NEPOLEONE narrato da Gugliemo TOWER con ciò che le biografie non dicono di lui

IL BENE E IL MALE Libro che documenta Napoleone crudele e Napoleone benefico.

MONS. GUGLIELMO TOWER

CIO’ CHE LE BIOGRAFIE DI NAPOLEONE NON DICONO

PREFAZIONE DEL TRADUTTORE

     Nell’offrire ai lettori Italiani questa traduzione, alla quale mi sono accinto per invito di Persona cui non avrei saputo dire di no, è mio dovere avvertire che si tratta, appunto, di una traduzione, per quanto mi è stato possibile, letterale: del contenuto, il merito è tutto e solo dell’Autore.

     Una cosa avrei desiderato di fare: e cioè rivedere sugli originali e tradurre, occorrendo, direttamente da essi tutte le citazioni di altri libri e documenti, che sono così numerose in quest’opera. Ma le circostanze in cui ho dovuto lavorare mi impedirono, eccetto in pochi casi, di realizzare il mio desiderio. Perciò i passi che si troveranno citati nel corso dell’opera (anche se da libri o documenti scritti originariamente in Italiano) si sappia che son dati qui, quasi sempre, nella mia traduzione Italiana della traduzione Ungherese data dall’Autore, anche quando l’Autore stesso traduceva già, a sua volta, da altre traduzioni (il più delle volte, Tedesche).

     Di ciò avverto i lettori, per evitar loro sorprese od equivoci. Del resto, pel lettore ordinario, a cui basta conoscere il senso dei passi citati, la cosa sarà di poca conseguenza, avendo io cercato di rendere fedelmente il senso dell’Ungherese, e non essendoci ragione di tenere che l’Autore non abbia fatto altrettanto colle proprie fonti. Se poi di qualcuno dei passi qui citati qualche lettore vorrà servirsi a scopo, comunque, « scientifico », farà lui quella ricerca degli originali che non ho potuto farlo.

     Ed ora sarebbe forse bene che io facessi la presentazione, sia dell’Autore, sia di questa sua opera: ma credo che a ciò bastino i giudizi della stampa Ungherese sull’edizione originale dell’opera stessa (1), nonché l’elenco delle altre opere del medesimo Autore, che si troveranno nell’Appendice, dopo l’elenco delle opere utilizzate dall’Autore.

                                                                                                   G. B. GIARIO

(1) Amit Napoleon életrajzai elhalgatnak, Irta: Tower Yilmog pàpai prelàtus, ny. fòesperes. Szalézi Muvek, Rakospalota, 1937. (« Ciò che le biografie di Napoleone non dicono ». Per Guglielmo Tower, Prelato Pontificio, Arcidiacono Castrense emerito. Libreria Salesiana, Rakospalota, 1937).

PREFAZIONE DELL’AUTORE

     Il numero delle opere che trattano di Napoleone s’avvicina al mezzo milione. Solo nella Biblioteca Nazionale di Parigi ci sono centomila libri sul famoso Imperatore. La « Napoleonbibliographie » del Kircheisen (Lipsia, 1902) elenca tanti libri, quanti un’intiera vita d’uomo non basterebbe a leggere… Non sarà dunque fatica superflua, perdita di tempo e spreco di carta, aumentare ancora d’un libro la bibliografia napoleonica?

     Dicono che chi legge una mezza dozzina di libri su Napoleone, crede di conoscere a perfezione questo colosso della storia; chi invece ne legge un’intiera dozzina, s’accorge di non conoscerlo ancora abbastanza; chi poi ne legge tutta una biblioteca, finisce per concludere che si trova davanti ad un enigma. Che codesto detto non sìa del tutto falso, lo dimostrano nel miglior modo i diversi, anzi diametralmente opposti pareri e giudizi di coloro che hanno rivolto la loro attenzione alla persona di Napoleone. Eccone alcuni esempi:

     Heine ne fa un dio (Heine: Werke, VII, 158). — Goethe lo dichiara un semidio (Eckermann: Gesprdche mit Goethe. Leipzig, Reklam, v. Ili, p. 159;c/r. Biedermann, Goethes Gesprdche, III, 208). — Nietzsche vede in Napoleone un « superuomo » (Nietzsche : Genealogie d. Maral p. 36).

     Al contrario, per Tolstoi, Napoleone è « l’uomo più abbietto della storia » (Tolstoi : Guerra e Pace, v. IV, par¬te 4, c. 5). — Secondo la Rémusat, dama di corte della moglie di Napoleone, « Bonaparte fu malvagio fin dalla nascita, gli era innata la tendenza al male nelle grandi come nelle piccole cose, fu il distruttore d’ogni virtù » (Madame de Rémusat: Mémoires, 1879-80. I, 106 e III, 383). — A giudizio di Chateaubriand, « mai nessun uomo sfruttò e disprezzò i popoli, quanto Napoleone » (Chateaubriand : Vita di Napoleone). — Emerson, nella parte de « I rappresentanti dello Spinto Umano » che si occupa di Napoleone, dice dì lui che «gli mancava del tutto ogni sentimento superiore, anzi persino la virtù ordinaria della giustizia e dell’onestà ». — Taine volta sdegnosamente le spalle a Napoleone, perché « sacrificò quattro milioni di Francesi, per rovinare in 15 anni 15 provincie, e perché si staccassero dal suo paese la Savoia, la sinistra del Reno, il Belgio, e tutto l’angolo Nord-Est » <Taine: Napoléon). — Il Melzi dice che « Napoleone aveva il chaos in testa, ed il cuore di pietra » (Berichte zum Kultur u. Zeitgeschichte. Vienna e Lipsia, XII, 787).— Madame de Stael afferma che Napoleone era o più, o meno che «uomo».

     Quando al Senato Francese, nella seduta del 2 apri¬le 1814, fu proposto di dichiarare Napoleone ed i suoi successori decaduti dal trono, ed i Francesi sciolti dal giuramento di fedeltà verso l’Imperatore, la motivazione, redatta da Laìnbrecht, diceva: « Napoleone oppresse la libertà pubblica e privata, fece imprigionare a capriccio i cittadini, costrinse al silenzio la stampa, dissipò il sangue francese in pazze ed inutili guerre, cambiò l’Europa in un cimitero, seminò le strade di feriti francesi abbandonati… non rispettò neppure le decisioni della magistratura ».

     A corona, o scherno, di tutte queste opinioni, vengono gli scritti di coloro che senz’altro negano che Napoleone sia vissuto ed esistito. P. es.: I.B. Pérès: « Warum Napoleon niemals gelebt hat oder grosser Irrtum, die Quelle Zahlloser Irrtummer und Geschichte des XIX Iahrhundertes » (senza data); oppure: « Hat Napoleon gelebt? » (Stuttgart, Robert Luts, « Bibliothek der Absonderlichen, voi. I).

     Ora, in questo mio nuovo libro, io cerco di collocare la vita di Napoleone in una nuova cornice, la guardo da un altro angolo, e l’osservo da una prospettiva superiore, pensando che così sia forse possibile avvicinarsi maggiormente alla soluzione del problema napoleonico.

     Nella prima parte, raccolgo quei gruppi di fatti che si riferiscono alle relazioni di Napoleone coi due Papi coevi, e che dalle biografie di Napoleone comunemente conosciute sono appena toccati, o riferiti con eccessiva brevità, solo di passaggio, e generalmente con parzialità.

     La seconda parte ha un contenuto del tutto nuovo. Solo qualche breve estratto ne ho pubblicato in qualche articolo di giornale o periodico ungherese o straniero, e poi in due mie opere precedenti (1).

