GIUSEPPE MICHETTI
FERMO NELLA LETTERATURA LATINA
dalle origini alla fine del regno longobardo
volume primo
FERMO – EDIZIONE LA RAPIDA – 1980
Dedico questo lavoro
a tutti i miei scolari
mai dimenticati.
Questo che ti offro, lettore, vuole essere il primo volume di una mia Storia di Fermo. Il secondo è quasi pronto, ma la sua pubblicazione dipende dall’accoglienza che farai a questo primo; poiché non voglio aggiungere un libro inutile alle centinaia di lavori interessanti riguardanti la nostra Città.
Poiché non sono uno storico, ma un semplice narratore di storie, nel mio libro non troverai studi di archeologia, di paleologia o di epigrafia, né arida trascrizione di documenti d’archivio; ma leggerai il cammino, minuziosamente documentato, del popolo fermano attraverso i secoli.
Circostanze particolari, che non mi dilungo a specificare, mi hanno indotto a dividere l’opera in tre libri:
I vol. FERMO NELLA LETTERATURA LATINA
Dalle origini alla fine del regno longobardo
II vol. FERMO MEDIEVALE
Dall’800 al 1446 (fine della dominazione sforzesca)
III vol. FERMO NELL’ETA’ MODERNA
Fino al ‘900
Mi faresti una domanda inutile, qualora tu mi chiedessi se scrivo per ridotti o per gli indotti. A parte che i dotti non han nulla da imparare da me, la preoccupazione mia principale in questo faticoso lavoro è stata quella di presentare un libro che il lettore trovi, oltre che veritiero, come esige la storia, anche piacevole e interessante.
Se ci sono riuscito, poi giudicarlo solo tu.
Giuseppe Michetti
Chi scrive la storia deve sforzarsi
di far rivivere i sentimenti
e le passioni dei tempi andati.
(A. Gabelli)
INDICE
CAPITOLO I
pag. 7 I Piceni – Chi erano e da dove venivano
“ 8 I Piceni e le loro città
“ 9 Origini di Fermo
“ 10 Attività dei Piceni – Pesca, Commercio, Artigianato, Agricoltura
“ 11 Potenza militare de Piceni
“ 12 Alleanza Romano-Picena
“ 14 Primi dissapori
“ 15 Guerra Romano-Picena
CAPITOLO II
“ 19 Fermo città romana
“ 20 Colonia a Fermo
“ 21 Fedelissima a Roma
“ 23 I Gracchi e le leggi agrarie
“ 24 I Piceni contrari alla legge agraria
“ 26 Pompeo Magno
“ 28 Fermo dopo Pompeo
“ 30 Publio Ventidio Basso
CAPITOLO III
“ 34 Fermo imperiale
“ 35 colonia militare a fERMO
“ 36 Organizzazione civica
“ 37 Il censimento dell’Impero
“ 38 Lite con Falerio
“ 38 Fermo nell’Impero in crisi
CAPITOLO IV
“ 42 Fermo e le invasioni barbariche (400 + 776)
“ 42 Odoacre
“ 43 Gli Ostrogoti
“ 43 La guerra Gotica
“ 44 Fermo dopo la guerra Gotica
“ 45 Fermo longobarda
“ 46 Organizzazione longobarda nel Fermano
“ 48 L’agricoltura Fermana sotto i Longobardi
“ 50 Il Ducato di Fermo
“ 50 La Marca Fermana
“ 50 Fine del Regno Longobardo
“ 53 Lettura I
“ 53 Lettura II
PLINIO- Historia Nat. Cap.13.1.3
“ Quinta regio Piceni est quondam oberrimae multitudinis: CCCLX millia Picentium in fidem populi romani venère: orti sunt a Sabina voto vere sacro. Tenuère ab Aterno amne, ubi hunc est ager Adrianus et Hadria colonia a mari VII mill. Passuum; flumen Vomanum: ager Praetutianus Palmensisque; iten Castrum Novum et flumen Vibatinum; Truentum cum amne quod solum Liburnorum in Italia reliquum est. Flumina Albula, Tessuinum Elvinum (Tervinum) quo finitur Pretutiana regio et Picenum incipit (o Palmentrum?), Cupra oppi dum, Castellum Firmanorum et super id colonia Piceni nobilissima; intus Novana, in ora Cluentum, Potentia, Numana a Siculis condita. A iisdem colonia Ancona apposita promontorio Cumero, in ipso flectentis se orae cubitu, a Gargano CLXXXIII m. pass. Intus Asculani, Auximantes, Beregrani, Cinculani, Cuprenses cognomine montani, Falerienses, Pausulani, Pleninenses, Ricinenses, Septempedani, Tolentinates, Treienses cun Urbe Salvia Pollentini iunguntur”.
La quinta regione é il Piceno, un tempo fiorente per popolazione; si sottomisero a Roma 360.000 Piceni. Ebbero origine dai Sabini in occasione della Sagra di Primavera. Tennero il territorio che comincia dal Fiume Aterno, dove è l’Agro Adriano con la colonia Adria, lontana dal mare sette miglia; il fiume Vomano; l’Agro Pretuziano e il Palmense. Particolareggiatamente: Castronuovo e il fiume Vibrata: Truento col fiume, che rappresentano ciò che rimane dei Liburni in Italia..Il fiume Albula; il Tesino col quale termina l’Agro Pretuziano e incomincia il Palmense. Il castello di Cupra; il Castello dei Fermani e a monte di questo la più insigne colonia del Piceno. Nell’interno Novana, sul litorale Cluana, Potenza, Numana fondata dai Siculi. Fondata pure la loro Ancona attaccata al promontorio Conero, proprio all’insenatura del gomito, lontana 183 miglia dal Gargano. Nell’interno: gli Ascolani, Osimani, Beregrani, Cincolani, Cuprensi di nome Montani, Faleriensi, Pausolani, Pleninesi, Recinensi, Settempedani, Tolentinati, Treiensi, si congiungono a Urbe Salvia del Pollentino.
Questa di Plinio è la descrizione geografica del Piceno, la più particolareggiata e la più esatta che ci hanno tramandato gli scrittori dell’antichità romana. Da questa descrizione possiamo dedurre:
1)- Castrum Novum erano alla valle del Vibrata (flumen Vibatinum), quindi non era Giulianova. Ce lo fanno pensare anche i reperti dei dintorni di Corropoli.
2)-Truento è legata “cum amne”, quindi era nella Valle del Tronto, ma non presso la foce, perché quella pianura era inabitabile. Né, come sostiene il Colucci e qualche scrittore abruzzese, a Martinsicuro, perché quella pianura, nella remota antichità non esisteva. Tutte le cittadine rivierasche del Piceno sono sorte sui “relitti nel mare”.
3)- Truentum e Castrum Truentinum sono due località diverse da identificarsi, la prima con Monteprandone, la seconda con Acquaviva Picena, come ci suggerisce l’Itinerario di Antonino, e anche la Carta Peutingeriana. L’Itinerario, in questo punto è esattissimo. Esaminiamolo:
A)- Da Milano, attraverso il Piceno:
“Potentia Civitas-Castello Firmano M.P. XX – Truento Civiats M.P. XXVI- Catronovo
Civiatas M.P. XII”. Quindi dal Castello Fermano a Truento città, con 26 miglia.
B)- Per la via Flaminia, da Roma fino a Brindisi, attraverso il Piceno: “Ancona-Numana
m.p.VIII – Potentia m.p. X – Castello Firmano m.p. XII – Castro Truentino m.p. XXIIII –
Castronovo m.p.XII” . Quindi dal Castello Fermano a Castro Truentino corrono 24 miglia,
due in meno di Truento città. Da queste due miglia in meno deduco che Truento e Castro
Truentino non erano sulla stessa via; Truento era sulla via Adriatica, che allora correva
sulle colline. Tre miglia prima della città, l’Adriatica incrociava la Salaria, la quale
raggiungeva, dopo un miglio, Castro Truentino. Ed ecco spiegate le 2 miglia di differenza
tra Castro Truentino e Truento, indicate dall’Itinerario. Anche oggi è così.
4)- La via Salaria, della quale si discute se corresse a destra o a sinistra del Tronto, sicuramente usciva da Ascoli a destra del fiume e a un certo punto si biforcava: un ramo risaliva le colline di Ancarano e scendeva a Castronuovo (Corropoli); l’altro ramo attraversava il fiume (come oggi) all’altezza di Castel di Lama, e risaliva le colline di Offida, o di Castorano, o forse di Monsampolo, e andava a Castro Truentino (Acquaviva), venti miglia lontana da Ascoli. Per questo, nell’Itinerario di Antonino, la Salaria non tocca Truento città che era sulla via Adriatica, a sud del suo Castro. Alla Salaria non interessava la città, quando il suo “Castrum”, che sicuramente aveva raggiunto uno sviluppo superiore, per i traffici del vicino porto alla foce dell’Albula e per le saline. (Solo sull’Albula poteva stare porto di Truento; e le saline restarono attivissimi fino al tardo medioevo).
5)- “Castellum Firmanorum”, porto di Fermo, (che sicuramente non era Porto San Giorgio, ma
situato sulla foce dell’Ete, vicinissimo alla quale è il porto anche oggi) era una località distinta
da Fermo che stava più in alto (super id) “più in alto la più insigne colonia del Piceno”, che era
Fermo.
6)- Novana era nell’interno: “intus Novana”.
7)- Il Fiastra (Fiastrello) si chiamava”Fiume Pollentino “, da Pollentia, che era il nome piceno
della romana Urbe Salvia. Questa bella città occupava un posto centrale e una importanza
particolare, perché congiunta alle altre città picene da comode strade.
CAPITOLO I
I PICENI
CHI ERANO E DA DOVE VENIVANO
Vediamo che cosa ne pensano gli scrittori antichi.
Plinio: “ I Piceni trassero origine dai Sabini, per voto sacro di Primavera”.1
Strabone: “antichissimo e il popolo dai Sabini che sono indigeni; loro coloni sono i Piceni e i Sanniti”.2
Festo: “La regione Picena è chiamata così, perché quando i Sabini partirono per Ascoli, un pica si posò sul loro vessillo”.3
La favola di Festo e ripetuta da Paolo Diacono:” Dopo la regione Flaminia(Emilia), viene dodicesima il Piceno, che ha dalla parte australe i monti Appennini e dall’altra il Mare Adriatico. Questa regione si estende fino al fiume Pescara. In essa sono le città di Fermo, Ascoli, Penne e Adria decrepita per vecchiezza, la quale diede il nome al mare Adriatico. Quando gli abitanti di questa regione quì si diressero dalla Sabina, una pica si posò sul loro vessillo, per cui la regione prese il nome di Piceno.4
Queste leggende, come argomenti storici, valgono quanto la favola di Romolo che scava con l’aratro le fondamenta delle mura di Roma. Argomenti storici sull’origine dei Piceni non possiamo averne, ma questo non ci permette di scambiare la leggenda colla storia.5
Senza dilungarci a dimostrare irragionevoli tutte queste affermazioni, proponiamo una teoria che non è del tutto nuova, perché trattata, a modo loro, anche da autorevoli scrittori, specialmente da Giuseppe speranza nella sua opera: “Il Piceno”.6
Nel secolo XV a.C., l’Italia fu invasa da un grande popolo sceso dalle Alpi Orientali che man mano si dilatò fino alle regioni del Sud Italia, dove si incontrò con potenti colonie di altri popoli della stessa levatura civile. Era il popolo degli “UMBRI” (uomini forti), i quali probabilmente iniziarono l’età del bronzo delle nostre regioni.
Gli Umbri, occupata la Penisola, svilupparono la loro civiltà, a seconda della regione occupata, e da questo fattore nacquero pure le diverse autonomie politiche e culturali. Gli Etruschi, di fronte a un mare aperto, si diedero al commercio e raggiunsero presto una ricchezza e un progresso sociale meraviglioso, assimilando anche la cultura dei Greci e soprattutto dai Fenici, coi quali si trovarono presto a contatto di traffici; le popolazioni interne, come i Sabini, i Sanniti, i Vestini, si diedero alla pastorizia; i Piceni, di fronte a un mare segregato dalle vie dei grandi traffici, ebbero sì contatti commerciali con i Greci, ma la loro terra meravigliosamente fertile li spinse all’agricoltura, della quale divennero maestri. Strabone ci fà del Piceno questa descrizione:
“L’agro piceno è per natura adatto a ogni attività. La sua marina e tranquille pescosa e non è esposta incursioni piratesche; il suo clima è saluberrimo; le acque delle sorgenti pure e leggere; i suoi abitanti illustri in ogni epoca, sia nelle lettere, che nelle armi”.7
I PICENI E LE LORO CITTA’
Non sappiamo con sicurezza da che derivi il nome “Piceni” o “Picentes”, ma data l’antichissima leggenda del picchio, pensiamo che Piceni si chiamassero così, perché il loro simbolo, il loro emblema era il Picchio.
“Picentes” ci suggerisce anche un’altra possibile spiegazione: Picentes (da pix-picis) perché fabbricavano l’ambra artificiale, della quale troviamo abbondanti reperti archeologici, o anche perché usavano spalmare di pece le loro case di terra battuta, per renderle impermeabili.
Piceni potrebbero anche essersi chiamati, per dirsi discendenti del dio Pico, figlio di Saturno e agricoltore.
Di città PICENI stavano dove stanno oggi, perché l’origine di una città non è determinata dal capriccio, ma dall’ambiente favorevole all’insediamento umano. I Piceni non furono essi a scegliere la posizione delle loro città, ma trovarono anche che i luoghi abitati dagli indigeni erano le più adatte all’insediamento umano, egli si stabilirono. Le città picene non stavano nel fondovalle, a causa della malaria; non sugli estuari dei grandi fiumi, che s’impantanavano quasi tutti in grandi paludi; né in riva al mare per il pericolo di incursioni piratesche.8
Da Plinio e da Strabone possiamo conoscere che le città marinare Picene erano in media a sette o otto km distanti dal mare. Auximum supra mare, Potentia, Cluana (Civitanova alta), Firmum Cupra Marittima, Truentum, Adria. Le città interne erano in collina: Cupra Montana, Beregra, Settempeda, Pollentia (Urbisaglia), Pausula, Falerion, Novana, Ausculum.9 Nessuna nel fondovalle.10
ORIGINE DI FERMO
lasciando da parte le dotte elucubrazioni del Catalani, dello Speranza11 e di altri, i quali vogliono le città picene costruite da popoli, dei quali non sappiamo niente e, tanto meno, se hanno fondato città; scartando come infondata e illogica l’invasione del Piceno da parte dei Sabini e negando, per conseguenza, che il Colle Sabulo ripeta il suo nome da “Sabio”, progenitore dei Sabini; mi permetto di affermare che l’origine di Fermo si perde nella preistoria e la città non fu “fondata” da nessuno.12 Tremilacinquecento anni fa, anche nella nostra regione gli uomini abitavano nelle grotte e, dove non era possibile avere caverne asciutte, in capanne. Ce lo dicono le grotte che ancora rimangono a Montefiore, a Massignano, a Ripatransone, a Atri, a Civitella del Tronto; e anche il Colle Sabulo ospitò una città abitata da cavernicoli.
Furono gli “Umbri” a portare su queste colline i primi aneliti di civiltà e di progresso. Da questo grande popolo, sceso dal Nord, dobbiamo ripetere l’origine dei popoli Italici; la meravigliosa documentazione della millenaria civiltà etrusca; e l’Impero universale di Roma, che impose per sempre alle genti la sua civiltà col pensiero, colla lingua, colle leggi.
La parte degli “Umbri” che occupò la nostra regione determinò col tempo la sua autonomia politica; fissò i suoi confini dall’Esino al Pescara, e diventò una forte nazione: il Piceno.
Non furono essi a scegliere il Colle Sabulo, per costruirvi una città, ma trovarono che gli indigeni avevano scelto bene la loro residenza su questo colle, aperto su una immensa regione di ricche terre; alla luce abbagliante del sole nascente; alla brezza vivificante del mare sempre verde. Qui, vicino alle grotte degli indigeni incominciarono a costruire le loro abitazioni di terra battuta e alcune anche di pietra; ma preferivano costruire colla terra, perché la pietra scarseggiava in queste fertili campagne, e le case di terra resistevano meglio alle frequenti scosse telluriche.
Per la felice posizione, per la ricchezza del territorio, per la comodità dei traffici terrestri e marittimi, la città si ingrandì man mano, diventando la più rappresentativa del Piceno, e si chiamò Palma13. La descrizione infatti che del Piceno fanno gli antichi scrittori ci fanno supporre che le quattro grandi province che lo costituivano prendessero nome dalla loro città principale: Ager Adrianus = territorio di Adria; Ager Pretutianus = territorio di Pretuzio14; Ager Palmensis = territorio di Palma; Ager Beregranus = territorio di Beregra15.
Dei Piceni, nel migliaio d’anni prima della conquista romana, sappiamo pochissimo: solo quello che hanno voluto tramandarci scrittori romani di tarda epoca, nella quale anche Virgilio cantava la favolosa origine del popolo romano; poco anche possiamo conoscere della loro lingua molto affine a quella degli altri popoli italici, e della loro civiltà, testimoniata da scarsi reperti archeologici.
Qualche scrittore si affanna a descrivere l’ordinamento politico e l’organizzazione familiare dei Piceni, ma sono solo supposizioni fantasiose, impossibili a documentarsi. Qualcuno parla pure di re Piceni, ma la storia non si può fondare sulla fantasia.
Sappiamo che nel terzo secolo a.C., il Piceno era una forte nazione, poiché i Romani cercano l’alleanza “cum Picenti populo”, ma nessuno ci dice l’organizzazione civile e politica di questo popolo. Forse è probabile l’ipotesi del Catalani16, che il Piceno fosse una specie di repubblica federativa, che trovava la sua unità nei “Concilia” al tempo della dea Cupra, dove periodicamente si adunavano i rappresentanti delle varie città; e della loro vita civile possiamo solo affermare che usavano per i loro morti sia l’inumazione, che la cremazione.
Molto invece possiamo dire della loro attività e della loro potenza.
ATTIVITA’ DEI PICENI
Pesca- Commercio-Artigianato-Agricoltura
L’attività marinara dei Piceni era molto sviluppata. Si può arguire dalla descrizione di Strabone riportata sopra: “Piceni ora pisculanta”; se il mare era molto pescoso, avrà offerto un lavoro proficuo a molti pescatori. Il litorale, anche se le colline finivano quasi ovunque a strapiombo sul mare, presentava pure comode insenature per accogliere pescherecci, negli estuari dei fiumi minori17.
Ma i porti più grandi: Ancona, Numana, Fermo, Truento, Pretuzio, altri non ospitavano solo barche da pesca, ma da essi partivano le entravano velieri carichi di merci. In territorio ricco di agricoltura, ma povero di minerali, i Piceni avevano bisogno di esportare prodotti agricoli e artigianali, e importare materie prime per fabbricare arnesi da lavoro, armi, oggetti di lusso e monili.
Per la tintura delle stoffe, arte molto diffusa nel Piceno, avevano bisogno di materie coloranti, che le navi di Ancona, di Fermo, di Truento importavano dal sud, principalmente da Taranto18.
Benché il Piceno fosse molto boscoso19, era vantaggioso importare dal golfo veneto il legname di larice per la costruzione delle navi e delle case, data la sua maggiore resistenza.
Ma la grande ricchezza del Piceno era l’agricoltura. Gli antichi scrittori romani sono concordi nel dire meraviglie dei prodotti agricoli Piceni20. Marziale come incantato di fronte alla meravigliosa qualità del pane Piceno21.
Al pane si affianca il vino che abbonda in tutta la regione, ma si distingue per la sua finezza il vino dei colli palmensi e pretuziani22.
Plinio, Orazio, Giovenale trovano impareggiabili le frutta del Piceno: pere, mele, olive. Marziale afferma che non era pregevole un banchetto che non cominciasse e non si chiudesse con le olive picene23.
La lavorazione della carne suina e antica di tremil’anni, nelle Marche e raggiunse presto quella tipica perfezione, anche oggi imitata da ogni parte, ma non superata24.
Diffuso l’allevamento degli ovini, ma la pecora adriatica aveva un pregio maggiore, perché secondo alcuni, figliava due volte l’anno. Forse volevano dire che facevano due figli all’anno; come avviene quasi sempre anche oggi, che le pecore partoriscano gemelli.
Il tipico formaggio marchigiano si confeziona anche oggi come lo facevano gli antichi Piceni. Pure le galline di Atri fetavano due volte al giorno25.
Queste attività, questa ricchezza possiamo tranquillamente riferire anche, e direi principalmente a Fermo, che era al centro del fertilissimo Agro Palmense e provvista di un porto, tra i più grandi e comodi di tutto il Piceno.
POTENZA MILITARE DEI PICENI
Dopo quasi settecento anni dalla calata degli “Umbri” in Italia, la storia della penisola inizia un nuovo corso. Già si erano consolidate le varie autonomie nazionali dei popoli italici. Gli Etruschi avevano dovuto cedere i nuovi invasori Galli le pianure padane, ma restavano sempre una ricca e forte nazione, che dominava il territorio ovest degli Appennini, con favorevolissime relazioni commerciali verso Oriente, favoriti dalle miniere di ferro dell’isola d’Elba.
