolo, senza privilegi per nessuno, il Comune ghibellino era vigilato e quindi dominato da un messo imperiale, che, favorendo i ricchi, rendeva inoperanti le libertà comunali.

Nello stato farfense, come nel comitato fermano, la lotta tra guelfi e ghibellini si svolge ardente sì, ma non come nell’Italia settentrionale, perché qui da noi i grossi signori feudatari erano rari e ben controllati. Di fronte al vescovo di Fermo, o all’abate di S. Vittoria, i piccoli feudatari avevano poco da fare, sia perché la loro potenza era limitatissima, sia perché dovevano allinearsi al trattamento che il vescovo e l’abate usavano verso i loro soggetti.

Questo documento del 1213 ci dice un po’ le relazioni tra l’abate e i signori feudatari: «Questa è la composizione della vertenza fatta tra Gentile abate farfense e gli uomini di S. Vittoria da una parte, e i figli di Milone dall’altra; cioè i figli di Milone concedono ai vassalli che hanno o che avranno in S. Vittoria la franchigia e la libertà che l’abate concede ai suoi vassalli e promettono per sé e per i loro eredi, a lui e agli altri abitanti del paese che essi non contravverranno al breve concesso loro dall’abate, salvi i consueti obblighi nel prender moglie, nel dar marito e nel comprar terre e cavalli(16).

Insomma il feudatario poteva esser signore, ma doveva regolarsi coi vassalli come voleva l’abate; quei figli di Milone saranno stati ghibellini, ma battuti in partenza. 

CAPITOLO II

S. Vittoria nell’età dei Comuni

Parte I

IL COMUNE

La istituzione del Comune è una rivoluzione che mira alla totale trasformazione dell’ordinamento sociale basato sul sistema feudale.

Leggendo certi libri di storia, il lettore si forma l’idea che, a un certo momento esploda da parte del popolo, contro i regnanti e i potenti, una feroce reazione che sfocia nel libero governo comunale; ma i fatti non stanno proprio cosi.

L’istituzione del governo comunale non viene da una decisione improvvisa e arbitraria, ma è l’epilogo di una lunga preparazione; di una lunga esperienza di autoamministrazione popolare. Questa autoamministrazione, formatasi in ogni centro urbano, per la necessità che tutti gli uomini naturalmente sentono di un organismo che regoli le loro relazioni reciproche, diriga, in altre parole, la loro convivenza fu esercitata da uomini scelti che si chiamarono: « Boni Homines ». Essi esercitavano la poca autorità che loro permetteva l’arbitrio del feudatario, o la prepotenza del signore terriero: costituivano quindi un autogoverno popolare molto limitato e imperfetto. Con la istituzione del Comune, questo autogoverno popolare si perfeziona sempre di più, fino a diventare completo, quando acquista anche il diritto di amministrare la giustizia. L’istituzione del Comune, quindi, non è l’inizio dell’autogoverno popolare, ma la perfezione di esso; e per conseguenza è l’inizio della libertà responsabile di una popolazione.

Poiché siamo abituati a dare alla parola « rivoluzione » un significato violento, faremo meglio a chiamare la lotta per il governo comunale: «evoluzione»: una lenta evoluzione di più secoli, che porta al libero governo comunale. Ciò non toglie che esso sia una rivoluzione nelle conseguenze, poiché conduce a una radicale trasformazione nell’assetto sociale.

Le «plebes», composte di gente libera ma povera: di artieri, di piccoli commercianti e anche di professionisti si organizzano in confraternite, sperimentando la grande convenienza della solidarietà. Queste plebi crescono, si organizzane meglio e reagiscono contro l’oppressione del nobile signore di campagna che, nel sistema feudale, controllava tutte le fonti della ricchezza, essendo la terra la principale base dell’economia.

Anche una maggiore comprensione popolare della giustizia e della libertà spinse le plebi verso il governo comunale, poiché fece loro sentire la necessità di rompere quella rete di diritti e di privilegi signorili che condizionavano lo sviluppo della stessa vita civile. Non era più sopportabile che i pedaggi pagati dai commercianti sulle strade e sui ponti, la percentuale che la povera gente pagava per servirsi dei mulini e dei forni tutti in proprietà del signore, andassero totalmente a profitto di lui che non si curava affatto delle necessità della plebe, la quale abitava in raggruppamenti di tuguri, tra vie impraticabili per fango e immondizie.

E la «plebe» si scelse i suoi capi che, a mano, a mano si sostituirono al dominio del feudatario, assorbendone le prerogative e i diritti, in nome e a beneficio della Comunità. Questi capi eletti dal popolo difesero la libertà di ogni cittadino, abolendo la servitù della gleba e la prestazione gratuita di servizi obbligati (17); amministrarono la giustizia secondo leggi Comunali uguali per tutti; provvidero al bene sociale, organizzando la vita cittadina con maggiori comodità e più decoro.

Non si deve però credere che con la istituzione del Comune sparissero immediatamente tutte le inconvenienze del feudalesimo. Anche il Comune è una istituzione umana, non sicuramente perfetta.

Dato il gergo politico odierno, qualche lettore potrebbe esser tentato di chiamare la lotta per le libertà comunali: «lotta di classe». Se ne guardi bene, perché qui non c’è lotta di classe, ma solo lotta all’arbitrio e all’asservimento, per avvicinare le classi sociali e costringerle a collaborare per il bene di tutti. Con l’incastellamento, il nobile signore terriero diventa anche lui «popolo» e completa la Comunità, apportandole sicurezza con le sue ricchezze e con le sue armi; mentre la plebe poteva dare solo lavoro e intelligenza.

Nel Feudo Farfense e nel Piceno in genere i Comuni si formano dietro l’incoraggiamento del Vescovo e dell’Abate. Qui la formazione del Comune avviene con un contratto preciso che stabilisce i diritti e i doveri del Comune verso il governante; e i doveri e i diritti del governante nei riguardi del Comune. Qui il Comune sorge per assicurare alle popolazioni maggior libertà e benessere, in una solidarietà che chiameremo statale, che le garantisca da ogni pericolo di sfruttamento da parte dei potenti.

La Chiesa favorì e sollecitò l’istituzione dei Comuni; il sentimento religioso li accompagnò nella loro crescita, li sorresse nelle loro difficoltà; e non poteva essere altrimenti, perché essi lottavano per la promozione dell’uomo che è figlio di Dio. 

Per il Comune di Santa Vittoria non sappiamo l’anno della sua istituzione, cioè non conosciamo l’atto ufficiale di nascita, consistente in un contratto tra l’Abate di Farfa e i rappresentanti della popolazione, ma sicuramente nel 1220 era già Comune ben organizzato; e nel 1292 ebbe la facoltà di eleggersi liberamente il Podestà: ebbe cioè l’autonomia piena.

L’ABATE MATTEO I E I COMUNI

Nello stato farfense, gli abati incoraggiavano le istituzioni comunali, perché le trovavano molto utili, sia per motivi tecnici, poiché era diventato difficile per essi amministrare queste popolazioni molto aumentate di numero; sia per motivi politici, poiché col libero Comune, la popolazione avrebbe meglio sentito la necessità di difendere i propri diritti e i propri beni, e avrebbe meglio reagito al pericolo di asservimento ghibellino.

Il grande organizzatore dei nostri comuni fu Matteo I, eletto nel 1214. Nel novembre dello stesso anno, si recò a M. Falcone a presiedere alla elezione dei consoli del Comune e a dettare gli statuti comunali (18) .

Con M. Falcone Matteo I fu molto generoso, perché questi primi comuni che si andavano creando dovevano essere esempi incoraggianti per gli altri paesi del dominio. In questi piccoli centri la possibilità di scelta del personale dirigente non era molto vasta e, per conseguenza, anche il coraggio di governarsi da sé era scarso.

Matteo I sembra che tenesse conto di queste difficoltà e incoraggia ad intraprendere il governo comunale, facendo risaltare che ci restava sempre l’autorità abaziale, per proteggere il nuovo Comune ed aiutarlo in ogni bisogno (19).

Matteo I tenne sempre la sua residenza a S. Vittoria perché nel Piceno la situazione politica diventava sempre più critica per l’aumentato pericolo dei ghibellini, rianimati dalla presenza tra loro di Federico II, marchigiano di nascita: pericoloso miscuglio di guerriero e poeta, di cristiano e maomettano, che aspirava ad asservire il papato, combattendolo proprio nelle terre che erano patrimonio di S. Pietro.

Tutta la cura di Matteo I fu di organizzare i Comuni del suo territorio e prepararli per la resistenza alle incursioni ghibelline.

IL NOSTRO COMUNE

Abbiamo affermato che l’istituzione del Comune a S. Vittoria avviene nei primi anni del sec. XIII. In quel tempo la popolazione del paese era organizzata in Confraternite secondo le varie arti e professioni che vi si svolgevano.

A S. Vittoria, come possiamo ricavare dagli Statuti Comunali (Libro I, paragrafo II), esistevano sette Confraternite, codificate in quest’ordine:

1) Confraternita dei Letterati; 2) dei Mercanti; 3) dei Fabbri; 4) dei Cerdones; 5) dei Carpentieri, intagliatori, falegnami; 6) dei Manuali e bifolchi; 7) dei mugnai, tavernieri e fornai.

In quei primi anni, erano i Capitani e i dirigenti delle varie Confraternite a eleggere il MASSARO o Sindaco e i PRIORI che dovevano, per un determinato periodo, dirigere il Comune; assistiti da un «Judex» (giudice) equivalente pressappoco al nostro Segretario comunale, ma con responsabilità molto più ampie.

Ordinariamente il «iudex» era l’esecutore di tutte le ordinanze del consiglio: gli venivano assegnate, secondo il bi-sogno, una o più guardie, che egli pagava col proprio stipendio, e provvedeva all’ordine pubblico, alla nettezza urbana, alla riscossione delle tasse e del dazio, al tribunale dove si discutevano le cause di prima istanza, ecc. Il suo lavoro poteva durare pochi mesi o anche più anni, secondo che aveva saputo soddisfare il Consiglio, o secondo la volontà del governo centrale. Doveva periodicamente render conto al Consiglio del suo operato e poteva anche correre il pericolo di pagare di propria tasca qualche sbaglio o qualche negligenza nell’esecuzione dei decreti comunali.

Col progredire del tempo, l’organizzazione comunale si perfeziona sempre più, e si perfeziona anche il metodo di eleggere le autorità e gli impiegati comunali, ai quali, verso la metà del sec. XIII, si aggiunse, il « Podestà » (20)  .

Il Comune per vivere tranquillo aveva bisogno di difesa, di gente armata quindi, che in caso di necessità fosse in grado di difendere la città, senza aspettare per questo l’esercito dell’abate che poteva anche arrivare troppo tardi; e aveva bisogno di vettovaglie sufficienti per la popolazione, perché in quei tempi la carestia e la fame erano molto frequenti; era quindi necessario avere entro le mura le provviste, perché poteva sempre succedere di trovare, al momento del bisogno, bloccate le vie di comunicazione con altri paesi: occorreva l’autosufficienza. E’ chiaro che questa autosufficienza poteva venire solo dalla campagna: dai piccoli proprietari senza alcuna forza e dai feudatari che vivevano nei loro castelli di campagna, in mezzo ai loro coloni e servi della gleba.

S. Vittoria in Matenano, come capitale dello stato farfense del Piceno, aveva sempre vissuto nella prosperità e nella sicurezza e non aveva mai avuto questi problemi da risolvere.

Cessata la sicurezza di città dell’abate, alla quale convenivano derrate e soldati da ogni parte del dominio, sente di avere un territorio ristretto: a sud,, Montefalcone già libero Comune con confini a pochi passi da S. Vittoria; a nord Sorbelliano o Pieve di S. Marco che allora era sita dove ora è Curetta; verso l’Ete, a pochi passi dalle mura, i Signori di Monterodaldo si erano incastellati a Fermo; un pò più di spazio si aveva verso l’Aso e verso il Tenna dove dominavano alcuni feudatari nelle loro curti e castelli.

Bisognava assicurarsi l’incastellamento di questi signori, per non restare soffocati, in caso che i Comuni vicini arrivassero prima; ed ecco cosa seppe fare il nostro primo sindaco Valente di Malaparte e, dopo di lui, il sindaco Vitale de Zocco.

INCASTELLAMENTO

A causa delle lotte tra Guelfi e Ghibellini non c’era più sicurezza nelle campagne, e i castelli isolati non erano più sufficientemente difesi.

I feudatari sentivano la necessità di lasciare i loro castelli e le loro curti, per chiudersi nei vari paesi che si munivano di mura più o meno turrite, a difesa generale. Questo fenomeno viene chiamato dagli storici: incastellamento.

Bisogna però contenerlo nei giusti limiti, per non esagerare nella sua valutazione storica.

L’incastellamento è semplicemente l’adesione o iscrizione a un Comune. Esso non è una fuga generale dalla campagna, (l’agricoltore marchigiano non ha mai abitato entro le mura di un paese), ma si limita a quei feudatari che, abitando nei loro castelli e nelle loro curti di campagna, per le cresciute agitazioni sociali, non si sentivano più al sicuro da saccheggi.

L’incastellamento non si faceva ad arbitrio di un signore o di un Comune, ma era vigilato e regolato dall’autorità superiore, perché il vescovo o l’abate guardava sempre con preoccupazione il ricco feudatario e ne temeva per la libertà del Comune.

Ed ecco il vescovo di Fermo concedere a Ripatransone di eleggersi i consoli nel 1205, sotto certe condizioni; tra le altre quella di non accogliere nel loro Comune nessun nobile, senza il consenso del vescovo: « esteros vero sine nostra licentia non mittetis: potestatem, neque rettores vel consulem . . . (reg. Ep. p. 184).

«Aliis vero nobilibus ad hoc castrum venire volentibus, cum licentia Episcopi firmani dandi popestatem habeatis (ivi)».

Erano i feudatari che avevano bisogno di mettersi al sicuro entro le mura di un paese; ma siccome i vari Comuni smaniavano di ingrandirsi e di crescere in sicurezza e potenza,

I feudatari ne approfittarono e seppero vender caro il loro incastellamento.

Nel 1223, Gualtiero di Galerano che aveva il suo possedimento e relativo castello verso l’Ete, castello che si chiamava Podium Petrae (oggi Poggio), promette con atto pubblico a Valente di Malaparte sindaco di S. Vittoria, di trasferirsi in paese e di abitarvi per due parti all’anno e di rendere ì suoi vassalli cittadini di S. Vittoria (21).

Appare chiaro il fine di accrescere il numero degli abitanti e assicurare al paese un maggiore vettovagliamento. Ed ecco come Gualtiero vende bene il suo incastellamento, per altro prezioso.

«Quia tu Valens promisisti mihi» dare (ma diciamolo in italiano) undici moggi di terra nel territorio del paese, non tra i migliori né tra i peggiori; un mulino ben attrezzato sul fiume Aso e una casa dentro il paese con tre staia di terra per l’orto.

(Quegli orticelli dentro il paese di S. Vittoria hanno tanti secoli di vita; non fateli sparire).

Nel 1229 sono i signori di un castello detto di Monte Rodaldo, nei pressi dell’attuale camposanto a trattare l’inca-stellamento col sindaco Vitale di Zocco. I detti signori si impegnano ad abitare nel paese, a non riedificare e non far riedificare il castello di Monte Rodaldo.

A uno di questi signori che si chiama Monaldo il sindaco dà la propria casa, cento lire volterrane, un mulino di quelli che erano in costruzione per conto del Comune; tre staia di terra per l’orto e venti salme di vino. All’altro che si chiama Giraldo dà una casa con uno spazio libero intorno; 130 lire volterrane e un mulino; venti salme di vino e tre staia di terra per l’orto. Ai detti signori il sindaco garantisce la sicurezza, la difesa e l’esenzione da ogni obbligo verso il Comune, eccetto il servizio militare « quod facere teneatis ». 

Ci dispiace che qui si apra la via ai privilegi dei nobili, ma era una necessità, particolarmente nel caso dei signori di M. Radaldo, perché il loro incastellamento era per Santa Vittoria una conquista insperata. Essi erano già, nel 1215, incastellati a Fermo pagando tre lire volterrane annue e ricevendo in cambio la promessa di protezione e difesa da parte di Fermo, contro tutti, eccetto il papa e l’imperatore.

Sembra che il castello fu assalito e distrutto da Guglielmo da Massa, del quale il Brancadoro fa questo panegirico: « costui non restava, per mezzo di mandatari feroci, taglieggiare con carichi importabili, ed opprimere i propri vassalli con violenze continue».

I signori di Monterodaldo vedono più opportuno incastellarsi a S. Vittoria, e il sindaco Vitale, vista la convenienza per il Comune, non sta a lesinare in privilegi.

Nello stesso anno 1229, il sindaco Vitale de Zoeco riceve con atto pubblico l’incastellamento dei signori Rinaldo, Esmido e Gentile di Racafano che avevano le loro terre dalla parte dell’Aso. (22)

Essi si impegnano ad abitare nel paese e ad iscrivere nel Comune di S. Vittoria tutti i loro vassalli, alle condizioni colle quali l’abate Gentile aveva ceduto i suoi; si impegnano ad incastellare i loro raccolti e abitare nel paese in tempo di guerra, con cavalli ed armi a loro spese e uno dei fratelli non lascerà il paese finché duri la guerra. Ricevono in cambio dal sindaco una casa con orto ed alcuni moggi di terra in varie contrade del Comune.

Nel 1239, sono i figli di Milone, Giovanni e Leonardo, che già abbiamo incontrato in questa storia, a fare l’incastellamento.

Avevano le loro terre sul versante del Tenna, e forse anche della terra oltre il Tenna. Promettono di incastellare in S. Vittoria i raccolti delle loro terre; di mantenere un cavallo con rispettiva armatura a disposizione del Comune e a non lasciare il Comune in tempo di guerra contro chiunque, eccetto i signori Giovanni e Gilberto di Penna S. Giovanni, contro i quali non debbono essere obbligati a combattere. (23)

Ricevono in cambio 15 lire volterrane per comprare una casa a S. Vittoria e tre per un orto. Casa con orto e cavallo sono la maggiore preoccupazione che appare dai documenti del tempo; senza orto quei signori, abituati alla libertà della campagna, non sapevano vivere; senza cavalli non si poteva sostenere una guerra.

Riceveranno inoltre una data ricompensa per ogni vassallo che incastelleranno a S. Vittoria.

L’incastellamento si faceva col permesso dell’autorità superiore ed è il Cardinal legato per le Marche a convalidare, nel 1248, per S. Vittoria gli incastellamenti avvenuti fino a venti anni addietro (24)  .

E il successivo Cardinal legato, Pietro di S. Giorgio ad Velum aureum, concede a S. Vittoria ampia facoltà di ricevere nel Comune qualsiasi cittadino del territorio abaziale, del territorio fermano o di qualsiasi altra provenienza; e questo per la fedeltà dimostrata sempre dal Comune verso la S. Sede (25).

Dalla lettura di questo capitolo si capisce il perché dei confini di certi paesi e il perché della posizione privilegiata di certe antiche famiglie. Il territorio di un Comune si formava secondo il saper fare dei Consigli Comunali, e di S. Vittoria in M. possiamo dire che i sindaci di quel tempo seppero fare abbastanza bene; seppero fare anche colle autorità superiori, per ottenere privilegi di ogni genere. L’abate favorendo la costituzione dei Comuni, procurava una perdita alla Badia, per cui a parziale mantenimento degli introiti necessari per la vita dei monasteri, si riservava di esigere, dai Comuni stessi lievi tasse che gravavano sui singoli cittadini. Nel 1250 il Cardinal Legato scioglie i cittadini di S. Vittoria dall’obbligo di pagare qualsiasi canone al monastero, riducendo tutto a un solo canone annuo di lire 25 volterrane (26).