                                                          GUGLIELMO TOWER

Prelato Pontificio, Arcidiacono Castrense Emerito, membro ordinario

dell’Accademia di Santo Stefano e del Circolo degli Scrittori Militari

Ungheresi, membro onorario dell’ « Authors’ Club » di Londra.

(1) TOWER V-, « A Katolihas hitvallàs » (La fede Cattolica, 2.a ediz., Budapest, 1927, pp. 240-254).

Id. « Krisztus Orszdga » (Il Regno di Cristo), ibidem, 1935, (pp. 104-114).

PARTE PRIMA

L’UOMO PROPONE   

« Facts may be stateci crearly, and thè course of events

                                 he aeeurately

                                 traced, but thè most faithjul biography can only be an

                                 imperfect portrait ».

                                                     I. E. Bowden.

(Nonostante tutta la chiarezza nell’esposizione dei fatti,

                                 e tutta l’esattezza nel seguire la successione degli

                                 avvenimenti, la più fedele biografia non può essere

                                 che un imperfetto ritratto)

Napoleone ed i due Papi

     Nel suo libro su «Le nuove vie della storiografia Ungherese », Valentino Hóman scrive: « Rivalutare la Storia non significa soltanto rinnovare i giudizi su fatti e fenomeni noti, ma significa piuttosto proiettare una nuova luce sulle relazioni dei fatti fra di loro e col progresso universale. La rivalutazione si è resa necessaria, non tanto per il recente enorme accrescimento della materia ricavata dalle fonti, quanto come conseguenza dell’esame di quei fenomeni e di quelle cause di progresso che erano rimaste escluse dagli esami precedenti ».

Anche la storia di Napoleone esige una rivalutazione, vuole una ripresa, sollecita un appello alla piena giustizia. Perché, delle comuni biografie di Napoleone, almeno il novantanove per cento, per così dire, trascura, o ricorda appena di passaggio, in stile telegrafico, come episodio di ventesimo ordine, la guerra che durò per circa due decenni fra Napoleone e due Papi: Pio VI e Pio VII.

     Eppure, se il cortese lettore seguirà attentamente sino alla fine il nostro libro, si darà ragione del fatto che la guerra tra Napoleone ed i due Papi fa parte integrante della storia di Napoleone ed è talmente collegata col destino di lui, che, senza una conoscenza profonda e particolareggiata di essa, la biografia di Napoleone non può essere che lacunosa, incompleta, inutile, parziale, anzi sfigurata e storpia; mentre invece è appunto lo studio particolareggiato di codesta guerra, che inonda di luce il corso della vita di Napoleone.

Campagna di rapine e caccia di pretesti

     Chi, nella Basilica di S. Pietro a Roma, guarda attentamente quel capolavoro di fama mondiale del Canova, che è il monumento sepolcrale di Pio VI, tosto scorge, e sente, dalla figura umilmente prostrata del Papa, dal suo viso sofferente immerso nell’ombra, che quel Papa fu l’uomo ed il martire dei dolori, delle sofferenze e delle prove. Veramente Pio VI bevve sino alla feccia il calice dell’umiliazione, dell’abbandono, dell’ingratitudine, della prigionia e della miseria! E — ciò che per Lui era più triste — fu costretto a bere codesto calice proprio da quel po¬polo Francese, che era ritenuto il più cristiano.

     Già la ferocia selvaggia e l’empietà persecutrice della Rivoluzione Francese aveva ferito dolorosamente il Suo cuore: a Parigi, fra scherni ed insulti, avevano bruciato pubblicamente il Suo ritratto; i ministri della Chiesa erano stati uccisi e cacciati in massa; i diritti della Religione erano stati calpestati; deposto Dio, si era in Sua vece elevata sugli altari una donnaccia…

     Ma il Papa doveva presto provare nella propria persona la durezza e la rozza violenza del pugno rivoluzionario.

Per tener lontano il feroce, sanguinario ed empio spirito della Rivoluzione Francese, il Governo Pontificio aveva proibito ai Francesi dimoranti negli Stati della Chiesa di esporre la nuova bandiera rivoluzionaria e di portare in pubblico la coccarda corrispondente. Il Basseville, segretario dell’ambasciata di Francia, non tenne conto di tale proibizione; anzi, il 3 gennaio 1793, partecipò al «corso» inalberando sulla propria carrozza la nuova bandiera, e portando ostentatamente sul mantello la coccarda rivoluzionaria. Naturalmente, questa provocante condotta offese ed irritò la popolazione, religiosa e fedele al Papa.     

      Dapprima furono lanciati dei sassi contro la carrozza del segretario; poi, essendo partito un colpo d’arma da fuoco dalla carrozza, la folla si lanciò su di essa, assalì il Basseville, ed uno sconosciuto gli diede una pugnalata, in conseguenza della quale il giorno dopo il segretario morì. La sua morte offerse alla Repubblica Francese una gradita occasione ed un comodo pretesto per prendere le armi contro gli Stati della Chiesa.

      Nella primavera del 1796 Bonaparte assunse il comando supremo delle truppe francesi in Italia, ed intraprese ad avanzare vittoriosamente. Era ordine del Direttorio, il quale pel resto gli lasciava mano libera, che ponesse termine all’autorità del Papa e proclamasse in Roma la repubblica. In base a tale ordine, Bonaparte accampò verso il Governo Pontificio pretese impossibili, e non ottenendo soddisfazione, invase gli Stati della Chiesa. Non si poteva neppur pensare a resistergli: la città di Lugo, che aveva opposto una resistenza eroica, fu dai Francesi rasa al suolo, e de’ suoi uomini fu fatta strage; un villaggio fu ridotto in cenere, perché qualcuno de’ suoi abitanti aveva ucciso un Francese. Il popolo fu invaso dallo spavento, ed anche i familiari del Papa erano presi da timore. Soltanto Pio VI rimaneva fermo e tranquillo. Tuttavia fu costretto a chiedere a Bonaparte un armistizio, che ottenne a condizioni d’una gravità straordinaria. (Bologna, giugno 1796).

      Secondo raccordo, il Papa fu costretto a permettere che i Francesi occupassero i territori settentrionali, Ferrara, Bologna e la fortezza d’Ancona; dovette versare ventun milioni di franchi in denaro, quindici milioni e mezzo in oro ed argento coniato od in verghe, e cinque milioni e mezzo in mercanzie, cavalli e bestiame; dovette inoltre cedere alla Repubblica, su indicazione di periti Francesi, cento opere d’arte (vasi, pitture, sculture) e cinquecento preziosi manoscritti.

     Tuttavia i Francesi non osservarono l’armistizio; volevano che il Papa ritirasse tutti i decreti emanati dal 1789 in poi contro la Francia rivoluzionaria, come, p. es., quelli con cui aveva disapprovato l’uccisione del re di Francia, la condanna a morte e l’incarceramento dei preti, ecc. ; e siccome il Papa non si poteva indurre a ciò, Bonaparte, dopo la presa di Mantova (2 febbraio 1797) disdisse l’armistizio e continuò l’avanzata.