I Sanniti, intorno ai quali gravitavano le popolazioni minori dei Frentani, dei marrucini, dei Peligni, costituivano la fortissima nazione italica nel sud, che arginava all’espansione greca nella Penisola. I Sabini, in collaborazione coi Vestini e i Marsi, spaziavano con le loro greggi dai monti al mare, a sud del Tevere. I Piceni, che avevano fermato l’avanzata dei Galli all’Esino, occupavano la regione di qua dei monti, da questo fiume al Pescara.
Nell’ottavo secolo a.C., ci fu chi diede una organizzazione unitaria ai villaggi sparsi sui colli adiacenti al Tevere, facendone una città che si chiamò Roma e che doveva trasformare l’ordinamento politico d’Italia e del mondo. Su quei colli si incontravano i pastori Sabini e i trafficanti etruschi che vi avevano stabilito un fiorente emporio per i loro commerci. Da questi pastori e da questi commercianti, fusi con 1 accordo sapiente, se Roma, la città nella posizione strategica più felice d’Italia: abbastanza distante, per non subire attacchi dal mare, e abbastanza vicino ad esso, per goderne i vantaggi e annullare attacchi dall’interno.
Roma in cominciò presto ad allargare il suo dominio sulle città etrusche e sabine dei dintorni, e non nascose il progetto di sottomettere tutti alla sua obbedienza. Era il popolo degli “Umbri”, sceso in Italia tanti secoli prima, che si rinnovava e incominciava con Roma la sua riunificazione e la conquista del mondo.
Il cammino di Roma fu difficile, circondata com’era da nazioni forti; tanti pericoli superati, con coraggio incrollabile, appoggiato da una Provvidenza che guidava la sua ascesa fatale.
I progressi di Roma però non furono celeri, come a prima vista potrebbe sembrare, se nel 299 a.C. , cioè 455 anni dopo la sua fondazione, erano ancora minacciosi gli Etruschi, i Galli, i Sanniti, e poteva disporre di meno di trecentomila combattenti.
Quello che gli storici hanno voluto ignorare è , che Roma ebbe bisogno dei Piceni, per sopravvivere e per trionfare. Questo popolo di pacifici agricoltori non aveva mai avuto mire espansionistiche, ma era forte, sia per la sua ricchezza, sia per il numero dei suoi abitanti26. Nel 299 a.C. (455 di Roma), presentandosi gravi pericoli, a causa della feroce reazione Sannita da una parte, e gallo etrusca dall’altra, Roma chiese alleanza al popolo Piceno27. Questa alleanza difensiva e offensiva fu, per Roma, la salvezza, perché le sue forze venivano più che raddoppiate; per il Piceno, fu l’inizio della rovina.
ALLEANZA ROMANO-PICENA
Prima di narrare i fatti successivi a questa alleanza, per facilitarne la lettura e comprenderli meglio, voglio presentare un quadro cronologico di essi, sia”ab Urbe condita”, sia “ante Cristum natum”, avvertendo che nella narrazione userò solo le date a.C.
A.U.C. Ante CH
455 299 alleanza omano-picena
457 297 colonia romana in Adria
458 296 battaglia del Sentino
470 284 sconfitti i Galli Senoni
472 282 nuova guerra coi Senoni
474 280 guerra contro Taranto
475 279 sconfitta romana sul Siri
479 275 contro Pirro
483 271 conquista di Taranto
485 269 GUERRA ROMANO-PICENA
488 266 di deduzione della colonia a Fermo
489 265 1ª guerra punica
Nel 298 a.C., l’anno successivo all’alleanza, i Piceni avvertirono i Romani che i Sanniti preparavano la rivolta, sobillavano i popoli vicini, e anche essi erano stati sollecitati a seguirli28.
Per far fronte al pericolo sannita, si dovette indebolire il fronte etrusco, e ciò portò al nuovo accordo dei Galli cogli Etruschi che cercarono di approfittare dell’occasione favorevole per sopraffare Roma.
Il pericolo per Roma fu gravissimo. Mentre il suo esercito era impegnato su due fronti: a nord e contro i gallo-etruschi, a sud contro Sanniti, il condottiero di questi ultimi, Gellio Ignazio, compì una delle più brillanti operazioni strategiche di tutti i tempi. All’insaputa del nemico, con un forte esercito sannita, attraverso i monti, raggiunge l’esercito gallo-etrusco e, in una prima battaglia, sconfisse l’esercito romano presso Arezzo, ma ricostituitisi un nuovo esercito di romani e di Piceni, al comando di Fabio, e Decio Mure, i gallo-sanniti furono costretti a battaglia nella valle del Sentino, (presso Sassoferrato), e furono sconfitti e dispersi. Dicono che in quella battaglia, detta poi “della Tovaglia” dal nome della località, caddero 25.000 Galli e 8000 Piceni; tra i caduti fu Decio Mure e genio Ignazio condottiero dei Sanniti.
Ho detto che l’alleanza con i Piceni, per Roma, fu la salvezza. Difatti, come sarebbe finita quella guerra, se i Romani l’avessero combattuto da soli, mentre, anche aiutati dai Piceni, stavano per perderla? Ho detto che l’alleanza con i Romani, per il Piceno, fu l’inizio della rovina. Difatti, una delle quattro province Picene, Adria, non volle aderire all’alleanza e fece causa comune con i Sabini, favore dei Sanniti, per cui fu invasa dai Romani che vi collocarono una colonia, promettendo ai Piceni di ricompensarli di quella perdita. La ricompensa avvenne nel 282 a.C., dopo la sconfitta definitiva dei Senoni, poiché i Romani cedettero ai Piceni il territorio gallico fino a Rimini29. Magra ricompensa: i Piceni avevano perso una grande vecchia provincia e avevano avuto in cambio un grande territorio da colonizzare e difendere contro i Galli.
Però non azzardo l’ipotesi che le cose sarebbero andate meglio per il Piceno, se non avesse collaborato con Roma, perché qui si raccontano i fatti avvenuti, non i possibili.
PRIMI DISSAPORI
I Piceni si pentirono presto dell’alleanza contratta con Roma. Vi avevano aderito per una giusta valutazione politica. Questa città giovane irrequieta, polarizzava su di sé l’attenzione degli Etruschi e dei Galli al Nord, e dei Sanniti a sud; e finché queste tre forze si combattevano fra loro al di là degli Appennini, il Piceno poteva godere pace sicura. Ma ora che i gallo-etruschi e Sanniti si erano coalizzati per la rovina di Roma, i Piceni non si sentivano più tranquilli, perché l’eliminazione di quella città avrebbe accresciuto per essi il pericolo delle popolazioni confinanti, già alleate fra loro, e soprattutto il pericolo dei Galli, smaniosi di espansione. L’alleanza con i Romani significava per il Piceno salvaguardare l’equilibrio politico esistente, per assicurarsi la pace. Ma quando si accorsero, ed era troppo tardi, che l’alleanza con Roma significava obbedire a Roma, la loro collaborazione si raffreddò, e il peggio è che lo fecero capire.
Era bene che Roma fosse forte, ma al di là dei monti; ora invece si era affacciata sull’Adriatico e aveva piantato una forte colonia in Adria, che non aveva voluto restituire ai Piceni; e da qui Roma poteva controllare il loro traffico con le colonie greche del sud. In cambio aveva dato ai Piceni la Gallia Senonia, ma questa cessione, più che costituire un acquisto, era un nuovo peso, perché impegnava il Piceno a mantenere al Nord una continua vigilanza contro una prevedibile reazione dei Galli che restavano sempre fortissimi: in sostanza non era un dono, ma un servizio imposto.
Nel 280 a.C., i Romani mossero guerra Taranto. Gli alleati Piceni non potevano vedere di buon occhio questa guerra, perché le loro relazioni commerciali con questa città erano antichi e molto rilevanti; 1 vittoria avrebbe portato Roma sul Canale di Otranto, da dove avrebbe controllato i commerci dell’Adriatico e dello Ionio. I Piceni diedero a qualche aiuto, ma i Romani notarono la loro freddezza e corsero ai ripari, per costringerli a mantenere l’alleanza.
Il console Levino subì, sul fiume Siri, una disfatta dagli elefanti di Pirro. Il Senato di Roma ordinò che le legioni sconfitte fossero mandate a svernare a Fermo30. È il Senato che ordina, senza chiedere il consenso dei Piceni; e ordina di costruire a Fermo l’accampamento per svernare due legioni, come si sarebbe fatto in territorio nemico: due legioni, cioè circa dodicimila soldati, nel punto centrale e strategico della nazione.
Sicuramente fu la prima volta che Fermo sperimentò un’invasione nemica, poiché, anche se quelle due legioni di Ciociari non si potevano dire ufficialmente nemiche, lo furono per il loro comportamento e per gli immensi danni recati al territorio fermano.
GUERRA ROMANO-PICENA
Nove anni di guerra era costata ai romani la conquista di Taranto; ma la caduta di questa città aveva dato a Roma il dominio di tutta l’Italia Meridionale; sul versante Adriatico, Roma dominava dal Vomano in giù.
Non sappiamo se fu il Piceno a rompere l’alleanza e a darsi da fare per cercare aiuti contro di potere pericoloso di Roma; o piuttosto se furono i Romani a prevenire le mosse dei Piceni e attaccarli, prima che riuscissero a trovare alleati e formare una forte coalizione31.
Nel 269 a.C., il Senato romano spedì contro il Piceno i due consoli, Appio Claudio e T. Sempronio Sofo, il primo dall’Umbria, per le strette di Pioraco, scese nella valle del Potenza e conquistò Camerino, già occupata e fortificata dai Piceni; il secondo, per la via Salaria, scese nella Valle del Tronto.
Dalle mosse dei due consoli si può arguire che il loro intento era: ricongiungere le forze e invadere prima l’Agro Palmense e la sua capitale Fermo, per dividere il Piceno superiore da quello inferiore e costringere il nemico a combattere diviso su due fronti. Difatti il console T. Sempronio Sofo, evitò Ascoli, che gli avrebbe procurato gravi ritardi, perché in posizione imprendibile, e cercò di dirigersi nella valle dell’Aso. Superata la resistenza degli Ascolani a “Interamnia Poletina Piceni”, un centro nei pressi dell’attuale Comunanza32, giunse a Urticinum (Ortezzano), dove i Palmensi avevano organizzato una forte resistenza. Anche questa fu spezzata e Urticinum distrutta nel furore della battaglia33; ma il Console non poté seguitare l’avanzata, perché dovette ritornare nella Valle del Tronto, per fronteggiare un forte esercito piceno che stava organizzandosi presso Truento.
Qui si affrontarono l’esercito romano di Tito Sempronio Sofo, composto da due legioni, quindi non meno di 24.000 uomini34, e l’esercito Piceno, non meno numeroso e forte, benché gran parte delle forze picene fossero impegnate contro l’altro console, appio Claudio.
Già stava per iniziare la battaglia, quando un terribile terremoto seminò il terrore nei due eserciti. I Romani furono i primi a superare il timore superstizioso, per merito del loro condottiero che fu pronto da arringare i soldati, affermando che quel presagio era favorevole ad essi, e fece voto di un tempio alla dea Tellure; ma anche i Piceni, superato il primo terrore, si gettarono ferocemente nella mischia, la battaglia fu così feroce, che pochi furono i superstiti, da una parte e dall’altra35.
Dopo questa battaglia, i Piceni non videro alcuna possibilità di rivincita, e cercarono di salvare il salvabile, chiedendo la pace36.
L’importanza di questa vittoria fu stimata tanto grande dai Romani, che il Senato decretò di ricordarla, coniando per la prima volta monete d’argento37; e di onorare i due consoli con la celebrazione del trionfo38.
Con la conquista del Piceno, mentre per i romani veniva eliminata 1 nazione pericolosa, il loro territorio si accresceva di una grande e ricca provincia, popolata da oltre un milione di abitanti39.
NOTE
1- PLINIO SEN.- Historia Naturalis III-13.”Picentes a Sabini horti sunt voto Vere sacro”
2- STRABONE – Geographia – III-13- “Antichissima est gens Sabinorum et aunt indigenee; horum coloni sunt Picentini et Samnites”.
3- FESTO – Picena Regio – “Picena regio dicta, quod Sabina cum Asculum profisciscerentur in vexillo eorum picus consederit”.
4- PAOLO DIACONO – Storia dei Longobardi – “Post Flaminiam duodecima Picenus occorri, habens ab Austro Appenninos montes; ex altera vero parte Adriaticum mare. Haec usque ad flumen PiscariamPertendit.In qua sunt civitates Firmus, Ausculum et Pinnis, et iam vetustate consumpta Adria, quae Adriatico pelago nomen dedit. Huius abitatores cum e Savini illuc properarent, et eorum vexillo pivus consedit, atque hac de causa Picenus nomen accipit”.
5- non mi sembra ragionevole sostenere la migrazione dei Sabini nel Piceno, perché la popolazione si espande verso 1 zona più povera di abitanti; ma il Piceno, per la sua fertilità, doveva essere molto più popolato che non la Sabina a sparare montuosa. Così mi pare più ragionevole dare alla “Sagra di Primavera di Plinio il significato di una festa al tempio della dea Feronia che, come dice il nome, era protettrice degli animali (ferae), come il nostro S. Antonio. Quella festa si faceva per invocare la protezione della dea sui prezzi che, come si sa, in Primavera migrano verso la montagna. Non si capisce poi quale valore possa avere l’affermazione di Strabone secondo la quale sarebbero stati coloni dei Sabini “Picentini e Sanniti”, proprio 2 popoli che più d’ogni altro avevano fatto tremare Roma.
6- GIUSEPPE SPERANZA – Il Piceno – c. VI, p, 63 – Ed. S.T.A.M.P.A., Ancona, 1924.
7- STRABONE – Geographia: “Natura Picenus ager aptus ad omnia, cuius maritima ora tranquilla pisculenta, nec piratum incursioni bus esposita, cuius aer saluberrimus, cuius latice set et scatebrae innoxiae et leves;xuius incolae tam literis, tam militia clari Omni Tempore”.
8)- STRABONE dice il Piceno”non è esposto mai incursioni piratesche”; ma Strabone non poteva ignorare che ai suoi tempi l’Adriatico era infestato dai pirati. Forse voleva dire che i pirati non erano pericolosi, perché le città erano distanti dalla costa.
9)- T. LIVIO V-12 (Ascoli) “…locus munitissimus et (ob collem) in quo positus est murur et colles cingentes, qui coscendi a nullo possunt exercitu”.
10)- Mi si potrebbe contraddire citando Falerion ed Helvia; ma fo osservare che esse erano città romane, non picene. Anche Falerio Picena non era in pianura, ma addossata alla collina.
11)- MICHELE CATALANI – Il Piceno – Ancona ED. S.T.A.M.P.A. – 1934. Sono opere che, nonostante l’insufficienza critica ed evidenti manchevolezze, restano basilari per la storia locale.
12)- “Sabulo”, da sabbia. “Colle Sabulo”, Colle di sabbia, colle tufaceo,
13)- Alcuni autori, tra i quali G. Fracassetti: memorie della città di Fermo – Ed. Atesa- Bologna 1977-sostengono che la città si chiamasse Fermo anche prima dell’occupazione romana (pag.10). È 1 probabilità.
14)- Non si sa quali località corrisponde “Pretuzio”. L’agro Pretuziano andava dal bono, Tesino. I romani diedero molta importanza 1 città chiamata “Castrum Novum”, che qualche scrittore vuole identificare con Giulianova, la cui origine non mi pare possa essere Picena. Tutto sarebbe più ragionevole se si ponesse Pretuzio presso l’attuale Corropoli. 1 zona ricca di agricoltura; con un comodo porto sulla foce del vibrata; dove terminavano la via Salaria e la via di Campli e di Teramo. Invece di Pretuzio, forse si dovrebbe leggere “Prepuzio”, dalla forma del promontorio che la sovrasta.
15)- E’ incerta la posizione di Beregra. Con ogni probabilità Beregra corrisponde a Filottrano (Turchi- De Ecc. Camerin. Dissetatio praelim.).
16)- M. CATALANI – Origini e antichità permane – c. XI, p.89 – Ed. Lazzarini, Fermo, 1778.
17)- I porti non potevano essere sugli estuari dei fiumi maggiori, e non ci sono nemmeno oggi, sia per il loro corso a volte impetuoso, sia perché quasi tutti impantanavano in grandi paludi,
18)- SILIO ITALICO – Punica – VIII, 432: “Stat fucare colos nec Sidone vilior Ancon . Murice nec Libico…Q, Ancona non inferiore a Sidone e alla Libia per le porpore. Celebri pure le tintorie di Truento.
19)- LUCIO FESTO AVIENO – Descritio orbis terrae – v. 500: “Et nemorosi maxima cernes culmina Piceni Q. Ammirerai le altissime cime del boscoso Piceno, (Anche: VITRUVIO – II Lo: Plinio – XVI, 191.
20)- T. LIVIO – l. XXII – IX: “Per Picenum avertit iter non copia solum omnis generis frugum abundantem, sed refertum praeda, quam effusae avidaequae suae gentes rapiebant”. (Annibale volse la sua marcia attraverso il Piceno, non solo abbondante di ogni genere di frumento, ma ricco di prede che le sue genti sbrigliate e insaziabili portavano via).
21)- MARZIALE – Xenia 46 – “Picentina ceres nivea sic nectare crescit- Ut laevis arrepta sponcia turget aqua”. Il pane Piceno si gonfia di bianchissimo nettere, come una spugna si gonfia di acqua
22)- RUFO FESTO AVIENO – v.501 – “Mirum in Piceno gallicam placere vitem, picenum in Gallia”. Nel Piceno è molto gradita la vite gallica, come in Gallia la vite picena.
Idem- “Coma largi palmitis illic – tenditur, ac fuso baccu stegit arva flagella – tum qua vitiferos domitat praetutia pubes – plena vigoris agro”: Là si estendono larghe chiome di pampini, e dopo la vendemmia la vigorosa gioventù pretuziana tende i tralci su tutti i campi fertili di viti da essi coltivati.
PLINIO – l. XIV, c. 6 “Ex reliquis vinis a Supero Mari praetutia et Anconae nascentia et quae a Palma una sorte enata, palmensia appellantur”. I vini dell’Adriatico, quello prodotto a Pretuzio e Ancona e quello della stessa qualità prodotto da Palma, si chiamano “Palmensio”.
T. LIVIO – XXII,87 – “…opulenta fertili provincia exercitum alebat veteribus vinis, quorum permagna est copia, pedes equorum abluens”. In quella ricca e fertile regione, rianimava i soldati contadini invecchiati che la abbondano, medicandoci perfino gli zoccoli dei cavalli.
23)- MARZIALE – Xenia 35 – Epig. L. 1, 44 e seg. “Haec quae picenis venit subducta trapetis. Incoat, atque eadem finit oliva dapes. Questa oliva che viene sottratta ai Fantoni piceni apre e chiude il pranzo.
PLINIO – “Praeferentur … in ipsa Italia ceteris picenae”. Nelle stesse Italia (che vuole olive straniere), sono preferite alle altre le olive picene.
MARZIALE – “Et quae Picenum senserunt frigus olivae. Haec satis in gustu”. Sono molto gustose di olive che sentirono il freddo del Piceno.
PLINIO – c. 15 “Quid cum picenis excepersent semina pomis gaudes?” (Cioè: quanto è gioioso mangiare pomi piceni.
“Picenis cedunt pomis Tburtia succo, nam facie praestant”. I pomi tiburtini eccellono per l’apparenza, ma cedono ai piceni per il sapore.
24)- Marziale – Xenia – Ep. L. I,I ivi – “Filia Picenae venia Lucanica porcae – Pultibus hinc niveis grta corona datur”. (Le salsicce PICENI, confezionate in corona di profumate carne suina). Potete mangiare anche oggi ovunque salumi confezionati alla maniera marchigiana, ma quelli fabbricati dai nostri campagnoli sono un’altra cosa.
25)- PLINIO – V 53 – “Atrianis laus maxima”
(26)- PLINIO – “Regia Piceni quondam uberrimae multitudinis, CCCLX millis Picentium in fidem populi romani venerunt”.
27)- T. LIVIO – X – 11 – “Romae terrorem praebuit fama gallici tumultus ad bellum etruscum adiecti. Eo minus cunctanter fedus ictum cum Picenti populo est”. Terrorizzò Roma la notizia delle agitazioni dei Galli che aggravavano il pericolo della guerra etrusca. Immediatamente fu conclusa l’alleanza col popolo Piceno.