Nel 1257 il Rettore Generale della Marca dichiara che, per quanto abbia cercato, non ha trovato documenti che dimostrassero che S. Vittoria avesse mai pagato niente. Perciò, in considerazione della fedeltà di quel Comune, lo dispensa in perpetuo dal pagare qualsiasi fitto, qualsiasi focatico, qualsiasi dazio (27).

E che volete di più?

ODORISIO – L’ABATE PODESTÀ’

(1235- 1238)

Odorisio fu eletto abate nel 1235 e tenne la sua residenza a S. Vittoria, che gli deve la sua importanza politica e soprattutto strategica che essa ebbe nei due secoli seguenti.

Rispettando la libertà del Comune e del suo Consiglio, si fece nominare Podestà, per poter provvedere con più speditezza alla organizzazione della città, che era la città dell’abate e che aveva bisogno di fortificazioni, perché in caso di guerra su di essa facevano affidamento le forze della Badia.

L’abate podestà cominciò la ricostruzione delle mura cittadine; comprò una casa entro lo spazio fortificato e vi tra-sferì gli uffici comunali; edificò la torre a cavallo della porta S. Salvatore, che anche oggi è il miglior ornamento del paese; quando nel 1238 Gregorio IX diede ordine ai Comuni piceni di fortificarsi nel miglior modo, perché prevedeva pericoli da parte dell’imperatore Federico II, l’abate podestà, aveva già preparato a puntino la sua capitale e poteva lasciare al suo successore Matteo II una magnifica fortezza.

E la guerra venne, feroce e disastrosa, che arrossò di sangue le province picene. Nel 123.9 Enzo, figlio di Federico II, tentò l’occupazione di tutto il Piceno; conquistò Osimo e Macerata, ma Treia resisté accanitamente. L’imperatore pensò di aprire un nuovo fronte e inviò un esercito di tedeschi e di saraceni, al comando di Rinaldo da Acquaviva, ad assalire il Presidato di S. Vittoria. Da poco era abate di S. Vittoria Matteo IL Con un buon esercito, guidato da Fildesmido da Mogliano, che dal 1230 era vicario abaziale nelle Marche, egli oppose resistenza agli imperiali concentrando la difesa sui castelli di Force e Montedinove, che ricorderete fortificate dall’abate Berardo III (28).

La resistenza di Force fu breve, sopraffatta da forze superiori, e gli imperiali ebbero via libera verso la capitale del Presidato, rimanendo M. di Nove tagliata fuori. Ai vassalli racchiusi a Monte di Nove Matteo II tenne piangendo un discorso, per esortarli alla speranza e alla fedeltà alla S. Sede; lasciò suo luogotenente il monaco Nicola da Pozzaglia, e corse con Fildesmido in Sabina a provvedere aiuti (29).

 Intanto gli imperiali occuparono Montefalcone e S. Vittoria, che fu sottoposta a forti tributi.

Era il 1240.

L’occupazione del Piceno da parte degli imperiali fu completa con l’occupazione di Fermo e di Ascoli; alla caduta delle quali non fu estraneo il tradimento (30).

DOPO LA GUERRA DEL 1240, ALLEANZA CON FERMO

Federico II, e dopo di lui re Manfredi, occupate le Marche, cercò di organizzare i Comuni a modo suo, controllati da regi podestà che ne limitavano il libero governo, e quindi odiati dal popolo.

La popolazione picena che aveva conosciuto la libertà comunale, non era disposta a tornare indietro; per cui l’opera del legato pontificio nelle Marche, intesa a riportare alla Chiesa questa regione conseguiva buoni risultati.

Ci furono però delle città, come Ascoli e, specialmente Fermo, che intravvidero nel governo podestarile la possibilità di estendere e rafforzare il proprio dominio su altri Comuni minori, e aderirono al re Manfredi. S. Vittoria, di fatto centro anch’essa di una provincia, il territorio farfense, non cambiò la sua politica tradizionale di fedeltà alla S. Sede e aborriva la podesteria regia, per gelosia della propria libertà. Tremò quando nel 1257 Fermo ottenne da Manfredi di occupare

Penna S. Giovanni, M. S. Martino, Smerillo e Montefalcone che facevano parte della sua giurisdizione, però non mancarono per essa riconoscimenti e incoraggiamenti da parte della S. Sede.

Ma la sua posizione non era facile. Il nostro Comune era libero e forte, ma la sua forza era relativa e non poteva permettersi il lusso di non tremare di fronte alla lotta feroce tra il Papa e Manfredi; bisognava stare con gli occhi ben aperti, per vedere in tempo da che parte si abbassava la bilancia e usare tutta la prudenza per non riportarne rotte le costole.

La politica del re che limitava coi suoi podestà l’autorità dei consigli comunali, era favorevole alle aspirazioni am-biziose di Fermo; l’ostacolo e il pericolo maggiore veniva da S. Vittoria che non voleva accettare il podestà che il re aveva imposto, nella persona di Falerone da Falerone. Era necessario che S. Vittoria acconsentisse al regio podestà, per togliere al guelfismo la base di ogni possibile rivalsa.

Siccome era da scartare la forza, il sindaco di Fermo ricorre alla più fine diplomazia.

Il sindaco di Fermo, Gentile di Marco di Stefano, promette a Pietro di Compagnone, sindaco di S. Vittoria, il risarcimento dei danni, qualora il podestà Falerone da Falerone ne provocasse nell’anno corrente che esso è podestà (siamo in aprile 1261) e di quei danni che a S. Vittoria provenissero da qualsiasi ministro di Manfredi negli anni seguenti.

« S. Vittoria non sarà nemmeno tenuta a pagare lo stipendio al signor Falerone. Poi i nove somari che portavano il sale a S. Vittoria, che alcuni cittadini fermani hanno ingiustamente tempo addietro requisito, saranno subito restituiti (31). 

 Il sindaco di S. Vittoria accettò, o finse di accettare, non per la diplomazia del sindaco di Fermo, ma perché aveva intravvisto un. nuovo pericolo che si avvicinava. Nel fermano si era formata una lega ghibellina che toccava molti paesi e alla quale sembrava che partecipasse anche l’arcivescovo Gerardo. Alla lega partecipavano: Guglielmo da Massa, Ruggero da Falerone, Guido da S. Angelo, Fildesmido da M. Verde, Claudio da Petriolo, Anselmo da Smerillo, Gualtiero da Loro, Andronico da Montevidone.

Non era il caso di provocare disastri; era meglio tentare un modo di quieto vivere e bisognava salvarsi.

Il sindaco di S. Vittoria forse non crede a nessuna delle promesse del sindaco di Fermo, ma gli conveniva cedere per il bene del suo popolo e, nella chiesa di S. Martino in Fermo, si firmò un patto di alleanza tra le due città: in caso di guerra, Fermo assisterà S. Vittoria con due cavalli e duecento soldati; si farà guerra e pace di comune accordo (32).

ROTTURA

Son passati appena quattro mesi, siamo al 12 luglio 1261, e Lico di Mastro Alberto, sindaco di S. Vittoria, si presenta a Fermo con un incarico speciale del suo consiglio, per chiedere a quel Comune di mantenere i patti stipulati lo scorso aprile. Il Comune di S. Vittoria si sarà indotto a questa delibera in seguito alle pressanti esortazioni del vicario papale di allora Guido di Anastasio, che raccomandava ai Comuni marchigiani, e particolarmente a S. Vittoria di separarsi da Fermo; ma anche senza queste pressioni, c’erano motivi sufficienti per rompere il trattato.

     Il consiglio comunale di Fermo si aduna « sono Tubae et sono campanae et voce preconis more solito » sotto la presidenza di Busone da Gubbio, podestà. Lieo di mastro Alberto espone i fatti: il podestà Falerone voleva lo stipendio e molestava la popolazione; il regio commissario di Ancona sembrava che ignorasse i privilegi antichi di S. Vittoria ed esigeva i tributi; il Comune di S. Vittoria chiede a Fermo che la difenda da costoro, secondo i patti (33).

Ma che cosa poteva fare Fermo per S. Vittoria in questo caso?

Il trattato tra le due città -ci appare sempre più un meschino giochetto di Fermo per assoggettare S. Vittoria alla sua politica espansionistica, nel quale era caduto o aveva finto di cadere Pietro di Compagnone, per evitare al suo Comune mali peggiori. Non potremmo affermare che la politica di S. Vittoria in questa occasione fosse stata chiara, ma era politica del tornaconto che è buona politica; d’altra parte non possiamo nemmeno condannare la rottura del trattato da parte di S. Vittoria, perché poggiata su condizioni pattuite e non osservate.

A questo punto ci viene spontanea la domanda: l’abate di Farfa che parte ha in questo lavorio politico della sua capitale picena? Dopo la guerra del 1240 le cose erano molto cambiate. Per il governo pontificio lo Stato Farfense era diventato un incomodo, e in questi venti anni aveva cercato ogni occasione per ostacolare il governo politico degli abati, con la mira di assorbirlo e così dare allo stato pontificio una direzione più unitaria. Tutto si concluse col privilegio di Urbano IV, nel 1261.

IL PRIVILEGIO DI URBANO IV

La diocesis nullius di Farfa (diocesi di nessun vescovo) con un vicario a S. Vittoria, che diviene giuridica col privi-legio di Urbano IV, di fatto esisteva già da almeno due secoli. Nel territorio della badia, la giurisdizione su tutte le chiese e su tutti i sacerdoti con cura d’anime era esercitata dall’abate, e per i territori farfensi del Piceno, la giurisdizione era a S. Vittoria: o esercitata dall’abate quando vi risiedeva o dal priore che ne faceva le veci.

L’abate e il priore, che non erano vescovi, chiamavano nelle loro chiese il vescovo che volevano, per esercitarvi il ministero di quei sacramenti che essi non potevano amministrare. Ma erano gelosi di questa autorità e non ammettevano eccezioni.

Il privilegio di Urbano IV è una bolla che dà valore giuridico a questa indipendenza dei monasteri farfensi da qualsiasi autorità vescovile e garantisce ed essi il tranquillo possesso dei beni che possedevano e che avrebbero potuto acquistare.

Era veramente un privilegio la bolla di Urbano IV? Se fosse stato un privilegio, Farfa l’avrebbe ottenuto molto prima; era sempre però un documento vantaggioso, poiché, mentre segna la fine di uno Stato Farfense, diventato anacronistico, riconosce alla Badia una posizione giuridica molto favorevole.

I tempi erano cambiati. I Comuni si consolidavano, lo Stato Pontificio prendeva sempre più consistenza; la potenza dell’imperatore sull’Italia era ridotta al minimo, a Farfa quindi non conveniva più seguitare a chiamarsi Imperiale Badia. Vescovi e Signori, approfittando della debolezza dell’abate, si facevano padroni delle terre del dominio, come fossero di nessuno; così non poteva durare.

Per salvare il salvabile, Farfa chiede di potersi mettere sotto la protezione di Roma, e questa protezione le procura il privilegio di Urbano IV che le garantisce il possesso dei beni che ancora possedeva; le riconosce la diocesis nullius che la esenta dalla giurisdizione dei vescovi; ma la priva di ogni autorità civile sullo Stato Farfense, che passa a far parte dello stato pontificio. Dal privilegio di Urbano IV diventa giuridica anche la giurisdizione dei Vicari dell’Abate nel territorio farfense piceno, che ordinariamente erano i Priori di S. Vittoria. Crebbe tanto questa autorità con l’andar del tempo, fino a diventare una diocesi a sé, staccata da Farfa e col proprio Cardinal Protettore, e durò fino al secolo XVII (34).

MORICO DI MONTE

Tra tanti personaggi di questo periodo non possiamo dimenticare Morico di Monte. Priore di S. Vittoria dal 1257 al 1275 quando fu eletto abate di Farfa.

Era di S. Vittoria; intelligente, energico, dinamico; univa alle zelo di monaco, il grande attaccamento alla terra di origine, comune a tutti i suoi conterranei. Difese con energia e con successo i diritti di S. Vittoria, sia contro il vescovo di Fermo, sia contro il clero di Montelparo e dei paesi soggetti alla sua giurisdizione, diventato abate, non dimenticò di essere vittoriese. Fu buon mecenate. Un povero studente, Giacomo di Giovanni, chiede all’abate un aiuto per poter continuare i suoi studi. L’abate Morico gli assegna la prebenda della chiesa di S. Cecilia di M. Falcone in usufrutto; di essa non dovrà render conto a nessuno, fuorché all’abate (35).

Morico di Monte si fece molti nemici, sia a S. Vittoria, sia a Farfa, dove risiedeva da abate, e fece una brutta fine: morì avvelenato nel 1285.

CAPITOLO III

S. VITTORIA NELL’ETA’ DEI COMUNI

PARTE II

 PRESIDATO FARFENSE DI S. VITTORIA

Ci sono degli scrittori i quali, forse con poca persuasione, pretendono di saper tutto; poi dal loro linguaggio ti accorgi che sanno poco e fanno molte chiacchiere e tanta confusione.

Riguardo al « Presidato », io debbo umilmente confessare di saperne poco: solo quello che i documenti mi suggeriscono, ma questi non sono troppi.

10 penso che il Presidato sia di istituzione farfense, ma non ho documenti per provarlo; e se la mia affermazione va bene per il Presidato di S. Vittoria, non altrettanto conviene agli altri due: Presidato di Camerino e di S. Lorenzo in Campo, dove i Farfensi erano molto meno potenti.

Il   Card. Albornoz nelle sue « Constitutiones » codifica tre Presidati, ma non li crea lui, li trova già operanti, e « ab antiquo ». Allora azzardo un’altra supposizione che pure non sono in grado di documentare. Dopo il Trattato di Worms del 1122, quando finì la lotta per le « investiture » e il Papa ebbe la possibilità di ingerirsi maggiormente negli affari dello Stato Farfense, forse ci fu per la Marca un nuovo ordinamento giurisdizionale, e fu divisa in tre Presidati: Presidato Farfense di S. Vittoria già esistente; Presidato di Camerino e di S. Lorenzo in Campo, di nuova istituzione.

Certo è che il Card. Albornoz trova la Marca, nel 1357, divisa in tre grandi circoscrizioni giurisdizionali: Presidato Farfense, con sede a S. Vittoria in Matenano, dove il Preside aveva il suo tribunale di appello per i Comuni del territorio di Ascoli e di Fermo, che comprendeva pressappoco il territorio dell’at-tuale Provincia di Ascoli, con le città di Fermo, Ascoli, Offida, Ripatransone ecc.; il Presidato di Camerino con sede in quella città che era la seconda città della Marca per grandezza, che comprendeva il territorio tra il Chienti e l’Esino, dal quale dipendevano le città di Osimo, Recanati, Fabriano ecc.; il Presidato di S. Lorenzo in Campo (Pesaro), che comprendeva il territorio dall’Esino al Foglia, con le città di Iesi, Senigallia, Fano, Pesaro, Urbino ecc. (36).

Il Preside o Giudice del Presidato aveva piena autorità giuridica in tutta la sua circoscrizione; a lui andavano in appello le cause discusse nei tribunali dai giudici comunali e definiva ogni controversia legale con la stessa autorità del Rettore della Marca (37).

A differenza però di questi, non sembra che il Preside avesse alcuna autorità in campo politico, o militare.

Le Costituzioni Egidiane cambiano completamente questo ordinamento regionale.

Benché allora fosse Fermo la città principale della Marca, il Cardinale scelse Ancona come sede di un governo regionale; composto da un Rettore nominato direttamente dal Pontefice; un Tesoriere pure nominato dal Pontefice con l’incarico di riscuotere le imposte; un Maresciallo e quattro Giudici. Questo era il Tribunale Superiore per la Regione (38).

A questo Governo Regionale facevano capo gli Stati o Province. Esse erano: Ascoli, Fermo, Macerata, Recanati, Ancona, Iesi, Cagli, Pesaro, Urbino, Santagata Feltria (39). Rimanevano poi i tre Presidati, ma ridimensionati nella loro estensione territoriale e nei loro poteri: Presidato Farfense di S. Vittoria; Presidato di Camerino; Presidato di S. Lorenzo in Campo (40).

A ogni città capoluogo di Stato faceva capo un numero più o meno grande di Comuni minori che subivano l’influenza di esse. Il Cardinale strinse maggiormente i vincoli tra questi Comuni e le loro città, esigendo che essi prestassero giuramento di fedeltà e pagassero un tributo a quella, come a capitali (41) .

Non si abolivano i Comuni, ma si mettevano sotto il controllo della città capitale di Stato. In questa, oltre il Consiglio Comunale che governava la città, c’era un Consiglio di Stato, che vigilava sui Comuni del contado e vi eleggeva i Podestà (42) .

Per i Presidati era diverso: facevano parte dei Presidati i Comuni che non erano inclusi negli Stati, ma dipendevano direttamente dalla S. Sede. Nel Presidato non c’era il Consiglio di Stato: il Giudice del Presidato riceveva a nome della S. Sede il giuramento di fedeltà dei Comuni dipendenti; a lui andavano in appello le cause discusse nei tribunali comunali, ma non si intrometteva nel governo dei Comuni, i quali erano amministrati dai loro Consigli Comunali e giudicati dai loro Podestà, liberamente eletti.

Il nuovo Presidato di S. Vittoria comprendeva i Comuni di un vasto territorio tra lo Stato di Ascoli e quello di Fermo. I suoi maggiori Comuni erano: Amandola, Force, Castignano, Offida, Ripatransone e, per un certo periodo, Montefiore Aso e Monterubbiano.

Mentre i Presidati di Camerino e S. Lorenzo in Campo cessarono presto, assorbiti da Province confinanti o sbriciolandosi in piccole signorie, il Presidato di S. Vittoria resistette fino al sec. XVI. Il Colucci (XXXI p. 91 ) riporta un brano di Gaspare Gaballino il quale, commentando le Costituzioni Egidiane dice: «Hodie (oggi) 1576, queste Costituzioni cessano, perché non c’è più nessun Presidato nella regione. Era rimasto solo il Presidato Farfense, ma anche quello è sparito».

Nel 1586, Sisto V volle innalzare la sua città di Montalto a sede vescovile e sede di provincia, risuscitando il Presidato: il Presidato di Montalto, con un Preside che avesse giurisdizione su tutto il territorio dell’estinto Farfense, alle dirette dipendenze della S. Sede. Questo secondo Presidato durò fino all’unità d’Italia (43)  .

IL PODESTÀ

«Potestas» era il funzionario che impersonava l’autorità giuridica e l’autorità militare.

L’ufficio del Podestà incomincia col governo comunale; mentre prima la stessa mansione era esercitata dal « Comes » (conte) nelle civitates, e dal « Vicecomes » nei centri minori.

Inizialmente il Podestà era mandato nei vari Comuni dal governo centrale, per amministrarvi la giustizia e per garantirne la sicurezza e la fedeltà allo Stato.