     Bonaparte emanò un proclama, secondo cui, se in qualche città o villaggio, all’avvicinarsi dell’esercito francese, si fossero suonate le campane a stormo, i membri del consiglio locale sarebbero stati passati per le armi, ed alla città stessa, od al villaggio, verrebbe appiccato il fuoco; e se in qualsiasi città o villaggio avesse perso la vita un solo Francese, vi si sarebbe subito proclamato lo stato d’assedio (1). In ogni luogo le truppe saccheggiavano e facevano prepotenze. Fra l’altro, derubarono il Santuario di Loreto, e mandarono l’immagine della Madonna a Parigi, come trofeo di vittoria. Dappertutto seguivano l’ordine del Direttorio: « Portate via dall’Italia tutto ciò die è trasportabile e che può esserci in qualche modo utile » (2). Nella pace di Tolentino (19 febbraio 1797) il Papa fu costretto a nuovi sacrifici. Bonaparte stesso dettò ai due Cardinali plenipotenziari del Papa le condizioni della pace. Secondo queste, il Papa dovette cedere ai Francesi, Avignone, Benaissont, Ferrara, Bologna e le Romagne; inoltre, Napoleone estorse da Lui quattordici milioni di franchi come contributo di guerra, oltre a mille e seicento cavalli e nu¬merose opere d’arte e preziosi manoscritti, che furono spediti a Parigi, dove fecero poi parte della collezione del Louvre. Il contributo di guerra fu così grande, che per metterlo insieme la S. Sede fu costretta a ridurre in denaro ciò che ancor rimaneva dei tesori lasciati dai Papi precedenti. Le opere d’arte furono scelte e prese in consegna dal Monge e dal Berthollet, mandati come periti dal Direttorio. Questo però non

(1)         Correspondance de Napoléon I, publiée par Napoiéon III, 1858, voi. II, pagg. 270-1.

(2)         A. FOUENIEE-, Vita di Napoleone I, (trad. Ung. 1916, voi. I, cap. 4, pag. 139).

pretese solo opere d’arte e preziosi manoscritti, ma anche macchine, carte, strumenti, cavalli, e persino legname, cotone e piante rare. Andò ancor oltre: costrinse le popolazioni soggiogate a trasportare in Francia, coi loro propri carri e cavalli, la roba estorta. Cosicché l’occupazione francese diventò, nel vero senso della parola, una campagna di rapine.

     Ma Bonaparte non era soddisfatto dei territori occupati, nè del molto denaro e della molta roba estorta: egli voleva por termine al potere temporale del Papa. Per preparare questo avvenimento, mandò nell’Eterna Città degli agenti, i quali, con maestria, abilità e metodo eccitassero il popolo contro la so¬vranità pontificia. Siccome però l’affare non procedeva così spedito come egli desiderava, per raggiungere più presto lo scopo pensò di volgersi direttamente contro la persona del Papa. — Per questo aspettava soltanto un titolo ed un pretesto.

Uccisione del General Duphot e sue conseguenze

     Papa Pio VI aveva ormai raggiunto l’81.o anno d’età, 22.0 di pontificato, ed era affranto e malaticcio. Era poi l’uomo della pace: Napoleone stesso, nella lettera che Gli indirizzò da Tolentino il 19 febbraio 1797, scriveva che tutta l’Europa conosceva le pacifiche tendenze di Sua Santità e le virtù che si palesavano nel Suo spirito di conciliazione. Ma la Francia, come abbiamo già detto, ad ogni costo cercava, e stava in agguato per trovare, un pretesto per occupare lo Stato Pontificio. E non dovette aspettare a lungo.

     Il Direttorio, su proposta di Napoleone, mandò il suo fratello maggiore, Giuseppe Bonaparte, a Roma in qualità di Ambasciatore presso la Santa Sede. La Corte Pontificia ricevette il nuovo inviato con grande solennità e splendore, anzi con gioia ed entusiasmo. Ma ben presto dovette disilludersi amaramente. Fece già meraviglia che il fratello del superbo Napoleone non prendesse alloggio nel quartiere nobile di Roma, ma nella parte più malfamata della città, dove abitava una plebaglia che si poteva, soprattutto col denaro, indurre a tutto ciò che si voleva. La ragione era chiara: Giuseppe, secondo le istruzioni del fratello, doveva disporre la gente contro il Papa. Difatti, dall’arrivo di Giuseppe a Roma, le turbolenze furono all’ordine del giorno, ed il popolo incominciò a pretendere con più forza un governo repubblicano.

     In occasione di uno di codesti tumulti, il 28 dicembre 1797, un giovane generale francese di nome Duphot si unì ai tumultuanti, eccitandoli apertamente contro il Governo Pontificio. Un gruppo di circa cinquecento scalmanati si recò davanti alla residenza dell’ambasciatore Giuseppe Bonaparte, e qui inscenò una dimostrazione al grido di «Viva la Repubblica Francese, abbasso il Papa! » Duphot, brandendo un’arma, si pose alla testa dei dimostranti e s’avanzò verso uno dei gendarmi pontifici. Questi, com’era suo dovere, gli ordinò ripetutamente di fermarsi e di abbassare l’arma; ma Duphot continuò ad avanzare, onde il gendarme, secondo la consegna militare, gli sparò contro e l’uccise (Secondo altri, il Duphot fu colpito inavvertitamente).

     Riguardo a questo Duphot, dobbiamo richiamare l’attenzione dei lettori su una circostanza im¬portante. La prima relazione di Napoleone era stata una certa Desiderata Eugenia Clara, sorella minore della moglie di Giuseppe Bonaparte. Nella donna però il sentimento era stato più profondo e costante che in Napoleone, il quale le aveva presto voltato le spalle; ma, mentre Desiderata continuava a spasimare per lui, Napoleone sentiva compassione per la disgraziata, e desiderava che potesse almeno fare un buon matrimonio. A questo scopo, aveva appunto messo gli occhi sul generale Duphot, e già si era fissato il giorno del fidanzamento, quando avvenne l’uccisione di quel disgraziato giovane. Napoleone, dunque, nella morte del Duphot, non lamentava soltanto la perdita di un ufficiale francese, ma più ancora quella dello sposo destinato alla sua prima e fedele amica.

     Conseguenze? Giuseppe Bonaparte, colla moglie, la cognata e la sorella Carola, lasciò immediatamente Roma. Da Firenze spedì un corriere a Mantova al Berthier, comandante delle truppe francesi accampate in Italia, ed a suo fratello Napoleone.

     A Parigi fu subito arrestato il Nunzio Pontificio. Berthier, secondo un ordine superiore formulato da Bonaparte, nei giorni 10-13 febbraio 1798, occupò Castel Sant’Angelo ed i punti più importanti, e fece disarmare le milizie pontificie. Il Governo Francese affidò inoltre al Berthier i seguenti compiti: cacciar via da Roma tutti i Superiori di Ordini, instaurare la repubblica negli Stati della Chiesa, pretendere dal Papa le spese per la continuazione della campagna ed il mantenimento delle truppe, estorcere ancora speciali contributi di guerra dalle cinquanta famiglie più ricche, e sequestrare tutti i beni del Papa e dei Suoi parenti. Come consigliere finanziario, gli fu posto a fianco un giovane banchiere di nome Haller, che una volta Bonaparte aveva già voluto far giustiziare per frode.

     In base a tali ordini, Berthier impose al Papa un nuovo contributo di ventitré milioni di franchi, e gli fece sapere che avrebbe dovuto mantenere l’esercito francese. Pretese inoltre dalla Santa Sede la consegna di altri preziosi libri, manoscritti ed oggetti d’arte, che furono di nuovo indicati da una commissione francese nominata a questo scopo. Poi, il 15 febbraio 1798, proprio nell’anniversario dell’elezione del Papa, ebbe luogo a Campo Vaccino la proclamazione della repubblica, e cinque giorni dopo (20 febbraio), il Governo Francese, dopo aver chiesto il parere di Napoleone, fece arrestare ed imprigionare il Papa.Nel decreto d’arresto, Pio VI era chiamato «ci-devant pape».