28)- T. LIVIO – X – 11 – “Cum hoc bellum segnius opinione esset, alterius belli quod non nullis invicem cladibus terribile erat, fama Picentium novorum sociorum inditio, orta est. Samnites arma et rebellionem spectare. Seque ab iis sollecitatos esse, Picentibus gratiae actae, et maxima pars curae Patribus ab Etruria in Samnites versa est”. (Mentre la guerra cogli Etruschi era nell’opinione comune non troppo vicina, per avvertimento dei suoi alleati piceni, si diffuse il timore di un’altra guerra più terribile, per il ricordo di alterne stragi passate. Dicevano che i Sanniti preparavano le armi per la rivolta e anche essi erano stati sollecitati a seguirli. Furono ringraziati i Piceni, e la massima attenzione del Senato si spostò dagli Etruschi ai Sanniti).
29- POLIBIO – “Regio Galliae quam Picenum vocant”.
T. LIVIO – “Ariminum in Piceno”.
EUTROPIO – “Senam Piceni civitatem”.
30)- FRONTINO – Stratagemma IV – l. “P. Valerio Consuli Senatui praecepit exercitum ad Sirim victum, ducere Firmum inique castra munire et hiemen sub tentoriis exigere”. Senato ordinò al Console P. Valerio di condurre a Fermo l’esercito vinto al fiume Siri e lì fortificare un accampamento e svernare sotto le tende.
31)- EUTROPIO – l. II, e XVI – “Pecentes bellum commovère”.
LUCIO FLORO – l. I, c. XIX – “Omnis mox Italia pacem habuit, quid enim post Truentu auderent? Nisi quod ultro persequi socios placuit. Domiti hinc Picentes et caput gentis Asculum”. Quasi tutta l’Italia fu in pace; dopo Taranto difatti chi avrebbe osato muoversi? Se non che si volle castigare che aveva favorito i nemici. Furono perciò sottomessi i Piceni e la prima città di quel popolo, Ascoli.
32)- Nei documenti medievali, Comunanza è sempre detta “Interamnia” Teramo.
33)- PLINIO – l. III – c. XII – “Item Urticinum in Piceno, deletus a Romanis”. Plinio afferma che gli Urticini furono deportati a fondare una colonia presso il lago Fucino, dove sorse una nuova Urticinum, che fu poi inghiottita dal lago.
34)- Una legione era composta da circa seimila soldati romani e quasi altrettanti alleati.
35)- FRONTINO – Stratagemma l. I – “Titus Sempronius Solus Consul acie adversus Picentes directa, cum subitus terremotus utrasque partes confudisset, exortatione confirmavit suos et impulit ut costernatun supertistione hostem invaderent, adhortatusque devicit”.
I. FLORIO: l. I, c. XIX – “Domiti hinc Picentes et caput gentis Asculum, P. Sempronio duce, qui tremente inter proelium campo, Tellurem deam promissa sede placavit”.
EUTROPIO – l. II, c. XVI – “Quinto Agulnio, C. Fabio Pictore Consulibus, Picentes bellum commovere, et ab insequentibus consulibus P. Sempronio et Appio Claudio victi sunt, et de bis triumphatum est”.
PAOLO DIACONO (da Orosio IV – II: “Sempronius Consul adversus Picentes duxit exercitum, et cum directe intra iactum teli utraque acies constituiaaet, repente ita cum orrendo fragore terra tremuit, ut stupore miraculi utrunque pavefactum agmem bebesceret, diu attoniti utrique populi esitavere praeiudicati incepti coscientia: tandem procursi conciti iniere certamen.Triste adeo istud proelium fuit, ut merito tantum humanum sanguibem, etiam cum gemitu horrisono, tunc evasere vicerunt et ad bis triumphatum est”. Contro le Sempronio diresse l’esercito contro i Piceni e trovandosi già le due schiere a un tiro di freccia, all’improvviso la terra tremò con sì orribile boato, che i due eserciti restarono esterrefatti da quel misterioso avvenimento e stettero sospesi per lungo tempo, esitanti se proseguire nel combattimento; finalmente riavutisi, si gettarono nella mischia. Fu tanto crudele il combattimento, che giustamente la terra tremò per il versamento di tanto sangue umano. Vinsero i pochi romani che poterono sopravvivere a quella battaglia e celebrarono il trionfo.
36)- T. LIVIO – Epit. L. XV – “Picentibus victis pax data”.
37)- T. LIVIO – ivi – “Tum primum argento uti coepit”. Allora per la prima volta incominciò a usarsi monete d’argento.
38)- SIGONII – Fasti Consulares ac triumphi – “… P. C. Consul de Picentibus anno CDXXCV … Ap. Claudius Consul, de Picentibus anno CDXXCV”.
39) – T. LIVIO – “Regio Piceni quondam uberrimae multitudinisCCCLXmillis Picentium in fidem populi romani venerunt”. Trecentosessantamila erano, secondo usavano fare il censimento i Romani, gli uomini dai 16 anni in su. Volendo includere donne e bambini, bisogna triplicare questa cifra.
CAPITOLO II
FERMO CITTA’ ROMANA
La guerra produsse nel Piceno gravissimi danni e sofferenze, ma se non ne causò di maggiori, si deve all’alto grado di civiltà raggiunto dalle due nazioni in conflitto. I Piceni appena si accorsero che la fortuna non era dalla loro parte, chiesero la pace, per evitare inutile spargimento di sangue con una resistenza che avrebbe potuto essere ancora lunghissima; e i Romani dall’altra parte dovettero apprezzare la fiducia che questo nobile popolo vinto rimetteva nella loro generosità1. In fondo erano vent’anni che collaboravano in reciproca stima e si erano conosciuti molto bene. Inoltre i Romani non combattevano per depredare e distruggere, ma per costruire un impero. Lo scopo era romanizzare i popoli vinti; e romanizzare il Piceno, per molte considerazioni, poteva essere un’operazione abbastanza facile, ma non del tutto indolore.
Ci furono deportazioni. Fu inevitabile, perché Roma non poteva correre il pericolo che i Piceni si risollevassero; ma la deportazione, come la praticavano i Romani, pur essendo molto dolorosa, era sempre molto meglio della schiavitù, che non ci fu, sembra, per i Piceni2.
Gli Urticini che avevano resistito all’esercito romano fino alla distruzione della loro città, furono deportati in massa sul lago Fucino, come detto sopra; altre piccole colonie di Piceni furono costituite nella Marsica; un numero considerevole di Fermani e di Castronovani furono mandati nel Salernitano3, per dar luogo a colonie di provata fedeltà romana che sarebbero arrivate nei punti strategici del Piceno. Questo rimescolamento di popolazioni italiche assoggettate fu il grande segno della saggezza politica di Roma, poiché mentre queste colonie costituivano un serio ostacolo al risorgere dello spirito nazionalistico delle popolazioni conquistate, diffondevano la conoscenza reciproca dei vari popoli della Penisola, e facevano dimenticare le singole patrie, per sentire di averne una sola: Roma.
L’appartenenza a questa patria non era uguale per tutti. C’erano i cittadini romani, che potevano affermare: “civis romanus sum”, e godevano rispetto e privilegi, mentre la massa dei popoli assoggettati non godeva della cittadinanza romana, che doveva conquistare con un lungo tirocinio di opere meritorie. I coloni, sempre gente scelta per meriti e fedeltà, godevano della cittadinanza romana e spadroneggiavano nel territorio loro assegnato. I Piceni deportati perdevano la loro patria meravigliosa sia che fossero strappati da Urticino, da Fermo, da Castronovo o da Atri, perdevano il loro ricche terre, ma conservavano la possibilità di rifarsi nella nuova residenza, con l’andar del tempo e col saper fare.
Dopo la conquista, le terre Picene diventarono proprietà del popolo romano, o terre demaniali, ed ebbero varie destinazioni: alcune furono lasciate ai loro proprietari, dietro un canone di affitto4, e proprietari erano detti ”Peregrini”, perché erano possessori temporanei, cui poteva sempre esser tolto il possesso; o diventavano proprietà di qualche patrizio influente, cui il governo di Roma dava la preferenza, ma sempre dietro versamento di un canone; o venivano distribuite ai coloni inviati nella regione.
Le colonie venivano inviate per assicurare la pacificazione delle popolazioni assoggettate e per avere sul posto forze sicure contro possibili attacchi nemici5. E siccome le colonie erano, come dice Tito Livio, i baluardi di Roma su terra e sul mare, le prime colonie inviate nel Piceno furono sistemate delle principali città marittime6.
COLONIA A FERMO
Nel 266 a.C., i romani collocarono una forte colonia Fermo e una Castronovo7. Il loro scopo, oltre che assicurare la tranquillità in quella parte del Piceno, Agro Palmense e Pretuziano, che aveva procurato più difficoltà a Roma, c’era anche la preoccupazione di intensificare la vigilanza sulle coste adriatiche, ora che si prospettava il primo urto contro Cartagine, padrone dei mari. Insediare colonie di provata fedeltà a Fermo e a Castronovo significava per Roma a rendere sicuro e disponibile in ogni eventualità il territorio centrale del versante Adriatico, con i suoi buoni porti, sufficientemente provvisti di navi. Era sommamente interessante la marina, ora che Roma dava inizio alla demolizione della potenza navale del tempo. Ed era in queste navi dei popoli assoggettati che Roma confidava: navi picene, navi della Magna Grecia, navi etrusche. Non erano agili navi da guerra, ma erano abituate a solcare i mari coi loro carichi di mercanzie; a trasformarle per combattere ci stava già pensando “l’ammiraglio” Duilio8.
Quanti coloni furono insediati a Fermo? Qualche autore parla di cinque o seimila, ma è impossibile stabilirlo. Se si considera la deportazione dei coloni Piceni nel sud dell’Italia, sufficienti a popolare diverse città oltre che il territorio salernitano, per rimpiazzarli furono necessarie migliaia di famiglie, delle quali gran parte furono certamente disseminate nel territorio fermano, strategicamente ed economicamente il più interessante.
Impossibile pure stabilire chi erano questi coloni. Non erano certo presi tutti della città di Roma. Siccome la colonia presentava diversi vantaggi, saranno stati parecchi i Romani ad offrirsi, ma la maggior parte dei coloni era sicuramente reclutata in diverse località; e sulla loro fedeltà alla Repubblica si sarebbe potuto contare con sicurezza, perché, anche se non lo fossero già, andando in colonia, diventavano cittadini romani con tutti i diritti che questo titolo comportava.
La romanizzazione del Fermano molto genere, per la moltitudine di coloni condottivi; per i tanti potenti romani che piantavano le loro curti in questo fertile territorio palmense; per l’opera di tanti pescecani Piceni che seppero acquistarsi le grazie dei dominatori e li aiutarono a tener soggetta la plebe e sfruttarla; e la storia di sempre.
Con la deduzione della colonia, venivano a trovarsi vicine due classi di popolazione con posizione giuridica diversa: i coloni, cittadini romani, proprietari delle terre loro attribuite, con ampi diritti e privilegi; i Piceni nativi senza diritti e, se possessori di terre, possessori “peregrini”, esposti sempre a subire angherie e prepotenze.
Ai coloni si assegnavano sei o sette jugeri (equivalenti a circa altrettanti ettari), ma quanti di essi, approfittando della loro condizione sociale, angariavano i vicini, costringendoli a vendere loro la terra, o a cederla sotto altro titolo, o a lavorare alle loro dipendenze? Io credo che nel Fermano cominciò allora il feudalesimo e quella servitù della gleba che fu la caratteristica dell’alto medioevo. Mi conferma in questa ipotesi il fatto che, centocinquant’anni più tardi, la legge di Tiberio Gracco richiese una nuova misurazione delle terre e una rettifica dei confini, per eliminare le avvenute appropriazioni illecite9.
FEDELISSIMA A ROMA
Fermo si inserì presto e con onore nella vita politica di Roma. Urbanisticamente non era granché, appollaiata sulla vetta del colle Sabulo che presentava davvero poche comodità; ma nelle intenzione di Roma, quel colle doveva diventare il baluardo della Repubblica sull’Adriatico a questa condizione di preminenza concorsero la posizione strategica meravigliosa di Fermo e la fedeltà e l’intraprendenza dei suoi cittadini.
Man mano, con opportuni sterri e livellamenti, la città cominciò a stendersi nella parte orientale del colle, dove sorsero le abitazioni di quei coloni che erano venuti per fare i signori; di quei plebei che, facendo i militari al servizio della Repubblica, avevano rapinato quanto bastava per vivere tranquilli; di tutti quelli che, per vivere, non avevano bisogno di zappare la terra e non ci erano abituati.
Tutti questi signori sentirono la necessità di provvedere la città di opere pubbliche indispensabili: il Foro, il Teatro, le Terme; opere che presentavano gravi difficoltà su un colle a forte declivo, ma facilitate un po’ dalla presenza di grotte che lo crivelavano e di facile demolizione.
Questa, che oggi chiameremmo villaggio, era la succursale di Roma sul versante Adriatico, nobilitata dall’intelligenza e dal valore dei suoi cittadini.
Con combattenti del suo immenso territorio concorse in modo forse decisivo, nel 220 a.C., alla vittoria di Talamone, dove l’esercito dei Galli fu annientato, e Roma portò i suoi confini alle Alpi.
Nei quasi diciotto anni della seconda guerra punica, il Piceno si trovò coinvolto più di ogni altra regione italiana e fu fonte inesauribile di aiuti finanziari e militari per la Repubblica.
Tito Livio è l’autore romano meno avaro di lodi verso i Piceni. Descrive i sacrifici che costò a questa regione la fedeltà a Roma; loda le coorti picene10, loda le città picene, tra le quali Fermo, che permisero la sopravvivenza della Repubblica11. Livio narra l’accorrere del console Claudio Nerone dalla Puglia al Metauro, attraverso il Piceno che fornisce generosamente vettovaglie e soldati: quei combattenti, nella massima parte Piceni, che sul Metauro salvarono la Repubblica, applauditi al passaggio di ritorno da folle deliranti di Piceni in genere e di Fermani in particolare, che sentivano l’orgoglio di essere Romani12.
Per mostrare di che cosa fossero capaci questi soldati fermani, riporto un episodio della guerra contro Antioco, delle 191.C., tratto dalla vita di Catone il Censore, scritta da Plutarco: “Già si faceva giorno egli era sembrato di udire un certo strepito; subito scorsi ai piedi di una rupe un accampamento Greco. Catone fece fermare la colonna, chiamati in disparte i Fermani del cui aiuto esatto e pronto era solito servirsi, disse loro: Desidero prendere vivo un nemico, per sapere di chi è quell’accampamento, quanti sono, le loro qualità, il loro modo di combattere e il loro armamento, per conoscere con chi abbiamo a fare. Per questo mi serve celerità e audacia come di leoni che assaliscono timidi animali. Aveva appena Catone detto questo, che i Fermani, così come stavano, si precipitarono giù per la collina verso l’accampamento nemico, dove irrompendo all’improvviso, seminarono la confusione e misero i nemici in fuga. Ne presero uno armato e lo condussero da Catone”13.
Nella guerra di Macedonia, il console Paolo Emilio si servì, per la maggior parte di combattenti Piceni, Marrucini e Peligni.
Nella battaglia di Pidna, del 168 a.C., si distinse una coorte fermana14, in ogni impresa militare, in Grecia, in Dalmazia contro i pirati, in Spagna, troviamo l’efficace intervento di navi e truppe picene.
Ma il più grande segno di fedeltà a Roma, Fermo lo diede durante la guerra sociale. Tutta l’Italia era in rivolta, con a capo i Sanniti e i Piceni, per costringere Roma a concedere a tutti gli italici la cittadinanza romana e il conseguente diritto di voto. I tre condottieri piceni: Guidacilio, Ventidio e Lafreno avevano ripetutamente battuto eserciti romani e avevano anche occupato le “colonie” del versante Adriatico, ad eccezione della sola Fermo che per la sua posizione resisteva ancora15.
In aiuto di questa città e per tentare da qui la riconquista delle regioni perdute, accorse con il suo esercito il console Pompeo Strabone16. Ma i condottieri Piceni lo affrontarono presso Falerio, infliggendogli una grave sconfitta17. Il Console poté fuggire con pochi dei suoi fino a Fermo, dove fu assediato dall’esercito Piceno, comandato da T. Lafreno18. Arrivato all’improvviso l’esercito dell’altro console Sergio Sulplicio, anche i romani assediati fecero una sortita, e i Piceni presi tra due fuochi, furono sopraffatti e messi in fuga, mentre Lafreno cadde combattendo eroicamente. Era l’anno 84 a.C. Pompeo Strabone poté così inseguire i fuggitivi fin sotto Ascoli e porre l’assedio a quella fortissima città, che resistette ancora lungamente, procurando anche gravi perdite ai romani19.
I GRACCHI E LE LEGGI AGRARIE
La guerra sociale si era risolta favore di Roma, salvata dalla fedeltà dei Fermani, onorati perciò con alte lodi in Senato e chiamati “fratelli” da Cicerone20.
Ma ora dobbiamo tornare mezzo secolo indietro, per conoscere i fatti che portarono gli italici ad armarsi contro Roma, perché la guerra sociale non fu un evento improvviso, ma preparato da lunga lotta che oggi chiameremmo “lotta di classe”, alla quale parteciparono attivamente personaggi Piceni e Fermani.
Lotta di classe, perché era un irriducibile contrasto tra due classi di popolazione: i cittadini romani con tutti i diritti; e gli Italici non cittadini, con molti pesi e nessun diritto. Erano troppe le ingiustizie che questi ultimi dovevano subire.
Nell’esercito, i cittadini romani, spesso assistiti da qualche loro servo, marciavano dietro l’insegna dell’aquila romana e trattavano con alterigia le coorti italiche che seguivano le insegne delle loro ragioni; e mentre questi dovevano sopportare i lavori e pericoli maggiori, andava loro la minima parte dei profitti e del bottino di guerra.
Dai Municipi, gli Italici vedevano crescere sempre di più la loro povertà, mentre cresceva la ricchezza dei prepotenti cittadini romani, diventati grossi latifondisti, padrone di tutte le terre migliori.
Nella direzione della cosa pubblica che governava era solo Roma, mentre gli Italici, privi del diritto di voto, non avevano la possibilità di far sentire la loro voce.
Nella stessa Roma, la distanza tra il patriziato e la plebe era enorme: da una
parte la ricchezza e il lusso smodati, dall’altra la povertà estrema. Ci furono di quelli che compresero il pericolo di questi mali sociali e tentarono di porvi rimedio; alcuni di essi diedero tutto, anche la vita, per questa causa.
Chi riformò l’esercito in modo democratico fu il condottiero Caio Mario, cittadino romano, ma italico di Arpino. Già nella guerra contro Giugurta aveva accolto nell’esercito plebei e italici. Incombendo, nel 100 a.C., il pericolo dei Cimbri e dei Teutoni che avevano annientato l’esercito romano a Orange, fu affidata a Mario la salvezza di Roma. Dietro suo suggerimento, il Console P. Rutilio Rufo, probabilmente Piceno, fece giurare a tutti i giovani italiani di non lasciare la patria, e fece vigilare i porti, affinché nessuno sotto i trentacinque anni si imbarcasse, Caio Mario raccolse ed esercitò questi giovani di ogni regione, li inquadrò sotto un unico vessillo, l’aquila romana, e a Vercelli annientò l’esercito dei barbari. Per ricompensa ai suoi valorosi giovani, largheggiò nel concedere a gran parte di essi la cittadinanza romana. Ne beneficiarono, tra gli altri, due intere coorti picene che si erano distinte in quella terribile battaglia. Ma questi erano semplici episodi che possiamo anche attribuire all’arbitrio di Mario e che avvenivano dopo anni di inutili lotte forensi.
Più di trent’anni prima, nel 132 a.C., Tiberio Gracco era riuscito a far passare la legge agraria. Essa proponeva la ridimensione della proprietà terriera: un cittadino romano non doveva possedere più di 500 iugeridi terra (circa 450 ettari); non più di 100 capi di bestiame grande e 500 capi di bestiame piccolo; il di più doveva essere distribuito ai non abbienti.
I PICENI CONTRARI ALLA LEGGE AGRARIA
Nel Fermano la legge gracchiana non piacque a nessuno: no ovviamente ai ricchi latifondisti; ma nemmeno ai poveri, i quali prevedevano che su quelle terre da distribuire si sarebbero gettati una moltitudine di affamati romani, ed essi ne sarebbero stati esclusi; più sicuro era per loro servire a padroni più ricchi. E furono i Piceni i più accaniti oppositori di Tiberio: Quinto Pompeo, fermano, e Popilio Lenate, pretuziano, ambedue senatori al tempo dei Gracchi.
Quinto Pompeo, che Cicerone dice”obscuro et Humili loco natus” di umile origine, iscrivendosi tra i coloni fermani, era riuscito ad ottenere la cittadinanza romana, e si era trasferito nella Capitale. Colto e ambizioso, seppe imporsi all’attenzione dei romani colla sua meravigliosa arte oratoria. Nel 140 a.C., fu eletto Console, entrando così a far parte della nobiltà che tramandò al figlio Pompeo Strabone e al nipote Pompeo il Grande.