Alla fine del secolo XIII cresce nei Comuni l’attaccamento alla libertà e sempre più s’impone la dottrina che l’autorità è nel popolo; e tanti Consigli dei maggiori Comuni cominciarono a rivendicare il diritto di eleggersi il Podestà (Fermo 1189 – S. Vittoria 1292) : non più « Potestas regia », ma Potestas Populi »; e il Podestà non è più il controllore del Comune, ma un impiegato controllato dal Comune; con l’incarico di amministrare la giustizia, e provvedere all’armamento e alla sicurezza del Comune.

Con le Costituzioni Egidiane del 1357, come vedremo, il Podestà resta elettivo nei Comuni dei Presidati, mentre in quelli degli Stati o Province viene inviato nei vari Comuni dipendenti dal Consiglio di Stato di ogni Provincia.

Nel 1289 il Comune di S. Vittoria ebbe un Podestà: «Leonardus de Archionibus, civis Romanus», che gli procurò seri grattacapi. Costui era stato mandato a S. Vittoria dal Rettore della Marca Giovanni Colonna. Il Comune non fece con lui nessun patto per lo stipendio, poiché usava dare al Podestà 50 lire ravennati annue; ma durante il secondo anno del suo mandato, Leonardo ne chiede duecento: cento per l’anno trascorso e cento per l’anno corrente; e cita il Comune di S. Vittoria al tribunale del Rettore (44).

Mentre la causa era in mano al giudice generale Giovanni da Spoleto, e il Comune aveva portato documenti e testi per la difesa, il giudice comandò che si presentasse il sindaco del paese con altri sei cittadini tra i più ricchi. Il Comune scelse gli uomini (fideiussori) e ordinò che si presentassero al Rettore generale, ma prima che arrivassero alla presenza di lui. furono messi in carcere e costretti a sborsare cento lire al podestà per l’anno antecedente e minacciati di dover restare in carcere, finché non avessero pagato le altre cento lire per l’anno corrente, (qualche volta la cosidetta giustizia era fatta così ).

S. Vittoria ricorse al papa Niccolò IV, che era di Ascoli, il quale con molta delicatezza avverte del fatto il Rettore e lo prega di far giustizia con sollecitudine e di mettere le cose a posto. Il risultato fu che, dopo un anno, il 4 ottobre, il povero sindaco con i sei uomini erano ancora tenuti nella casa comunale di Montolmo, dove dovevano pagare 21 soldi ravennati per vitto e alloggio; pena 500 lire ciascuno se si fossero allontanati. Il papa Niccolò IV scrisse di nuovo al rettore della Marca che non era più Giovanni, ma Agapito Colonna: « De tam nefario processu, non sine admiratione turbati . . . districte pracipiendo mandamus », cioè, ti ordiniamo precisamente di impedire simili procedure, e liberare immediatamente il sindaco e i sei uomini senza pretendere niente da loro. E lo minaccia: fa in modo che in seguito sii degno di lode (45).

Da quanto sopra, potete capire in quale agitazione minacciosa si trovasse il popolo di S. Vittoria, e come nessun altro si azzardasse di presentarsi in Comune coll’ufficio di podestà; onde l’anno seguente 1292, Niccolò IV propose una soluzione onorevole. «Dilectis filiis, Consilio et comuni castri S. Vittoriae Apostolicam Benedictionem. . . » (46)   .

« Conoscendo la vostra fedeltà alla S. Sede e finché questa fedeltà conserverete, avete facoltà irrevocabile di eleggervi tra il popolo cristiano il podestà e gli ufficiali che vorrete. Essi avranno facoltà di conoscere tutto nella vostra terra e di esercitar la giustizia in criminalibus et civilibus, fuorché nel delitto di lesa maestà e di eretica pravità. Potranno giudicare anche l’omicidio, l’adulterio, il raptus viginum, l’incendio doloso e il furto, anche se il furto comporti pena di mutilazione e di morte … In cambio pagherete alla camera apostolica (erario) 81 lire ravennati ogni anno, entro l’ottava di Pasqua ».

La libertà di scegliersi il podestà costava cara, perché ol¬tre alle 81 lire all’erario, si doveva pagare il podestà; ma per il Comune di S. Vittoria la libertà non costava mai troppo.

E l’anno stesso, il 4 maggio 1292, il Comune riceve quietanza per le 81 lire ravennati pagate regolarmente, per mano del sindaco Andrea Gentile (47).

LA STRAGE DI SORBELLIANO

Nel 1272, un gruppo di armati di S. Vittoria invasero la Pieve di S. Marco (Sorbelliano) e la saccheggiarono, bastonando e ferendo quelli che facevano resistenza, compreso il Pievano Grazia, di quel paese. Rovinarono case ed anche la pievania con le altre chiese del territorio, che erano sotto la giurisdizione del vescovo d: Fermo, poiché Sorbelliano non faceva parte del Presidato.

Questa ferocia nei cittadini di S. Vittoria è una novità che ci sbalordisce, perché S. Vittoria era una nobile e pacifica città, che aveva sempre preferito alla guerra l’azione diplomatica; e non conosciamo i motivi di questo vandalismo, che pure dovevano esserci e gravi. Forse in passato c’erano state provocazioni o ruberie da parte dei Sorbellianesi; o forse alla base della questione c’era il Castellare di S. Gualtiero. Questa specie di Castello, con l’annessa chiesa di S. Gualtiero, molto venerato in quei tempi, ed anche oggi, era nella valle del Tenna, proprio ai confini dei due paesi ed era agognato da tutti e due. Non c’era dubbio che appartenesse a S. Vittoria, perché ogni anno il sindaco della città rinnovava la presa di possesso del castellare (48); ma sembra che quell’anno i sorbellianesi avessero tentato (od anche seguito) di asportare le Reliquie del Santo, sicuramente confidando nel vescovo, che allora si era riconciliato col papa, e che poteva così ripagare il priore Morico per l’incastellamento di S. Maria della Valle, avvenuta pochi anni prima. Chi sa? Forse S. Vittoria credette che fosse venuta l’ora buona per farla finita coi fastidi del vescovo e con le intimidazioni dei fermani, ora che Manfredi era morto e la lega dei ghibellini fermani non metteva più paura. Sorbeliano era poi sempre una spina fastidiosa per S. Vittoria: politicamente, perché era un inciampo alla sua espansione territoriale; religiosamente perché il Pievano possedeva in S. Vittoria una chiesa e una casa: cose che innervosivano in quei tempi e si sopportavano male.

Ma fu un errore funesto; sia perché la violenza è sempre un errore, sia perché toccava gli interessi del Vescovo, col quale bisognava essere molto guardinghi, o almeno più forti. Il rettore della Marca poi, che aveva sempre colmato di benefici S. Vittoria, non poteva appoggiarla in questo caso, perché non poteva ammettere violenza di sorta tra un Comune e l’altro.

Il vescovo Gerardo ebbe il manico del coltello dalla sua parte e possiamo immaginare come si preparò, leccandosi i baffi, a farla pagar cara a quel Comune presuntuoso, che era sempre stato la spina più dolorosa del suo episcopato, o forse una delle più dolorose, perché di spine se ne era procurate tante. Il Comune di S. Vittoria fu citato al tribunale di Montolmo. Il consiglio comunale incaricò il sindaco Pietro Bonaccursi, per rispondere alla causa e trattare con pieni poteri per l’accomodamento col Vescovo (49).

 L’accordo col vescovo fu un disastro umiliante. La condanna per S. Vittoria fu:

–  pagare il primo settembre (allora era il 16 giugno 1272) cento lire volterrane al Vescovo; dare a Grazia, Pievano di S. Marco, come rappresentante del suo popolo, 12 lire in moneta e 10 lire « in ligna coppos et lapides » per completare la casa e l’oratorio della Pieve posto nello stesso castello di S. Vittoria; e (la cosa più umiliante) promettere al vescovo di dare per un anno, dalla resta di S. Maria, fino alla stessa festa dell’anno venturo, la podesteria del Comune al venerabile ( ! ) cardinale Matteo Rubeo, con un salario di 60 lire in moneta corrente. Chi era costui? Per valutarlo ci basta sapere solo che era amico di Gerardo. Fa un pò il conto; lettore, perché questo non è il mio forte, a quanti milioni corrisponderebbe, riportando quelle lire al valore della moneta odierna; e questo per poche bastonate distribuite a sproposito. Eh! la politica bisogna saperla fare.

I BANDITI

Una delle conseguenze delle lotte tra guelfi e ghibellini era il bando che si dava ai più pericolosi soggetti della fazione perdente. Il bando comportava spesso la confisca dei beni o parte di essi. Col consolidarsi nelle Marche della parte guelfa, crebbero questi «banditi», o colpiti dal bando. Essi, se volevano evitare il rigore dei tribunali, non sempre modelli di giustizia, erano costretti a lasciare tutto e rifugiarsi presso qualche potente Comune ghibellino: molti di essi però si nascondevano non lontano dai loro possedimenti, aspettando qualche mutamento politico che desse loro la possibilità di tornare a galla. Intanto per vivere era necessario arrangiarsi e, dove trovavano opposizioni, erano costretti anche ad usare la forza per togliere quello di cui avevano bisogno; da ciò il nome « bandito » ha preso il significato popolare che ha oggi.

Il popolo di S. Vittoria non amava queste violenze politiche e non temeva i banditi; per quanto la riguardava, non aveva dato fastidio a nessun signore e non ne aveva ricevuti. Presentandosi il caso che uno di essi, il signor Arpinello, (un signore di Falerone che era bandito da tutta la Marca) si rifugiasse provvisoriamente a S. Vittoria, nessuno si curò di catturarlo e consegnarlo alle autorità competenti, come volevano i decreti del Rettore Generale; anzi lo consigliarono e lo aiutarono nella fuga. Inoltre cercarono di creare ostacoli a Leone de Setia « officialem curiae » mandato anche per eseguire sequestri nel territorio di S. Vittoria. Da qui, il 9 luglio 1298, la citazione del Comune avanti al vicario generale delle Marche che era il « nobilis vir D. David de Ferentino, miles ».

Il buon cuore del popolo costò al Comune 30 fiorini d’oro, che furono consegnati da Tommaso di Monte e Francesco di Ugolino da S. Vittoria, ricevendo in cambio la cancellazione dal libro della curia di tutte le pene, i bandi e le condanne riguardanti i cittadini di S. Vittoria fino a quel giorno (50).

S. VITTORIA NEL SECOLO XIV

     La lotta tra guelfi e ghibellini, alla quale anche S. Vittoria aveva dovuto partecipare, non aveva turbato la pace interna della città. S. Vittoria fu sempre guelfa, nel senso che fu sempre fedele alla Chiesa e gelosa delle sue libertà comunali: ma in città non esistevano partiti e era proibito per legge parteggiare per qualcuno. Ecco l’articolo di legge: «… nemo audeat vel presumat nominare vel esclamare in nostra terra vel eius territorio ad eius protexionem . . . aliquem dominum, vel comune, seu aliquam partem guelfam seu ghibellinam …» pena 200 denari di multa (51).

Non ci furono mai lotte civili, vi regnò sempre piena concordia tra tutti i cittadini. Questo era un esempio raro in quei tempi, per una città di rilievo come S. Vittoria, che le procurò floridezza, stima e privilegi, da renderla meta deside¬rata per tanti che volevano vivere in pace.

I pochi guai che abbiamo ricordato furono provocati a S. Vittoria da estranei, ed essa cercò ed ottenere il privilegio di scegliersi da sé come abbiamo visto, i propri podestà, i propri giudici e governatori; il che le dava una autonomia completa. Questa indipendenza e la meravigliosa tolleranza politica che vi regnava, mentre davano alle autorità centrali ogni affidamento, ispiravano anche un grande senso di fiducia agli espatriati e ai fuggiaschi di ogni colore politico, che spesso si rifugiavano a S. Vittoria. Essi avevano due mesi di tempo per diventare cittadini di questo Comune, dove potevano viver tranquilli, secondo il privilegio ottenuto nel 1250« Sub libertate et capitularibus vestris », siano essi nobili o ignobili che domandino di vivere « sub franchitiam vestram » Però c’erano delle condizioni e delle restrizioni rigorose nell’ammettere estranei in città, sempre nell’intento di salvaguardare la pace interna, che i vittoriesi consideravano il bene supremo.

Non si doveva ammettere nessun girovago, nessun bandito di qualsiasi Comune e per qualsiasi motivo; nessun espulso dalla sua città; nessun traditore e omicida; nessun eretico e finalmente nessuno di casata nobile (S. vittoria non aveva bisogno di signori, e nessuno di essi la dominò mai).

Chi era ricevuto in città aveva due mesi per iscriversi in Comune, promettendo di uniformarsi in tutto agli usi locali. Passati i due mesi, o si impegnava ad essere cittadino di S. Vit-toria, o veniva messo alla porta. (Statuti rubr. XXVII).

Se durante il secolo XIII era la gente dei paesi vicini, povera gente, ad accorrere a S. Vittoria, ora sono anche persona¬lità: fuoriusciti di altre città per lotte politiche; i quali si rifugiavano a S. Vittoria portando ricchezze e idealità.

A questi profughi di classe sociale elevata aggiungiamo i professionisti impiegati nella città come capoluogo del Presidato; il bancum iuris: giudici, avvocati, notai, procuratori; il Priore vicario dell’abate, qualche medico, qualche maestro delle scuole del monastero; un numero sufficiente di persone colte, per dare alla città un’aria distinta di signorilità.

Tra i profughi ricoverati a S. Vittoria negli ultimi anni del secolo XIII c’erano molti fuoriusciti politici, quindi cavalieri e uomini d’arme; il che spiega la fiducia che, come vedremo, i papi riponevano nelle armi di S. Vittoria.

Questi cavalieri si esibivano nei tornei, che si svolgevano durante le solennità e col loro esempio incoraggiavano la gioventù nell’esercizio delle armi; e avranno sicuramente tenuto delle piccole scuole militari.

DURANTE IL PERIODO DI AVIGNONE

Nel 1308 eletto il papa francese Clemente V, pose la Sede Pontificia in Avignone, dove rimase per circa 70 anni. Le Marche erano governate da un rappresentante del papa, col titolo di Rettore della Marca d’Ancona. Fu questo un periodo di difficoltà e d’incertezze per tutta l’Italia, ma fu anche per S. Vittoria l’inizio di due secoli di vita gloriosa.

Nel 1314, il rettore Vitale Brost volle domare la ribellione di Fano. Ordinò al Comune di S. Vittoria di inviare le sue forze armate composte di fanti e cavalieri, affinché si unissero all’esercito del Rettore. Il Comune finge di non sentire e cerca di guadagnar tempo, perché quella guerra non lo interessava affatto; ma arriva la multa di 1500 marche d’argento per la disubbidienza, e l’esercito di S. Vittoria deve partire subito per Fano, dove resta «per mensem et ultra». Intanto il Podestà si reca dal Rettore per pregarlo che sia tolta la multa, trovando scuse per il ritardo verificatosi nell’inviare gli armati.

Il Rettore « quia constat comune castri predicti S. Vittoriae licer post condemnationem, immediate misisse suos milites », assolve S. Vittoria da ogni pena e da ogni multa (52).

Ma l’anno dopo, il Comune rifiuta di mandare i suoi ca¬valieri a presidiare Macerata. Ecchè! Il Rettore voleva far tutto coi soldati di S. Vittoria? Ed ecco una nuova multa di mille marche d’argento che dietro preghiera del « sapientem virum » Tommaso di Giovanni da S. Vittoria, il Rettore riduce a 20 fiorini d’oro (che era pure una bella sommetta (53).

Da tutte queste multe inflitte per costringere l’esercito di S. Vittoria a combattere contro le città, che si ribellavano alla S. Sede, appare chiaro che S.Vittoria non voleva assolutamente la guerra, però, se costretta, la guerra la sapeva fare.

E in tempi tanto difficili per la Chiesa, i rettori della Marca capivano che quella cittadina di eroi, che avevano sempre saputo morire per far onore al giuramento dato, bisognava incoraggiarla ed onorarla, perché sul suo piccolo esercito si poteva contare in ogni bisogno. Ed ecco nel 1320 l’elogio del papa Giovanni XXII (54).

« Giovanni servo dei servi di Dio ai diletti figli, popolo e comune di S. Vittoria, fedeli alla Chiesa Romana, salute ecc. Non è ignota a nessuno la fermezza della vostra fedeltà che sempre conservate verso di noi e verso la Chiesa romana vostra madre »,

« Abbiamo infatti udito, figlioli, che per conservare integra questa fedeltà al nostro diletto figlio Amelio nostro cappellano, Rettore della Marca Anconitana, avete fatto fronte ai ribelli nostri e della Chiesa con fermezza e costanza a costo di perdite di vite umane, perdite di beni, gravi spese e sofferenze. Né ignoriamo che, benché la crudele persecuzione dei ribelli si sia accanita contro di voi, non avete mai piegato a sinistra, come lo stesso Rettore per questo vi dà grande lode… ».

« Giustamente dunque vi siete meritata la benevolenza nostra e della Chiesa e vi siete meritato un posto distinto di favore e di grazia nel suo grembo, posto distinto che noi vi offriamo tanto più volentieri, quanto più riteniamo che voi avete reso a noi e alla Chiesa grande e devoto servizio . . . ».

« Preghiamo ed esortiamo con paterno affetto il vostro Comune che assista con forza e coraggio il Rettore, affrontando costantemente i ribelli e perseverando nella fedeltà, come figli di benedizione e di grazia. Avignone 22 ott. 1320 ».

 Sembra che le lodi e l’incoraggiamento del papa producessero il loro effetto, perché troviamo i cavalieri di S. Vittoria in ogni impresa del tempo, sempre a favore della S. Sede; forse quei cavalieri, costretti a far tante battaglie, ci avevano preso gusto. Li troviamo anche a Bologna e nelle Romagne contro i ghibellini di quelle parti che rialzavano la testa alla venuta in Italia di Ludovico il Bavaro, al quale si era subito unito il signore di Milano, Visconti.

In quella lotta non ci servirono multe per invitare S. Vittoria a combattere: odiava i ghibellini e li combatteva volentieri, perché amava la libertà.

Anche per un altro motivo viene lodata la fedeltà di S. Vittoria. Nel 1326, Ludovico il Bavaro e i signori di Roma eleggono in piazza S. Pietro un antipapa Niccolò V; ma Farfa e S. Vittoria restano fedeli al papa legittimo e si oppongono con ogni mezzo ai fautori dell’antipapa. Per queste nuove benemerenze verso la S. Sede, lo stesso Pontefice Giovanni XXII invia un’altra lettera di elogio e di ringraziamento al Comune di S. Vittoria nel 1334, lettera che si può considerare l’estremo saluto del Pontefice alla città che tanto aveva apprezzato (55).

Chi conosce oggi il paese di S. Vittoria si meraviglierà un pò leggendo queste pagine di storia poco nota e penserà che l’amor di patria potrebbe avermi esaltato e che io abbia potuto esagerare le cose: ci sono i documenti autentici e molto chiari che il lettore potrà controllare e rendersi conto che, se manchevolezza c’è, è nella mia poca capacità a far risaltare in modo degno la storia meravigliosa della nostra cittadina nel secolo XIV.

CAPITOLO QUARTO

LE SIGNORIE

LE SIGNORIE

Una delle conseguenze della residenza dei papi in Avignone furono le Signorie. Per signoria intendiamo il governo dispotico di una famiglia potente su uno o più Comuni.