     I Francesi si diedero a depredare e saccheggiare Roma a piacimento: non furono risparmiate neppu¬re le stanze private del Papa; anzi, sotto gli occhi dello stesso Pio VI che giaceva infermo in letto, fu rapita tutta la Sua roba, e gli fu persino strappato l’anello dal dito. Non solo si asportò dal Vaticano denaro, oggetti preziosi, tesori d’arte, quadri, vestiti e tappeti, ma si strapparono persino le serrature dalle porte. Degli oggetti artistici rubati, furono spedite a Parigi cinquecento casse, che pesavano più di trentamila quintali. Il saccheggio colmò tale misura, che persino il Direttorio se ne stancò, e gli stessi fiduciari governativi facevano osservare al Governo non essere « nè legale, nè politicamente prudente spingere le cose tant’oltre: tutto dover avere un limite, anche il diritto di conquista » (1)

(1) Dr G. C. Weisz, Storia Universale, (Traduz. Ungherese di Francesco Szabò, sulla 3.a ediz. Tedesca, 1887-1905, Vol. XIX pag. 596)

     Quando il Papa venne a sapere che volevano allontanarlo da Roma, manifestò il desiderio di esser lasciato morire nell’eterna Città; ma il già ricordato Haller rispose che in qualsiasi luogo si può morire, e l’ufficiale incaricato di arrestare il Papa, sebbene fosse persuaso che questo era così malato da non poter sostenere il viaggio, comandò: « Il Papa viaggerà, o vivo o morto ! »

     Da Roma, trascinarono quel Vegliardo di ottantun anno, gravemente malato, attraverso le Alpi impervie, parte a piedi, parte in carrozza, fino a Valenza (Dròme). Durante il viaggio, lo trattarono molto duramente, perché li irritava il fatto che, dappertutto dove passavano, la gente accorreva da ogni parte per vedere e salutare il Capo della Chiesa e riceverne la benedizione. A Valenza, fu alloggiato nella cittadella, dove erano trattenuti, come prigionieri politici, trentadue preti: questi supplicarono di poter essere presentati al Papa, ma non fu loro neppur permesso di vederlo.

     Chiuso in questa fortezza, Pio VI, in seguito alla grande stanchezza ed alle molte sofferenze fisiche e morali, morì come prigioniero della Francia, nel suo 82.0 anno, il 29 agosto 1799. Neppure dopo la sua morte si diè pace l’ira nemica: quel po’ che rimaneva di roba sua fu venduto come « proprietà nazionale »; il Suo cadavere fu dapprima lasciato insepolto, poi, chiuso in una cassa di piombo, fu portato in una casa privata e collocato in una cantina piena di schifosi topi, i quali andavano continuamente aggirandosi intorno alla bara, fiutandola da ogni parte. (Notiamo bene questa circostanza, perché dovremo tornarci su più tardi!). Soltanto il 30 dicembre 1799, cioè 122 giorni dopo la morte del Papa, Napoleone firmò l’ordinanza che permetteva la sepoltura del Papa nel cimitero di Valenza; ma passò ancor un mese prima che la sepoltura avesse luogo (30 gennaio 1800), e solamente nel 1802 spedirono il cadavere a Roma, presso la tomba dell’Apostolo.

     Tale miseranda fine, nell’estrema miseria, prigioniero de’ suoi nemici, ebbe quel Papa che anche i non cattolici avevano paragonato a Tito, chiamandolo delizia del genere umano.

 Il Papato è finito!

     Questo è il grido costantemente ripetuto dai nemici della Chiesa, a incominciare dagli imperatori pagani di Roma, fino ai numerosi corifei della cultura del secolo scorso. Scegliamo solo alcuni esem¬pi fra questi ultimi:

Leopoldo Ranke, il famoso storico tedesco, già nella prima edizione della sua «Storia dei Papi » (che raggiunse ben dieci edizioni) aveva ormai sepolto il Papato; ancora nella prefazione alla quinta edizione, si scusava di osare occuparsi del Papato, « denn die Zeiten der pàpstlichen Gewalt seien voriiber: essendo ormai passati i tempi della potenza papale ». Ma allorché, quarantanni più tardi, si accinge alla sesta edizione della sua opera, confessa senza ambagi di essersi sbagliato, e dice: « Ich kann mir nicht verhehlen, dass eine neue Epoche des Papstes eingetreten ist: non posso nascondermi che è incominciata una nuova epoca del papa ».

     Ancor più interessante è il giudizio pronunciato dal Carlyle (nato lo stesso anno del Ranke) nella prima edizione del suo libro « sugli eroi » (1): « Il papi¬smo può fabbricare nuove cappelle: faccia pure fin¬ché vuole; ma il papismo non può ritornare in fiore, più che non lo possa il paganesimo, che pure vivacchia ancora anch’esso in certi paesi. In realtà, è di queste cose come dell’ondeggiare del mare: voi guardate l’onda che oscilla di qua e di là sulla spiaggia, e per alcuni minuti non potete dire come vada; ma tornate a guardare fra mezz’ora dove è andata a finire… Guardate fra mezzo secolo, dove sarà andato a finire il vostro Papato! Oh se non ci fosse per la nostra Europa altro pericolo più grave che quello di veder rifiorire il povero vecchio Papa! »

     Ferdinando Gregorovius così incomincia l’introduzione alla sua opera su « Le tombe dei Papi »: « Verrà un tempo, in cui le tombe dei Papi avranno la stessa importanza che hanno oggi i busti e le statue degli Imperatori Romani: allora non vi sarà più Papa » (2).

Una simile convinzione aveva anche Napoleone.

(1)         THOMAS CARLYLE, On heroes, hero-worship and thè heroie in history, 1837, pag. 127. Ecco il testo: « Popery can build new eha- pels; welcome to do so, to all lengths. Popery cannot come back, any more than Paganism can — wbicb also stili lingers in some conntries. But indeed, it is witb tbese tbings, as witb tbe ebbing of tbe sea: you look at tbe waves oscillating hither, thither on tbe beach: for minntes you cannot teli bow it is going; look in balf an our wbere it is — look in balf a century wbere your Popebood is! Alas, would therewere no greater danger to our Europe tban tbe poor old Pope’s revival! »

(2)         FERDINANDO GREGOROVIUS, Le tombe dei Papi, (Traduz. Ungherese in Olcsó Kónyvtdr, 517-518). — Non posso qui trat¬tenermi dal citare, dal n.o 10 febbraio 1878 del Pester Lloyd, gior¬nale ungherese in lingua tedesca, le seguenti parole, dovute alla penna di una molto alta autorità: « Keiner auf dem papstlichen Stuble wird kiinftig mebr sein, als ein romischer Priester: In av¬venire, nessuno che segga sul trono pontificio, sarà più che un prete romano».

     Bonaparte. Già il 19 febbraio 1797, aveva scritto al Direttorio: « E’ mia opinione cbe Roma non possa reggersi oltre. Il vecchio meccanismo si sconquasserà da sè » (1). Dopo la morte di Pio VI, non solo Napoleone, ma tutta la Francia tenne per certo che il Papato fosse finito. L’operaio che aveva chiuso la bara di Pio VI, esclamò: « E’ morto l’ultimo Papa » — « E’ finito il Papato, è finita la Chiesa Cattolica! » andavano strombazzando gl’increduli. E Napoleone diceva soddisfatto: « Non c’è più tiara ».