Forse il consolato gli aveva dato la possibilità di diventare latifondista, o sperare di diventarlo (il che si avverò per i suoi discendenti, perché Pompeo ebbe grandi possidente nel Piceno)21, avversò accanitamente la legge di Tiberio e non potendo impedire che essa passasse, cercò di eliminare il suo autore e ci riuscì. Avendo Attalo, re di pergamo, lasciato in eredità le sue ricchezze al popolo romano, Tiberio propose in Senato che quelle ricchezze fossero impiegate per fornire di attrezzi agricoli quelli che per la sua legge erano diventati piccoli proprietari di terre. Quinto Pompeo, approfittando del fatto che abitava vicino alla famiglia dei Gracchi, affermò in Senato che egli conosceva i segreti di Tiberio: egli cercava il favore della plebe, perché aspirava ad essere il re, e si era appropriato della corona regale di Attalo, per servirsene a Roma. Questa ed altre calunnie eccitarono dei forsennati che, circondato Tiberio nel foro, lo uccisero e ne gettarono il cadavere nel Tevere.
Popilio Lenate, anche lui di umile famiglia, forse Teramana, riuscì a salire nella società romana, fino a diventare senatore. Sostenne l’iniziativa di Q. Pompeo e, dopo la morte di Tiberio Gracco, eletto Pretore, perseguitò i seguaci di lui, mandandone a morte diversi; ma poco più tardi, diventato Caio Gracco tribuno della plebe, Publio Lenate fu chiamato in tribunale per queste arbitrarie condanne; ed egli, per sottrarsi al giudizio, andò in esilio22.
Un altro fermano che fu al centro di queste agitazioni popolari fu Lucio Equizio. Nel 97 a.C., vinto dalla plebe della sua città, si presentò a Roma sotto falso nome, per essere iscritto come cittadino. Disse al Censore di chiamarsi Caio Gracco e di essere figlio del defunto Tiberio. Da una inchiesta e per testimonianza della figlia stessa di Tiberio, Sempronia, risultò che costui non diceva il vero, perché Tiberio aveva avuto solo tre figli che tutti conoscevano. Ma egli sostenne di essere figlio illegittimo di Tiberio. Negatagli la cittadinanza, provocò una sedizione contro il Censore, e fu condannato all’ergastolo. Ma riaccesasi la lotta politica, una schiera di plebei armati invasero le carceri, liberarono e portarono in trionfo Lucio Equizio e e lo volessero Tribuno insieme a Saturnino, nel 94 a.C.. In seguito, per qualche delitto politico, fu assalito e ucciso insieme a molti suoi sostenitori, tra i quali un certo Labieno di Cingoli.
Era davvero figlio di Tiberio Gracco? Non si saprà mai con certezza. Se allora usava come oggi, che i sindacalisti andassero in giro per le città ad eccitare la plebe, può darsi che il sindacalista Tiberio, in una visita Fermo, abbia lasciato per ricordo un figlio a una bella popolana Fermana, affascinata dalla sua eloquenza.
La guerra combattuta scoppiò con l’insurrezione di Ascoli, nell’autunno dell’85 a.C.. i consoli romani erano: Lucio Giulio Cesare, nelle cui legioni militavano il figlio Caio Giulio, Licinio Crasso, Lucio Cornelio Silla; l’altro console era P. Rutilio Rufo, nelle legioni del quale militavano Pompeo Strabone, Quinto Cepione, Caio Mario; tutti celebri condottieri, come è noto. Ma i condottieri italici non erano da meno. Quelli che conosciamo sono: i due consoli (del Senato di Corfinio) Pompedio Silone e Papio Mutilo, sanniti; Guidacilio, Ventidio e Lafreno, piceni; Vezzio Scatone, marso. Le forze degli Italici non erano inferiori alle romane e il loro valore forse maggiore, ma avevano uno svantaggio che fu decisivo: la loro unità d’azione era impedita dalle colonie romane, sparse un po’ dovunque, e la guerra sociale finì in Ascoli dove era cominciata.
Nell’83 a.C., Pompeo Strabone, eletto console l’anno prima e stabilitosi a Fermo, in una sanguinosa battaglia presso Ascoli, disperse l’ultimo esercito italico. Guidacilio, persa ogni speranza di salvare la patria, si diede la morte col veleno23 e Vezzio Scatone, fatto prigioniero, si fece uccidere da un fedele scudiero. Ascoli fu abbandonata al saccheggio e alla strage da Pompeo Strabone, Fermano di origine, che da quel saccheggio trasse rilevanti e illeciti profitti.
Il Senato gli decretò il trionfo24 che però non poté essere onorato dalla presenza di nessun grande condottiero italico. Seguiva il carro del vincitore la vedova del Piceno Ventidio con un bambino in braccio: quel bambino diventerà P. Ventidio Basso, console trionfatore dei Parti.
Pompeo Strabone, richiamato dal Senato, lasciò Fermo, per correre a difendere Roma dall’assalto di Mario, capo del partito popolare. Là morì di peste; e il partito mariano si impadronì del governo.
POMPEO MAGNO
Nato da famiglia picena, fermano per elezione, come suo padre Pompeo Strabone e suo nonno Quinto Pompeo; ebbe tutte le virtù e i vizi della sua razza. Intelligente, colto, sapiente organizzatore, forte e valoroso combattente, era adorato dai suoi soldati e dai Piceni in genere, nonostante che il nome della sua famiglia ricordasse loro tante sofferenze. Aveva ereditato da suo padre una finissima astuzia, per nascondere le sue idee politiche e la sua ambizione; e una smisurata avidità, per la quale divenne padrone di vastissime possidente, specialmente a Fermo e a Osimo.
Aveva vent’anni, quando morì suo padre, e fu chiamato in giudizio dal partito di Mario, per difendersi dall’accusa di peculato. L’accusa era di aver ereditato dal padre le ricchezze accumulate nel saccheggio di Ascoli, che dovevano andare allo Stato; e di essersi appropriato in quel saccheggio di una quantità di libri e di reti da caccia. (I libri e la caccia sono la passione dei Piceni anche oggi). Si difese brillantemente da sé, e il pretore Antistio gli procurò la protezione del console Papirio Carbone, e gli diede in moglie la propria figlia Antistia.
Non sentendosi sicuro a Roma, si trasferì a Fermo, fingendo di voler trascorrere in tranquillità i primi anni del matrimonio; ma siccome il console Cinna stava radunando in Ancona armati da spedire oltremare contro Silla che allora si trovava in Grecia, anche Pompeo, per evitare sospetti, si iscrisse nell’esercito del console. Ma i soldati, specialmente Piceni, che non vedevano di buon occhio quella spedizione, uccisero in una ribellione il console Cinna e disertarono.
Pompeo sentì che era venuto per lui il tempo di agire e si diede da fare per riorganizzare l’esercito, correndo per il Piceno a reclutare soldati, promettendo loro che non sarebbero mandati oltremare, ma impiegati sono nella loro regione. Seppe tenere occulto il suo disegno per molti mesi, ma quando Silla sbarcò a Brindisi con forze ingenti, si proclamò apertamente dalla sua parte. Fece sollevare Fermo e con una legione di Fermani occupò Osimo e vi pose il suo quartiere generale. Riuscì a portare a tre le sue legioni, con le quali tenne testa vittoriosamente a quattro eserciti inviatigli conto dal governo del partito Mariano.
Gli storici non sanno spiegarsi come un popolo pratico e serio qual è il Piceno abbia potuto affidarsi ciecamente, per una impresa così pericolosa, a un giovane di ventitre anni, senza un passato glorioso e senza ricchezze (perché esse vennero dopo), mentre i suoi eroici soldati a Osimo erano derisi, per essersi fatti prendere pel naso da uno scolaretto25. O Pompeo era un mago, o la disperazione dei Piceni per il malgoverno del partito mariano era al limite estremo; o forse ambedue le cose26.
Non mi è possibile enumerare tutte le imprese di questo fermano, che sicuramente si può contare tra i più grandi condottieri romani; idolatrato, forse come nessuno, dai suoi soldati della sua gente picena; ringraziato e onorato, lui non ancora trentenne, col titolo di “Imperator” (condottiero supremo) da Silla che gli doveva la riuscita della sua impresa27 e che, per meglio legarlo a sé, lo persuase a ripudiare la moglie e a sposare sua figlia.
Di animo nobile non partecipò alle vendette spietate del suocero, ma seguitò nella sua carriera di imprese gloriose, aspettando l’ora del suo trionfo che giunse nel 79 a.C., quando fu eletto console insieme a Crasso.
Amò Fermo, nei due giorni di trionfo tributatogli per imprese gloriose in oriente, si ricordò della sua città, alla quale mandò in omaggio una piccola parte del ricco bottino28.
Ebbe, prima alleato, poi nemico, un pericoloso rivoluzionario: Giulio Cesare; tanto più pericoloso, perché allora gli occhi dei romani era il trionfatore delle Gallie, l’eroe del giorno. Non poté misurarsi con lui, perché questi non gliene diede il tempo. Cicerone rimproverò sempre a Pompeo lo sbaglio di non aver fortificato per tempo il Piceno, che era considerato la porta di Roma; e anche Giulio Cesare mosse dal Piceno per conquistarla.
Gli eserciti dei due rivali ebbero lo scontro decisivo a Farsalo in Grecia, nel 47 a.C., e quella fu forse l’unica battaglia perduta da Pompeo nella sua carriera. Fuggì in Egitto, dove fu ucciso a tradimento. Aveva 57 anni.
Morto lui, il partito pompeiano seguitò a lottare vivacemente per molti anni, in Africa, in Spagna, in Sicilia, in Sardegna, e furono suoi seguaci, tra i quali qualche Piceno, quelli che, in nome della libertà eliminarono C. Giulio Cesare.
FERMO DOPO POMPEO
Cicerone rimproverò a Pompeo di aver trascurato il Piceno, ma mi pare che ciò non sia proprio esatto, perché nelle principali città picene aveva lasciato presidii militari, guidati da condottieri piceni e lui devoti; penso che furono piuttosto i Piceni, nei quali riponeva cieca fiducia, a staccarsi da lui, allettati o impauriti anche loro dall’avvicinarsi del nuovo eroe, conquistatore della Gallia.
La fortuna di Pompeo aveva appianato la strana alla carriera di tanti piceni, che troviamo inseriti nella vita romana di quel tempo: Capitani valorosi; letterati di grido; mestatori e abietti imbroglioni. Piceno era Lucio Afranio, discendente da Lafreno eroe della guerra sociale, luogotenente di Pompeo nella guerra di Spagna; piceno era Azio Varo, fedele a Pompeo fino alla morte; piceno Curione che passò a Cesare e fu ucciso in Africa dal piceno Azzio Varo; piceno era Tito Labieno, il grande luogotenente di Cesare, puoi suo acerrimo avversario; ascolana era la matrona che fece da spia a Cicerone, durante la congiura di Catilina29; spia di tutti fu il piceno Lucio Vezzio che morì strangolato in carcere.
Fermano fu Lucio Gavio, sostenitore delle tristi imprese ladresche di Clodio; fermano Quinto Numerio Rufo, che diventato, nel 56 a.C., tribuno della plebe insieme a Clodio, condannò Cicerone all’esilio; piceno Popilio Lenate che uccise Cicerone.
Però Fermo, in quel periodo, non sono degli scellerati, ma produsse anche qualche buon letterato. Era Piceno, e forse fermano, Lucio Ottacilio Ploto (Octacilius Plotus) educatore di Pompeo Magno e suo liberto, che scrisse la storia della famiglia pompeia, un’opera andata perduta. Piceno pure Leneo o Lenate, liberto carissimo a Pompeo lo condusse sempre con sé nelle spedizioni in Oriente, dalle quali trasse grandi vantaggi per i suoi studi di botanica, tradusse anche i libri di Mitridate sulla medicina. Poeta, scrisse tra l’altro una satira contro Sallustio che si era permesso di parlar male del defunto suo amico Pompeo.
Benché anteriori all’epoca di Pompeo, voglio ricordare il Piceno Lucio Afranio, riformatore della tragedia latina, del quale ci resta solo qualche brano. Cicerone loda il suo ingegno e la finezza delle sue ironie. Era padre di Tito Lafreno, l’eroe della guerra sociale30.
Un altro illustre scienziato fermano di quest’epoca fu Lucio Tarunzio, celebre astronomo che, interrogando gli astri, stabilì l’ora della nascita di Romolo (ma pensate!), e il giorno e l’anno della fondazione di Roma. Per questo suo ritrovato, tutto il mondo è persuaso che Roma fu fondata il 21 aprile del 754 a.C.. Ma se Cicerone ebbe tanta stima di Tarunzio, è segno che era un grande ingegno ed eccellente in filosofia, matematica in lettere, e non soltanto in queste fesserie astrologiche, nelle quali Cicerone non credeva affatto31.
Mi sono dilungato, in questo capitolo, ricordare una minima parte dei Piceni è Fermani influenti nella società romana di allora, per dire al lettore la vitalità del Piceno, nel settimo secolo di Roma.
Cicerone aveva ragione, quando pensava che, per difendere Roma, bisogna potenziare il Piceno, perché, come vedremo, allora e per tutto il Medioevo, il Piceno con la sua capitale Fermo fu sempre la porta di Roma.
Con la fine di Pompeo, l’importanza di Fermo fu un po’ ridimensionata. Forse Fermo non aveva aperto le porte a Cesare, come tante altre città picene32; forse restò sempre pompeiana. Me lo fa supporre il fatto che, sia Cesare, che Ottaviano guardarono sempre con sospetto questa città.
Giulio Cesare calmò i turbolenti veterani della X e XII legione, distribuendo loro le molte terre requisite a Pompeo, specialmente nel Fermano e a Osimo. Fu dato allora ai coloni militari il territorio di Ripatransone33, anch’esso probabilmente di proprietà pompeiana, poiché la più probabile provenienza del nome Ripatransone è: “Ripa Strabonis”, cioè di Pompeo Strabone.
La colonia militare era anche un controllo per Fermo pompeiana. Anche Ottaviano Augusto dedusse una colonia militare a Fermo e cercò di incrementare Falerio, in opposizione ad essa.
Quando Ottaviano di Antonio cercarono con fine politica di chiamare a far parte del triumvirato Sesto Pompeo, figlio del Magno, per calmare il partito pompeiano ancora fortissimo, questi mise per condizione la restituzione dei beni paterni. Ma non potendosi far ciò, perché si erano stati assegnati ai militari, gli fu dato l’equivalente in denari dello Stato.
Morto Pompeo, il suo partito restò ancora forte resistette lungamente in Africa, in Spagna e nelle isole mediterranee, ma soprattutto nell’animo degli amanti della libertà, tra i quali sicuramente i Fermani che non potevano dimenticare il loro grande concittadino. Nel breve periodo del suo governo, aveva dato l’impressione di rispettare la sovranità del Senato e la libertà del popolo. La relativa tranquillità goduta dagli italiani durante il suo governo, faceva sentire maggiormente il contrasto col periodo successivo, grave di lotte civili, di lutti e di miseria, specialmente per Fermo, per tutto il Piceno; poiché in questa ricca e forte provincia cercava di attestarsi, tanto chi difendeva l’ordine costituito, come chi cercava di sovvertirlo. E vedremo in seguito come, per duemil’anni, il Piceno ebbe il triste privilegio di essere la regione, dove si decidevano tutti i contrasti politici.
PUBLIO VENTIDIO BASSO
Nelle sanguinose lotte civili che seguirono la morte di Cesare, il Piceno si trovò molto diviso e pagò il suo tributo di sangue e di sostanze a tutti i partiti. Fermo sostenne sempre la legalità del Senato e promise uomini e forti somme di denaro, per la guerra contro Antonio che assediava a Modena Bruto, uno degli uccisori di Cesare34. L’ascolano P. Ventidio Basso invece riuscì a reclutare tre legioni nel Piceno, e corse in aiuto di Antonio, al quale restò fedele anche quando, sconfitto a Modena, era fuggito nella Gallia. Questo illustre piceno, benché non sia fermano, merita qualche riga anche in questo libro, poiché ebbe gran parte nei fatti che sto narrando.
Non volle aderire all’invito di Ottaviano di abbandonare Antonio, ma si adoperò per favorire un accordo tra i due e Lepido, onde costituire un triumvirato per la salvezza della Repubblica, “Reipublicae constituendae”. Sempre coerente con le sue convinzioni, tentò la cattura di Cicerone, acerrimo nemico di Antonio e nemico suo personale, perché lo chiamava “mulattiere”35. Non ci riuscì, perché Cicerone era fuggito da Roma; ma non sappiamo se il piceno Popilio Lenate, che lo raggiunse e lo uccise presso Formia, fosse mandato da Ventidio.
Costituitosi il triunvirato, Ventidio fu ascritto al collegio dei pontefici, nel 42°.C., sostituì Ottaviano nel consolato. Non sappiamo se partecipò alle vendette dei suoi triumviri, ma forse, non approvandole, non fu in grado di impedirle; e Ottaviano, adulato e decantato da tutti i poeti dell’epoca, col suo collega Antonio, eliminò con ferocia inaudita, centinaia di senatori e duemila cavalieri e innumerevoli persone abbienti, delle cui ricchezze ambedue arricchirono.
Ventidio sempre fedele al triunviro Antonio, lo seguì in Oriente e lo sostituì nella condotta della guerra contro i Parti, col titolo di Pretore. Dopo molte strepitose vittorie, riuscì a sottomettere a Roma gran parte del Medio Oriente, destando però le gelosie di Antonio, che ripagò la sua fedeltà coll’esautorarlo36.
Il senato decretò il trionfo per Antonio, ma Ottaviano impose che gli fosse associato nel trionfo Ventidio Basso, il vero eroe di quelle imprese. Antonio non volle allontanarsi nemmeno temporaneamente dai suoi sollazzi di Oriente, non curandosi del trionfo, che fu celebrato meritatamente solo per Ventidio Basso37. Si ritirò a vita privata e morì molto vecchio; gli furono decretati i funerali di Stato.
Dodici anni dopo la morte di Pompeo, il partito repubblicano era ancora temibile per i triumviri. Capeggiato da Sesto Pompeo, figlio del Magno, occupava la Sicilia, la Sardegna e gran parte delle isole del Mediterraneo, e possedeva una flotta abbastanza potente, con la quale pirateggiava su tutte le coste italiane, rendendo molto difficile il commercio. Ottaviano, che non si sentiva in grado di combatterlo, preferì, con astuzia felina, di invitare Sesto Pompeo a far parte del triunvirato. Ciò contribuì a rallentare un po’ la tensione del partito repubblicano; e Ottaviano seppe approfittarne a tempo per eliminare Pompeo e i repubblicani.
In una battaglia combattuta presso Messina, nel 35 a.C., l’esercito di Sesto Pompeo fu sopraffatto ed egli fuggì in Oriente presso Antonio, dove fu ucciso a tradimento: la stessa sorte di suo padre.
Che Ottaviano aspirasse a diventare il solo padrone di Roma, tutti lo avevano capito; ma l’unica forza che poteva salvare la Repubblica era Sesto Pompeo, eliminato dall’astuzia, più che dalle armi di Ottaviano. Ora non c’erano più ostacoli per lui, perché il collega Antonio, accecato dai vizi, dimostrò la sua inettitudine della battaglia di Azio, dove trovò la sua fine ingloriosa. Era l’anno 722 di Roma; 32 a.C.
NOTE
1)- T. LIVIO- Epit. L. XV – “Picentibus victis pax data”
2)- I Camerinesi fatti prigionieri e venduti all’asta dal Console furono ricercati, per ordine del Senato, rimessi in libertà e in possesso dei loro beni. (Il fatto prova poco, perché Camerino non faceva parte del Piceno).
3)- STRABONE – V- IV, 13 – “Post Campanos et Samnites usque ad Lucanos ad mare Tirrenum, Picentinorum gens abitat, Picenorum avulsa particula quandam eorum qui Adriaticum mare incolunt et a Romanis traducta in sinum Posinodiatem”. (Cioè: tra i Campani e i Lucani abitano i Picentini, una piccola parte staccata dai Piceni che stanno sull’Adriatico e trasferita dai Romani sul golfo Posidonio).
PLINIO – III, 5- “A Surrento ad Silarem amnem (Sele)ager Picenus fuit”.
4)- SICULO FLACCO – De conditionibus agrorum – “Ali ita remanserunt ut tamen populi romani essent, ut est in Piceno”. Altri furono lasciati come stavano, restando tuttavia proprietà del popolo, come nel Piceno.
5)- CICERONE – De lege agraria – II, c. 27 – “Hoc in genere sicut in ceteris Reipubbicae parti bus, est operae pretium diligentiam Maiorum recordari, qui colonias sic in locis idoneis contra suspicionem periculi collocassent, ut non oppida Italiae, sepropugnacula Imperi viderentur”. (… si deve lodare la oculatezza dei nostri antenati, i quali per prevenire ogni pericolo collocarono colonie in luoghi così appropriati, da non sembrare città italiane, ma sentinelle dell’impero).
Ivi, II, c. 38 – “… vel ad ipsos priorum municipio rum populos coercendos, vel ad hostium in cursus repellendos” (Sia a tenere soggetti i popoli dei maggiori municipi, sia per respingere possibili assalti nemici).