La signoria sorgeva per lo più dalla prepotente occupazione del potere, da parte di una famiglia ricca; o per infeudazione da parte dell’imperatore o di altro regnante, allo scopo di compensare qualche suddito di un notevole servizio; o anche, qualche volta, per volontà popolare nei riguardi di un qualche potente benefico, che, preso il governo di una città per guidarla bene, si trasformava poi in dittatore.

Quasi sempre colla signoria seguitava ad esistere il Comune coi suoi consoli, consiglieri e statuti comunali; i quali seguitavano a portare il peso del governo comunale: riscuotere le tasse e pagare le spese, compreso il tributo al signore, ma chi faceva amministrare la giustizia a modo suo era il signore, chi dettava legge era lui che aveva la forza in mano: il Comune restava, ma svuotato del suo significato; la libertà diventava tragica farsa.

Non vogliamo affermare che la lontananza dei papi abbia provocato tutte le signorie in Italia; nell’Italia settentrionale molte signorie esistevano già; nello stato della Chiesa però, mentre la presenza del Pontefice garantiva la libertà comu¬nale, la sua lontananza dava animo ai prepotenti e ai signoretti locali per farsi avanti e tentare l’avventura.

     Verso la metà del secolo XIV nelle Marche è un pullulare di signori ricchi di prepotenza, di ambizioni, di feroci propositi, ma più ambiziosi che forti. Volete che un governo pontificio tremasse davanti ad un Andronico da M. Vidone, o a un Mercenario da Monteverde? Anche se fossero stati più forti, erano troppi per essere pericolosi; pure, bisognava reprimerli perché provocavano disordini, rovine e gravi sofferenze per le popolazioni.

Nelle Marche la città che forse ebbe più a soffrire per questi signorotti fu Fermo; ma ad onore dei fermani, che di prepotenza se ne intendevano, dobbiamo dire che i signori di Fermo duravano poco e finivano molto male.

Quanto abbiamo detto di Fermo durante il regno speranzoso di Manfredi, è vero; ma è vero pure che poche città amarono la libertà come Fermo e forse nessuna combatté e soffrì tanto per liberarsi dai tiranni.

Siccome non si può parlare della storia di S. Vittoria, ignorando la storia di Fermo, per la vicinanza delle due città e per le molteplici relazioni reciproche, ricordiamo qualche avvenimento tra i principali e le ripercussioni che ebbero sulla storia del nostro paese.

Nella battaglia di Osimo nel 1323, i guelfi guidati dal marchese Berardo Varano da Camerino, sotto del quale combatteva anche l’esercito di S. Vittoria, furono sconfitti da Guido da Montefeltro. Uno dei migliori capitani di questi era Mercenario da Monteverde che guidava i combattenti di Fermo. Fu lui che nel 1326 prese e saccheggiò S. Elpidio a mare e obbligò la città di Fermo a riconoscere l’antipapa Niccolò V, provocando da parte del papa Giovanni XXII l’interdetto sulla città e la privazione della sede vescovile. Nel 1331 si insignorì di Fermo e nel 1334 si riappacificò colla Chiesa. Fu per convinzione? per carità !

Restava quella bestia che era; ma come avrebbe potuto seguitare a fare il signore di una città interdetta per colpa sua? Poi voleva assoggettare a Fermo Monterubbiano che faceva parte del Presidato ed era ghibellina; bisognava quindi farsi guelfo per trovare il pretesto di assalirla, senza che la S. Sede si agitasse, e così fece. Fu despota insopportabile per ingiustizie e delitti, per cui fu ucciso da un gruppo di congiurati nel 1340, mentre faceva una passeggiata a cavallo (56)  .

La città di Fermo tornò alla fedeltà alla S. Sede e fu beneficata in tutti i modi da Benedetto XII, finché nel 1348 dì essa si impadronì Gentile da Mogliano, quanto ambizioso, altrettanto valoroso guerriero.

Combatté contro Ascoli e ne contenne l’espansione verso la zona costiera che era di Fermo; combatté a Osimo contro Galeotto Malatesta, ma nel 1353 fu battuto a S. Severino da una lega guelfa. Nel 1355 il Cardinale Albornoz che era venuto a riordinare lo Stato della Chiesa, lo assediò per dodici giorni nella fortezza del Girfalco e lo costrinse alla resa. Ebbe salva la vita, a patto che se ne andasse dallo stato pontificio; però, appena liberato, si diede a riorganizzare il suo esercito e a devastare le terre della Chiesa. Caduto di nuovo in mano del cardinale, fu fatto decapitare insieme a suo figlio Ruggero. Così finì miseramente anche questo pericoloso signore che voleva farsi un nido troppo grande.

S. VITTORIA E LE SIGNORIE

 S. Vittoria non ebbe mai signorie, nel senso che mai nessun signore si insediò nel suo Comune, ma dovette qualche volta subire le angherie dei signori di Fermo, come in questo caso in cui, insieme a tanti altri Comuni, fu costretta a seguire Gentile da Mogliano, come ci fa capire un documento del 1371 (57).

«Costrinsero non solo questa terra, ma anche quasi tutte le altre città della Chiesa e tutte le possidenze in qualche modo a defezionare ». In questo documento il Rettore della Marca assolve S. Vittoria da tutte le pene inflitte per « Excessibus, criminibus, culpis, inobedientiis et delictis » commessi fino al 1355, l’anno della fine di Gentile. E questo perché dopo accurato esame sembra risultare che S. Vittoria deviò solo costretta dalla violenza. Ci furono inchieste e processi, (per questo l’assoluzione viene tanto tardi), ma il Rettore considerate le tante benemerenze di S. Vittoria; la sua antica incrollabile fedeltà alla S. Sede; le tante violenze inflittele per farla deviare; con lo sborso di 80 fiorini d’oro (non più 500 come era la multa data prima) le sia rimessa ogni pena e le condanne siano cancellate da tutti i libri.

E S. Vittoria riprende la sua vita di città guelfa fedelissima.

Nel 1376 si impadronì di Fermo colla forza Rinaldo da Monteverde (58).

Incominciò a seguire le orme di Gentile da Mogliano, tiranneggiando la città, commettendo molti omicidi, danneggiando molti altri comuni, tra cui S. Elpidio che fu saccheggiata nel 1377 e S. Ginesio contro la quale combatte una furiosa battaglia.

 Nel 1379 i fermani gli si ribellarono e lo inseguirono a Monteverde, poi a Montefalcone dove, tradito dal capitano di ventura Egidio da Monturano, fu fatto prigioniero e decapitato coi suoi due figli nella piazza di Fermo il 2 giugno 1380.

Sembra incredibile che questi signori fossero tanto ciechi, da insistere nel voler essere signori di Fermo, quando tanti fatti dicevano chiaro che Fermo non sopportava tiranni e sapeva tanto bene disfarsene!

Appena S. Vittoria ebbe sentore che Rinaldo si era impadronito di Fermo teme che si rinnovassero i guai passati con Gentile; con questi prepotenti era impossibile tirare avanti: male combatterli, peggio lasciarli stare; perciò si rivolse al papa Gregorio XI, per mettere le cose in chiaro. Troppe forze si agitavano intorno a S. Vittoria; il suo esercito, se fosse stato attaccato, non sarebbe stato in grado di resistere.

Gregorio XI era tornato a Roma da un mese; le sue preoccupazioni erano innumerevoli, perché tutto lo Stato era in rivolta e i cardinali e le autorità poco efficienti; pure trova il tempo di scrivere: «Gregorius servus servorum Dei . . . Universitati terrae nostrae S. Vittoriae». Loda le fedeltà dei vittoriesi e li esorta a restar fedeli alla S. Chiesa, perché sicuramente avrà la vittoria finale. Scriverà al rettore della Marca che mandi, ora che ne ha a sufficienza, soldati a S. Vittoria. Intanto egli cercherà altri rimedi per tanti mali, non solo del loro paese ma di tutti gli altri. E se S. Vittoria dovrà soffrire per restare fedele, non si avvilisca, perché Dio e la Chiesa gliene saranno grati e penseranno a ricompensarla in qualche modo (59).

Beh! chi sa come prese S. Vittoria l’offerta dei soldati? Il rettore è vero che ne aveva tanti di soldati, ma erano venturieri stranieri che S. Vittoria preferiva non avere entro le sue mura, anche non sapendo ancora della strage di Cesena, che sarebbe avvenuta pochi giorni dopo questa lettera del papa.

Si vede che Rinaldo da Monteverde sotto S. Ginesio ricevette delle buone legnate che valsero a fiaccarlo un po’, perché nel luglio dello stesso anno 1377 il vescovo di Fermo progetta di venire personalmente nella sua città, per recuperare alla sua chiesa le terre perdute.

Per appoggiarlo, il papa scrive di nuovo a S. Vittoria (60), perché il Comune aiuti i vescovo nella sua impresa, gli venda vettovaglie a prezzo conveniente e lo favorisca in ogni modo, quando ne sarà richiesto. L’anno appresso 1378 muore Gregorio XI e viene eletto Urbano VI, primo papa italiano dopo il ritorno da Avignone. Il Comune di S. Vittoria ha delle preoccupazioni: durante il papato dei francesi, aveva commesso dei grossi sbagli che più volte le erano stati condonati da papi francesi, da rettori francesi. Chi sa se questo cambiamento di autorità religiose e civili che aveva portato con sé l’elezione di un papa italiano, non avrebbe poi fatto rivivere qualche processo contro i cittadini di S. Vittoria? Quindi era meglio rivolgersi al nuovo Papa italiano, far presente la questione e ottenere l’assoluzione irrevocabile di tutti i cittadini di S. Vittoria, per tutti i delitti passati. E Urbano VI scrive: «… dilectis filiis, consilio et universitati castri nostri S. Vittoriae sai. et Ap Benedic (61).

Considerando la perseveranza nella fedeltà, dice il papa, che in questi tempi di guerra e di rivolte avete sempre conservato verso la Chiesa nostra madre, sostenendo per questo pesi, perdite di beni e di vite umane, come segno della nostra benevolenza e gratitudine, vogliamo che siano cancellate tutte le pene fino ad oggi inflitte a qualsiasi persona del vostro Comune, in modo che nessuno più possa molestarvi, finché sarete fedeli alla S. Sede.

S. VITTORIA E URBANO VI

Nel solo 1378, primo del suo pontificato, questo severissimo Pontefice scrive ben sei lettere al Comune di S. Vittoria. Si conservano nell’Archivio Priorale e sono state pubblicate dal Colucci in « Antichità Picene ». La prima l’abbiamo riportata sopra. Un’altra raccomanda ai vittoriesi che non stiano continuamente a ricorrere al Rettore contro le autorità locali, per cose di poca importanza. Siccome il Comune aveva messo delle imposte per restaurare le fortificazioni della città e per provvedere alla guardia notturna e diurna delle mura, dati i tempi pericolosi, molti non volendo pagare, ricorrevano alle autorità superiori per ottenere sgravi, e intanto provocavano dilazioni (62).

Il papa proibisce di appellarsi per somme inferiori a venti soldi locali, e ordina che le autorità comunali agiscano liberamente entro tali limiti.

In un’altra lettera Urbano VI ordina che le cause civili e criminali in prima istanza possano essere giudicate dal podestà di S. Vittoria; quindi gli abitanti della città ricorrano al suo tribunale e non possono essere obbligati a presentarsi al Ret¬tore o al Preside, se essi rifiutano di farlo (63).

In un’altra lettera dello stesso 1378 il papa condona a S. Vittoria ogni pena pecuniaria e ogni contribuzione impostale dal 1375 in poi, per risarcire il Comune dei tanti danni sofferti in quegli anni a causa di tante guerre (64).

Un’altra lettera interessantissima è quella dello stesso anno, nella quale si dispensa il Comune di S. Vittoria, fino a nuova disposizione, dal pagamento di ogni tributo.

« Né il rettore, né altra autorità presuma di imporvi pesi, fuorché il servizio militare e le cavalcate che siete soliti prestare; poiché siete circondati da nemici dai quali avete sofferto tanto, e avete bisogno di fortificare meglio la vostra città (65).

In un’altra lo stesso pontefice rinnova ai vittoriesi il privilegio concesso da Niccolò IV nel 1294: di potersi eleggere liberamente il Podestà e gli ufficiali del Comune.

Proprio in quegli anni, il prepotente ghibellino Boffo da Massa aveva combattuto vittoriosamente per il Comune di Ascoli e sembra che in ricompensa dei suoi servigi, Ascoli riconoscesse la sua signoria su Cossignano, con libertà di cercare di ingrandire i suoi possedimenti a spese dello stato fermano e del Presidato di S. Vittoria. Nel 1378 Boffo si impadronisce di Castignano, mentre le forze guelfe erano impegnate a S. Ginesio, contro Rinaldo da Monteverde, signore di Fermo.

Da ciò si spiega perché la lettera del Papa dice a S. Vittoria che è circondata da nemici della Chiesa.

Appena libero dalla battaglia di S. Ginesio, l’esercito di S. Vittoria si getta contro Boffo da Massa e lo caccia da Castignano, validamente aiutato dagli abitanti di quel paese. Ecco il motivo della lettera che il Vicario Generale delle Marche, nel 1381, scrive al Comune in nome del Papa. In essa si dà a S. Vittoria la facoltà di ritirare 130 fiorini d’oro, spesi per la guerra «contra Bolfum del Massa », dai (futuri) contributi e taglie diverse, che potessero essere imposte in futuro al Comune. Forse il Vicario Generale non ricordava che S. Vittoria era esente da ogni tributo.

Beh! che volete che facesse, poveretto; dove doveva prendere 130 fiorini d’oro?

Intanto però dimostrò presto la sua buona volontà, perché nel 1383 riduce a S. Vittoria l’annuo censo che era di 450 fiorini, a 350 (66).

Quanto a Boffo da Massa, aspettò che i Fermani tagliassero la testa a Rinaldo da Monteverde, poi si impadronì di Carassai dove, pochi anni dopo, nel settembre 1387 ricevette un’accettata che lo mandò all’altro mondo ! (67).

S. VITTORIA E BONIFACIO IX (1388 – 1404)

Quando non c’erano di mezzo dei signori che turbavano le relazioni tra le due città, Fermo e S. Vittoria andavano d’accordo, perché il popolo dell’una e dell’altra era fedele alla S. Sede.

Quando parliamo di Fermo ghibellina, non dobbiamo intendere la plebe fermana, ma solo il signore che la dominava e i cittadini che egli aveva potuto comprare; la borghesia e il basso ceto della città era decisamente con la S. Sede per il libero Comune; lo dimostra il fatto che quando il popolo voleva liberarsi di un tiranno, gridava: viva la Chiesa e lu populu liberu.

 Dopo il 1380 c’era stata un po’ di calma e di molta comprensione tra Fermo e S. Vittoria e si giunse ad un bellissimo accordo tra loro.

S. Vittoria si impegnava a non dar ricetto né aiuto ai nemici di Fermo e non rifornirli di vettovaglie; non accoglierà nel suo territorio gente armata che possa recar danno al Comune di Fermo o a qualche suo cittadino; non creerà difficoltà all’esercito fermano, se dovesse attraversare il territorio di S. Vittoria. « Vi tratteremo con amicizia come fratelli maggiori »; (S. Vittoria non dimentica il suo posto di centro dei guelfi, città fedelissima alla S. Sede) « non vogliamo esser tenuti a rispettare questo trattato, se il Papa o il Rettore ci imporrà di ricevere i loro armati e di combattervi, il che cercheremo di evitare per quanto potremo; anzi ne sarete avvisati con nostra lettera venti giorni prima ». Che cavalleria! è la generosità dei forti e S. Vittoria lo era (68).

Il giovane papa Bonifacio IX, saputa la morte del Rettore della Marca nel 1390, subito si rivolge a S. Vittoria, lodando la sua nota fedeltà e avvisando il Comune che manderà presto un nuovo Rettore che sarà di loro gradimento e utile ai fedeli della Chiesa. Intanto restino fedeli i vittoriesi e cerchino di consigliare anche i popoli vicini, perché il papa intende riconoscere la fedeltà del vostro Comune con aiuti e favori, come vi spiegherà a voce il latore della presente, Pietro Arcivescovo Jadrensis (69).

La clausola posta da S. Vittoria al patto di amicizia con Fermo si avvera nel 1393, quando Fermo, Ancona, Camerino, Macerata, Ascoli, S. Severino, ed altre, costituiscono una lega contro il Rettore della Marca Andrea Tomacelli, fratello del papa.

 Le forze dei ribelli erano organizzate e guidate da Biordo dei Micheletti, soldato di ventura di Perugia (70), Biordo riesce a far prigioniero a Macerata il rettore Andrea. Il papa si rivolge ancora a S. Vittoria, che è davvero ammirabile per la rettitudine della sua politica. Mentre intorno molte città picene si ribellano, S. Vittoria non teme di restar sola a difendere la causa che essa credeva giusta.

Il papa loda la sua fedeltà, pregandola di ricevere entro le sue mura il fratello Giovannello, che stava per arrivare con 1500 cavalieri e molti fanti. « Vi preghiamo, dice il papa, di convincere anche « vicinos vestros », forse si riferiva ai fermani che infatti ritornavano subito alla fedeltà, pagando 4000 ducati. Per esortazione di S. Vittoria? Eh! Quei cavalli avevano una efficacia più grande di qualsiasi esortazione (71).

I Pontifici erano guidati da Antonio da Acquaviva, Sotto di lui militavano due capitani di S. Vittoria che si distinsero per il loro valore: OTTO BONTERZI MAZZARINI che il 26 marzo 1394 riuscì ad entrare a Fermo colla sua schiera e restaurarvi il governo legittimo; e MARINO MARINELLI « persona di gran valore da S. Vittoria », che vinse contro Biordo la battaglia di M. S. Giusto nel 1395 e aprì la via per la liberazione del rettore (72).

Nel 1396 il Rettore è a Fermo, dove i seguaci di Antonio Aceti provocarono una ribellione della città. Fu Marino Marinelli che riuscì ad entrare nel Girfalco; di lì scese nella città, ne cacciò i « banditi » e riportò la tranquillità (73).

Fu Marino Marinelli a riconquistare a Fermo, il paese di M. Vidon Corrado nel 1398. « Gli abitanti di questa terra mandarono con segretezza a domandare aiuto a Marino Marinelli da S. Vittoria; il quale avendo sotto di sé un gran numero di soldati e col suo valore accostandosi con detti soldati, riacquistò col cacciare i nemici, la terra e la restituì ai fermani».

S. VITTORIA NEL SEGOLO XV

Narrare la storia di S. Vittoria nel secolo XV, mi è molto difficile per l’arruffio di fenomeni e di avvenimenti; per il succedersi di una quantità di personaggi grandi e piccoli che misero a soqquadro la nostra regione e la ridussero a una miseria che forse non aveva mai conosciuto.

Il fenomeno più grave furono le compagnie di ventura; soldataglie che si vendevano al migliore offerente e seminavano fame e dolori dovunque, perché integravano il loro stipendio con la violenza e col saccheggio, che i capitani non erano in grado di impedire. La preoccupazione di questi soldati mer¬cenari non era vincere le battaglie pei loro signori, ma tirare a lungo per salvare la pelle e non perdere lo stipendio.

In una battaglia a Ripe S. Ginesio due opposte schiere di questi briganti durarono una intera giornata a schiamazzare e a combattersi, e alla fine si trovarono morti tre uomini e cento cavalli; e nella battaglia di Anghiari il Macchiavelli dice che morì un solo caporale, perché cadde da cavallo. Da qui comprendi, lettore, gli ideali di questi militari mestieranti e la fiducia che meritavano (74). 