     Persino i pii fedeli si andavano chiedendo: Dov’è Cristo? Come mai Dio ha potuto permettere tali cose? Ben pochi eran quelli che si consolavano ricordando che Gesù aveva calmato il mare in tempesta, e soprattutto Ch’Egli aveva detto: « Tu es Petrus, et super hanc petram edificabo Ecclesiam meam et portae inferi non praevalebunt adversus eam » (Matt. XVI, 18).

     Ma avevano ragione i Cattolici Inglesi, i quali, nelle loro chiese, continuavano a cantare:  Perire possono – troni e corone

                  Possono sorgere – regni e cader,

                  Ma fermo e vigile – Pietro al timone

                  Dovranno i secoli – sempre veder.

Era vero che era morto Pio VI, ma non era vero che fosse morto il Papa!

(1) Correspondance de Napoléon I, publiéepar Napoleon III, 1858, II, 449.

Bonaparte s’accorda col Papa, ma lo inganna

     Un bel giorno, Napoleone, e tutti coloro elle credevano ormai definitivamente sepolta l’istituzione del Papato, furono sorpresi dalla notizia che un nuovo Papa, Pio VII, cingeva il triregno. La sorpresa fu tanto maggiore, in quanto la Sede Apostolica era già stata vacante per sei mesi e sedici giorni. Ma frattanto, nella città di Venezia, che era ritornata sotto la sovranità dell’Austria, il 14 marzo 1800 era stato eletto Papa il Cardinale Barnaba dei conti Chiaramonti vescovo di Imola, che aveva preso il nome del suo antecessore. Il 20 maggio il nuovo Papa comunicò al mondo Cristiano la Sua elezione a successore di S. Pietro, ed il 3 luglio entrò nell’Eterna Città, in Roma, fra il più grande entusiasmo del popolo.

     Pochi sanno che la madre di Pio VII, Giovanna dei conti Chini, giunto suo figlio all’età di 21 anno, si era fatta Carmelitana, e dal chiostro aveva predetto che suo figlio sarebbe bensì giunto sul trono pontificio, ma che una lunga serie di terribili patimenti avrebbe pesato su di lui. Poco dopo, la madre si era spenta in fama di santità, ed a suo tempo si avverò pienamente la sua predizione.

     Pio VII prese possesso dell’eredità di S. Pietro nelle più ardue circostanze. Curvo sotto il peso degli anni, senza denaro e senza esercito, in uno Stato saccheggiato ed occupato, privo di aiuto, di appoggio, di protezione, si trovava indifeso, ed inoltre doveva anche provare i pericolosi risentimenti di due potenti personaggi.

     Uno di questi era l’imperatore Francesco, contro il cui desiderio era avvenuta l’elezione del Chiaramonti. Perciò la corte di Vienna causò al nuovo Papa una serie di dispiaceri: a Venezia non permise che si facesse l’incoronazione nella basilica di S. Marco, cosicché si dovette compiere tale funzione in una modesta chiesa benedettina, senza parteci¬pazione d’autorità; quando poi il Papa scrisse all’imperatore chiedendo la restituzione di quella parte degli Stati Pontifici che era venuta sotto il dominio austriaco, non lo si degnò neppure di una risposta. Fu appunto in questo tempo, ancor prima dell’entrata di Pio VII in Roma, che il Papa rivolse al Ghisleri, incaritato della corte di Vienna, queste famose parole: « Sua Maestà si guardi dal mettere nella sua guardaroba dei vestiti che non sono proprietà sua, ma della Chiesa; perché non solo non potrà far uso di quelli, ma da quelli le tarme potrebbero attaccarsi anche ai vestiti suoi, cioè a’ suoi domini ereditari ». L’ammonizione profetica del Papa si compì ben presto: la battaglia di Marengo (14 giugno 1800) mise in critiche condizioni il dominio austriaco in Italia, tantoché lo stesso Ghisleri confessò al Cardinal Consalvi che vedeva attuata l’ammonizione del Papa, benché a suo tempo l’avesse ritenuta offensiva ed irrealizzabile.

     L’altra potente persona, con cui il Papa ebbe da fare non molto dopo, fu lo stesso eroe di Marengo, Bonaparte, il quale frattanto era diventato Primo Console, ed in conseguenza della pace di Lunéville (9 febbraio 1801) anche signore dell’Italia settentrionale, mentre la sua fronte era aureolata dalla gloria di tante vittorie trionfali.

     Bonaparte pensò che gli sarebbe stato più facile restituire a’ suoi popoli la tranquillità turbata dalla rivoluzione, se avesse avuto in ciò la cooperazione della S. Sede. Perciò, subito dopo la vittoria di Marengo, stabilì di far la pace col Papa. Rappresentante del Papa a Parigi era Mons. Spina, desiderato come sua vecchia conoscenza dallo stesso Bonaparte; questi, a sua volta, era rappresentato a Roma dall’ambasciatore francese Cacault, al quale, nell’udienza di congedo concessagli prima della, partenza per Roma, egli aveva detto: « Trattate col Papa, come se avesse dietro a sé duecentomila uomini » (1).

A Parigi, le trattative durarono abbastanza a lungo. Mons. Spina comunicò presto a Roma che Bonaparte aveva piuttosto intenzione di dettare il concordato, anziché di farne oggetto di trattative. D’altra parte, Mons. Spina non poteva neppure ac¬cogliere certe proposte, originate da una volontà

(1) ARTATJD, Histoire du Pape Pie VII, 1838, (Edizione te¬desca, 1837-38, vol. I, pag. 142).

parziale ed in molti punti contrarie ai principii della Religione. Perciò Bonaparte passò alle minacce, mettendo innanzi per lo Stato Pontificio la possibi¬lità di secolarizzazione, di guerra, di sovvertimento e di simili orrori, e dichiarando che, se il Papa non accettava il disegno francese senza alcun cambiamento, egli avrebbe interrotto le relazioni diplomatiche con lui.

     Siccome le minacce non potevano smuovere la Santa Sede dal suo punto di vista, il Cacault doman¬dò ad essa una lettera d’incarico, e nel medesimo tempo, per personale benevolenza, consigliò al Car¬dinal Consailvi, il geniale Segretario di Stato di Sua Santità, che si recasse con lui a Parigi, dove forse sarebbe stato più fortunato con Bonaparte. Il Consalvi accettò il consiglio, ed il Papa approvò il viaggio. A Parigi, il Consalvi fu ricevuto da Bonaparte con queste secche parole: « Conosco la causa del vostro viaggio. Desidero che le trattative siano subito avviate. Vi concedo cinque giorni di tempo. Se le trattative non si concludono in questo tempo, Voi potete ritornare a Roma».

     Bonaparte ed i suoi incaricati, con pressioni, minacce ed intimidazioni, volevano stancare ed indurre a concessioni il Consalvi, il quale a sua volta non poteva in nessun modo accettare quei punti che eran contrari alle sue convinzioni religiose. Pur finalmente si giunse a trovare una base comune, cosicché si riuscì ad accordarsi su di un testo che ambo le parti erano disposte ad accettare.

     Ma ecco ora intervenire un triste caso, che è quanto mai caratteristico per Bonaparte: le due parti avevano deciso che, secondo il testo stabilito di comune accordo, si sarebbe proceduto alla firma del concordato in casa di Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore di Napoleone; e che avrebbero firmato, da parte del Papa, il Card. Consalvi, Mons. Spina e P. Caselli, superiore generale dei Serviti; e da parte della Francia, lo stesso Giuseppe, il consigliere di stato Cretet, e l’abate Bernier. Avevano già porto al Consalvi la penna perché firmasse, allorché il prudente Cardinale, dando una scorsa al documento, s’accorse con meraviglia che il testo di esso, in punti essenziali, differiva completamente (naturalmente a vantaggio della Francia e a danno del Papa) da quello precedentemente stabilito.