6)- T. LIVIO – I, 56- “Praesidia Urbi terra marique”. (Difesa per Roma in terra e in mare).
7)- VELLEIO – l. I – “Initio primi belli, punici Firmum et Castrum colonis occupata”. Castrum Novum, con ogni probabilità è il nome dato dai romani alla città che i Piceni chiamavano Pretuzio nella valle del Vibrata.
8)- FRONTINO – Stratagemma, II, 3-24 – “Caius Duilius cum viderey suas naves mobilitate punicae classis eludi, irritamque virtutem militum fieri, escogitavit manus ferreas quae ubi ostilem apprebenterent navem, superiecto ponte tragrediebatut romanus et in ipso rum rates cominus eos trucidabat”. (Duilio, vedendo che le sue navi venivano schivate dall’agilità della flotta cartaginese rendendo inefficace il valore dei suoi soldati, inventò un mano di ferro per afferrare la nave nemica, e gettato un ponte, il soldato romano poteva saltare sulla nave del nemico e ucciderlo).
9)- APPIANO – IV, 3 – “Invadevano anche i campi dei vicini e toglievano per sé molto più di quello che era stato loro assegnato”.
10)- T. LIVIO – XXIII, 14 – “… coortesque ex agro Piceno et Gallico”.
11)- T. LIVIO – XXVII, 12 – “Nec nunc post tot secula sileantur fraudentur, laude sua …. Venusini et Adriani et Firmani et Ariminenses. Harum colonia rum subsidio tum imperium populi romani steti”. E ora, dopo tanti secoli, non debbono essere defraudati del meritato riconoscimento i Venosini, gli Adriani, i Fermani, i Riminesi. Con l’apporto di queste colonie della Repubblica allora restò in piedi.
12)- T. LIVIO – ivi – “Vix compotes mentium prae gaudio essent”. Quella gente era quasi impazzita per la gioia.
13)- PLUTARCO – Le vite parallele – Catone il Censore XIII.
14)- T. Livio – lib. 44, c. 35 – “Sub C. Cluvio Legato tres corte Firmana, Vestina et Cremonensis….”.
15)- Guidacilio diAscoli: si uccise alla caduta della sua città. P. Ventidio, ascolano, morì nella guerra sociale, ma non si sa dove. Non si deve confondere con Ventidio di Osimo. Tito Lafreno (Afranius), figlio del grande commediografo Afranio. Morì in battaglia nell’assedio di Fermo.
16)- Qualcuno dice che questo Pompeo si chiamasse “Strabone”, perché strabico di occhi. Può anche essere così; ma in Abruzzo anche oggi si dice: “strabbone”, per dire “buono in grado superlativo”. E io penso che sia questo il significato del nome, affibbiato a Pompeo forse per ironia. Certo non è un cognome di famiglia, perché suo padre era il fermano Quinto Pompeo.
17) – APPIANO . l-42 – “Circa Falerinum Montem, Guidacilius, T. Afranius et Ventidius cum Gneo Pompeio invicem congressi, in fugam vertere et ad urbem usque Firmum persequti sunt”. (I condottieri piceni scontratisi sul monte Falerino con Gneo Pompeo, lo misero in fuga e lo inseguirono fin presso la città di Fermo).
18)- La battaglia venne “ad Falerinum montem”. Dov’è questa località? Il console veniva dalla via Flaminia, perché la Salaria era chiusa dagli ascolani erano i principali sostenitori della rivolta. La via principale che dalla Flaminia portava a Fermo passava per Tolentino, Urbisalvia, risaliva a Loro e proseguiva per Monte Vidonon Corrado e Monte Giorgio; poi attraversava il Tenna a Grottazzolina e proseguiva per Fermo. Un ramo di questa strada, da Monte Vidon Corrado scendeva a Falerio e, lungo la sinistra del fiume si riuniva al ramo principale. I Piceni dovevano necessariamente affrontare i Romani a Monte Vidon Corrado, per chiudere loro ogni passo.
19)- OROSIO – V, 47 – “Italici Imperatores ab eodem Sulpicio, ad flumen Tennam horribili proelio oppressi et occisi sunt”. (I condottieri italici, presso il fiume Tenna furono vinti e uccisi dal medesimo Sulpicio).
APPIANO – c. 47 – “Quo viso hostes Asculum incondita fuga, sine imperio profugerunt, Afranius in dicta pugna ceciderat”. (Vedendo ciò i nemici fuggirono disordinatamente e senza disciplina verso Ascoli; Afranio cadde in battaglia).
20)- CICERONE – Ep. VIII, lib. IV, ad Att. – “Permulta od me detulerunt non dubia dei Firmanis fratribus”.
21)- PLUTARCO, in Pompeo – “Cum picenum (Pompeo) diverteretur in agris suis, quos illic amplissimod habuit”.
22)- I tribuni della plebe erano due incaricati di presentare in Senato i bisogni della plebe di difenderne i diritti: una specie dei nostri sindacati.
23)- APPIANO – L. c. 48 – “Atque ita vitam, finivit Guidacilius, hanc gloriam captans, ut patriae non esset superstes”. (Così finì la vita Guidacilio, acquistando la gloria di non sopravvivere alla patria.
24) – FASTI CONS: – “Cn. Pompeius Sex. f. C. N. Strabo Cos. Asculaneis Picentibus – An. DLXIV – VI K. Ian.”
25 – PLUTARCO, in Pompeo
26)- PATERCOLO – II – fa di Pompeo questo ritratto: “Forma excellens, non ea qua flos commendatur aetatis, sed ex dignitate costante, quae in illam conveniens amplitudinem, fortunam quoque eius ad ultimum comitata est diem. Innocentia eximius, sanctitate praecipuus, eloquentia medius, patentiae quae honoris causa ad eum deferretur, non ut ab eo occuparetur cupidissimus, dux bello peritissimus, civis in toga, nisi ubi vereretur ne quem haberet parem, modestissimus, amicitiarum tenax, in offensis inesorabilis, in reconcilianda gratia fidelissimus”. (Di aspetto molto bello, bellezza non conferita dalla fuggevole giovinezza, ma dal portamento dignitoso che lo accompagnò sempre, come lo accompagnò la fortuna fino all’ultimo. Eccellente per onestà, singolare per integrità, mediocre per eloquenza; desideroso di potenza di quella conferitagli per merito, non di quella carpita di sua iniziativa; espertissimo condottiero; in toga umilissimo cittadino, fin quando non temesse che ci fosse un altro pari a lui; tenace nelle amicizie e inesorabile nell’offese, ma facilissimo alla riconciliazione).
27) – CICERONE – Filipp. V – 16-43 – “Pompeius ad L. Sillam, maximum imperium vittoremque accessit. Adversariorum partibus agrum Picenum habuit inimicum … Illius opibus. Sulla regnavit”.
28)- MOMSEN – C. I. I. – vol. I: “Pompeius Magnus d.D. Mensa aurea, candlabros ex eadem materia XX sunt, et argenti aurique signati talentos millis, ad III Kal. Oct.”.
29) – CICERONE – Oro Sulla – 8-25.
30)- QUINTILIANO – De istitutionibus ecc. – l. X c. I par.100 “Togatis excellit Afranius. Utinam non inguinasset argumenta puerorum foedis amoribus, mores suos fassus”. (I commediografi eccelle Afranio. Magari non avesse sporcato le sue composizioni con tristi amorazzi di fanciulli, rivelando così anche i suoi costumi!)
31)- CICERONE – De Divinatione – II-43 “Lucius quidel Taruntius Firmanus, familiaris noster, in primis caldaicis, rationibus eruditus”. (Lucio Tarunzio, Fermano, nostro grande amico, tra i primi esperti in scienze orientali).
32 )- CICERONE – Ad Atticum, VIII, 12 “…. Quod audieris Cesarem, Firmo progressum, in Castrum Truentinum venisse..” (… hai sentito che Cesare, oltrepassato Fermo, è arrivato a Castro Truentino…).
33) – FASTI CONSULARES – “Quo colonia julia cuprensis deducta est”. Il Colucci . A, P. t. III (Cupra illustrata). G. Speranza – Il Piceno, l. IV, c, VI, pp.77-78 sostengono che era una colonia militare che fu collocata Cupra in contrada Civita; una terra sufficiente appena per uno o duecoloni.
34)- CICERONE – Phil. VIII,23 – (…. laudandi sunt ex huis ordinis sententia Firmani qui principes pecuniae pollicendae fuerunt”. (Su questo argomento, meritano lo dei Fermani che furono i primi a offrire denaro.
35)- CICERONE – “Ventidius Bassus mulio”. Mulattiere, perché avere cominciato la sua carriera provvedendo muli per l’esercito.
36)- Voglio far notare al lettore che gran parte dei successi di Cesare nelle Gallie è da attribuirsi al grande cingolano Labieno, il quale, passato ai repubblicani, mise più volte in scacco l’esercito di Cesare in Africa. Antonio vinse solo finché combattè per lui il piceno Ventidio. Ottaviano trionfò con la sua astuzia politica; ma i suoi successi militari si debbono al valore dei generali Agrippa e Salvieno.
37)- FASTI CONS. C.I.L.I. – “Publius P. F. oro Coss. Ex Tauro Monte et Parheis anno D. CCXI – Vkal Decem:”.
CAPITOLO III
FERMO IMPERIALE
Terminata la resistenza dei repubblicani colla morte di Sesto Pompeo; finita la lotta tra Ottaviano e Antonio colla battaglia di Azio, incominciò un lungo periodo di pace. Si chiuse il tempio di Giano, e si alzò in Campidoglio una statua a Ottaviano, “pacis restitutori marique”1. Ma l’Italia era esausta: le stragi sanguinose delle interminabili lotte civili avevano decimato la popolazione soprattutto giovane; avevano provocato l’impoverimento generale, per i contributi imposti dalle guerre, per le difficoltà create all’agricoltura con le devastazioni delle campagne e le ruberie che sogliono seguire il passaggio dei militari.
Fermo, al centro di una zona di ricchi proprietari di terre, proprio per la sua ricchezza, risentì maggiormente le conseguenze delle guerre, sia perché costretta maggiori contributi, sia perché, dalla seconda guerra punica in poi, non c’era stato nessun contrasto politico, nessuna discordia civile, nessuna contesa militare che non avesse profondamente interessato il suo territorio. L’agricoltura fermana, privata delle giovani braccia reclutate per le interminabili guerre, languiva affidata ai vecchi alle donne, le cui sofferenze erano diventate insostenibili, avviliti com’erano dalle esigenze di proprietari senza scrupoli e dalle razzie di soldatesche sempre brutali. La chiusura del tempio di Giano era un sollievo per tutti; l’esenzione dalle tasse in agricoltura era incoraggiante facilitazione per i proprietari2; ma ai poveri lavoratori della terra restava solo la speranza che la pace desse loro la possibilità di mangiare tranquilli pezzo di pane, del quale scarseggiavano da troppo tempo.
Cesare Ottaviano non amava la guerra, anche perché nell’arte militare non era un genio, e volse tutta la sua smisurata ambizione alle opere della pace, nelle quali fu veramente grande, forse il più grande che la storia conosca, facendo dimenticare gli errori e le crudeltà della sua giovinezza e sollevando un coro di ovazioni di mille poeti che ancora risuonano nel mondo; per cui la sua figura diventò l’esemplare del principe della pace. Mi atterrò a quel che riguarda strettamente Fermo, per mantenermi nel tema.
L’Agro Palmense con Fermo e l’Agro Pretuziano con Castronovo non godettero mai le simpatie né di Cesare, né di Ottaviano per il loro passato politico che conosciamo; ma preso, nel 727=27 a.C., il titolo di “Augusto” e diventato padrone dell’impero, Ottaviano non poteva trascurare quella zona di grandissimo interesse economico e strategico. Due erano le vie che congiungevano Roma col Piceno: la via Flaminia, per il Piceno superiore, e la Salaria, per quello inferiore. Nello stesso anno, 27 a.C., fece migliorare la Flaminia e nel 23 a.C. fu migliorata la via che a Nocera Umbra si dirama dalla Flaminia e, attraverso le strette di Pioraco (prope lacum) va a Septempeda (S. Severino), a Tolentino, Urbisaglia e da lì, in Val di Tenna e a Fermo3.
Anche la Salaria che aveva ricevuto tante cure nei tempi precedenti fu migliorata nelle sue tre principali diramazioni da Ascoli per Castrum Novum (Corropoli Nereto), per Castrum Truentinum (Acquaviva Picena); per Fermo4.
Da osservare che queste vie terminavano ai navali di Fermo (Castellum Firmanorum) e di Truento (Castrum Truentinum), per cui queste località situate sulla via Adriatica che si chiamava pure Flaminia, diventarono nodi stradali e importanti centri di traffico, più interessanti nelle stesse città. Ma per quanto riguarda la nostra città, i Fermani stavano bene lassù dove stavano, e il Castellum Firmanorum restò un grosso centro commerciale, senza soppiantare la città, che crebbe sempre di popolazione e di prestigio.
COLONIA MILITARE A FERMO
Per attendere all’organizzazione dell’Impero, Cesare Augusto aveva bisogno di liberarsi dalle turbolenze dei militari che reclamavano una sistemazione conveniente. Si trattava di collocare più di centomila veterani. Augusto li distribuì in ventotto colonie che chiamò “celeberrimae” e le collocò in diverse parti dell’Impero. Pure nel Piceno furono mandate colonie militari, delle quali una a Fermo, forse la IV legione, che si stabilì nella parte occidentale del Colle Sabulo5. La deduzione di questa colonia, come in tutti gli altri luoghi, provocò nel Fermano agitazioni, disordini, soprusi e spogliazioni, causati dalla prepotente ingordigia militare; poiché i veterani non erano venuti a Fermo per godere l’aria fresca, ma per diventare proprietari di terre, che toglievano senza complimenti ai proprietari del luogo ai quali, pur essi cittadini romani, restava il diritto di lamentarsi e di riempire di reclami la Capitale. Ma essi per il governo non erano pericolosi come i militari; e si poteva stimare fortunato chi poteva ottenere qualche piccola ricompensa in cambio del molto perduto. D’altra parte, doveva aiutarli a sopportare la sventura il pensiero che quelle terre erano venute in possesso dei loro antenati alla stessa maniera: tra i lamenti e le maledizioni dei diseredati.
Abbiamo asserito che le colonia militare si stabilì nella parte occidentale del colle, ma non tutti i militari amavano vivere in città. Gran parte di essi provenivano dalle campagne picene e, come tutti i Piceni, avevano nel sangue l’amore alla libertà dei campi. Questi si stabilirono nelle terre acquistate, per attendere di persona alla loro coltivazione. Si costruivano una abitazione più o meno comoda, intorno alla quale edificavano man mano altre costruzioni, per gli schiavi, per le stalle, pei magazzini, lasciando libero nel mezzo uno spazio per l’aia, dove si radunava il raccolto: un complesso campestre che si chiamò: curtis = Curte o Corte6.
La curte si organizzò sempre meglio, acquistando una autosufficienza economica e un benessere che la città non conosceva. Il padrone guidava i suoi collaboratori nella coltivazione e nell’allevamento del bestiame; fungeva da sacerdote negli esorcismi della terra prima della semina7, nelle invocazioni di Primavera, nella preghiera prima della mietitura8.
La padrona guidava il lavoro delle serve e, nelle lunghe serate d’inverno, le assisteva, mentre attendevano alla conocchia e al telaio, alla debole luce dei lumi a olio9. E nella curte nacquero le tradizioni che sono perpetuate fin quasi ai tempi nostri10.
Alcune di queste curti in posizione più felice ebbero, come vedremo, uno sviluppo particolare e diventarono villaggi e, a suo tempo, Comuni, conservando il nome del loro primo possessore: ma non bisogna esagerare nel numero, come fa qualcuno.
ORGANIZZAZIONE CIVICA
La civiltà di un popolo si misura anche dalla sua organizzazione civile.
Fermo, come del resto gli altri municipi, si governava con le leggi municipali, già rinnovate da Giulio Cesare e successivamente perfezionate da Ottaviano Augusto. In queste pagine intendo dire dell’organizzazione civica della nostra città solo quanto basta per dare un quadro abbastanza chiaro dell’ordinamento civile di allora.
I Municipi, retti da autorità elette ai cittadini, godevano di un’ampia libertà amministrativa. Di più, i coloni fermano, essendo cittadini romani, avevano il diritto di partecipare anche alle elezioni municipali di Roma, diritto che esercitavano per iscritto, senza recarsi nella Capitale.
I voti non erano personali, ma corporativi, cioè: ogni cittadino era iscritto a una confraternita, secondo la professione o il mestiere che esercitava: cuochi, fornai, tintori, fabbri, legnaioli, agricoltori ecc.; ognuna di queste associazioni presentava un voto che era il risultato della votazione interna dei suoi iscritti. Nei vari Municipi poi c’erano diversità di titoli e di numero nelle persone elette, ma gli uffici erano gli stessi in ognuno, in proporzione alla loro grandezza.
A Fermo le prime autorità erano di “Duumviri”, due uomini scelti, responsabili dell’andamento generale della città, i quali avevano piena autorità civili e giuridica. E si sceglievano i giudici e vigilavano l’operato delle altre autorità cittadine. Quasi sempre erano assistiti da un “Pretore”, pure elettivo.
Dopo di loro vedevano gli “Edili”, che avevano l’ufficio di vigilare sugli edifici pubblici, sull’urbanistica in genere, sulle vie, sulle botteghe, sui pesi e misure. Formavano il “Quadrumvirato”, quando prendevano decisioni in accordo coi “Duumviri”.
Poi, due “Questores” (che si trovavano solo nei municipi più grandi), i quali avevano l’incarico di amministrare i beni del municipio, riscuotere le tasse e i dazi. Quando agivano in comune con i quattro precedenti, formavano il “Sevirato”.
In ogni municipio, ogni cinque anni, si tenevano le elezioni e si faceva il censimento municipale. In quell’anno, si aggiungevano ai “Duumviri” uno o due incaricati del governo, e insieme si chiamavano “Quinqueviri”.
C’erano autorità minori: i “Littores” = guardie preposte all’ordine pubblico; gli “Arcari” = tesorieri municipali; e gli impiegati: uno “Scriba” = segretario; i “viatores = uscieri o messi municipali”; i “Praecones” = banditori; i “Dissignatores” = imprese funebri; i “custodes templorum” = una specie di sacrestani.
Da questi brevi cenni, lettore, puoi farti la convinzione che duemil’anni fa i nostri antenati non amavano il disordine, ma avevano dato alla loro città una sapiente organizzazione che, cambiate alcune particolarità secondarie, esiste anche oggi.
IL CENSIMENTO DELL’IMPERO
La misurazione delle terre, ordinata già da Giulio Cesare, nel 706=48 a.C., interrotta per le guerre intestine, e ripresa da Ottaviano Augusto appena diventato padrone dell’Impero, terminata nel 756= 2 dell’Era Volgare. Il lavoro della preparazione dell’esecuzione del Censimento era durato intorno ai cinquant’anni, e resta il grandioso capolavoro organizzativo di Augusto; di sommo interesse anche perché in quel censimento nacque e fu iscritto Gesù Cristo tra i sudditi di Roma11.
In Italia il censimento richiese il doppio di tempo, perché oltre la misurazione delle terre che doveva correggere gli abusi e le appropriazioni indebite avvenute nel passato12, si dovevano stabilire le tasse dovute da ogni cittadino, secondo gli introiti annuali di ciascuno e secondo le proprietà, esclusa la terra, perché esente da contributi.
I risultati di questo Censimento a Fermo nel suo ricco territorio non li conosciamo.
A questo censimento seguì la divisione d’Italia in undici regioni. Il Piceno, nei suoi nuovi confini portati fino a Rimini, fu la “Quinta Regio”, quinta regione dell’impero.
Di Fermo, in questo periodo, sappiamo quasi niente. Forse non ebbe nella “V Regio” l’importanza capitale che acquistò nel Medioevo, ma pur restando politicamente al livello delle altre città picene, fu sicuramente “prima inter pares”, per grandezza, per interesse economico e per posizione strategica.
Diciamo che Fermo, in quei tempi era grande e popolosa, perché al centro di un vasto e ricco territorio, ma l’agglomerato cittadino non era nemmeno da confrontarsi colla città di oggi. Anche allora i Piceni non amavano ammucchiarsi in Città, ma preferivano la libertà e la comodità della campagna, tanto più che quella non è presentava troppe. I signori di campagna risalivano in città, in tante occasioni, per le solennità religiose e civili; per le “nundine” (fiere e mercati); per tenersi aggiornati conversando nel foro; per assistere a rappresentazioni drammatiche e a giochi specialmente gladiatori, nel modesto ma sufficiente teatro cittadino; e qualcuno, interrompendo per una volta la consuetudine della sua “curte”, per recarsi e pubblici bagni annessi ai grandi serbatoi di recente costruzione13, con l’aggiunta magari di una visita al postribolo poco lontano.