 L’altro fenomeno, che è il fenomeno base di tutti i guai, è la debolezza e l’incertezza del governo pontificio. Per il governo era diventato molto difficile tenere a freno i signorotti locali che sistematicamente combattevano il Governo Pontificio per crearsi una signoria per proprio conto. Anche gli ufficiali dello stato, giunti ad un certo grado di potenza, si ribellavano, tanto che i papi non potevano più fidarsi di nessuno e erano perciò costretti ad affidarsi ai loro parenti, nel governo della provincia, donde l’altro fenomeno del nepotismo papale.

Si aggiunga, per i primi anni del secolo, lo scisma d’occidente che, provocando l’elezione simultanea di tre papi, produsse nella cristianità e soprattutto in Italia una confusione indescrivibile. Per rendere più chiara la lettura del mio libro, mi atterrò solo ai fatti principali che toccano S. Vittoria, escludendo fatti e personaggi, che sarebbe pur utile riportare, ma che ne appesantirebbero la lettura.

DURANTE LO SCISMA D’OCCIDENTE

S. Vittoria fu sempre fedele al legittimo papa Gregorio XII, anche quando questi dovette fuggire da Roma; anche quando molte città picene seguirono lo scisma; anche quando Fermo e il suo governatore Ludovico Migliorati si schierarono dalla parte dell’antipapa Giovanni XXIII. La stessa Farfa vacillò e deviò momentaneamente, ma S. Vittoria fu ammirevole nella dirittura della sua politica tradizionale.

Nel 1410, Gregorio XII nominò Legato pontificio nella Marca il Cardinale Angelo da Recanati, il quale nominò suo luogotenente nel Presidato il vescovo di Modena Antonio da Recanati (75).

 Il 20 luglio 1410, sulla loggia del Comune di S. Vittoria, il sindaco Cola Pucci si obbliga :

1 ) a non ammettere nessuno nel territorio del Comune, che sia avverso al papa Gregorio XII, o al Cardinale Angelo o al suo luogotenente Antonio da Recanati;

2) ad approntare « in puncto et bene armati » venticinque fanti e tenerli a disposizione del luogotenente Antonio;

3 ) a trattare come amici e come nemici gli amici e i nemici del medesimo papa Gregorio XII, del Card. Angelo e del vescovo Antonio;

4) a dare fodero e vettovaglie in S. Vittoria, secondo le possibilità, a competente prezzo;

5) dopo agosto, promette ospitare a S. Vittoria fino a sessanta cavalli (76).

E tutto questo si prometteva mentre a Roma era insediato l’antipapa e Gregorio XII era in esilio a Gaeta.

Né meno intrepide si mostrarono le autorità religiose di S. Vittoria.

Era Vicario Generale in spiritualibus « omnibus locis monasterio subiectis » del Cardinal Iacopini amministratore di Farfa, Ludovico di Paolo « decretorum doctor » di S. Vittoria (77)

Nel 1411 questo Ludovico, Vicario generale, rimuove il Priore Ugolino Cicchi di Montedinove dall’ufficio di Rettore della chiesa di S. Tommaso, perché era passato allo scisma di Giovanni XXIII, e pone al suo posto Azario di Ser Vico Sa- botti da S. Vittoria, «ricco di meriti e di virtù». Lo investe (per nostrum annulum» dietro giuramento di fedeltà a papa Gregorio.   

 L’atto notarile si stende «in platea dictae terrae S. Vittoriae » (78).

 «In platea» perché sì abbia pubblicità e sia di esempio. Quello che non è mancato mai ai vittoriesi è il coraggio, e non mancò nemmeno in quegli anni. E sì che ce ne voleva, perché il partito dell’antipapa stava prendendo piede pure nel Presidato.

Anche Force era passata a Giovanni XXIII, e anche il Cancelliere del Presidato che era Statuccio di Facciolo da Force, nominato da Gregorio XII, aveva chiesto la conferma all’antipapa per stare più al sicuro.

C’era poi sempre Ludovico Migliorati, signore di Fermo che andava sempre più consolidando il suo dominio nel fermano e sapeva tanto bene destreggiarsi tra il papa e l’antipapa e trarne profitto. S. Vittoria temeva per la propria libertà e chiese a papa Gregorio la riconferma dei suoi privilegi. Papa Gregorio XII, da Gaeta, promette che il Comune non sarà mai infeudato a nessuno: «la nostra mente aborre dal pensare che tale terra possa essere alienata od occupata da altri».

« Nullo unquam tempore alicuius personae, comunis . . .aut dominio subici; aut eis in feudum nec alio quocunque titulo dari vel alienari possitis (79).

Con questo S. Vittoria si assicura la parte giuridica; la parte pratica è affidata alle sue forze armate, che non erano solo i venticinque fanti che teneva pronti per il Cardinale Legato, ma erano abbastanza rilevanti.

La condotta politica di S. Vittoria si trovò giusta nel 1413, quando Ladislao di Napoli mandò Attendolo Sforza nelle Marche, per riconquistarle al legittimo papa.

DOPO LO SCISMA

Nel 1416 finisce lo scisma e torna a S. Vittoria la usata fiducia.

Per me è molto semplice scriverlo e per te, giovane lettore, è facile tirare un sospiro di sollievo e passare avanti; ma la storia non è fatta solo di imprese militari e di fatti brillanti: la storia più genuina e più completa di un paese è anche costituita dai dolori, dalle ansie, dalle privazioni sofferte dal popolo minuto. E questa storia di solito non si scrive, perché non si conosce. Anche io ho fatto così: ho parlato di battaglie di lotte politiche e religiose, ma non ho degnato di uno sguardo i dolori del popolo di S. Vittoria durante lo scisma.

Non fu mai occupata da schiere nemiche, non era facile; ma avrà sicuramente subito delle scorrerie in quell’agitarsi generale di fazioni.

E quanti soprusi e spoliazioni e umiliazioni per le povere famiglie rurali! Non sempre i soldati del Comune potevano trovarsi sul luogo e non sempre erano in grado di opporsi a forze superiori; e quante volte il Comune avrà dovuto pagare grosse taglie per evitare battaglie che si prevedevano di esito molto dubbio. Tutte queste cose le sapevano i tre messi del Concilio di Costanza che si recarono a S. Vittoria il 25 gen¬naio 1416. « Dilectis nobis populo et comuni et hominibus S. Vittoriae Praesidatus farfensis. . . salutem (80)  .

La lettera del Concilio che essi leggono al popolo di S. Vittoria reca la notizia che lo scisma è finito; ringrazia il Comune per la sua fedeltà alla Chiesa; lo incoraggia nelle difficoltà e nelle sofferenze che non sono ancora finite; promette ampio riconoscimento per i suoi meriti e assolve tutti da ogni possibile pena, restituendo alla città i privilegi antichi: insomma S. Vittoria è libera, come se il periodo torbido dello scisma non fosse esistito.

Ma perché tanti riguardi per questa piccola città?

In più occasioni abbiamo visto la sua importanza militare; abbiamo lodato la serietà e la fermezza della sua politica di fedeltà alla Chiesa, abbiamo notato come fosse S. Vittoria la base sicura sulla quale lo stato pontificio poteva sempre poggiare, sia per mantenere, sia per riconquistare la sua autorità su tutto il Piceno. E questo non solo perché era un Comune forte e fedele, ma anche era capoluogo di una piccola provincia, il Presidato farfense; e perché la sua influenza morale nel Piceno era ancora molto notevole.

Lo Schuster a questo punto asserisce: « Già da oltre mezzo secolo la giurisdizione sul Presidato era stata assorbita quasi interamente dai legati e dai rettori papali nelle Marche: i papi vi nominavano i loro ufficiali senza alcuna ingerenza degli abati commendatari, la cui autorità venne a restringersi alla sola giurisdizione spirituale».

«. . .Tranne il nome, il Presidato Farfense ormai non ha più nulla di comune col monastero. Lo stato pontificio se l’era assorbito quasi totalmente ».

Farfa è ormai lontana del tutto dal Presidato, ma S. Vittoria acquista nuova importanza, quale centro di esso Presi- dato, che nei documenti ufficiali viene riportato -come facente parte della Marca, ma da essa giuridicamente distinto: « Praesidatus Farfensis in provincia nostra Marchiae Anconitanae . . . ».

Questa distinzione di Provincia autonoma, evitò a S. Vittoria tante lotte intestine, tante agitazioni sanguinose, nelle quali si dibatterono altre città e soprattutto Fermo, alla quale cupidamente mirarono tutti i signori del tempo e anche dopo il Concilio di Costanza.

Anche per i tiranni di Fermo, anche per il potentissimo Migliorati, occupare S. Vittoria, oltre che essere un rischio militare, perché provvista di armati sufficienti, era anche un peri-colo diplomatico, appunto perché centro di una provincia, che non si poteva in alcun modo chiamare fermana.

LA SIGNORIA DI FRANCESCO SFORZA

L’unica signoria che S. Vittoria dovette sopportare fu quella di Francesco Sforza: una signoria dura, implacabile, ma molto breve.

Nel 1433 il duca di Milano, Filippo Maria Visconti, spedì un esercito contro il papa Eugenio IV, sotto la guida di due celebri capitani: Nicolò Fortebraccio e Francesco Sforza.

Il primo marciò verso Roma attraverso la Toscana; Francesco Sforza invece corse ad invadere le Marche, dove ancora risuonava il nome di suo padre Attendolo Sforza. Alcune città marchigiane pagarono cara la loro resistenza, come anche Montolmo, oggi Corridonia, che gli aveva chiuso le porte in faccia, mentre pochi giorni prima, estate 1433, Macerata gli aveva consegnato le chiavi della città festosamente. Le città non ancora occupate, per evitare sangue e distruzioni, mandarono ambasciatori a trattare la resa; e così fece anche Fermo, dove Francesco Sforza mandò il fratello Alessandro, che il 30 dicembre 1433 prese possesso del Girfalco; là lo raggiunse pochi giorni dopo e vi si insediò (81).

Eugenio IV, per staccare lo Sforza dal duca di Milano, lo nominò Vicario della Marca e Confaloniere di S. Chiesa. 

 Questa mossa politica raggiunse lo scopo di staccare lo Sforza dal Visconti, ma « lu conte Francisco » invece di servire la Chiesa, governò la Marca per conto proprio, destreggiandosi tra il papa e il duca di Milano, allargando sempre più il suo dominio coll’imporre la sua signoria a sempre più numerosi Comuni piceni, ai quali ordinava di provvedere un soldato per famiglia, allo scopo di rinforzare sempre più e senza troppa spesa il suo esercito (82).

Per lo Sforza il possesso delle Marche non fu mai tranquillo, né completo, perché le milizie dello stato pontificio, guidate da Niccolò Piccinino e appoggiate da alcune città guelfe quali S. Vittoria, S. Ginesio, Camerino, lo attaccarono continua- mente, obbligandolo a correre a difendersi da un estremo all’altro della regione, senza però riuscire ad infliggergli una sola sconfitta; tanto che seguitò a firmare superbamente le sue lettere: « a Girfalco nostro firmiano, invito Petro et Paulo (83).

E anche per S. Vittoria che, sempre fedele alla sua politica tradizionale, aveva combattuto contro « lu conte Francisco » aiutando le milizie alleate; che aveva trepidato per la propria libertà, vedendo ogni giorno avanzare il pericolo sforzesco; che aveva sofferto privazioni di ogni genere per il depauperamento portato dalle guerre continue che ardevano tutto intorno; anche per S. Vittoria venne la grande umiliazione, la più grande della sua storia gloriosa: la signoria.

L’11 dicembre 1443 i soldati dello Sforza entrarono a Montegiorgio « facendo immenso danno ad ulivi e ad altre piante fruttifere » e il 13 dicembre entrarono in S. Vittoria, la città che non aveva mai conosciuto padroni (84).

 La conquista di S. Vittoria fu per lo Sforza un successo di singolare importanza.

La sua posizione strategica, le sue fortificazioni e soprattutto il prestigio che essa godeva di fronte a tutta la Marca per la sua potenza giurisdizionale e spirituale, costituiva per lo  Sforza un successo che rassodava il suo dominio ancora malsicuro.

Fortunata anche in questa occasione, S. Vittoria fu trattata duramente sì, ma meno di altre città; sembrava che lo Sforza ci tenesse a farsela amica, dimostrando interesse per essa. Ci mandava spesso in visita il fratello Alessandro e vi diede dimora stabile al suo luogotenente Paolo di Orvieto,

11 quale, a dichiarazione degli stessi vittoriesi, «veramente non come ufficiale, ma come protettore si è portato ed esgravatore di molti affanni » (85).

Questo non toglie che S. Vittoria nei 22 mesi di dominazione sforzesca abbia sofferto terribilmente.

Una parte delle truppe dello Sforza nel 1444 svernò a S. Vittoria sotto il comando di Alessandro, e ognuno può comprendere le violenze e le rapine commesse nel territorio: nei 22 mesi durante i quali cessarono le sfarzose processioni in onore della Santa; i Priori e gli impiegati comunali eseguirono gli ordini del signore recitando segretamente cordiali maledizioni; le donne, al vedere un soldato o al solo sentir nominare lo Sforza, si fecero il segno della croce; le fanciulle non cantarono più all’arcolaio; il lavoro nei campi languì, e non si udì per due stagioni il canto malioso delle mietitrici, che in altri tempi inondava le tre valli.

Ma gli uomini tutti del Comune, abituati alla più esemplare libertà, non perdevano la fiducia e, in segreto, aspettavano il segnale che ordinasse di impugnare le armi, magari le falci, le zappe e i forconi, per liberare la patria da quei briganti.

E il segnale venne presto. Nel luglio del 1445 il duca di Milano, il re di Napoli ed Eugenio IV si allearono di nuovo contro lo Sforza. Francesco lascia il fratello Alessandro al Gir- falco e corre a Pesaro per combattere il Malatesta che operava per lo stato pontificio. Da Ascoli il Piccinino, nel settembre, muove alla riconquista delle Marche e il 4 ottobre 1445 S. Vittoria riconquista la sua libertà.

Il 4 novembre fu la volta di Fermo. I vittoriesi, che non furono mai indifferenti alle cose fermane, corsero in aiuto di quei cittadini, che si erano sollevati al grido di « viva la Chiesa e la libertà» e avevano assediato il Girfalco. Due mesi durò l’assedio e finalmente Alessandro Sforza, persa ogni speranza di aiuti, si arrese e poté fuggire verso il nord, dove poi divenne signore di Pesaro.

I fermani, affinché in avvenire nessun tiranno potesse più dominarli dal Girfalco, il 20 febbraio 1446 lo distrussero, facendone sparire perfino le pietre.

Così finì nel Piceno la dominazione di Francesco Sforza, che, nel 1450, divenne signore di Milano.

DECLINO

La seconda metà del quattrocento segna l’inizio del declino politico di S. Vittoria. Il mondo diventava grande; lo Stato Pontificio si consolidava sempre più; i grandi principati assorbivano mano, mano, le piccole signorie, e le lotte politiche avvenivano a un livello superiore per il nostro Comune, che restava una piccola città di provincia, capace di apportare un contributo sempre più limitato al movimento politico italiano. S. Vittoria si rese conto di questo suo ridimensionamento politico, e cercò di difendere i suoi privilegi di capitale del Presidato. Per questo, appena cacciato lo Sforza dalle Marche, sottopose al Legato papale alcuni capitoli da concordare.

«Item promette al prefato Monsegnior lu Legatu a lu dicto Sindaco recepente, corno de sopre, che el Giudice del Presidatu farrà la sua residentia et habitatione in ne le dicta terra de S. Vittoria, secundo è usato».

« . . .che li homeni de la dicta terra et habitanti in ipsa non possano essere tratti ad juditio nelle cause civili tanto, fore de la dieta terra de S. Vittoria nelle prime cause. Et essendo citati non siano tenuti ad comparire».

«… che la dicta comunità ne’ homeni de essa no saranno costricti ad altri pagamenti de tagli, censi et affitti da fare a Ecclesia de Roma e soi offitiali, se non quello che pagavano al tempo de Papa Martino ».(86)

Nel 1464, Paolo II condona al Comune di S. Vittoria la terza parte di quanto è obbligata a pagare ogni anno alla camera apostolica, affinché la somma sia impiegata «in reparationem moenium» (87).

     Nel 1481, il Legato Pontificio raccomanda al Comune di S. Vittoria che elegga il suo Podestà Giacomo de Giannini da Monte Granaro; questa raccomandazione non piace ai Priori del Comune, perché lesiva dei privilegi comunali, e il Legato insiste ancora il mese appresso: « volemo che qualuncha elezioni fossero fora», siano nulle».

S. Vittoria non cedette; anzi l’anno appresso reclama presso il Luogotenente della Marca, perché si era permesso di confermare l’elezione del Podestà Giambattista da Ripatransone. Il Luogotenente si scusa e assicura che con quella conferma non intendeva pregiudicare affatto alla libera elezione del Podestà di S. Vittoria: «non intendemo prejiudicare ali vostri privilegi»(88).

Verso il principio del cinquecento, non si parla più di Presidato di S. Vittoria, restano però gli antichi privilegi del Comune, il quale diventa una sede di Pretura, come tante altre, dove si possono discutere cause di prima e seconda istanza, «ad aliarum instar terrarum provinciae Marchie», come stabilisce nel 1519 il Papa Leone X (89).

ARTISTI DI S. VITTORIA NEL ’400

La seconda metà del secolo decimoquinto, se segna un declino politico per S. Vittoria, è pure l’inizio di un periodo di splendore per le arti, in rispondenza allo sviluppo artistico di tutta l’Italia. Non possiamo vantare nomi di grandi geni nel¬l’arte, non tutte le città ne possono avere, ma se non fosse tanto antico nel popolo marchigiano quel senso di trascuratezza, o forse di eccessiva modestia che gli impedisce di far valere i propri meriti mettendoli in mostra e che gli ha fatto trascurare anche la propria storia, oggi forse potremmo dare un nome vittoriese a tanti quadri anonimi di questo periodo, che vanno sotto una generica attribuzione di «scuola umbro marchigiana»; e io spero che valenti studiosi di arte un giorno potranno classificarli di «scuola farfense picena», che ebbe un centro attivissimo in S. Vittoria (90).

Alla metà del secolo XV, possiamo mensionare almeno tre pittori che sicuramente godettero chiara fama per la loro arte.

MARINO ANGELI, del quale conosciamo il trittico, eseguito nel 1448, che si conserva nella chiesa di S. Procolo a M. Vidon Combatte e un quadro della Madonna col Bambino che si conserva nel museo civico di Urbino.

Eseguì molte altre opere a Fermo e Monterubbiano, ma col tempo sono sparite, o forse anche attribuite ad altri.

Anche il trittico di S. Procolo fu attribuito ad altri pit¬tori, finché non si scoprì la firma: «Fr. Marinus Angeli de S. Vittoria me fecit».

MARINO DI COLA, pittore del quale non. sappiamo quasi niente, se non che visse verso la metà del secolo.

GIACOMO DI COLA, che nel 1471 rilascia quietanza a una signora Bonetta di Cola (32 ducati e Bolognini 40) per pitture eseguite in S. Vittoria. Quali sono? Rimangono quelle del Cappellone, che sono state attribuite a infiniti autori, senza pensare che nell’epoca c’erano a S. Vittoria tanti grandi artisti, i committenti avran trovato la loro convenienza nel servirsi di essi, prima che di altri.