     A quanto pare, Giuseppe Bonaparte era stato tenuto all’oscuro di codeste intenzioni falsarie ed ingannatrici. Perciò si rivolse al Bernier chiedendo spiegazioni. Il povero abate, vergognoso e turbato, riconobbe la differenza fra il testo stabilito precedentemente e quello ora proposto alla firma, ma palesò che tutto ciò era avvenuto per ordine di Napoleone, il quale argomentava potersi ancora, prima della firma, far cambiamenti nel testo (1). Com’è naturale, il Consalvi non firmò il testo falsificato.

(1) Il medesimo trucco fu usato, disgraziatamente con suc¬cesso, col nunzio pontificio Card. Caprara, nella cosidetta questio¬ne dei vescovi costituzionali. Dopo aver firmato il testo messogli innanzi e da lui non riletto attentamente, vi riconobbe degli ele¬menti che si allontanavano interamente dall’accordo concluso pri¬ma a voce. E’ ancor degno di nota che rimane un documento, se¬condo il quale il ricordato Bernier ricevette trentamila franchi « per motivi segreti », (Correspondance de Napoléon I, ecc., c. s., VII, 269).

     La colpa di Napoleone è aggravata dal fatto elle egli aveva già fatto pubblicare nei giornali ufficiali il testo falsificato, facendo conto cbe il Consalvi ed i suoi due compagni avrebbero firmato alla cieca lo scritto, e poi avrebbero invano protestato contro la falsificazione (1).

     Quando Bonaparte venne a sapere che, per la vigilanza del Consalvi, il suo trucco non era riuscito, andò sulle furie; e vedendo il Consalvi al pranzo già prima stabilito, gli si fece incontro, dicendogli con voce acuta e tono sprezzante: « Signor Cardinale, Voi dunque volete la rottura. E sia! Io non ho bisogno di Roma, più che non ne avesse bisogno Enrico VIII, il quale non disponeva neppure della ventesima parte della mia potenza. Cambierò la religione della Francia, anzi di tutta l’Europa. Quanto a Voi, potete andarvene. Quando partite?» —«Dopo pranzo », rispose tranquillamente il Cardinale.

     Tuttavia Bonaparte sentiva la scorrettezza e l’indegnità del suo modo di procedere; perciò per « intercessione del conte Cobentzel » permise che si continuassero le trattative. Così, con nuove concessioni da ambo le parti, si arrivò finalmente, nella notte tra il 16 ed il 17 luglio 1801, ad un accordo sul cosidetto Concordato, che fu anche firmato.

     Nel congedarsi da Bonaparte, il Card. Consalvi credette necessario ricordare e far rilevare la circostanza, che durante le trattative pel Concordato,

(1) E’ noto olle Napoleone stesso diceva sovente che un uomo di stato deve saper mentire a perfezione. Anche i suoi bollettini di guerra abbondano di esagerazioni.

per istruzione del magnanimo Pio VII, non si era neppur fatto cenno degli interessi della sovranità temporale del Papa; perché, quanto al Concordato, il Santo Padre era stato guidato unicamente dagli interessi e dal bene della Religione. In realtà, la Santa Sede, che era stata privata quasi del tutto de’ suoi possedimenti temporali, soltanto dopo la conclusione del Concordato incaricò il Card. Caprara di sollecitare la restituzione dei territori occupati. Il Card. Consalvi presentò il Concordato concluso colla Francia al Papa.il quale lo accettò ed approvò, come pure lo approvò senza discussione il corpo legislativo francese.

Ma ben presto la Santa Sede doveva esperimentare da parte di Napoleone una nuova dolorosa delusione.

Dapprima, perché in Francia il Concordato fu pubblicato soltanto circa un anno dopo (18 apr. 1802) e solo nella cattedrale di Parigi. Questo tuttavia sarebbe stato il meno, non trattandosi, dopo tutto, che di una formalità. Molto più grande più sorprendente e più dannoso fu il male causato dal fatto che Bonaparte non si accontentò delle numerose concessioni strappate durante le trattative pel Concordato, ma assieme a questo, senza che il Papa ed il suo Nunzio ne sapessero nulla, fece votare come «appendice» una lunga «legge esecutiva», cioè i famosi così detti « Articoli Organici» che pubblicò contemporaneamente al Concordato, coi quali veniva a sconvolgere il testo del Concordato, alterandone sostanzialmente il senso. A completare l’inganno, i 77 Articoli Organici furono pubblicati nello stesso volume e colla stessa data del Concordato, cosicché i lettori avevano ragione di credere che essi facessero davvero « parte organica » di esso, ed avessero anch’essi l’approvazione della Santa Sede, mentre invece distruggevano ciò che il Concordato era destinato ad edificare. Ne siano soltanto alcuni esempi: già il primo articolo si esprimeva così: « Nessuna bolla, o Breve, o decisione, o decreto, od ordine, od ammonizione pontificia, nè alcuna istruzione della Corte Romana, anche se si riferisce a persone private, può essere ricevuta, o pubblicata, o stampata, nè in alcun modo posta in esecuzione, senza l’approvazione del governo ». — Un altro diceva: « Senza speciale autorizzazione del governo, non si può tenere alcun concilio nazionale, o sinodo diocesano, o conferenza ecclesiastica ». — Uno degli articoli aboliva i diritti di stola. — I Vescovi potevano nominare ed insediare i Parroci, soltanto se il Primo Console non disapprovava la loro nomina. — I Vescovi non potevano allontanarsi dalla loro diocesi senza il permesso del Primo Console. — Toccava al governo permettere l’erezione di oratori privati. — Il suono delle campane do¬veva essere regolato dal Vescovo d’accordo coll’autorità di pubblica sicurezza. — Era necessario il permesso del governo per tenere speciali predicazioni per l’Avvento e la Quaresima. — Il Catechismo poteva essere pubblicato soltanto coll’approvazione del go¬verno.

— E così di seguito…

In una parola, è evidente che gli «Articoli Organici » contrastavano, non soltanto col fine e collo spirito del Concordato, ma anche coi principii fondamentali della Chiesa (1).

     Si noti pure che Bonaparte, proprio in quei tempi, poneva in ceppi, con analoghi « Articoli Organici », anche la libertà religiosa dei Protestanti,

Vale anche la pena di ricordare che Bonaparte aveva pensato a pubblicare i suddetti articoli già prima della conclusione del Concordato: già il 25 ottobre 1801 ne giaceva il disegno sul tavolo di Talleyrand.

     E’ naturale che la pubblicazione arbitraria ed unilaterale di tali articoli sorprendesse straordinaria¬mente e colpisse dolorosamente il Papa. Il Cardinal Consalvi, nella sua lettera del 15 maggio al Caprara, scriveva che la notizia della pubblicazione « abbattè tanto il Papa, che a stento lo si può riconoscere. Temo per la sua salute, anzi per la sua vita ». Pio VII protestò contro gli Articoli Organici, ma senza successo; anzi, Bonaparte osò esprimere la propria disapprovazione per la protesta del Papa.