LITE CON FALERIO
Il far parte di un Municipio creava una forte solidarietà tra i suoi abitanti, che, esplodeva in ogni occasione di contrasto tra un municipio un altro, come si verificò nell’82 d.C. tra Fermani e Faleriensi. In qualche punto delle piane di Montegiorgio era situato il confine tra il territorio di Falerio, di Fermo e di Vettonia (M. Giorgio). Il confine riguardava le terre coltivabili (ubi falx et arater ierit); ma nelle terre basse, scoscese o acquitrinose, lungo i fossi le due rive del fiume, si stendevano grandi tratti di terre boschive che non venivano misurate per l’assegnazione ai coloni, ma si lasciavano al loro uso collettivo14. I coloni fermani si credettero in diritto di reclamare il possesso di una parte di questi boschi che i Faleriensi occupavano, secondo loro, illecitamente. Savino, un dotto giurista fermano, pregò il suo amico Plinio il Giovane che difendesse la causa del municipio di Fermo15.
Ma l’esperienza giuridica e l’arte oratoria di Plinio non conseguirono l’effetto sperato. Nell’82 d.C., Domiziano decise la lite a favore di Falerio, con un decreto inciso su una lastra di bronzo, ritrovata nel teatro faleriense, nel 1593, poi perduta16.
FERMO NELL’IMPERO IN CRISI
Durante il terzo secolo, la crisi dell’Impero Romano aveva raggiunto il colmo. L’indisciplina e il disordine nell’esercito, nel quale abbondavano elementi barbarici, aveva provocato un grave indebolimento dello Stato, e conseguente crescita della pirateria sul mare e del brigantaggio sulle strade. In queste condizioni, non poteva non decadere il movimento commerciale e il traffico nel navale Fermano, poiché il commercio ha bisogno di vie sicure.
Concomitante alla crisi commerciale, cresce la crisi agricola, che per Fermo riveste una importanza particolare.
Il proletariato che durante la Repubblica aveva affollato l’esercito, col vantaggio dell’impiego è la speranza di far fortuna (il servizio militare era volontario), con la pace di Augusto, ridotto l’esercito regolare a 300.000 uomini, si trovò senza impiego e cercò lavoro nei campi. Qui i grossi terrieri si trovavano già alle strette, poiché la pace chiudeva il rifornimento degli schiavi necessari per aiutare il lavoro dei servi della gleba; quindi accolsero favorevolmente l’opera dei nuovi agricoltori. Ma questi non volevano essere servi, né servi della gleba, ma liberi lavoratori. Si stipularono contratti di affitto che si pagavano in moneta, ma principalmente, data la presente crescente svalutazione di questa, in prodotti agricoli. I proprietari approfittarono del bisogno dei lavoratori e all’affitto pretesero aggiungere altri pesi, come giornate lavorative a favore del proprietario, quale “Jus ospitalitatis” = diritto di ospitalità.
Il progressivo aumento dei fitti, dei servizi obbligati e delle sempre crescenti esigenze dei proprietari terrieri provocarono la fuga dai campi, a reprimere la quale non valsero, né la prepotenza dei proprietari, né la legge speciale di Diocleziano (284-305). Essa stabiliva che la condizione dei lavoratori della terra non potesse mutare: i figli di agricoltori dovevano restare agricoltori; i lavoratori della terra dovevano far parte di essa, come l’aratro e i buoi. Questa legge che aggrava la condizione dell’agricoltore rendendolo schiavo, invece di essere un rimedio, aggravò la crisi, provocando ribellioni e disordini.
Ad aggravare questo stato di cose concorse un fiscalismo esagerato, spietato e insopportabilmente oppressivo17. Dice Salviano, un vescovo del V secolo: “Gli oppressi fanno una sola cosa che possono fare, “dediticios se divitum faciunt” = si consegnano ai ricchi, per averne protezione. “Quasi in jus eorum dicionemque trascendunt”, diventano di loro diritto e quasi proprietà. Ma i ricchi hanno l’aria di tutelare i poveri invece li spogliano. Tutti quelli che sembrano tutelati danno ai difensori tutto quello che hanno, prima che siano difesi”.
E aggiunge: “Io dovrei solo meravigliarmi che non fuggano tutti i poveri e bisognosi. Dovremmo meravigliarci noi romani, se non possiamo respingere i Visigoti, quando molti romani preferiscono vivere con essi e non con noi?”18
Questa era la condizione dell’agricoltura in tutto l’Impero. Nel fermano possiamo pensare che fosse anche più gravi, perché avendo fama di agricoltura molto ricca, le imposizioni tributarie saranno state maggiori e quindi più insopportabili.
NOTE
1)- “Cumque a condita Urbe Ianum Quirinum bis omnino clausum fuisse probatori, eum Senatus per me principem ter claudendum esse iussit” (Livio, I, 19 – Floro IV, 12, 64 – Velleio II, 38).
2)- FRONTINO – “…. per Italiam nullus aget tributarius”.
3)- questa via è descritta tra le vie principali, per Fermo, dall’itinerario di Antonino: “A Septempeda Castrum Truentinum: Urbis Salvia-Firmum m.p. XVIII – Asculum m.p. XXIII . C. Truentinum m.p. XX”.
4)- Vedi la carta Peutinceriana e l’Itinerario di Antonino.
5)- Il rione si chiama Campoleggio = campus legionis.
6)- In qualche parte d’Italia, un podere si chiama ancora “cortina”. Un pezzo di terra = una cortina di terra.
7)- “Terque novas circum felix eat hostia fruges
Omnis quam chorus et socii comitantur ovantes
Et Cererem clamore vocent in tectis”
(Virgilio – Georgicon I. vv. 345-350)
8)- “………………………………………..Neque ante
Falcem maturisquisque supponat aristis
Quam Cereri torta redimitis tempora quercus
Dei motus incompositos et carmina dicat”.
(Virgilio – Georgicon I. vv. 345-350)
9)- “Et quidem sero hiberni ad luminis ignes
Pervigilat ferroque faces inspicat acuta
Interea longum cantu solata latore
Acuto coniux percorri pettine telas,
Aut dulcis musti Vulcano decoquit umorem
Et foliis undam trepidi dispumat abeni?
(Virgilio – Georgicon I. vv. 391-396)
10)- Le “Litanie” prima della semina e all’inizio della mietitura; le “Rogazioni” a primavera; le donne che di notte filano e tessono, ravvivando di tanto in tanto il lume stuzzicandolo con una forcina; le “fornacelle” che durante la vendemmia si vedevano ardere presso i casolari, per cuocere il mosto, i nostri vecchi, compreso me, di ricordano ancora.
11)- Giustamente da tempo gli studiosi non accettano più il computo di Dionigi il Piccolo nello stabilire l’inizio dell’Era Volgare, né la morte di Cristo al suo trentatreesimo anno. Bisogna accordare la cronologia universalmente seguita che vuole il Censimento nel 756 di Roma; gli storici specialmente Giuseppe Flavio, che ammettono la morte di Erode il Grande nel 750 di Roma; i Vangeli che affermano con precisione la nascita di Gesù sotto Erode e, per di più, durante il Censimento di Augusto.
Sembrerebbe che i Vangeli si contraddicano; invece quella apparente contraddizione ci fa capire meglio lo svolgimento di quel colossale lavoro che fu il Censimento.
La misurazione delle terre dell’Impero fu eseguita da tre geometri: Zenodatp, per l’Oriente, che terminò il suo lavoro nel 723; Teodato, per il Settentrione, che terminò nel 729; Policleto, per l’Italia che terminò il suo lavoro solo nel 756, anno ufficiale del Censimento.
Ora tutto si accorderebbe, ammettendo che il 756 è l’anno ufficiale del Censimento, perché in quell’anno si eseguì in Italia, punto centrale dell’Impero; ma in Oriente, essendo già tutto pronto da tanto tempo, il Censimento si eseguì prima, forse nel 748, e fissando in quest’anno la nascita di Gesù. In tale ipotesi l’inizio dell’Era Cristiana bisognerebbe spostarle indietro di almeno sei anni.
Ormai tutto il mondo segue il computo di Dionigi e sarebbe pazzia volerlo correggere; ma esso è chiaramente errato, perché in contraddizione con gli storici e coi Vangeli: nel 754 non ci fu nessun censimento, ed Erode era morto.
12)- APPIANO – IV, 13 – “Viciniorum etiam praedia contemptim invadebant et plura quam quae illis attributa fuerint ad se rapiebant, optima qua eque diripientes”. Invadevano a gara anche i campi dei vicini e toglievano per sé molto più di quello che era stato loro concesso; appropriandosi delle parti migliori.
13)- FRAN: MARANESI – Fermo – Ed. Stab Tip. Sociale, Fermo 1957: “Essa compiuta tra il 41 e il 60 d.C.”.
14)- POMPILIO BONVICINI- La centuriazione del territorio Fal. Sotto Augusto – Ed. Tip.Sonciniana, Fano 1958.
15)- PLINIO IL GIOVANE – Epit. 18, lib. 6 – “C. Plinius Sabino suo salutem. Mi preghi di sostenere in tribunale la causa dei Fermani, e io, benché aggravato da tanti impegni, lo farò, poiché desidero con questo lavoro avvocati zio meritarmi la riconoscenza di cotesta illustrissima colonia; e con un gradito dono, la tua. Poiché ritieni, come sei solito dire, la mia amicizia come una utilità e un onore, non c’è niente che io possa negarti, specialmente se chiedi a favore della patria. Che c’è infatti più naturale e più efficace della preghiera di uno che ti ama? Perciò rassicura i tuoi, o piuttosto nostri Fermani, del mio interessamento, io stimo degni del mio lavoro e delle mie premure, perché tutto fa credere che siano ottimi: sia la loro nobiltà, sia il fatto che anche tu sei uno di essi”.
16)- Di questa lastra si conserva un facsimile a Falerone. Alcuni scrittori, tra i quali il Fracassetti la dicono una riproduzione fedele. Eccola:
“IMP. CAESAR DIVI VESPASIANI F DOMITIANI
AUG. ADHIBITIS UTRIUSQUE ORDINIS SPLENDIDIS
VIRIS COGNITA. CAUSA. INTER. FALE
RIENSES ET FIRMANOS PRONUNZIAVI. QUOD
SUCRITTUM. EST
ET. VETUSTAS LITIS QUE POST. TOT ANNOS
RETRACTATUR. A FIRMANIS ADVERSUS
FALERIENSES. VEHEMENTER. ME. MOVET
CUM POSSESSORUM. SECURITATI. VEL. MINUS
MULTI. ANNI. SUFFICERE. POSSINT
ET. DIVI. AUGUSTI. DILIGENTISSIMI. ET. IN
DULGENTISSIMI. ERGA. QUARTANOS. SUOS
PRINCIPIS EPISTULA. QUA. ADMONUIT
EOS. UT. OMNIA. SUBCISIVA. SUA. COLLI
GERENT. ET. VENDERENT, QUOS. TAM. SALUBRI
ADMONITIONI. PARUISSE. NON. DUBITO. PRO
PER QUAE. POSSESSORUM. IUS. CONFIRMO
VALETE D. XKAL. AUG. IN. ALBANO
17)- FIRMIANO LATTANZIO – De mortibus persecutorum – Ed. S. Brandi, c. 23 (Traduzione di N. Rodolico). Lattanzio scrive all’inizio del sec. IV. “Le terre tutte venivano misurate; si numeravano le viti e gli alberi, si prendeva nota degli animali di ogni genere; si contavano gli uomini per capi. Nelle città venivano adunate le plebi urbane e rustiche, i fori erano pieni delle masse di famiglie, ciascuno doveva trovarsi presente con i figli e i servi. Echeggiavano tormenti e percosse; i figli si appiccavano alla presenza dei genitori, i servi fedelissimi erano torturati per mettermi contro i padroni, mogli contro i mariti. Se ogni altro mancava si sottoponevano i contribuenti alla tortura,
E, quando il dolore li vinceva, si attribuivano anche ciò che non avevano …. Non si aveva fiducia intanto in quello stesso che eseguiva il censo, e si inviavano soprastanti su sovrastanti, per cercare di trovare maggiore materia imponibile, e tutto si duplicava, poiché quelli che non ne trovavano, aggiungevano a loro libito, per non sembrare di essere stati mandati inutilmente. Intanto se diminuivano gli animali e morivano uomini, si pagavano ugualmente tributi anche per quelli che erano morti, in modo che non era lecito né vivere, né morire gratuitamente”.
OROSIO – IX, 41 – “… i sudditi dell’impero preferivano vivere poveri ma liberi tra i barbari”.
18)- SALVIANO- De gubernatione Dei, LIII, 99 – “Cercano la civiltà romana presso i barbari, perché la inciviltà dei romani e insopportabile, e benché siano molto diversi da quelli presso i quali si sono trasferiti, per la religione, per la lingua, che dico? , preferiscono il cattivo odore di quelle persone e dei loro abiti, preferiscono la diversità di fede presso i barbari, piuttosto che sopportare le ingiustizie dell’amministrazione romana…”
CAPITOLO IV
FERMO E LE INVASIONI BARBARICHE
(400+ 776)
Il primo condottiero barbaro che scese in Italia, nei primi anni di questo secolo (403) fu Alarico, che invano chiese un accordo coll’imperatore Onorio, per dare una sede ai suoi Visigoti. Invano contrastati dal grande generale e ministro imperiale Stilicone, i Visigoti incominciarono a scorrazzare per l’Italia, saccheggiando città e desolando campagne, per una decina di anni. Persa ogni speranza di sistemarsi in Italia, passarono in Gallia, poi si stabilirono in Spagna, guidati da Ataulfo.
In queste migrazioni, una delle città più devastate fu Fermo il suo territorio. Nel 410, i Visigoti la occuparono una prima volta, e possiamo immaginare cosa fu per tutto il Fermano il passaggio di questi barbari, inferociti dall’umiliante rifiuto dell’Imperatore che negava loro ogni speranza di stabile dimora. Al loro si deve attribuire la distruzione di rispettabili città picene come Falerio, Urbisaglia, Potenza. Una seconda devastazione Fermo dovette subire forse più dolorosa, nel 413, quando Adolfo decise di ritirare il suo popolo per guidarlo verso la Gallia.
I Fermani, come tutti gli Italiani, per lunghi anni attesero a riparare le rovine riparabili, sostenuti da una fede incrollabile in Roma eterna, che nemmeno in quel periodo di disperazione era venuta meno.
Nel 412, furono concessi sgravi fiscali alle province più devastate da Visigoti; per Fermo lo sgravio fu dei quattro quinti.
Ma dopo poco più di una trentina di anni, una nuova calamità: le orde une di Attila, nel 452 saccheggiarono Fermo, nella relativamente breve escursione attraverso l’Italia.
ODOACRE
Verso il 475, l’esercito di Romolo Augustolo, Imperatore d’Occidente con residenza a Ravenna si mise in agitazione. Composto quasi completamente di barbari, soprattutto Eruli, chiedevano la terza parte delle case delle terre d’Italia. Non chiedevano una cosa troppo strana, perché era antichissima consuetudine romana che i militari, nelle regioni dove erano di servizio, potessero usare il terzo di ogni abitazione; in modo che i proprietari dovevano cedere in uso provvisorio ai militari la terza parte delle loro sostanze. Quei soldati, approfittando di questa consuetudine, in molte regioni avevano preteso la terza parte non solo delle abitazioni, ma anche delle terre.
Impotente fu l’opposizione dell’Imperatore alle pretese dei militari e, nel 476, eletto capo dell’esercito Odoacre, concesse quello che essi chiedevano, e depose Romolo Augusto, mandando in esilio1.
Odoacre rispettò le leggi e gli ordinamenti romani, assicurò pace all’Italia, respingendo tentativi di invasione di altri barbari, e cercò di organizzare un forte regno. L’Imperatore di Costantinopoli, costretto a nominarlo “Patrizio”, temendo la crescente potenza di lui, si servì degli Ostrogoti per combatterlo.
GLI OSTROGOTI
Nel 488, Teodorico scese in Italia contro Odoacre. Lo sconfisse all’Isonzo nel 489; poi presso Verona e, assediatolo a Ravenna, lo costrinse alla resa, e lo fece uccidere, nel 493. Così l’Italia cambiò di nuovo padrone; se in meglio o in peggio, non si può dire. Certo è che, sia Odoacre, come Teodorico erano animati da grandi ideali. Per il lungo e stretto contatto avuto col mondo romano, nutrivano riverenza per la cultura latina e forse miravano a romanizzare, col tempo, i loro popoli; ma al loro ideale fu di grave ostacolo la rozzezza selvaggia dei loro barbari, da una parte; il pregiudizio e l’orgoglio da parte della popolazione romana; il tempo sufficiente che il loro mancò.
Teodorico morì nel 526 e gli succedette il nipote Atalarico ancora bambino, sotto la reggenza della madre, Amalasunta. Anche questa donna ci rivela gli intenti del suo grande genitore. Ariano di religione, perché re di Ariani, diventa cattivo con i cattolici, perché un imperatore cattolico perseguita e gli ariani; ma volle che sua figlia Amalasunta fosse educata cattolicamente.
Nel 526, appena presa la reggenza, Amalasunta si trasferì a Fermo. Il motivo era probabilmente l’intenzione di educare nella religione cattolica il nuovo re, per influire un giorno efficacemente sulla conversione degli Ostrogoti. A Fermo la sua opera educatrice sarebbe stata più facile, lontano dalla capitale, dove dominava l’elemento barbarico ariano che avrebbe agito negativamente sull’animo del figlio.
Non sappiamo per quanto tempo Amalasunta dimorò a Fermo, ma non fu un soggiorno troppo breve; e durante questo tempo furono molti i benefici arrecati alla città, con opere pubbliche varie e aiuti alla popolazione bisognosa. Ma Amalasunta benché amata dal popolo per le sue virtù, era mal tollerata dall’alta società ostrogota, per la sua educazione romana. Disgraziatamente, nel 534, Atalarico morì ancora fanciullo e Amalasunta dovette associarsi nel regno il cuscino Teodato che, nel 535, la fece assassinare a Bolsena
LA GUERRA GOTICA
Giustiniano, Imperatore d’oriente dal 527, da tempo meditava la guerra contro gli Ostrogoti; il delitto di Bolsena gli fornì un buon pretesto per iniziarla. Ma l’impresa non era facile; il Regno Gotico era grande e forte. Oltre l’Italia intera dalle Alpi alla Sicilia, occupava terre di là dell’Adriatico, per una estensione equivalente pressappoco all’attuale Jugoslavia; il suo punto debole era la mancanza di una flotta che invece l’Imperatore aveva molto efficiente.
Il generalissimo delle forze imperiali, il grande Belisario, dopo aver tolto ai Goti, con molta difficoltà, l’Italia Meridionale fino a Roma, dovette arrestarsi per riesaminare il suo piano strategico, di fronte alla formidabile linea di resistenza nemica, costituita dalle fortezze di Osimo, Urbino, Perugia, Orvieto, Civitavecchia.
Fatto spostare il grosso della flotta sui porti dell’Adriatico, dove operava il collega Narsete, le forze congiunte dei due generali occuparono Fermo e qui tennero consiglio di guerra2. Si stabilì di aggirare l’ostacolo di Osimo, città imprendibile per la posizione per le forze che vi avevano concentrato di Goti, Belisario stabilì che il generale Arasio dovesse restare a Fermo e limitarsi ad impedire le scorrerie nemiche e i saccheggi nel territorio circostante3. La flotta doveva tenersi attiva lungo tutta la costa fino a Ravenna; il grosso dell’esercito, condotto da Belisario e Narsete, assalire una ad una le piazzeforti dell’interno. Nonostante i molti disaccordi tra i generali greci, Belisario riuscì a imporre la sua autorità, nel 540, Ravenna cadde il re Vitige fu spedito prigioniero a Costantinopoli.
Così ancora una volta, a Fermo si decise dal sorte dell’Impero Romano, anche se non era più l’Impero di Roma.
Dopo la caduta di Vitige, si combattè ancora per altri tredici anni e le fasi risolutive della guerra gotica si svolsero nel Piceno.
I Goti, ancora molto forti oltre Po, elessero re Totila che riuscì a rioccupare Ravenna e constatata la debolezza dell’esercito imperiale, si decise ad assalire le principali fortezze del Piceno, ponendo l’assedio a Fermo e ad Ascoli4. Nel 545, costrinse alla resa le due città, cacciando i Greci dal Piceno5.
La guerra gotica durò diciotto anni dal 535 al 553; finì con la morte in battaglia del valoroso re Teia.
FERMO DOPO LA GUERRA GOTICA
Ancora una volta, per la sua posizione strategica, Fermo si era trovato al centro di immani disastri.