CAPITOLO QUINTO

S. VITTORIA NELL’ETA’ MODERNA

S. VITTORIA NEL SECOLO XVI

Nella prima metà del ’500, la storia delle Marche è caratterizzata da lotte e agitazioni che solo marginalmente toccano S. Vittoria e alle quali essa restò quasi passiva. Il secolo incomincia con l’urto fra i due maggiori tiranni delle Marche di allora: il Duca Valentino (Cesare Borgia, figlio di Alessandro VI) Duca di Urbino, e Oliverotto Eufreducci di Falerone, signore di Fermo. Oliverotto, dopo aver tolto Camerino ai Varano per conto del Valentino, partecipò alla congiura di Magione contro il Valentino stesso e lo vinse nella battaglia di Fossombrone; poi fece la pace, forse sperando di potersi dividere con lui il dominio delle Marche; ma a Sinigallia fu fatto strangolare dal Valentino a tradimento, nel 1502.

S. Vittoria restò fuori da queste lotte, come pure restò fuori nel 1520, quando il nipote di Oliverotto, Ludovico Euffreducci tentò di diventare signore di Fermo e morì in battaglia nelle piane di Montegiorgio, contro le milizie della Chiesa, guidate da Nicola Bonafede; restò passiva pure nel 1525, quando Giovanni dalle bande nere mandò le sue truppe nelle Marche e impose ad Ascoli e a S. Vittoria di alloggiare parte di esse: a S. Vittoria fu imposto l’alloggio di quattro soldati.

Il tempo glorioso dei Comuni era tramontato; avevano prevalso i principati che avevano assorbito le piccole signorie; la lotta per le libertà comunali non aveva più senso, e a S. Vittoria restava la fortuna di non essere una grande città, di essere abbastanza decentrata, e così risentire di meno l’urto dei grandi.

In questo secolo XVI, a S. Vittoria cresce il benessere che provoca lo sviluppo delle arti e delle scienze.

 Il Priore vittoriese Marino Melis (1496-1524) restaurò la Basilica della Santa; costruirono i loro palazzi la famiglia Melis, la famiglia Torriani, la famiglia Macilenti; e Clemente Vili, marchigiano, fece restaurare il monastero delle Benedet¬tine e fece consolidare le mura del paese.

Per la prima volta la pace interna viene turbata nel 1542 dalle rivalità tra la famiglia Macilenti e la famiglia De Fulcis. Venne a S. Vittoria, per mettere pace, il governatore generale Vincenzo Durante Vescovo di Orvieto, che riordinò e perfezionò il comitato della pace, già costituito da più secoli e legalizzato dagli Statuti Comunali.

Nel 1572 finisce pure la Diocesi di S. Vittoria. Gregorio XIII unì alla Diocesi di Fermo S. Vittoria, Montelparo, Monte- falcone, Montegiorgio. Questa risoluzione del Papa suscitò contrasti tra il Cardinale Protettore di Farfa e il Vescovo di Fermo, che si protrassero per più di un secolo, e solo nel 1747 S. Vittoria fu incorporata definitivamente nella Diocesi di Fermo.

Nel 1585, Sisto V elevò a sede episcopale la sua città di Montalto e risuscitò il Presidato, con sede in quella città; il Presidato di Montalto, che durò insignificante fino all’unità d’Italia.

PERSONAGGI ILLUSTRI

Sono tanti i vittoriesi che nel secolo XVI onorarono la patria col loro nome. Fra essi troviamo medici insigni, vescovi, legisperiti, uomini d’arme e artigiani che seppero imporsi per la loro personalità. Mi limiterò a un breve cenno di alcuni di essi che per il loro ingegno e per le loro opere maggiormente s’imposero alla loro epoca.

Benedetto Della Torre, notaio di $. Vittoria, nel 1446 compilò gli Statuti Comunali.

Annibaie Della Torre, nel 1549 curò la revisione degli Statuti Comunali e ne scrisse la prefazione in bel latino.

Francesco Torrìani, medico che visse nella prima metà del secolo XVI. Di lui il Panelli, nel suo libro: «Medici illustri del Piceno», pag. 131, dice:

«Considerando la di lui medica abilità e dottrina, mi pare che l’una e l’altra possa rimanere confermata dalla sua opera, riportata dal Vander Linden (de scriptis medicis p. 301) «Franciscus de Turre de S. Victoria scripsit» «Prognosticoii medicinale secundum temporum costitutio- nes», in quo Ipocratis aliorumque veterum huius argu- menti apbirismi collecti sunt et interpretati».

Ferrante Macilenti, medico della seconda metà del secolo XVI. In quell’epoca era primario professore nella città di Fermo, come sappiamo da Marino Massucci che, nel suo «Trattato della preservazione dalla peste», dice: «… occorre raccomandarsi alla SS. Trinità, alla Madonna e a S. Rocco, far penitenza dei propri errori, confessarsi e poi affidarsi a un buon medico . . . come sarebbe il mio cordialissimo Messer Ferrante Macilenti da S. Vittoria… (e ne cita altri) i quali veramente in questa nostra età sono veri esemplari e chiarissimi lumi di medicina».

Pietro Giovanni Melìs, vescovo di Monte Marano, presso Benevento. Ne parla lo storico P. Ughelli. (Italia sacra v. Vili

Giovanni Gaspare Melis, vescovo di Anagni nel 1626. Nel 1633 governatore della Maremma; cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro. Lo storico Ughelli così lo descrive: «Vir integerrimus ac morum suavitate spectabilis, cui me plura debere profiteor. . . ». In suo ricordo c’è una lapide nel nostro palazzo comunale.

Magister Marinus Ser Antoni: visse nella seconda metà del secolo XVI. Fu insigne professore di lettere nello Studio di Fermo.

Brunetti Domenico, intagliatore. Nel 1574 lavorò il bel coro della collegiata di S. Vittoria.

Il capitano Federico Malizia, che combatté valorosamente alla battaglia di Lepanto, nel 1571.

P. Costantino Agostiniano, visse nella seconda metà del secolo XVI. «Orna questa terra non poco il P. Maestro Costantino dell’Ordine Eremitano di S. Agostino; fu teologo nello studio di Macerata, reggente in S. Agostino di Roma e ora è Provinciale della Marca». (P. Civalli – S. Visita 1594 – Col. 25 p. 19).

Fra Berardino da S. Vittoria, costruttore di organi della prima metà del secolo XVII. Ne parla il Mariotti: «Il monastero e chiesa di S. Angelo Magno p. 47 e il Fabiani: «Ascoli del 600 p. 201». Costruì l’organo della chiesa di S. Angelo Magno.

Mastro Marino Lorenzini, nato a S. Vittoria nella prima metà del secolo XVII, intagliatore. Lavorò in Ascoli gli altari di S. Angelo Magno e la cappella di S. Venanzio. (Fabiani – Ascoli del 600 – p. 173).

Bernardino Malacarne, indoratore, lavorò in Ascoli nella prima metà del sec. XVII; di lui resta il tabernacolo della chiesa di S. Marco. (Fabiani – Ascoli del 600 – p. 192).

Una particolare menzione merita la famiglia Martini, una delle più antiche e illustri famiglie vittoriesi, che in ogni tempo diede alla patria uomini ragguardevoli.

Giuseppe Maria Martini, prefetto consolare alla fine del ’700;

Enrico Maria Martini, avvocato.

S. VITTORIA NEL SECOLO XVII

Tutta la storia del paese ormai si svolge intorno al Santuario e ai monaci farfensi.

Il Card. Montalto, nipote di Sisto V, amministratore di Farfa, per risollevare la disciplina dei monaci, volle unire Farfa alla congregazione di Cassino e tentò di piantare il noviziato dei monaci cassinesi a S. Vittoria; ma i monaci piceni non vollero saperne, e piuttosto che aderire all’unione con Montecassino, preferirono rinunziare ad essere monaci; per cui le chiese dei monasteri di S. Vittoria, di Force, di Montedinove, di Rotella e altre furono trasformate in Collegiate e i monaci divennero Canonici secolari, nel 1629. Restarono sotto la giurisdizione del Cardinale Commendatario di Farfa, fino al 1747, quando S. Vittoria passa alla; dipendenza dell’Arcivescovo di Fermo.

LA NUOVA BASILICA COLLEGIATA

Il ’700, per S. Vittoria, è un secolo di calma, nel quale fioriscono istituzioni caritative; si costruiscono palazzi nuovi e si costruisce la nuova Collegiata. La vecchia Basilica e l’an-nesso monastero, presentavano lesioni evidenti, e preoccupava pure il pericolo di franamento del colle.

A giudizio di esperti non conveniva restaurare, ma demolire e costruire di nuovo. Nel 1774 il Priore Terribili col suo capitolo decise di iniziare i lavori per la costruzione della nuova chiesa, su disegno dell’architetto Antonio Fazi di S. Severino. Si gettarono le fondamenta, ma per nove anni l’Architetto si rifiutò di seguitare i lavori; onde nel 1783 si affidò la fabbrica all’architetto Pietro Augustoni di Como.

Questi fece modificare il disegno della chiesa e, in dieci anni, regalò a S. Vittoria una delle più belle chiese delle Marche. Fu inaugurata il 15 agosto 1793; fu consacrata nel 1798 dal vescovo Agostiniano Giuseppe Menocchio; costo venticinque- mila scudi romani.

UNA UMILE BENEFATTRICE

Una signora vittoriese, Vittoria Perfetti, mentre già si incominciava a demolire la vecchia basilica, si incaricò di conservarne una parte: una cappella laterale, detta degli Innocenti, per l’affresco che ne rappresenta la scena. A sue spese, fece consolidare i muri della vecchia cappella, alla quale fece aggiungere la chiesa attigua, e così S. Vittoria, per merito di questa umile donna, può mostrare oggi al visitatore il «Cappellone», che è un prezioso resto della millenaria splendida basilica demolita.

DURANTE LA RIVOLUZIONE FRANCESE

La rivoluzione francese si sentì anche nelle Marche con molti danni e molte agitazioni sanguinose. Non mancarono seguaci dalle idee rivoluzionarie, ma la massa del popolo odiava i rivoluzionari, soprattutto per il loro ateismo. In molte parti del’Italia centrale si formarono grossi gruppi di resistenza, che furono chiamati «insorgenti», guidati nelle Marche dal Generale Lahoz. Uno di questi gruppi aveva il quartier generale a Servigliano; raccoglieva combattenti anche a S. Vittoria e nei paesi circostanti ed era guidato dal Conte Clemente Navarra, il quale riuscì a togliere Fermo ai rivoluzionari.

Il Comune di S. Vittoria ebbe a soffrire meno di altre città, per merito della sua tradizionale diplomazia.

Nel 1797 i Repubblicani saccheggiarono Montegiorgio e Amandola, dove gli Insorgenti si erano attestati, e il 12 giugno 1798 passarono, in numero di 1300, a S. Vittoria, dove le autorità comunali stimarono fosse cosa saggia accoglierli con deferenza, e provvidero per tre giorni l’alloggio per la truppa, evitando così molti danni. Ci fu pure qualche atto di gentilezza da parte dei francesi, poiché il Gen. Tudot scrisse da Tolentino al Comune di S. Vittoria, che mandasse a riprendere degli arredi sacri, che i soldati avevano portato via dal paese.

Nel 1808, Eugenio Boarnais, creato da Napoleone Viceré d’Italia, divise le Marche in tre dipartimenti.

Dipartimento del Metauro, con capoluogo Pesaro; dipartimento del Musone, con capoluogo Ancona e il Dipartimento del Tronto, con capoluogo Fermo; e sedici cantoni. Il tredicesimo Cantone era di S. Vittoria e comprendeva: Servigliano, Monteleone, Montelparo, M. Rinaldo, Ortezzano, S. Elpidio Morico, M. S. Pietro M., Monte Falcone, Smerillo.

S. VITTORIA E IL RISORGIMENTO

L’idea di una Italia unita, indipendente da ogni ingerenza straniera, che era stato il sogno di Giulio II; di un’Italia federale, che era stata l’aspirazione del Gen. Lahoz; di un regno d’Italia, tentato da Napoleone col Boarné e col Murat e che sfumò colla battaglia della Rancia (Tolentino) il 5 maggio 1815, incominciò ad affermarsi nell’animo degli italiani.

L’Austria, che dominava nel Lombardo Veneto e presumeva di esser la protettrice dello Stato della Chiesa, col suo governo, se vogliamo giusto, ma troppo duro nelle sue repressioni poliziesche, accendeva sempre di più i moti rivoluzionari e l’aspirazione degli italiani all’indipendenza.

Raccolsero questa aspirazione prima lo sfortunato Carlo Alberto di Savoia, poi Vittorio Emanuele II, che non restò insensibile al « grido di dolore » degli Italiani. Ma dovette duramente combattere per diventare Re d’Italia, sia contro l’Austria, che contro gli stessi italiani; perché non è affatto vero che tutto il popolo italiano volesse l’unità, sotto il Re del Piemonte. I rivoluzionari, e non tutti, si, ma il popolo nella maggioranza non amava il Piemonte per due principali motivi: I Piemontesi erano stimati irreligiosi e nemici della Chiesa; il governo austriaco era duro, ma era giusto, e il popolo ama la giustizia.

A conferma delle mie affermazioni c’è il fatto che, quando l’esercito piemontese attraversò il Ticino, i contadini lombardi allagarono le pianure, per ritardarne la marcia; e nell’Italia Meridionale durò molti anni la lotta per vincere la diffidenza di quelle popolazioni.

Il popolo di S. Vittoria, come gran parte del popolo marchigiano, non era entusiasta del Piemonte. Come volete che un popolo di antica tradizione cattolica, accogliesse con animo sereno un governo che cacciava frati e monache dai conventi, che requisiva i beni della Chiesa, che arrivava a mettere in prigione l’Arcivescovo di Fermo Card. De Angelis? Per conquistare l’animo di questo popolo, si richiedeva una politica diversa.

GLI ILLUSTRI VITTORIESI DEL RISORGIMENTO

Ma anche S. Vittoria, diede il suo contributo all’unità d’Italia, con uomini ragguardevoli e soldati valorosi.

Vincenzo Laccavi (1816 – 1892) dottore in legge, amico intimo di Garibaldi. Ricoprì diverse cariche onorifiche, fino ad essere prefetto di Piacenza, poi di Macerata. Morì a S. Benedetto e la sua salma fu trasportata a Roma per essere cremata, conforme la sua volontà». (Mannocchi – Figure del Risorg., v. I, p. 327).

Filippo Lamponi, nacque a S. Vittoria nel 1827. Dottore in legge e buon letterato, lasciò scritti politici, una traduzione di Sallustio e saggi di storia. Ricoprì cariche di governo in molte città, fino a prefetto in Basilicata, poi a Reggio Emi¬lia, dove morì nel 1881. Era cavaliere dei SS. Maurizio e Lazaro, commendatore della Corona d’Italia e della Repubblica di S. Marino.

Raffaele Ettore Lamponi, nacque nel 1832 e fu valoroso guerriero. Combatté a Palestro, a Custoza e fu uno dei primi a entrare in Roma dopo la Breccia di Porta Pia. Con lui combatté anche il fratello, Ten. Giuseppe Lamponi, oltre ai militari vittoriesi: Cerquozzi Tito, Corazza Raffaele, Funari Giuseppe, Panaioli Damasi, Petracci Emidio, Traini Filippo, Ventura Ulderico, Viozzi Pacifico fu Illuminato, Viozzi Pacifico fu Felice. (Gogna p. 258).

Fecero parte dell’esercito italiano nella guerra del 1866; Armini Cosimo, Ascenzi Luigi, Cerquozzi Tito, Ciuccaloni Costantino, Cocci Nicola, Corazza Raffaele, Diletti Domenico, Diletti Vincenzo fu Sante, Funari Giuseppe fu Pacifico, Funari Marino fu Domenico, Funari Michele fu Sante, Lupi Francesco, Pallotti Domenico, Paoloni Marco, Parisani Pasquale, Peretti Nicola, Petracci Emidio, Squarcia Natale, Squarcia Pietro, Traini Filippo, Ventura Ulderico, Viozzi Pacifico, Zeppilli Giovanni. (Gogna – Marchigiani nella guerra del 1866 p. 215).

Gregorio Lamponi che combatté a Bezzecca, al seguito di Garibaldi.

APPENDICE

LETTERA I

Benedetto della Torre, notaio di S. Vittoria, nel 1446 codificò le leggi e le usanze, che per più secoli avevano regolato la vita civile del Comune, e ne venne il «Volumen Statutorum» che, nel 1549, Annibale della Torre, pure di S. Vittoria, fece stampare riveduto e aggiornato.

Io  vorrei che tu, giovane lettore, potessi leggere il volumen Statutorum, perché ne trarresti grande piacere e un accrescimento della tua cultura storica. Siccome non ti sarà possibile, almeno per ora, leggere il bel latino di Annibale Torriani, te ne riporterò qualche brano tra i più interessanti, che ti faranno un po’ conoscere l’organizzazione del Comune e della vita civile del nostro paese nel ’400.

IL GOVERNO COMUNALE

La base di tutta l’organizzazione governativa del Comune di S. Vittoria era nel CONSIGLIO GENERALE, eletto dal popolo. Era composto di sessanta uomini: dieci per ogni se¬sterio; poiché la città si divideva in sei sesteri o contrade: Sesterio di S. Giovanni; di Monterodaldo; di Poggio; di Salvatore; di S. Croce e di Bora.

Il   Consiglio Generale si adunava nell’aula magna del palazzo del Podestà, sulla piazza della Perticara, «sono tubae, sono campanae et voce praeconis», e si rinnovava ogni sei mesi.

     Il Consiglio Generale sceglieva ventiquattro tra i suoi membri, quattro per ogni sesterio, che avessero almeno venticinque anni, i quali formavano il CONSIGLIO DELLE PROPOSTE ( Consilium Credentiae ). Esso si adunava in un’aula del palazzo comunale detta «LOGGIA», e studiava le proposte utili per il paese, che poi si discutevano nel Consiglio Generale.

In casi straordinari nei quali il consiglio generale credesse necessario non prendersi da solo tutte le responsabilità, si adunava il PARLAMENTO GENERALE, composto da un membro di ciascuna famiglia e non più. Qui tutti potevano esporre il loro pensiero, dopo aver giurato sul Vangelo di parlare con sincerità e buona fede.

Il Consiglio Generale governava il Comune per mezzo di SEI PRIORI.

«Seguendo l’esempio dei nostri antenati e l’usanza della nostra città, vogliamo che il nostro Comune sia governato da sei uomini onesti, uno per contrada». (Stat. Com. I. XV. p. 16). Essi erano eletti così: si adunava il Consiglio Generale; i consiglieri di ogni sesterio eleggevano dodici uomini della loro contrada. I Priori e il Podestà scrivevano su piccole strisce uno ad uno i nomi degli eletti; poi a loro giudizio, univano i nomi in gruppi di sei, uno per contrada, in modo che ne risultavano dodici gruppi o pallottole ( palluttae ). Si mettevano le pallottole in una cassetta sigillata e se ne estraeva a sorte una ogni mese; i nomi in essa contenuti erano i sei Priori del mese.

I Priori erano i veri governatori della città. Ogni giorno dovevano recarsi di buon mattino in Comune, per sbrigare gli affari del paese e restarvi fino alle nove e se necessario, tornavano in Comune anche la sera dopo il vespro. Dovevano assistere a ogni consiglio, su scanni loro riservati e potevano prendere la parola e fare proposte. Anche in chiesa sedevano su scanni riservati.