(1)Riguardo alla sua condotta di questo tempo nei riguardi del Papa, Napoleone diceva più tardi nell’isola di Sant’Elena: « La religione cattolica mi conservava il Papa; e con la mia influenza e le nostre forze in Italia, io non disperavo che presto o tardi mi sarebbe riuscito di dirigere il Papa secondo la mia volon¬tà ». Il Ranke nota molto bene: « L’idea di Bonaparte era di conservare il Papa, ma nello stesso tempo di sottometterlo, e di farne uno strumento della propria onnipotenza ».

Domanda di Napoleone al Papa

     « Vedrai, mio caro, che se Bonaparte ritorna in patria, si assicura la corona » diceva il generale Mar¬mont al generale Junot prima della partenza per l’Egitto. Dopo lo sbarco, poi, l’oratore ufficiale così salutava il Primo Console: « Va, o nostro duce, sconfiggi il nemico, e poi, se così vorrai, ti faremo «nostro re »(1). E quando, prima della Messa di ringraziamento celebrata nella cattedrale di Parigi per il Concordato e la pace di Amiens, il clero domandò a Bonaparte, primo console, se doveva, oltre lui, aspergere di acqua benedetta anche gli altri due consoli, egli rispose un secco, ma risoluto « no ».

     Infatti, già da gran tempo Bonaparte agognava in cuor suo il titolo e la dignità di Imperatore; il che, per quanto egli cercasse di dissimulare, era noto ad ognuno. Del resto, il nuovo titolo poteva soltanto aggiungere alla sua ormai illimitata potenza, splendore esterno, ma non nuovi diritti.

Fouché, ministro di polizia, aveva commesso,

(1) MARMONT, Mémoires, 1856-7, voi. II, pagg. 51 e 89.

a suo tempo, la grave « colpa » di opporsi a che Napoleone ottenesse il consolato a vita. Perciò aveva perduto la grazia di Napoleone ed il ministero, al quale era unito un potere straordinario. Volendo riparare la sua « colpa », l’astuto Fouché mise pel primo pubblicamente in giro l’idea di nominare Napoleone « imperatore». Il seme trovò un terreno opportuno, e le conseguenze sono note: Fouché ridiventò ministro di polizia, e Bonaparte, il 18 maggio 1804, «accettò» la dignità imperiale offertagli dal Senato. Così Napoleone Bonaparte diventò Napoleone I.

     D’una cosa sola sentiva la mancanza il nuovo Imperatore, ed ancor quella desiderava: la più alta approvazione, la gloria della consecrazione, il sigillo della Religione, l’esaltazione da parte della Chiesa, l’unzione dalle mani del Papa! Già prima di accettare la dignità imperiale, il 16 maggio 1804, aveva detto al Card. Caprara che ogni autorità gli ricordava quale gloria sarebbe stata se il Papa l’avesse unto ed incoronato (1). E quale importanza desse all’unzione ricevuta dal Papa, appare da ciò, che — nel primo libro scolastico di stato composto secondo il regolamento per l’educazione stabilito più tardi (18 marzo 1808) — la confessione di fede politica della gioventù francese diceva così: « Al nostro Imperatore Napoleone I dobbiamo amore, riverenza, ubbidienza, fedeltà e servizio militare… perché Egli è l’unto del Signore, in seguito alla consecrazione ricevuta dal Capo della Chiesa Cattolica » (2).

(1)         HAUSSOUVILLE, L’Eglise Bomaine et le premier Empire, 1800-1814, I, 316.

(2)         A. FOTJKNIEE, Vita di Napoleone I, (Ediz. Ungherese, 1916, voi. II, pag. 263).

     Dapprima Napoleone tastò cautamente il terreno a Roma, poi fece pubblicamente i primi passi per ottenere l’incoronazione dalle mani del Papa. Davanti poi al Consiglio di Stato francese, composto in maggioranza di increduli, giustificò l’invito al Papa dicendo che l’incoronazione era l’invocazione dell’aiuto celeste sulla nuova famiglia imperiale, e che, se per l’incoronazione era necessario un prete, questo doveva essere il più degno e più eminente dei preti: il Papa.

     La domanda di Napoleone pose in non piccolo imbarazzo Pio VII. Da diciotto secoli non c’era esempio che il Papa si fosse accinto a così lungo viaggio puramente per motivi umani. Anche la maggioranza dei Cardinali si opponeva al soddisfacimento della domanda di Napoleone: essi erano di opinione che l’incoronazione del nuovo Imperatore avrebbe causato malcontento negli altri sovrani, che i buoni Cattolici se ne sarebbero scandalizzati, e che a Parigi si potessero anche temere spiacevoli sorprese. C’erano dei Cardinali che consigliavano al Papa che, qualora si decidesse all’incoronazione di Napoleone, chiedesse almeno in cambio concessioni religiose, territoriali e politiche. Altri raccomandavano di ritardare il viaggio sino alla primavera. Ma da Parigi si sollecitava un viaggio immediato, senza curarsi se il viaggiare d’inverno potesse o no essere dannoso al Papa.

     Riguardo a concessioni religiose, Napoleone promise che avrebbe preso in considerazione i vari gravami lamentati dal Papa, e che si sarebbe adoperato a togliere gli impedimenti da Lui esposti. Quanto poi al modo in cui il Papa sarebbe stato ricevuto, Talleyand assicurò la Corte Romana che tra il ricevimento ed il trattamento che Pio VII avrebbe avuto a Parigi da parte dell’Imperatore, ed il viaggio di Pio VI a Vienna, ci sarebbe stata tanta differenza, quanta ne correva fra Napoleone I e Giuseppe II.

     Sebbene il Papa sospettasse a buon diritto di non poter credere interamente alle promesse francesi (ed i fatti, purtroppo, gli diedero poi ragione) pure « nella sola vista della Religione » e per mostrare la sua buona volontà, s’indusse a recarsi ad incoronare Napoleone, sottomettendosi al lungo viaggio, nonostante la fredda stagione, la sua età avanzata, la sua debole salute, le sofferenze, le offese, le umiliazioni, le delusioni e le ingiustizie patite sino allora.

Dopo la decisione di princìpio presa dal Papa, occorreva ancora l’invito ufficiale e formale. Il Papa desiderava fortemente che in questo figurasse come motivo principale della domanda, non soltanto l’incoronazione della coppia imperiale, ma anche l’interesse della Religione. Napoleone, nella lettera d’invito, scrisse, fra il resto: « La prego di venire a dare, nel grado più eminente, il carattere della religione alla cerimonia della consecrazione e dell’incoronazione del primo imperatore dei Francesi. Questa cerimonia acquisterà un nuovo lustro quando sarà fatta da Vostra Santità stessa. Essa attirerà su di noi e sui nostri popoli la benedizione di Dio, i cui decreti regolano a Suo volere la sorte degli imperi e delle famiglie » (1). Il Papa ricevette questa lettera dell’Impera-

(1) « Je la prie de venir donner, au plus éminent degré, le ca- raetère de la religion à la cérómonie du sacre et du couronnement du premier empereur des frangais. Cette cérémonie acquerra un nouveau lustre lorsqu’elle sera faite par Votre Sainteté elle-mème.

tore per mezzo del generale Caffarelli il 29 settembre 1804, e ne rimase molto deluso, perché non vi si parlava punto dell’interesse della Religione, ma, in sostanza, l’incoronazione vi appariva come unico motivo del viaggio.

     Il mattino del 2 novembre 1804 Pio VII rimase a lungo in ginocchio pregando nella basilica di S. Pietro, poi lasciò l’Eterna Città, ed il 25 novembre arrivò a Fontainebleau, dove s’incontrò coll’Imperatore, e fu stabilito che l’incoronazione avrebbe avuto luogo il 2 dicembre nella cattedrale di Parigi.