Procopio, storico della guerra gotica, ci ha lasciato una orripilante descrizione della miseria di Roma durante la guerra6, ma io penso che quella era la condizione anche di Fermo e, per qualche aspetto, anche più grave. Procopio, oltreché della disperazione e della fame, non può parlare della rabbia di un esercito di barbari feroci in ritirata, e del loro susseguente ritorno in una regione di odiati romani. Io penso che i Fermani più di così, avrebbero potuto soffrire solo all’inferno. Case distrutte, campi devastati, bestiame sparito, mancanza di grani per la semina, senza parlare dei danni morali; per molto tempo dopo la guerra la povera popolazione seguito ad andare nuda e a morire di fame (erano una ventina di anni che si moriva di fame). E, conseguenza della fame, della debilitazione, della sporcizia di eserciti di mezza Europa, la peste che infierì spaventosa, nel 565.
Anche per la Religione Cattolica Fermo, i secoli V e VI furono disastrosi.
Le continue scorrerie dei barbari, nemici del nome cattolico, ariani che non rispettavano niente di sacro, avevano avvilito e disperso il clero, devastati i monasteri e le chiese. Le notizie della Diocesi Fermana di quel tempo non possono essere troppe; ma se del secolo V possiamo conoscere almeno il nome di qualche vescovo fermano, dal 502, quando Teodorico ordinò che si tenesse a Roma un sinodo per ridare alla città la tranquillità, al quale partecipò il vescovo di Fermo giusto, non conosciamo più nessun vescovo, fino a 580. Il Catalani e dell’opinione che in tutto questo tempo la cattedra episcopale di Fermo sia stata vacante, per le indicibili difficoltà nelle quali la città si venne a trovare.
Ma da questi immani disastri non fu soffocata la fede cattolica, né completamente annientato il Sacerdozio.
Quando nel 580, fu vescovo di Fermo Fabio, con undici libbre d’argento riscattò alcuni fermani schiavi dei Longobardi, tra i quali qualche chierico; Demetriano, Valeriano e Passivo che poi, alla morte di Fabio, diventò Vescovo di Fermo. E farà meraviglia al lettore che la gerarchia cattolica sia rifiorita a Fermo, proprio sotto la dominazione dei Longobardi, un popolo di religione ariana, più refrattario alla civiltà romana. Ma dopo la fine del regno ostrogoto, c’era stata qualche novità nell’organizzazione dell’Italia bizantina: tra le altre, l’esaltazione del clero cattolico da parte dell’Imperatore Giustiniano aveva incaricato i Vescovi di vigilare sull’operato dei Magistrati, gli aveva concesso agli ecclesiastici non proprio tribunale.
Questa posizione privilegiata dei Vescovi, questa loro potenza morale, impose un certa riverenza nell’animo rozzo degli invasori Longobardi che spesso si chinarono avanti al Vescovo; e i Vescovi poterono approfittare del loro prestigio, per la salvezza di tanti perseguitati
FERMO LONGOBARDA
Tra i popoli barbari che abbiamo conosciuto, i Longobardi erano i più lontani e refrattari alla civiltà romana. Mentre gli altri barbari scesi in Italia erano guidati da condottieri che già avevano raggiunto alti gradi dell’esercito imperiale, quindi nutrivano una certa riverenza per il nome romano, i Longobardi non avevano esperienze romane e venivano solo come conquistatori, per imporre il loro dominio e le loro tradizioni.
Scesero in Italia da nord-est è e dilagarono nella pianura padana, occupando Verona, Milano, Pavia, dove fissarono la loro capitale. Secondo la maggior parte degli storici, erano meno di trecentomila e solo settantamila i combattenti, ai quali sapevano essere di valido aiuto le donne e i ragazzi che li seguivano. L’esercito imperiale riuscì solo a fargli deviare nelle pianure lombarde, salvando Ravenna e l’Esarcato.
Scesero in Italia nel 568, sperando di trovarvi la ricchezza, ma ebbero una grave delusione che li rese ancora più feroci: due anni prima c’era stata la peste; in quell’anno cominciò una terribile carestia e, subito dopo, nel 570 la peste epizootica decimò il bestiame.
In due anni, da Pavia dilatarono le loro la loro conquista in tutta l’Italia settentrionale, in Toscana, nel Piceno, nella Campania, evitando per il momento di infastidire Roma e il Papa.
Nel 570, re Alboino occupò Fermo e il Piceno, dal Musone al Pescara, mentre la Pentapoli: Osimo, Ancona, Senigallia, Fano e Pesaro seguitarono a far parte dell’Esarcato di Ravenna. Fermo col Piceno fu unita al Ducato di Spoleto, mentre a sud del Pescara si costituì il Ducato di Benevento.
La celerità con la quale questo piccolo popolo barbaro conquistò quasi tutta l’Italia si spiega con la miseria nella quale vivevano gli italiani e l’abbandono nel quale erano lasciati dall’imperatore di Costantinopoli. Ma io direi che questa noncuranza degli Imperatori fu provvidenziale per gli italiani, poiché i Longobardi, non trovando seria resistenza alla loro espansione, furono con loro meno feroci; ma feroci lo furono, dobbiamo credere alle testimonianze del tempo7. Barbari che odiavano la civiltà romana senza conoscerla; pagani, più che ariani che odiavano il nome cattolico; feroci guerrieri che disprezzavano gli imbelli Romani; troppo esigui di numero, per non temere una rivalsa dei vinti, imposero il loro dominio col terrore e colle stragi.
L’occupazione di Fermo non fu diversa, né meno dolorosa di quella di altre città. La sorte dei Fermani dipese dall’arbitrio di questi feroci occupatori: non mancarono violenze, uccisioni, schiavitù.
ORGANIZZAZIONE LONGOBARDA NEL FERMANO
A differenza degli altri regni di quel tempo, il regno longobardo non era assoluto. Il re, eletto dai Duchi, era primo “inter pares”. Più che l’autorità dominante, rappresentava il simbolo di unità del regno. Ogni Duca era un piccolo sovrano assoluto nel suo territorio; dipendente dal Re solamente nel fare la guerra e nel pagare le tasse.
La molteplicità di questi ducati (al principio del seicento erano una quarantina), mentre favoriva lo sviluppo economico della nazione, poiché ogni duca metteva il massimo impegno nel procurare il progresso del proprio territorio, costituiva il punto debole per l’unità dello Stato, ma non così disastroso, come qualcuno afferma. È vero che a volte il Re doveva imporre a qualche duca la soggezione con le armi, ma è pur vero che ogni duca doveva sentire che, unito agli altri formava una forte nazione; da solo contro gli altri, era niente: l’unità era interesse di ognuno.
Dopo l’occupazione longobarda, Fermo fece parte del Ducato di Spoleto che comprese parte dell’Umbria e tutto il Piceno, dal Musone al Pescara. Il Ducato si organizzava in “Comitati”, che erano circoscrizioni giurisdizionali, corrispondenti alle odierne province, e si conformavano nel numero e nella estensione alle Diocesi o Episcopati.
Il “Comitatus” prendeva nome dal “Comes” = Conte, una carica che rispondeva al nostro Prefetto, ma con poteri più ampi, poiché era lui era affidata l’amministrazione della giustizia e la direzione delle forze militari del suo territorio. La istituzione come tale non è nel longobarda, nel franca, ma molto più antica: dobbiamo riportarla almeno a Teodorico, se non addirittura all’Impero Romano8.
La sede del “Comes” era la”civitas”, come pure la “civitas” era la sede del Vescovo. Queste ”Civitas”, nel Piceno, per le distruzioni provocate dalle invasioni barbariche, erano ridotte a poche. Per quel che riguarda il Ducato di Spoleto di qua dei monti, che erano solo: Camerino, Fermo, Ascoli, Penne (Comitato Aprutino), sedi vescovili e sedi comitali. Con la distruzione di Potenza, di Urbisaglia e di Falerio, sparirono quelle sedi vescovili e i loro territori vengono inclusi nella Diocesi di Fermo; i confini di questa diocesi furono pure i confini del comitato fermano; delimitato a sud del Tronto e dal Tesino; a est dal Fiastra; a nord dal Potenza9.
L’ufficio del conte di Fermo, quindi, era di governare questo Comitato, in nome e alle dipendenze del Duca di Spoleto. Ma per governare, il conte aveva bisogno di collaboratori: collaboratori giuristi, per amministrare la giustizia in città e nei villaggi sparsi nel territorio; collaboratori nella direzione della vita civile della città, e collaboratori dell’amministrazione finanziaria del comitato, che non era la meno importante.
I Longobardi erano barbari, ma non dobbiamo credere che fossero un popolo di poco cervello. A parte che avevano una loro organizzazione tradizionale non del tutto disprezzabile, capivano bene che ora si trovavano nella necessità di organizzare un nuovo stato, con nuove esigenze. Compresero presto quanto c’era di utile nella organizzazione del trovavano nei territori occupati e progressivamente l’adottarono, accordandola colle esigenze della loro tradizione.
L’organizzazione della città di Fermo che abbiamo descritto nelle pagine precedenti: I Duumviri, i Quatorviri, i Seviri ecc., era una organizzazione che il racconto trovò molto utile, anche se questi ufficiali non si chiamarono più così, seguitarono a svolgere il loro ufficio sotto il suo controllo assoluto10. Questo controllo arrivò in ogni angolo del comitato, per mezzo di incaricati che il conte mandava nei villaggi principali e che in seguito si chiamarono “Vicecomites = visconti”.
Per la parte finanziaria c’erano i “Gastaldi”. Il “Gastaldo” è forse una tipica istituzione longobarda. Si è scritto molto su questo argomento, ma non ci sono documenti sufficienti che ci illustrano l’ufficio del Gastaldo11.
Nel Comitato Fermano di Gastaldi ne troviamo molti, ma non prima del sec. XI; come pure incontriamo molti “Ministeria”. Siccome al lettore la pressione può interessare fino a un certo punto, mi limito a esporre il mio pensiero al riguardo, rimandando qualcuno cui può interessare al lavoro del chiaro amico Delio Pacini12.
“Gastaldo” è una parola longobarda che è arrivata fino a noi col significato di ”Amministratore”. Io penso che questo sia il significato originario del termine; quindi il Gastaldo era un ufficiale governativo con incarichi finanziari, come sarebbe la riscossione delle tasse dei fitti. E siccome il Gastaldo era un “minister” = amministratore, “Guastaldato e Ministeria” hanno lo stesso significato, equivalente pressappoco al nostro Ufficio Distrettuale delle Imposte. Nihil novi sub sole!
I Longobardi, popolo serio e intelligente, se nei primi anni della loro invasione perseguitarono i cattolici e ostacolarono l’opera dei vescovi, presto capirono quanto fosse importante la loro collaborazione nel governo di una nazione, nella massima parte, di origine romana. Già nel 580, il vescovo di Fermo Fabio poteva trattare autorevolmente con i signori Longobardi la liberazione di alcuni schiavi e chiedere un maggior rispetto per le popolazioni inermi delle Pievi. E se anche, (non sappiamo), non riconobbero per i Vescovi il controllo morale sugli ufficiali dello Stato, attribuito loro dall’Imperatore, con l’andar del tempo crebbe verso di essi la considerazione e la riverenza13; tanto più quando, al principio del seicento, la regina Teodolinda convertì al cattolicesimo il marito, re Autari, poi il secondo marito Agilulfo, il quale favorì i Vescovi e i monasteri, aiutandoli anche finanziariamente incoraggiando la loro opera nella romanizzazione del suo popolo14.
L’AGRICOLTURA FERMANA SOTTO I LONGOBARDI
Più che la città, ai Longobardi premeva la campagna; difatti gli spostamenti di tutte queste popolazioni barbariche avvenivano per il bisogno che esse avevano di nuove terre da sfruttare. E sulle campagne fermane, sulle curti così bene organizzate, si gettarono per la maggior parte, uccidendo o cacciandone i proprietari e rendendo schiavi i coltivatori.
Molti agricoltori, proprietari e servi della gleba, scorsero in tempo il pericolo e si sottrassero con la fuga. Sperarono salvezza, raggruppandosi presso qualche monastero o qualche parrocchia e dicendosi popolo del Vescovo, dedicato a qualche santo apostolo, a S. Stefano, a S. Giorgio, a S. Savino, o a S. Michele Arcangelo: nomi per i quali anche i Longobardi ariani nutrivano qualche riverenza. Questi fuggiaschi, peraltro non tutti fortunati, formarono le Pievi, “plebes Episcopi”, seme dei futuri Comuni.
I Longobardi, come tutti i popoli barbari, non avevano grandi esperienze in agricoltura. Nelle campagne fermane trovarono comode curti, dove si installarono prepotentemente: trovarono esperti agricoltori che sapevano l’arte della coltivazione razionale e dell’allevamento: questi agricoltori sapevano che bisogna alternare le semine nei campi; che bisogna dare alla terra periodi di riposo e nutrirla perché dia più frutto; sapevano coltivare la vite e fare il vino, il profumato vino Piceno; tutte cose delle quali essi prima non avevano l’idea.
Quali i conquistatori, si credettero in diritto di farsi padroni della terra e dei suoi coltivatori, obbligandoli a lavorare per essi come schiavi. Ma questi schiavi romani avevano anche una potenza a loro sconosciuta; avevano la potenza di conquistare i conquistatori, di rendere romani i barbari. Per conseguire ciò, avevano bisogno di molto tempo, di secoli e di sofferenze, ma anche essi, i più barbari dei barbari, avrebbero alla fine ceduto.
E i Longobardi del Fermano si ammorbidire presto, a contatto di schiavi pazienti che prima di lavorare pregavano; alla parola di Sacerdoti zelanti che esortavano gli schiavi alla pazienza e ardivano di esortare i barbari a sentimenti umani verso chi lavorava per essi.
Cessò presto la schiavitù, ma restò, e per secoli, la servitù della gleba, condizione poco migliore, che i coltivatori della terra conoscevano già da almeno cinquecento anni. Poi al principio delle seicento venne la cattolica Teodolinda, la Regina che spese tutte le sue energie nella romanizzazione del suo popolo. Per merito di questa donna singolare, la civiltà di Roma fece grandi progressi nella società longobarda. E l’opera sua in appresso non si vanificò, perché la storia ci dice che è più facile progredire nella civiltà che retrocedere.
La convivenza della popolazione longobarda con la popolazione romana andò sempre migliorando; i signori Longobardi delle curti accolsero come soci, come collaboratori, come affittuari, agricoltori romani desiderosi di tornare alla terra. Le curti tornarono ad essere centri di ricchezza e di potenza; i signori di campagna, i soli veri signori, incominciarono a imporsi nella società; le curti si fortificarono e ne sorsero innumerevoli castelli che, per molti secoli, condizionarono la vita economica e sociale della città e delle pievi; e la nostra si disse “Provincia Castellorum”.
IL DUCATO DI FERMO
Alcuni autori, tra i quali il Foglietti, opinano che quando Liutprando (713-744), nel 727, occupò la Pentapoli, staccò da Spoleto il territorio Piceno e istituì dei ducati a sé delle principali città: Fermo, Camerino, Penne, e probabilmente anche Osimo15.
Ciò corrisponderebbe al fine che il re si prefiggeva di ridimensionare i ducati, per diminuire la crescente prepotenza dei Duchi. Certo è che, nel 773, sotto il regno di Desiderio, a Fermo c’era un duca che si chiamava Tasburo16.
È quasi impossibile stabilire i confini di questo Ducato Fermano per mancanza assoluta di documenti; ma se anche Ascoli fu staccata da Spoleto, esso doveva comprendere tutta l’attuale provincia ascolana e parte dell’Abruzzo. Abbiamo una sola testimonianza, quella fornitaci dal Momsen, che ci fa conoscere un solo Duca di Fermo. Se è vero, come afferma il Foglietti, che il Ducato di Fermo fu creato da Liutprando, verso il 730, esso sarebbe durato meno di cinquant’anni, per essere di nuovo affidato a un Conte nelle 776.
LA MARCA FERMANA
Non devi confondere la espressione “Comitato Fermano”, con “Marca Fermana”; sono due cose ben distinte: il Comitato fermano è una provincia; la Marca Fermana è una regione con più comitati.
Il significato della parola “Marca” e discusso. C’è chi dice parola longobarda con significato di confine = regione di confine, ma questa interpretazione non avrebbe senso; confine, con chi? A me pare che la parola longobarda “Mark” equivalga al latino “fines” = territorio, “regione”, (e non confine); il Piceno, per i barbari longobardi, diventò “Marca di Fermo”, dalla città più grande e più importante di questa regione.
Sono senza numero le citazioni di “Markia, Markia Firmana” nel Chronicon Farfense e nel Regesto Farfense; in documenti ufficiali compare l’espressione “Markia Firmana”, nella prima metà del novecento e si ripete fino al secolo XIII, quando la Marca si chiamò: Marca Anconetana.
Da vari documenti si può ricavare che la Marca Fermana non era solo il Comitato di Fermo, ma tutto il Piceno, dal Musone al Pescara. Esso comprendeva quattro Comitati (contee); il Comitato di Fermo, di Camerino, di Ascoli e di Penne (Comitato Aprutino)17.
FINE DEL REGNO LONGOBARDO
Morto Re Liutprando che aveva cercato la concordia col Papa, ingrandendo i possedimenti della Chiesa con la conquista per essa delle Esarcato e di parte della Pentapoli, ai suoi successori non fu possibile seguitare la sua politica. È inutile indagare se la discordia dipese più dalla prepotenza longobarda, o dall’eccessiva apprensione gelosa dei Papi; bisogna prendere i fatti come stanno, ricordando che i torti e gli errori non stanno mai da una parte sola. Forse fu la mancanza della diplomazia da ambedue le parti; e la conclusione di tutte le controversie con la calata di Carlomagno, re dei Franchi, chiamato in Italia contro i longobardi da Papa Adriano I. Peccato! Dice qualcuno; le Crociate li avrebbero fatti i Longobardi con ben altri risultati; e le mura di Roma, dice qualche altro, non sarebbero state rovinate con la breccia di Porta Pia; ma la storia è quella che è.
Nel 774, Carlomagno fece prigioniero a Verona il Re Desiderio e si proclamò “Re dei Longobardi”. Non credette bene annullare un regno che era durato duecento anni, e annullare un nome che ricordava un popolo grande e valoroso; a lui bastava sostituire i suoi Re.
C’è chi piange sulla fine del regno longobardo che ritardò di tanti secoli l’unità d’Italia. Io accetto i fatti come la storia me li presenta, serbando ammirazioni e anche gratitudine per questo popolo valoroso, al quale la Provvidenza aveva affidato evidentemente il solo compito di innestare il sangue nuovo sul decadente sangue romano.
Siamo abituati a parlare dei Longobardi come di un popolo a noi estraneo che occupò fugacemente l’Italia, mentre essi la tennero per duecento anni; diventarono italiani e la tengono tuttora, perché il popolo italiano è, nella quasi totalità Romano-Longobardo: un popolo che dominò la storia medievale con le sue piccole ma potenti repubbliche; con la sua espansione commerciale; con la meravigliosa fioritura delle scienze e delle arti.
Noi della Marca Fermana siamo una delle popolazioni che hanno sentito l’influsso dei Longobardi, perché in due secoli abbiamo assimilato tanta parte del loro carattere, della loro cultura, del loro sangue, e non abbiamo motivi di arrossirne.
NOTE
1)- PAOLO DIACONO – Storia romana XV, c.10- “Ita Romanorum apud Romam Imperium toto terrarum orbe venerabile et augustalis illa sublimitas quae ab Augusto quondam Ottaviano cepta est, cum hoc Augustolo periit, anno ab Urbis conditione millesimo ducentesimo nono; a Caio vero Cesare qui prima singularem arripuit principatum anno DXXII, ab Incarrnatione autem Domini anno CDLXXV”. Così l’Impero dei Romani rispettato in tutto il mondo, e quella sublimità che era cominciata con Augusto Ottaviano, svanì con questo Augustolo (piccolo Augusto), nell’anno della fondazione di Roma 1209 (o 1229?); Da Caio Cesare, il quale per primo ha preso il governo assoluto, 522; dalla natività di Cristo, 475.
2)- PROCOPIO DI CESAREA – De Bello Gotico l. II, c. 16- “Belisarius et Narsetes junctis copiis ad urbem Firmum quae litore sinus Joni vicina dici distabat ab urbe Auximo. Ibidem coacto ducum omnium exercutus consilio deliberarunt qua parte hostem petere satius esset”. Belisario e Narsete, uniti i loro eserciti presso la città di Fermo, la quale, vicina al litorale del Golfo Ionico, distava dalla città di Osimo un giorno di marcia. Là adunato il consiglio di tutti i capitani, stabilirono da qual parte attaccare il nemico.
3)- PROCOPIO DI C:- Ivi, c. 30 – “Arasium Firmi cum multo milite Jemare jussit Belisarius et dare operam ne amplius barbari inde libere escurrentes viciniam impune opprimerent”.
4)- PROCOPIO DI C: . l. III, c. 11 – “Totilas gotorumque exercitus haud ignari viribus imparem sibi esse Belisarium, loca infestare unitissima decreverunt. Quare in agro Piceno ad Firmum et Asculum castrametati utrumque circumsedere”. Totila e l’esercito dei Goti ben consapevoli che Belisario era di forze inferiore a loro, decisero di occupare le località più fortificate. Perciò si accamparono e assediarono la città di Fermo e di Ascoli nel Piceno.