A capo dei Priori c’era il SINDACO (MASSARIUS COMUNIS).

«Quando bisogna eleggere il Sindaco, dicono gli statuti comunali, si aduna il Consiglio Generale e i Consiglieri di ogni sesterio eleggono uno della loro contrada da essi ritenuto adatto per essere Sindaco; cosicché si avranno sei eletti. I signori Priori imbussolano i loro nomi e a suo tempo ne estraggono uno, che durerà in carica sei mesi. (Stat. Com. I. XVII – p. 18).

Suo ufficio sarà: «governare, amministrare, proteggere, conservare difendere le cose, i beni, i diritti, i privilegi e tutte le immunità del nostro Comune, e rappresentarlo anche in tutte le cause civili e criminali». (Stat. Com. I. XVII – p.19).

Almeno una volta durante il suo ufficio doveva visitare tutti i confini del Comune; almeno una volta al mese doveva rendersi conto personalmente dell’operato del Podestà e degli altri ufficiali del Comune; essere presente in ogni consiglio ed opporsi, eventualmente, contro qualsiasi proposta che fosse contro lo Statuto Comunale. Il Sindaco era il controllore responsabile di tutto l’andamento del Comune. C’erano poi gli impiegati con uffici e responsabilità ben determinate; primo tra essi IL PODESTÀ’.

Mettiamo il Podestà tra gli impiegati comunali, in quanto era un uomo di legge, eletto dal Consiglio Generale e stipendiato dal Comune; ma era di fatto la prima autorità del Comune, colui che amministrava la giustizia e garantiva la legalità di tutta l’attività comunale.

 Era sempre un forestiero di un paese lontano almeno quindici miglia da S. Vittoria. Doveva sedere in tribunale almeno una volta al giorno, eccettuati i giorni considerati festivi; doveva per mezzo dei suoi dipendenti, una guardia e due servi, curare l’armamento del Comune e non assentarsi mai dal paese senza il permesso del Consiglio. Tutti i cittadini erano soggetti al suo tribunale e senza suo permesso nessuno poteva appellarsi al tribunale del Preside, che pure risiedeva a S. Vittoria. L’ufficio del Podestà durava sei mesi.

Anche il CANCELLIERE, corrispondente all’odierno segretario comunale, era sempre un forestiero, di una località lontana da S. Vittoria almeno dieci miglia.

Suo ufficio era: tenere in ordine i libri delle entrate e delle uscite; scrivere i verbali delle adunanze e conservarli nell’archivio; interessarsi della guardia diurna e notturna delle mura; sostituire il Podestà, in caso di assenza di questi. Il cancelliere era affiancato dal NOTAIO dei danni, corrispondente alla nostra guardia civica, il quale doveva vigilare sulla pulizia delle vie, sulla manutenzione delle fonti, dei ponti, delle strade fuori del paese ecc., e infliggere e riscuotere le possibili contravvenzioni.

Il Cancelliere e il Notaio dovevano mantenere il segreto sulle carte e sulle notizie che avessero potuto turbare la pace del paese; abitare divisi dal Podestà e non mangiare né bere in sua compagnia.

Per riscuotere le somme dovute in seguito ad atti giudiziari, c’era il DEPOSITARIO, che si cambiava ogni sei mesi. Doveva esigere solo dietro mandato scritto del Podestà e conservare le somme a disposizione del Comune; poteva consegnarle solo dietro carta scritta del Consiglio.

 Il Sindaco, il Podestà, il Cancelliere e il Depositario, alla fine del loro ufficio, dovevano render conto del loro operato a un gruppo di cittadini scelti dal Consiglio, che si chiamavano RATIONATORES (ragionatori, controllori), e potevano anche correre il rischio di pagare i loro sbagli.

In tempo di tranquillità, le tre porte del paese: Porta S. Giovanni, Porta S. Salvatore e Porta S. Ippolito, erano custodite da tre cittadini di S. Vittoria, con precise responsabilità; sospendevano il loro ufficio quando, in tempo di emergenza, si faceva guardia diurna e notturna sulle mura. Si cambiavano ogni anno.

Chiudevano la serie degli impiegati comunali DUE BALI’ (Baiuli): uno vigilava sull’ordine pubblico e riferiva possibili disordini a chi di dovere; l’altro, TROMBETTA (Tubecta) o banditore, pubblicava a suon di tromba gli avvisi delle autorità comunali e altre notizie utili alla popolazione. Tutti e due recapitavano gli avvisi, gli ordini, le citazioni del Comune. Duravano in ufficio un anno.

LETTURA II

ALCUNI ASPETTI DELLA VITA CIVILE

LA RELIGIONE

Per tradizioni gloriose e per l’opera mirabile dei monaci, S. Vittoria era profondamente religiosa. Nata e ingrandita nel Nome della Santa, la città chiamava S. Vittoria sua Protettrice e Governatrice ( gubernatrix ). La onorava con solenni manifestazioni sociali nelle sue feste di Giugno e Dicembre, con la partecipazione delle autorità e di tutto il popolo organizzato nelle confraternite delle arti. Gli Statuti stabiliscono minuziosamente le modalità e gli obblighi del Comune e delle Confraternite nelle feste della Santa: la preparazione della festa, e il corteo per l’offerta del palio e dei ceri.

Apre il corteo il cero della Confraternita di S. Maria; seguono le compagnie delle diverse arti in quest’ordine:

Avanti i mugnai, i tavernieri, i fornai; 2° i manuali e i bifolchi; 3° carpentieri, muratori e vasai; 4° i cardones (cardatori); 5° i fabbri; 6° i mercanti; T il collegio dei letterati. Ogni Capitano delle diverse compagnie fa portare davanti a sé il cero, è accompagnato da due uomini scelti e seguito dai suoi artieri, due a due. Ogni confraternita deve mantenersi nel corteo tre piedi distante dalla confraternita che la precede. Chiude il corteo il Podestà e i signori Priori che fanno portare avanti a loro dai valletti del Comune il palio di seta da offrire alla basilica. Eh! era necessaria tanta minuziosità, perché si trattava di onorare la «Governatrice» della città.

     La rubrica XI del libro III pag. 76 punisce con forti multe la bestemmia contro Dio, la Vergine e i Santi; punita pure severamente l’ingiuria e l’imprecazione contro il prossimo (rub. XII pag. 77). Sia rispettato il giorno di festa tanto in città che in campagna (rub. II li. IV pag. 118); non è permesso nessun lavoro, né caricare la soma all’asino, né tenere in pubblico bancarelle per la vendita, ma è permesso vendere e comprare dentro casa; si fa eccezione per i medici, i farmacisti e per i macellai che possono vendere in pubblico tutti i giorni che si può mangiar carne. Però nelle feste di S. Vittoria, di Natale, di Pasqua, di Pentecoste è proibito assolutamente anche ai macellai aprir bottega.

La campana del Comune avvisava la sera prima i giorni festivi, le vigilie, le Rogazioni.

La pratica religiosa non è imposta, ma ogni festa i Priori debbono invitare il Podestà e gl’impiegati comunali se volessero andare a Messa con loro. Le feste e i giorni feriati erano tanti e in quei giorni non si svolgevano processi civili; mentre per i processi criminali i giorni feriati erano di meno.

LA DONNA E I MINORENNI

La donna di S. Vittoria nel secolo XV era lungi dal raggiungere lo stato di libertà e di parità col sesso forte, però negli Statuti si ha per essa una comprensione meravigliosa.

Gravemente era multato chi indirizzava una imprecazione o una parola ingiuriosa a una donna; come pure chi faceva le corna o chi cantava qualche strofa allusoria verso una donna (rub. XVIII 1. II pag. 82).

Prima del venticinquesimo anno di età la donna non può maritarsi senza il consenso dei genitori o di qualche stretto parente (rub. LVII 1. II pag. 103), pena per il marito una multa di cinquanta lire e per la donna, perdita del diritto alla dote. Se invece una giovane orfana ha un fratello, non deve maritarsi senza il permesso di lui prima del diciottesimo anno.

La rubrica LXIX 1. Il pag. 106 commina gravissima multa per chi solo invita una donna onesta al male; e più ancora per chi attenta con gesti alla sua pudicizia, sia essa nubile, maritata o vedova.

Grande e forse troppa comprensione per la fragilità (fragilitas sexus) della donna nelle azioni penali contro di essa. Per qualsiasi delitto la donna può esser condannata solo alla metà della pena. L’interrogatorio della donna accusata deve condursi dal Podestà nella chiesa più vicina alla casa di lei; in caso di carcere, la donna deve essere accompagnata giorno e notte da suo marito o da un parente prossimo per tutto il tempo della detenzione. (Certo era poco comodo).

La donna non deve causare spese inutili al paese, perciò deve essere molto modesta nel vestire; da qui gli articoli LXXVI e LXXVII del libro IV pag. 145. «Nessuna donna o moglie di chicchessia osi portare in testa cappucci o cappelli di panno, né alcun fregio di oro o di argento superiore alle due once e in tutto il corpo non più di una libra e mezza di argento e un’oncia e mezza di perle».

Nessuna donna deve portare abiti con lo strascico, ma i vestiti non devono toccar terra.

Il marito può correggere la sua moglie come crede, anche con mezzi di ferro, purché non ne venga del sangue (rub. XXXIX 1. Ili pag. 90).

Per i minori di quattordici anni molta comprensione ma poca delicatezza, Pene severe per chi li induce al male; correzione a base di nerbate per i delinquenti. I genitori possono correggere i figli come crederanno opportuno, purché non ne segua «rottura coxiae» o sfregio permanente. Uguale facoltà è data ai maestri (rub. XXXIV 1. III pag. 90); se però chi ha il diritto di correggere dovesse esagerare e venirne la rottura della coccia o altro danno grave, sarà condannato alla metà della pena.

LA PACE INTERNA

Gli Statuti sono molto particolareggiati nel sancire norme atte a conservare la concordia dei cittadini: è la preoccupazione principale del legislatore. .

Le autorità comunali debbono tener segrete la carte che possano turbare la pace tra i cittadini.

Punita l’ingiuria e l’imprecazione proprio per evitare discordie (rub. XX 1. I pag. 21). Il Podestà e i Priori ogni tre mesi debbono scegliere sei probiviri, uno per contrada, i quali vigilino per conoscere le possibili inimicizie tra i cittadini e si adoprino per toglierle onde prevenire disordini o delitti. In casi particolari, lo stesso Podestà convochi a palazzo le parti discordi e le costringa alla pace. Deve anche cercare mallevadori che garantiscano la pace raggiunta e assicurino che non av¬verrà niente di grave tra i contendenti.

Proibito portare armi di qualsiasi genere; sia quadrellittum, sia cultellum de pane acuto e più lungo di un palmo (rub. XLIV 1. III pag. 97).

Nessuno deve andare per la città senza lume, dal suono della campana serotina fino al mattutino; ognuno però può stare sulla pubblica via distante da casa sua fino alla terza casa, purché educatamente e senza armi (rub. XLVI 1. III pag. 99). Si fa eccezione per i medici, i barbieri, i chierici, i custodi di animali, i fornai che possono per giusto motivo andare anche senza lume.

 Proibito dire o riferire qualche cosa contro il Comune o contro qualche cittadino che possa suscitare scandalo o inimicizia (rub. LXXX 1. III pag. 110). Per esporre al Podestà qualche lagnanza nei riguardi delle autorità e degli impiegati, o anche qualche accusa contro terzi, c’era nella chiesa di S. Agostino una « cassepta seu tamburus » chiusa a chiave, dove ognuno poteva deporre segretamente la sua accusa scritta (rub. XXXVIII 1. I pag. 35). C’erano pure sei uomini segreti e giurati, uno per contrada, che dovevano riferire al Podestà qualsiasi malefatta entro tre giorni dall’accaduto (rub. XXX 1. III pag. 89).

E forse anche per favorire il mantenimento della pace, diverse rubriche limitavano i movimenti delle donne entro la città, per limitare cioè i possibili inconvenienti della loro lingua proverbialmente troppo sciolta e quindi capace di turbare la concordia.

In città non c’erano partiti ed era proibito per legge parteggiare per qualcuno. Ecco la rubrica L del libro III pagina 101: «Nessuno osi o presuma nominare o acclamare nel nostro paese o nel suo territorio, per la protezione di esso . . qualche signore, o Comune . . . o alcun partito guelfo o ghibellino . . .» pena duecento denari di multa.

IL TRADIMENTO E IL FURTO

I delitti più severamente colpiti erano il tradimento e il furto: il tradimento era punito colla confisca dei beni e poi il bando dalla città. Per prevenire questo delitto c’è una serie di articoli che multavano severamente «chi fa segnali da sopra le mura; chi entra o esce non passando per le porte della città;i portieri che aprono di notte la porta della città senza autorizzazione, ecc.».

Il ladro, se ruba di notte, è condannato al doppio della pena (rub. XXXV 1. III pag. 91); severamente punita anche la violazione di domicilio.

Il ladro deve restituire entro quindici giorni dalla condanna; se non lo fà, resti legato per un giorno alla catena del Comune sulla piazza della Perticara.

I    minorenni debbono essere costretti a restituire «ferula vel corrigia», che equivale: a nerbate.

Chi ruba al Comune deve restituire il doppio di quel che ha rubato (rub. XXXVIII 1. III pag. 94).

L’IGIENE

II   Podestà almeno due volte al mese deve bandire che si puliscano le vie, e ognuno deve pulire la via antistante la sua casa e portar via l’immondezza, entro il giorno seguente il bando; similmente deve esser rimossa la sabbia, la calce e il legname, purché non servano per qualche fabbrica in costruzione (rub. XXVIII 1. IV pag. 132)

Multe per chi imbratta le vie e i luoghi pubblici; per chi getta l’acqua sulla via; per i fabbri e sarti che gettano sulla via scarti e ritagli (rub. XXI – XXV – 1. IV pag, 132 ecc.).

Multe per chi impedisce lo scorrere delle acque lungo le vie; per chi negli angoli fa latrine che non siano chiuse da muro alto almeno otto piedi (rub. XXV 1. IV pag. 132).

Proibito severamente scavare fosse sulla piazza della Perticara da Porta S. Giovanni, fino a Porta S. Salvatore (rub. XXVII 1. IV pag. 132). Dentro la città non si può esercitare «artem feciae», affinché il fetore non contamini i cittadini (pag. 133).

 I calzolai e i conciatori di pelli non possono lavorare le pelli entro la città, né lavarle alle fonti pubbliche o ai lavatoi; né spandere le pelli al sole fuori della loro casa (pag. 134).

Non si può imbrattare, né lavare panni vicino alle pubbliche fontane, a meno di una canna di distanza (idem). Speciale cura per le fonti del Trocco e di S. Vittoria, dalle quali non si deve trarre acqua per uso murario.

Dentro la città non si deve maciullare né spandere il lino; né triturare il grano o la biada (rub. LXXIV 1. IV pag. 144).

Le donne che stanno a vendere qualche cosa non debbono filare, come non debbono filare quando stanno al forno (pag. 146).

Nella pagina 123 si impone ai fornai la forma e le misure del forno, affinché il fumo possa uscire liberamente dal camino e non infastidire i passanti e i vicini.

E questa lunga enumerazione ci sembra che basti per dare una idea di quanto i nostri avi si preoccupassero per la pulizia e l’igiene pubblica.

IL COMMERCIO

Né i commercianti, né alcun cittadino di S. Vittoria pagava mai dazio nel suo Comune, per antico privilegio, come non pagava dazio il commerciante che venisse a S. Vittoria da una località dove i vittoriesi potevano passare merci senza pagar dazio. Però:

«Chi trasporta merci attraverso il nostro territorio (pag. 120), se viene da un Comune dove i nostri cittadini debbono pagare la gabella, o il passaggio, deve anche lui pagare la ga-bella secondo le tabelle comunali … Se un vittoriese riceve la merce di un forestiero e, per evitare la gabella, dice che è roba sua, paghi il doppio.

 Chi ricusa di pagare le gabelle e passa di nascosto, senza pagare, può essere arrestato, condotto al nostro Comune e costretto a pagare il quadruplo.

Il commerciante invece che viene nel nostro Comune con merce da vendere, e per comprarne, deve pagare il dazio, secondo le tabelle comunali; ma solo il forestiero deve pagare il dazio, precisa la rubrica IV pag. 120, e lo deve pagare, non alla vendita al minuto, ma all’ingrosso.

La gabella e il dazio venivano riscossi da chi aveva dal Comune il dazio in appalto (usava anche allora). Chi vendeva doveva usare i pesi e le misure in uso nel Comune, che si trovavano presso il daziere ed erano una riproduzione bollata delle misure legali che si conservavano presso il Sindaco.

Le principali misure ufficiali erano: La CALDAROLA per l’olio, che conteneva circa sei litri; venti caldarole costituivano la SALMA che era la misura per la vendita del vino all’in- grosso.

Per i cereali c’era la QUARTA, che conteneva circa ventisette o vent’otto chili. La quarta legale era di pietra e si conservava presso il Sindaco; una riproduzione in legno bollata e ferrata si consegnava dal daziere a ogni molino del Comune.

Per il sale c’era l’OTTAVA, circa quattordici chili, l’ottava parte della salma, come la quarta ne era la quarta parte.

Per le tele l’unità di misura erano il PASSO (circa un metro) e la CANNA (poco più di due metri). Nella rubrica VII – libro IV pag. 122 si fa obbligo al Comune di rapportare la misura della canna e del passo, alla misura Ascolana.

L’unità di misura dei pesi era il RUBBIO (ventotto libre, cioè circa otto chili).

 I rivenditori della città, quelli che noi chiamiamo i bottegai, dovevano usare pesi e misure controllati dai messi comunali.

Chi poi vendeva pane, vino, carne, pesce e tutti i venditori forestieri ricevevano dal Comune 1’ASSETTUM, cioè l’assetto, il complesso necessario per la vendita: il banco, i pesi e le misure e dovevano rigorosamente attenersi a quelle.

Del commercio delle carni tratta la lunghissima rubrica XI del libro IV. C’erano i macellai, che chiameremmo di professione, che esercitavano il mestiere tutto l’anno ed erano obbligati a non far mancar la carne specialmente in giorno di festa; e c’erano i macellai occasionali, e ognuno poteva farlo, che vendevano la carne solo negli otto giorni che precedevano e negli otto che seguivano il Natale, la Pasqua e nei giorni di carnevale (carnis pluvium).

Questo ci dice la preoccupazione che ai cittadini non mancasse la carne; segno che il consumo di essa era rilevante e indice di un benessere cittadino non trascurabile.

Noi non possiamo, per brevità, seguire il legislatore che è molto minuzioso nell’enumerare i disordini da impedire e le regole da promuovere tra i macellai. Alla fine, affibbia ai macellai dodici sensali, due per sesterio, che vigilino la macellazione, l’igiene, la qualità e il prezzo della carne. I sensali faranno servizio così: in Aprile e Maggio i due sensali del sesterio di S. Giovanni; in Giugno e Luglio del sesterio di Monterodaldo; in Agosto e Settembre del sesterio di Poggio; in Ottobre e Novembre del sesterio di S. Salvatore; in Dicembre e Gennaio del sesterio di S. Croce; in Febbraio e Marzo del sesterio di Bora.

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NOTE

(1)- Penso che qui si tratti di due monasteri: S. Ippolito e S. Giovanni in Selva. Sarebbe stato difficile sistemare i monaci arrivati da far e quelli del luogo in un solo monastero; tanto più che questo non doveva essere più di una grossa casa di campagna, in quella che si chiama anche oggi Contrada San Giovanni.

(2)-Da Catino – Cronicon – in Colucci XXIX pag.20

“,,,, radunati Camerinesi Spoletan e moltissimi guerriglieri italiani, preparò accuratamente la battaglia contro i Saraceni…. Molti di questi fuggiti sul monte Garigliano, non è scampò nemmeno uno, ma tutti furono uccisi o fatti prigionieri.

(3)-Confronta D. G. MICHETTI – Ugo Abate di Farfa- pag.32-33.

(4)-Martirologio Farfense – XII – Kal. Julias”Hodie etiam Traslatio celebrator Gloriosissimae Victoriae Virginis et Martiris apud Firmanos”, Si traduce: oggi si celebra pure la traslazione della gloriosissima Vittoria Vergine e Martire presso i Fermani”. La data fatidica di quel giorno 20 giugno 934 consegnata nel martirologio per lunghi secoli venne celebrata dalla posterità farfense e finì per dare origine e il nome, come canterà più tardi poeta, a Santa Vittoria in Matenano, barriera inespugnabile dello Stato Farfense Piceno”

(5)- A. Pongelet – Catalogus ecc. – Traduzione di G. Crocetti

«… E fu stabilito che nella parte più sicura e più nascosta della catacomba si scavasse due fesse per seppellirvi i santi corpi delle sorelle (spirituali) di S. Vittoria; e in altra parte della catacomba si collocasse il santo corpo di Vittoria ».

(6)- La tradizione di molti secoli ci ha tramandato un grazioso miracolo, avve­nuto durante la traslazione del Corpo di S. Vittoria sul Matenano. Il corteo dei monaci e dei lavoratori piceni che tornavano dalla ricostruzione di Farfa, accompa­gnando il carro che portava il Sarcofago colle reliquie della Santa, era arrivato in vista del paese e non trovava acqua per dissetarsi, in quella giornata afosa. A un tratto, dalle orme segnate dai buoi che trainavano il carro, cominciò ad affiorare acqua che divenne sempre più abbondante e tutti poterono rifocillarsi. A ricordo di questo miracolo, sul luogo, c’è ora una misera fontana, che il popolo chiama « la fonte del Latte », perché le mamme che ne scarseggiano affermano di ottenerlo, bevendo di quell’acqua.

(7)- A poca distanza da Monteleone Sabina esiste la bella chiesa che la tradizione dice sorta su le rovine della villa dove visse prigioniera S. Vittoria. Intorno alla chiesa abbondano pietre lavorate che facevano parte della villa. Su quelle, un pelle­grino poeta così cantò, un giorno di febbraio 1968:

« Sullo scosceso colle ove spandeasi

Trebula al sole, qualche derelitto

Rudere resta tra gli ulivi, asilo

Al rettile e coltivatore inciampo.

La villa ove inumano amor ti tenne

Prigioniera, Vittoria, non c’è più:

Tutto travolse il tempo, ma il ricordo

Della Fanciulla che sfidò il dragone

E’ vivo sempre e ispira eterno amore.

E volò al cielo col petto squarciato

Tra queste pietre io vado meditando,

E le abbraccio e le bacio.

E’ forse questa

La pietra ove sedevi a ricamare,

Anelando al tuo Dio? Su quella forse

Il tuo piede leggero s’è posato?

Io ricerco una pietra carezzata

Dalla tua mano angelica. Qualcuna

Di queste pietre rotte, abbandonate

Ha udito la tua voce e la preghiera:

La tua angosciosa ha sentito e ha raccolto

Le lacrime segrete. O care pietre,

Qui da tutti obliate, voi non siete

Freddi sassi per me. Io da lontano

Son venuto a sentir la vostra voce:

Io son venua qua dal Matenano

Che in urna accoglie le beate Spoglie

Della vostra Vittoria. A me parlate

Di Lei, ché son venuto per sentire

Più vivo in me il suo spirito aleggiare.

Sul Matenano anch’io come ogni bimbo,

Primieramente con quello di Mamma,

Appresi pure il nome di Vittoria,

Lassà, nel monte di Vittoria Santa

Si consacrano i talami e le culle,

E sempre a Lei della fuggente vita,

E’ dedicato l’ultimo sospiro.

(8)- La Marca Fermana  si estendeva allora dal Musone al Pescara. Nel 1084 Tancredi occupò la parte a sud del Tronto, e questo fiume divenne confine tra la Marca e Il Ducato di Puglia,

(9)- Gio, Francesco Gallo – in Colucci XXIX, p. 31

(10)- Ugo . Destructio (tv Colucci XXIX) “I detti abati si divisero la Badia e Adamo prese la parte che era nella Marca”

(11)-Colucci – ivi n. XIX, p. 54

(12)- Reg. Farfense n. 744 anno 1039 « Guido detto Massaro e Longino fratelli, figli del quondam Guidone, detto per soprannome Lepre», donarono: « . . . terram nostram che abbiamo nel Comitato Fermano, che è il castello di Monte Prandone con la chiesa di S. Nicola e la nostra metà del castello di Sculcula (Porto d’Ascoli) con la nostra parte della chiesa di S. Aronzio».

(13)- «In Comitatu Firmano Monasterius S. Silvetri vel Santae Marinae cumomni integritate … et portum in Aso ». Si parla del secolo IX, quando i nostrifiumi abbondavano di acque e i ponti erano una rarità. A servizio dei viaggiatori e dei mercanti c’erano dei guadi che si attraversavano su grosse

zattere che si chiamavano “portoria”, ed erano una ricca fonte di guadagno per chi ne era padrone. Quindi Ortezzano era interessante per i monaci anche in considerazione del “portus”

(14)- Chronicon Farf.  cl 655, in Colucci XXXI pag. 44 “… elessero il nobile Berardo, figlio di Ascario, affinché sostenuto  dall’aiuto di tanti illustri parenti, non fosse costretto a cedere a bessuno  i beni della Badia”.

(15)- Questa interferenza del Papa riguardo alla Badia si spiega  col Concordato di Wornas nel quale si stabilì che fuori s’Italia l’Imperatore sceglieva il vescovo ed il Papa gli conferiva l’autorità spirituale: in Italia il Papa consacrava il vescovo scelto da lui e l’Imperatore lo intestava del Temporale. Il Concordato di Wornas era avvenuto pochi anni prima del 1121.

(16)- [1] Colucci – A.P. XXIX – n. XXI pag. 55

Gli obblighi in questione erano questi. Qualora in una faglia di vassalli ci fosse« una sola foemia » essa non poteva sposarsi senza il consenso del padrone. Se si sposava, o seguitava a prestare i servizi che prestava quando ancora era in famiglia, o li riscattava sborsando una somma. Così un vassallo non poteva comprar terre e cavalli, senza il permesso del padrone.

 (17)- Sull’argomento leggi: D. Giuseppe Michetti: Dal Feudalesimo al governo comunale nel Piceno- Edizione La Rapida – Fermo.

(18)- G. Colucci – A.P.  – XXXI – p. 13

 (19)- Ivi…. . (Nel vostro territorio) non prenderemo, né faremo prendere alcuna persona,: non prederemo le cose vostre, né permetteremo che altri le tocchi;…… promettiamo di mantenere, conservare e custodire e governare con giustizia: … alla maniera degli altri castelli della Basia meglio governati”.

(20)- Il primo Podestà di S. Vittoria che conosciamo è l’Abate Oderisio (1236).

(21)- COLUCCI  – A.P. XXIX – p. 68

“—- esse castellanum del castello di S. Vittoria ed abitarvi per due parti di ogni anno, e ivi immagazzinare tutti i prodotti delle mie terre al completo,,,, e vedere questi prodotti solo dentro il castello di S, Vittoria…”

(22)- COLUCCI – A. P. – XXXI n. XLIX p. 64

(23)- COLUCCI – A. P. – XXIX  p. 85

“Così se il detto castello (S. Vittoria) avrà guerra con qualcuno o Comune o castello promettiamo la mostra residenza durante la guerra- Inoltre promettiamo di tenere un cavallo con la sua armatura a disposizione del Sindaco e del Consiglio”.

(24)- G. COLUCCI – ivi – n. XLIII – p. 90

(25)- Ivi n. XLVI . p- 92

(26)- G. COLUCCI – ivi – n. XLVII – p. 93

(27)- G. COLUCCI – ivi – XLVIII – p. 95

(28)-Schuster – Imperiale Abbazia n.302

(29)- Schuster – Imperiale Abbazia n.303

 (30)-Teodori – Ascoli Piceno – pag. 12

« Le truppe imperiali, nel 1242, posero l’assedio ad Ascoli, ma considerando che le fortificazioni della città avrebbero imposto un lungo e difficile assedio, tentarono uno stratagemma. Chiesero che il loro condottiero potesse ossequiare le autorità, dato che le truppe erano là di passaggio. Gli Ascolani aprirono la porta sul ponte della Torricella, dalla quale entrò il Capitano e una piccola schiera. La mattina seguente si trovarono tutte le porte della città aperte e la città invasa e saccheggiata. Il Ponte, la Porta e la prima Via interna si chiamarono « TORNASACCO ».

(31)-G. Colucci – A. P. –XXIX n. LVI p. 102

(32)- Reg. Fermano – n. 279 – « Actum in ecclesia S. Martini de Firmo 21 Aprile 1261 ».

(33)…..debbono difendere il Comune di S. Vittoria, perché i signori di Fallerone molestano i cittadini di S. Vittoria per lo stipendio del Podestà e anche lai Curia Generale della Marca procurava fastidi. . . altrimenti il Comune di S. Vittoria non è tenuto a osservare ciò che ha promesso. . . ».

(34)- La bolla di Urbano IV che gli storici chiamano privilegio di Urbno IV, fu pubblicata dal Giraud nel 1892.

(35)- G. Colucci – A. P. –XXIX n. XLV p.126

(36)- Thener – Documenta etc. – Descritio Marchiae – Voi. I – t>. 343

(37)- «Ab antiquo est constitutum, dice FAlbornoz » «che il Giudice del Pre­sidato giudichi e porti a termine le cause civili e criminali con la stessa autorità del Rettore generale della Marca.. Ma siccome è più conveniente e più secondo il diritto che le cause maggiori siano discusse in un tribunale dove ci -sia un maggior numero di periti, stabiliamo che le cause riguardanti i diritti e il territorio delle varie città quelle riguardanti le rivendicazioni contro la Sede Apostolica e il Rettore; le cause tra il fisco e i pervati, non vengano giudicate dal Preside, ma dal Rettore e dai suoi giudici ».

(38)- F. Filippini – Il Card. Albornoz ecc. c. VI p. 152 (Bologna 1933)

(39)- F. Bonasera – Il Card. Albornoz nel VI cent. Ecc.

(40)- Pompeo Compagnoni – Regia Picena – p. 222

(41)- Serafino rete – Documenti albornoziani – p. 16 – Dalla pergamena n. 998 arch. Ferm.

(42)- Anonimo Fermano – (Cronache Fermane del Montani – p. 252)

Statata Firmanorum – lib. II – rubr. 25 «… viene sancito con questa legge che: i Signori Priori, il confaloniere di giustizia. .. insieme ai Regolatori, ai Capitani delle arti.. . debbano imbussolare quattro uomini per contrada oriundi della città di Fer­mo, esperti e preparati a svolgere pubblici incarichi. .. I quattro così scelti, ossia i loro nomi, siano posti in un sacchetto o cassetta; e i nomi dei Castelli… in altra casseta: Il Confaloniere estrarrà a sorte un nome di quelli imbussolati nella cassetta degli uomini scelti. Poi si estrarrà dall’altra cassetta il nome di un castello, l’uomo estratto sarà il Podestà di quel castello. . . ».

(43)- Colucci – A.P. t. XXXI – p. 85

« si dice Presidato di Montalto, perché in sé racchiude tutta la parte di territorio che viene governata dal Preside, che è un prelato inviato dalla S. Sede, e la città di Montalto, essendo l’ordinaria sua residenza, gli comunica il nome. Ma inoltre comprende la città di Ripatransone, e le terre di Castignano, Cossignano, Force, Montelparo, Montegallo, Montemonaco, Montefiore, Montefortino, Montedinove, Mon- terubbiano, Offida, Patrignone, Porchia, Rotella, S. Vittoria. In altri tempi però, nei quali si chiamava Presidato Farfense, possedeva molti più luoghi di quelli che ora appartengono al Presidato Montaltese ».

(44)-G. COLUCCI AP – t. XXIX n. LXXIII p. 130

(45)- G. COLUCCI – XXXIX n. LXXV – p. 133

(46)- G. COLUCCI – XXIX n, LXXVI – p. 134

(47)- G. COLUCCI – ivi n- LXXVII . p. 136

(48) Statuti comunali di S. Vittoria Rubrica XX libro IV pag. 147.

« Ogni anno, il primo maggio, il sindaco con notai e testimoni deve rinnovare la presa di possesso del castellare di S. Gualtiero e della sua pianura, poi di lì, procedendo lungo il Tenna, visiterà tutti i mulini del comune posti lungo il fiume, coi depositi di acqua (parate) e i vallati, poi passando presso i mulini di M. S. Martino, arrivi al fosso Mare e si porti fino al castellare di S. Giovanni in Perticara; poi passando di là del monte Schitone nella strada di M. Falcone, scenda al castellare o colle di Cumatica, poi fino all’Aso verso Force. E prendendo tutto il letto del fiume Aso verso i confini di Force fino al passo di Roncone presso il territorio di S. Salvatore quindi per il fosso di Roncone risalga per la valle di Giovan Bartolomeo fino alla strada di Montelparo al colle dei graniceli. Poi discenda per Gaianello fino alla chiesa di S. Pietro in Gaianello, poi passi in contrada di Ternano verso M. Leone, poi al castellare di ser Bonaccursi e scenda al fiume Ete. Indi, per il fosso Anito arrivi alla grande strada verso Sorbelliano; poi al fosso Tassiano e al castellare di S. Gualtiero. Il Sindaco deve prelevare da ogni luogo visitato dei ramoscelli in segno di possesso e presentarli ai Priori del Comune ».

La Piana di S. Gualtiero fu ceduta al Comune di Servigliano nel 1450. Ecco il trasunto della pergamena esistente nell’archivio di Servigliano.

Il 16 Giugno 1450, radunato il Consiglio nella « Sala Magna » del palazzo comu¬nale di S. Vittoria, presenti i Priori. . . (nominati) e il Podestà Thoma De Spicco- lis de Ancona, col parere faorevole del Consiglio, su richiesta dei signori Priori del¬la città di Fermo, Ser Antonio Marini incaricato procuratore e delegato, concedeva « prò fatis Dominis Prioribus Firmanis totum illud territorium apud Commune S. Vittoriae. . . in Plano S. Guartieri ac omne jus omnemque dictionem realem et personalem utilem » che avesse Ser Core sindaco di S. Vittoria in detto Piano, al Comune di Servigliano, fissando lo stesso procuratore i confini. I Capitani della città di Fermo o altri ufficiali, rientrando dette terre nel Comitato Fermano, garantiranno che la cessione non venga contestata né turbata ».

(49)- G. Colucci – A.P. XXIX n. (LXI pag. 112 « Giacomo di Placido, Giudice del Comune di S. Vittoria, insieme al Consiglio Ge­nerale e speciale; adunato secondo l’usanza con la voce del banditore e col suono della campana nella casa dello stesso Comune, unanimamente decisero di creare il presente Pietro Bonaccursi legittimo rappresentante e attore. . . nella causa col Venerabile Signore Gerardo Vescovo di Fermo, con pieni poteri ecc. ».

(50) – G. Colucci – XXIX – n. LXXVIII – pag. 137

(51) – Statuti Com, – Rubrica I – pag.101

(52) – G. Colucci –A:P: – XXIX- n. LXXXIX – pag, 157

(53) – G. Colucci – ivi n. XC – n.158

(54) – G. Colucci – XCJV – p. 167

(55) – G. Colucci –  A.P. – XXIX – CL – pag.185

(56) –Anton De Nicolò – Cronache della Città di Fermo

(57)  – G. Colucci – A.P. – XXIX n. CVI – p.196

(58) –  Anton De Nicolò – Cron. ecc.

(59) – G. Colucci – XXIX n. CVIII – pag 202

(60) – G. Colucci – A.P. XXIX n. CIX – p.203

 (61) – G. Colucci – ivi n. CX – p. 204

(62) – G. Colucci – XXIX n. CXII . p.ag. 207

(63)- G. Colucci – A.P. XXIX – n. CXIII- p. 209

(64)- G. Colucci – ivi n. CXIV – p. 211

(65) – G. Colucci – A.P. XXIX n. CXV p. 213

(66) – G. Colucci – A.P. XXIX n. CXVI – CXVII – pp.215-216

(67) – Anton De Nicolò – Cronache

(68) – G. Colucci – A.P. XXIX n. CXVIII, pag. 217

(69) – G. Colucci – ivi CXIX – p. 218

(70) – Balan IV – 368 – Muratori XVI – 1154

(71) – G. Colucci – A.P. XXIX- n.CXX – p. 219

(72) – Adami I – 2CI . p. 59

(73) – Anton De Nicolò – Cronache F. – p. 27

(74) – De Nicolò – Cronache Fermane n. 16

“Et demum venerunt ad ciuffam…. Finaliter fuerunt mortui ex inimicis tres caporale set centum equi.”. Machiavelli – Storie fiorentine – – “E in tanta rotta e in sì lunga zuffa che durò dalle venti alle ventiquattro ore, non morì altro che un uomo, il quale non di ferite, ma caduto da cavallo, calpestato spirò”.

(75) – Schuster – Imperiale Abazia – pag. 470

(76) – Schuster –ivi XII – p. 335 p. 350 – Arch. Vat. Reg. Gregori

(77) – Schuster – ivi – p.349

(78) – G. Colucci – A.P. XXIX – n. CXXIII – p. 225

(79) – G. Colucci – XXIX n. CXXIV – p. 226

(80) – G. Colucci – A:P: XXIX n. CXXV – p. 229

(81) – Anton De Nicolò – Cronache  anno 1434

(82) –Compagnoni – p. 330

(83) –Machiavelli – Storie Fior.

(84) – Anton De Nicolò – Cronache F.

(85) – G. Colucci – ivi n. CXXVII a pag. 240

(86) – Colucci – A.P. – n. CXXVII – pag. 238

(87) – G. Colucci – A.P. XXIX n. CXXXII – p. 248

(88) – ivi n- CXXXVI – p.253

(89) – G. Colucci – ivi CXL – p.260

(90) – Il vittoriese D. Giuseppe Crocetti, con varie pregevoli pubblicazioni, ha rivendicato a pittorri vittoriesi tante opere sparse qua e là nelle Marche e nell’Abruzzo.

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DELLO STESSO AUTORE

-Dal Feudalesimo al Governo Comunale nel Piceno (La Rapida – 1973)

-Rocca Monte Varmine (La Rapida – 1980)

-Fermo nella storia :

    1° Fermo nella letteratura latina (Fermo – 1980)

    2° Aspetti medioevali di Fermo (Fermo – 1981)

    3° Vicende fermane nell’età moderna

-Ugo I – Destructio – Traduzione e note (Fermo – 1980)

-Carassai (Fermo 1982)

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