5)- PROCOPIO DI C: – l. III, c. 12 “Interea Totilas deditione Firmum atque Asculum capit, Tusciamque ingressus, Spoletum et Assisium obsidet”. Intanto Totila, costrette ad arrendersi Fermo e Ascoli, si diresse in Toscana, assediando Spoleto e Assisi.
6)- Appendice: lettura n. 1.
7)- Papa Pelagio II (578-590 “E come non piangere, vedendo avanti ai nostri occhi sparso tanto sangue innocente e profanati gli altari e insultata dagli idolatri la Fede Cattolica?”.
Papa Gregorio Magno (590-604) “Dovunque si giri gli occhi non vediamo altro che desolazione e lamenti. Distrutte città e castelli e abitazioni; non un contadino nei campi deserti; le città vuote. Tutti i giorni vediamo altri fatti schiavi, altri mutilati, altri uccisi. Che cosa ci può far desiderare di vivere?”
Gregorio Magno- Dialogorum lib. III, 28 – “Avendo i Longobardi circa 400 prigionieri, immolarono secondo il loro uso una testa di capra al diavolo, saltando e cantando versi nefandi. Dopo, averla adorata, costringevano i prigionieri ad adorarla. Ma i più, preferendo di passare a una vita immortale piuttosto che conservare la vita mortale adorandola, rifiutarono di compiere il sacrilegio e di piegare a una creatura il capo che avevano sempre inchinato al Creatore. Allora quelli furibondi uccisero con le spade tutti quelli che non avevano acconsentito al loro errore”.
8)- CASSIODORO – Variae – VII, 3 (Editto di Teodorico) “Poiché sappiamo, con l’aiuto di Dio, che i Goti vivono mescolati con voi, affinché non venga, come di solito, contese tra cittadini della stessa sorte, abbiamo creduto necessario destinare a voi un Conte che risolva le liti tra due Goti. Se poi qualche lite fosse sorta tra un goto e un romano, egli associatosi un giurisperito romano , decida la contesa con equità. Tra due romani poi giudichino quei romani che mandiamo quali giudici nelle province, affinché siano salvi i diritti di ognuno. Ecc.”
9)- Questi confini si ricavano da Regesto Farfense, da Chronicon Farfensee da documenti ufficiali (diplomi imperiali, documenti pontifici) che essi hanno però solo dal sec. X in poi.
10)- Alla fine del500, esisteva un municipio di Fermo. In una lettera di San Gregorio Magno al Vescovo di Fermo Passivo (Catalani – De Ecclesia Fir. Ecc – pag. 100), si parla di documenti municipali.
11)- Tra gli scrittori di storia c’è grande divergenza di opinioni. C’è chi identifica il Gastaldo col Conte, il che evidentemente non è esatto; c’è chi dice il Gastaldo inviato dal Re, per controllare l’operato dei Duchi e in contrapposizione ad essi; ma questa idea, secondo me, è semplicistica e non può essere appoggiata da prove convincenti. C’è chi dice il Conte equivalente a Gastaldo Maggiori e il Visconte a Gastaldo Minore, ma non ci sono documenti chiari in proposito.
12)- DELIO PACINI – i Ministeria nel territorio di Fermo- da “Studi maceratesi”, 10 Macerata 1976.
13)- Dalle lettere di Gregorio magno al vescovo di Fermo passivo e al vescovo di Ancona, si può dedurre che, alla fine del 500, i cattolici di Fermo godevano ampia libertà.
14)- PAOLO DIACONO – Storia dei Longobardi – l. IV, c. VI – “Per hanc quoque reginam utilitatis multum Dei Ecclesia consecuta est. Nam pene omnes ecclesiarum substantias Longobardi, cum adhuc gentilitatis errore tenerentur. Sed huius salubri supplicatione rex permotus, et catolicam fidem tenuit, et multas possessiones Ecclesiae Christi largitus est, atque episcopos, qui in repressione et abietione erant, ad dignitati solitae tenorem reduci”. Per opera di questa regina la Chiesa di Dio tenne molti vantaggi. I Longobardi infatti, mentre erano ancora pagani, avevano occupato tutti i beni della Chiesa. Ma il Re, mosso da salutare intervento di questa Donna, accolse la religione cattolica, elargì molti possessi alla Chiesa di Cristo e riportò all’onore della loro dignità i Vescovi erano nello stato di avvilimento e di disprezzo.
15)- Adelchi, nel 773, rinnova i privilegi al monastero di S. Salvatore in Brescia: “In ipsa Monasteria concedimus possidendum quantum nunc praesenti tempore habere et possidere videntur tam in partibus Austriae et Neustiae, et Spoletanis, Firmanis, Auximanis et Bonaventani finibus”.
16) FOGLIETTI – Le Marche dal 568 al 1230 – Macerata 1907- Trascrivo dal Momsen: Iscritiones latinae: “In Di Nom. Regnante Domino nostro Desiderio, … Itenque regnante Domino nostroElchis filio eius, anno felicissimi regni eius XPI Nom. Undecimo, seu temporibus Tasburi Ducis civitatis Firmanae, mense Januario etc.”.
17)- S. Gregorio Magno, in una lettera al vescovo Passivo (Catalani – De Ecclesia ecc., p. 102) parla della dioces: “Firmensis Territori = del territorio fermano. Si capisce che il patrizio romano Gregorio non poteva usare il termine barbaro “Mark”.
Ottoni II, in 1 documento del 983, rinnova i privilegi al monastero della Trinità: “In Ducatu Spoletino et Markia Firmana”: due regioni, non due Comitati.
Gregorio VII scomunicò i normanni, perché volevano occupare “Markiam Firmanam et Ducatum Spoletinum”; ma sappiamo che i confini normanni non oltrepassavano il Pescara.
Nel 1084, in 1 lettera al vescovo di Ravenna, Gregorio VII si rivolge pure “omnibus Episcopi set Abbatibus in Markia Firmana”, ma se questa Markia Fermana fosse stata solo il Comitato di Fermo, avrebbe avuto un solo Vescovo, mentre il documento ne suppone di più
LETTURA I
PROCOPIO DI CESAREA – Guerra Gotica – I-III, part. 17 (traduzione Domenico Comperetti)
“…. Quel Romano poi che avesse un cavallo morto o altro di simile era considerato felicissimo, potendo saziarsi delle carni della carogna. Tutta l’altra gente del volgo non mangiava che ortiche, delle quali ben molte crescono presso le mura e dovunque fra i ruderi della città; e perché quella pianta pungente non offendesse le labbra e le fauci, la mangiavano dopo averla ben cotta…. Non essendo però quel cibo sufficiente e neppure potendo essi con quello sfamarsi, erano ridotti quasi tutti emaciati e il loro colore erasi mutato in livido, riducendoli simili a spettri. Molti mentre camminavano in masticavano fra i denti le ortiche, cadevano morti a terra improvvisamente…. Molti tormentati dalla fame si suicidavano, non trovando più né cani, né topi, né cadaveri di animali di che cibarsi. E vi fu un tale, romano, padre di cinque figli, a cui fattisi questi attorno, chiedean da mangiare. Colui, senza gemiti….Celando dentro di sé tutto il suo pavimento, invitò i figli a seguirlo. Giunto però al ponte sul Tevere, legatasi la veste al volto e così coperti gli occhi si scagliò dal ponte nel fiume, in vista dei figli e di tutti quelli che colà trovavansi”.
LETTURA II
PROCOPIO DI CESAREA – Guerra Gotica – I-II, part. 17 (traduzione Domenico Comperetti)
“Belisario poi, per altra via lontana dalla riva, andò con Narsete, passando per la città di Urbisaglia; la quale nei tempi anteriori Alarico distrusse al punto che nulla più affatto rimane del suo pristino splendore, ad eccezione di una porta e di una piccola reliquia della struttura del lastrico. Colà mi avvenne di essere spettatore del fatto seguente: allorché Giovanni col suo esercito giunse nel Piceno ne nacque, come suole, gran turbamento fra quella gente. Le donne quali fuggivano prestamente dovunque ciascuna potesse, quali prese da quei che le incontravano, erano menate via senza riguardo alcuno. In quel luogo dunque una donna che aveva testé partorito, abbandonato il bambino nelle fasce per terra, sia fuggisse, sia che da qualcuno fosse presa, non poté più colà ritornare. Certo dovette o essere uscita di vita o dall’Italia. Il bambino così rimasto soletto piangeva. Vistolo una capra, ne ebbe pietà e appressatiglisi (poiché anch’essa avea di recente partorito ) porsegli la poppa e prese solerte cura del bambino perché qualche cane o altro animale non gli nuocesse. E poiché il trambusto durò assai lungamente, il bambino per assai tempo ebbesì di quella poppa. Venutosi poi a sapere nel Piceno che l’esercito imperiale veniva colà a danno dei Goti e che i Romani niun male da esso avrebbero a soffrire, ritornarono tutti tosto alle loro case. Le donne di stirpe romana, tornate in Urbisaglia insieme ai loro mariti, visto il bambino, molto si meravigliarono trovarlo vivo, e ciascuna di loro che erano in stato di farlo, porsegli la poppa, ma il bambino ormai del latte umano non volle, né la capra voleva che lui si appressassero. Quindi le donne cessarono di molestare il bambino, e la capra a suo piacimento lo nutriva e lo custodiva con ogni cura; per lo che quelli del paese diedero al bimbo il nome di Egisto (caprino). Quando io venni a trovarmi colà, per darmi prova del fatto strano, mi menarono presso il bambino ed espressamente lo molestarono, perché vagisse, ed egli infatti, crucciato per le molestie si mise a piangere. La capra che trovavasi distante da lui cerca un tiro di pietra, all’udirlo, di gran corsa e alto belando gli andò presso e si mise in piedi al di sopra di lui, perché niuno non potesse più dargli noia”
APPENDICE
INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI
(il numero indica la pagina)
—ooo0ooo—
Abruzzo, 50
Adria, 7,9,10,12,13,14
Adriano I, Papa, 51
Adriatica, 35
Adriatico, 7,15,20,21,44
Africa, 28,29
Ager Adrianus, 10
Ager Beregranus, 10
Ager Palmensis, 10
Ager Pretutianus, 10
Agilulfo, re longobardo, 48
Agro Palmense, 11,15,20,34
Agro Pretuziano, 20,34
Alarico, re dei Visigoti, 42,53
Alboino, re dei longobardi, 46
Alpi occidentali, 8
Alpi, 44
Amalasunta, 43
Ancona, 10,11,26,46
Antioco, 22
Antistia, figlia del pretore Antistio, 26
Antistio, pretore, 26
Antonio, 29,30,31,34
Appennini, 11,14
Appio Claudio, 15
Arasio, generale, 44
Arcari, 37
Arezzo, 13
Arpino, 24
Ascoli, 7,15,23,25,26,35,47,50
Aso, 15
Atalarico, 43
Ataulfo, re dei Visigoti, 42
Atri, 9,11,20,22
Attalo, 25
Attila, 42
Augusto (Ottaviano), 38
Ausculum,9
Autari, re longobardo, 48
Auximum, 9
Azio, 31,34
Azzio Varo, 28
Belisario, 44,53
Benevento, 46
Beregra, 9,10
Bolsena, 43
Brindisi, 27
Bruto, 30
Caio Giulio Cesare, 28,29
Caio Giulio, 25
Caio Gracco, tribuno, 25
Caio Mario, 24,25
Camerino, 15,47,50
Campania, 46
Canale di Otranto, 14
Carlomagno, re dei Franchi, 51
Cartagine, 20
Castellum Firmanorum, 35
Castronovani, 19
Castronovo, 20,34
Castrum Novum, 35
Castrum Truentinum (oggi Acquaviva Picena), 35
Catalani, storico, 9,10,45
Catilina, 28
Catone il censore, 22
Cesare Augusto, 35
Cesare, 30
Cesare, 34
Chronicon Farfense, 50
Cicerone, 23,24,27,28,29,30
Cimbri, 24
Cingoli, 25
Cinna, console 27
Ciociari, 14
Civitavecchia, 44
Civitella del Tronto, 9
Claudio Nerone, console, 22
Clodio, 28
Cluana (Civitanova Marche), 9
Colle Sabulo, 9,21,35
Comitati, circoscrizioni, 47
Comitato Aprutino, 47,50
Comitato di Fermo, 50
Comitato Fermano, 48,50
Comunanza, 15
Corfinio, 26
Corropoli, 35
Costantinopoli, 43,44
Crasso, console, 27
Crociate, 51
Cupra Marittima, 9
Cupra Montana, 9
Cupra, dea, 10
Custodes Templorum, 37
Dalmazia, 23
Decio Mure, 13
Demetriano, chierico, 45
Desiderio, re longobardo, 50
Diocesi di Fermo, 47
Diocesi Fermana, 45
Diocesi, 47
Diocleziano, 39
Dissignatores, 37
Domenico Comparetti, traduttore, 53
Ducato di Benevento, 46
Ducato di Fermo, 50
Ducato di Spoleto, 46
Ducato di Spoleto, 47
Duilio, ammiraglio romano, 21
Duumviri, 36,47
Egisto, 54
Egitto, 27
Elba, isola, 11
Episcopati, 47
Era Volgare, 37
Eruli, 42
Esarcato, 46,50
Esino (fiume), 9,12
Etruschi, 8,11,12,14
Fabio Mure, 13
Fabio, vescovo di Fermo, 45,48
Faleriensi, 38
Falerion, 9,23,29,38,42,47
Fano, 46
Farsalo, 27
Fenici, 8
Fermani, 22,23,27,29,38,44,46
Fermano, 21,24,29,42,46,49
Fermo, 7,9,10,11,13,14,15,20,21,22,23,2526,27,28,29,34,35,36,37,38,42,43,44,45,46,47,50
Festo, 7
Firmum, 9
Flaminia, 34,35
Foglietti, storico, 50
Formia, 30
Foro, 22
Franchi, 51
Frentani, 11
Fucino, lago, 19
Galli Senoni, 13
Galli, 12,13,14,22
Gallia Senonia, 14
Gallia, 28,30,42
Gallie, 27
Gastaldo, 48
Gellio Egnazio, 13
Giano, 34
Giovanni, condottiero, 53
Giovenale, 11
Giulio Cesare, 27,36,37
Giuseppe Speranza, storico, 8,9
Giustiniano, imperatore, 45
Goti, 44,54
Gracchi, 24,25
Greci, 8
Grecia, 23,26,27
Guidacilio, 26
Guidacilio, condottiero Piceno, 23
Imperatore d’=riente, 43
Impero di Roma, 44
Impero Romano, 38,44,47
Impero, 37,39,43
Interamnia Poletina Picena, 15
Isonzo, 43
Italia, 8,11,12,15,21,23,34,37,42,43,44,46,51,53,54
Italia Meridionale, 15
Italici, 23,26
Labieno di Cingoli, 25
Lafreno, 26,28
Lenate o Leneo, liberto, 28
Leneo o Lenate, liberto, 28
Lepido, 30
Licinio Crasso, 25
Littores, 37
Liutprando, re longobardo, 50
Longobardi, 45,48,49
Lucio Afranio, 28
Lucio Afranio, 28
Lucio Atticilio Ploto, 28
Lucio Cornelio Silla, 25
Lucio Equizio, 25
Lucio Gavio, 28
Lucio Giulio Cesare, 25
Lucio Tarunzio, 28,29
Lucio Vezzio, 28
Macedonia, 22
Magna Grecia, 20
Marca Anconetana, 50
Marca di Fermo, 50
Marca Fermana, 50,51
Marca, 50
Marche, 11
Mario, 26
Mark, 50
Markia Fermana, 50
Markia, 50
Marrucini, 22
Marsi, 12
Marsica, 19
Marziale, 11
Massignano, 9
Medioevo, 29,37
Mediterraneo, 30
Meridionale, 44
Messina, 31
Metauro, 22
Mitridate, 28
Modena, 30
Momsen, storico, 50
Montefiore, 9
Montegiorgio, 38
Municipio, 36
Municipio, 38
Musone, fiume, 46,47
Narsete, 44,53
Nereto, 35
Nocera Umbra, 34
Novana, 9
Numana, 10
Occidente, 42
Odoacre, 42,43
Onorio, imperatore, 42
Orange, 24
Orazio, 11
Oriente, 11,30,31,43
Orvieto, 44
Osimo, 27,29,44,46,50
Ostrogoti, 43
Ottaviano Augusto, 37
Ottaviano, 29,30,31,34
P. Rutilio Rufo, console, 24,25
P. Ventidio Basso, 26
Palma, 10
Paolo Emilio, console, 22
Papio Mutilo, 26
Papirio Carbone, console, 26
Parti, 26,30
Passivo, vescovo di Fermo, 45
Pausola, 9
Pavia, 46
Peligni, 11,22
Penisola, 8,11,20
Penne, 7,47,50
Pentapoli, 46,50,51
Peregrini, 20,21
Pergamo, 25
Perugia, 44
Pesaro, 46
Pescara (fiume), 7,9,12,46.47
Piceni, 7,8,9,10,11,12,13,15,19,20,21,22,2327,28,29
Piceno, 9,10,11,12,14,15,19.22,24,25,27,28,29,30,34,35,37,44,46,47,50,53,54
Picentes,8
Pico, 9
Pidna, 23
Pioraco, 15,34
Pirro, 13,14
Plinio il giovane, 38
Plinio, 7,9,11,
Plutarco, 22
Po, 44
Pollentia, 9
Pompedio Silone, 26
Pompeo il Grande, 24
Pompeo Magno, 26,27,28,29
Pompeo Strabone, console, 23 24,25,26,29
Popilio Lenate, 24,28,30
Porta Pia, 51
Potentia, 9,15,42,47
Praecones, 37
Pretore, 36
Pretuzio, 10
Procopio di Cesarea, storico, 44,53
Provincia Castellorum, 49
Publio Lenate, 25
Publio Ventidio Basso, 30
Puglia, 22
Quadrumvirato, 36
Quatorviri, 47
Questores, 37
Quinqueviri, 37
Quinta Regio, 37
Quinto Cepione, 25
Quinto Numerio Rufo, 28
Quinto Pompeo, 24,25,26
Ravenna, 42,43,44,46
Regesto Farfense, 50
Rimini, 13,37
Ripatransone, 9,29
Roma, 8,9,12,13,14,15,19,20,21,22,23,24,25,26,27,28,29,30,31,34,36,37,44,45,46,49,51
Romani, 14,15,16,19,22,46
Romolo Augusto, imperatore d’Occidente, 42
Romolo, 28
S. Giorgio, 49
S. Michele Arcangelo, 49
S. Savino, 49
S. Stefano, 49
Sabina, 8
Sabini, 7,8,9,11,13
Sabio, progenitore dei Sabini, 9
Salaria, 15,35
Sallustio, 28
Salviano, vescovo, 39
Sanniti, 7,8,12,13,14,23
Sardegna, 28,30
Saturnino, 25
Saturno, 9
Savino, giurista fermano, 38
Scriba, 37
Sempronia, 25
Senato, 15,16,23,25,26,29,30
Senigallia, 46
Senoni, 13
Sentino, 13
Septempeda (Oggi S. Severino), 35
Sergio Sulplicio, console, 23
Sesto Pompeo, 29,30,31,34
Settempeda, 9
Sevirato, 37
Seviri, 47
Sicilia, 28,30,44
Silla, 26,27
Siri, fiume, 13,14
Spagna, 23,28,29,42
Spoleto, 46,47,50
Stilicone, generale, 42
Strabone, 7,9,10
Talamone, 22
Taranto, 11,13,14,15
Tasburo, duca di Fermo, 50
Teatro, 22
Tellure, dea, 15
Teodato, 43
Teodolinda, 48
Teodolinda, regina longobarda, 49
Teodorico, 43,45,47
Terme, 22
Tesino, fiume, 47
Teutoni, 24
Tevere, 12,25,53
Tiberio Gracco, 21,24,25
Tito Labieno, 28
Tito Lafreno, 28
Tito Lafreno, condottiero Piceno, 23
Tito Livio, 20
Tito Sempronio Sofo, 15
Tolentino, 35
Toscana, 46
Totila, re dei Goti, 44
Tovaglia, località, 13
Tronto, fiume, 47
Truento, 10,11,15,35
Truentum, 9
Umbri, 8,9,11,12
Umbria, 15,47
Urbino, 44
Urbisaglia, 35,42,47,54
Urticini, 19
Urticino (oggi Ortezzano), 20
Urticinum (oggi Ortezzano), 15
Val di Tenna, 35
Valeriano, chierico, 45
Valle del Tronto, 15
Ventidio, 26
Ventidio, condottiero Piceno, 23
Vercelli, 24
Verona, 43,51
Vestini,8,11
Vettonia (oggi Montegiorgio), 38
Vezzio Scatone, 26
Viatores, 37
Vicecomites, 48
Virgilio, 10
Visconti, 48
Visigoti, 39,42
Vitige, re dei Goti, 44
Vomano, fiume, 15
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