     «Elle attirerà sur nous et sur nos peuples la bénédiction de Dieu, dont les décrets règlent à sa volontó le sort des empires et dea familles ». M. Ad. Thìers: Histoire du Consulat et de l’Empire. Bruxelles, 1845, voi. I, pagg. 752-3. (Si noti che Napoleone parla di oonsecrazione e di incoronazione).

Incoronazione dell’Imperatore ed

umiliazioni del Papa

     Proprio mentre il Papa gli faceva il più grande favore, sfidando il freddo per recarsi, nonostante tanti impedimenti, tante difficoltà di principio e di fatto e contro lo stesso consiglio dei Cardinali, da Roma in Francia ad incoronarlo, Napoleone, colla sua condotta sconveniente ed offensiva, infliggeva al suo augusto Ospite, una dopo l’altra, ben undici umiliazioni.

La prima offesa della convenienza e della corte¬sia ebbe luogo proprio nel primo incontro (25 novembre). L’Imperatore non voleva ricevere il Papa solennemente: ciò era contrario alla sua superbia. Perciò combinò rincontro in modo che apparisse fortuito. Ed avvenne infatti a Fontainebleau, in un bosco, in mezzo al fango, mentre l’Imperatore era in abito da cacciatore, con stivali speronati e fangosi, circondato da cani da caccia.

     La seconda e la terza (e nel medesimo tempo la più grave) umiliazione, e potremo dire onta, furono inflitte al Papa proprio nel giorno stesso dell’incoronazione, il 2 dicembre, nella Cattedrale di Parigi.

     Si può immaginare con quale esattezza e precisione fossero state prestabilite le singole cerimonie dell’incoronazione: lo stesso Napoleone collaborò per diverse settimane a combinare il cerimoniale, che fu comunicato in precedenza a ciascuno di coloro che dovevano avervi parte. Ciò nonostante, nel giorno dell’incoronazione, Napoleone, che in altre occasioni era sempre puntuale, fece aspettare per ben un’ora e un quarto il Papa, che era arrivato puntualmente all’ora stabilita. Il Consalvi, nelle sue memorie, ricorda con indignazione questa scortesia.

   Ma a questa tenne dietro l’altra, ben più grande e più grave, indelicatezza. Nel predisporre il cerimoniale dell’incoronazione, era stato lasciato in sospeso, o meglio era stato nascosto al Papa, un punto: Secondo l’antico cerimoniale usato a Roma ed in Fracia, sarebbe toccato direttamente al Pontefice porre la corona sul capo della coppia imperiale; ma Napoleone voleva lasciare al Papa soltanto l’unzione e la benedizione, ed incoronare invece di propria mano se stesso e sua moglie. Il Card. Caprara era di parere che ciò non si potesse decidere senza consultare il Papa; ma siccome Napoleone sapeva bene che il Papa, se fosse venuto a conoscenza di tale pretesa, avrebbe ricusato di comparire all’incoronazione, si prese ben guardia di comunicargliela, e non volle che si discutesse oltre tale questione, dicendo che si sarebbe poi risolta da sè sul posto.

     La cerimonia incominciò dunque a svolgersi esattamente secondo il cerimoniale prestabilito: il Papa unse con olio benedetto la fronte, il braccio e la mano dell’Imperatore; poi benedisse la spada e gliela cinse; in seguito benedisse e gli consegnò lo scettro ; finalmente benedisse la corona… ed aveva già steso la mano per porla sul capo di Napoleone, allorché questi salì inaspettatamente all’altare, tolse la corona di mano al Papa, e di propria mano se la pose in capo. Con ciò egli voleva significare pubblicamente che egli era abbastanza grande e potente per incoronarsi da sé, senza bisogno dell’intervento della Chiesa (ma neppure della mano di Dio, del quale la mano del Papa sarebbe stata strumento). In seguito Napo¬leone spiegò questo atto, dicendo che sarebbe stato contro l’indipendenza del trono lasciarsi incoronare dal Papa, dato che egli non derivava la sua autorità dal Papa, ma dalla Nazione. Seguì l’incoronazione dell’Imperatrice, e Napoleone ripetè il suo atto di superbia, non lasciando che il Papa ponesse la corona sul capo di Giuseppina, ma mettendovela egli stesso.

     Con tale suo atto di superbia, Napoleone offese gravemente il Papa, infliggendogli una grave onta ed una profonda umiliazione. Ma nello stesso tempo dimostrò la sua falsità, perché egli aveva invitato il Papa a Parigi appunto per l’incoronazione; e se il Papa avesse saputo che Napoleone voleva incoronarsi da sè, certo non si sarebbe sobbarcato a sì lungo, difficile e pericoloso viaggio.

     Seguì la quarta scorrettezza, offesa e violazione di parola data. Per capir questa, conviene notare che già a Roma il Papa aveva notato una circostanza insolita: negli scritti riguardanti l’incoronazione, Napoleone usava due termini diversi, ora parlando, appunto, di incoronazione, ora di consecrazione. Alle spiegazioni richieste, il Fesch, zio di Napoleone e suo incaricato per trattare quest’affare a Roma, manifestò che l’Imperatore pensava di fare due incoronazioni: una in chiesa, dove sarebbe stato incoronato dal Papa, e l’altra al Campo di Marte, dove l’avrebbe in¬coronato il Senato. Il Papa fece sapere a Parigi che tale doppia incoronazione sarebbe stata offensiva per la sua dignità di Capo della Chiesa, perché sarebbe sembrato che l’incoronazione fatta dal Papa non avess 3 valore sufficiente ed abbisognasse di essere integrata; e che perciò, se non si fosse rinunciato al disegno della doppia incoronazione, egli non avrebbe continuato le trattative. Allora si assicurò il Papa che « l’Imperatore aveva troppa stima dell’incoronazione dalla mano del Papa, per desiderare di ricevere dopo di essa la corona da altra mano ». Ma Napoleone violò anche questa promessa, ingannando nuovamente il Papa: contro l’accordo stabilito, dopo l’incoronazione in Notre-Dame si fece la seconda incoronazione al Cam¬po di Marte.

     Venne poi la quinta umiliazione del Papa, il quale, nel banchetto che seguì all’incoronazione, fu fatto sedere a fianco dell’Imperatrice, in modo da occupare, non il primo, ma il terzo posto. « Si può pensare — scrive il Consalvi — quanta virtù, moderazione e bontà fosse necessaria al Papa, per imitare il grande esempio di umiltà datoci da Gesù stesso ».

     Ed eccoci al sesto inganno: Nelle trattative che avevano preceduto l’incoronazione, il Papa aveva fatto sentire ripetutamente che, come compenso al suo faticoso viaggio, aspettava da Napoleone delle concessioni riguardo alle questioni religiose ancora pendenti. Da parte francese gli si era promesso, a voce e per iscritto, che si sarebbe fatto cessare lo scisma, e che l’Imperatore avrebbe costretto i cosidetti Vescovi « costituzionali » a fare il giuramento di fedeltà al Papa, allontanando i renitenti dalle loro diocesi. Gli si era pure dato come probabile che si sarebbe soddisfatto il suo desiderio riguardo alle questioni territoriali (le Legazioni). Ma soprattutto il Papa desiderava, e sperava, di poter indurre l’Imperatore a ritirare quegli « Articoli Organici » che erano così offensivi per la Chiesa. Quando però, a Parigi, si venne a trattare di codeste cose, Napoleone non cedette in nulla, e se si lasciò andare a qualche promessa, non la mantenne poi mai.

     La settima sconvenienza non meriterebbe neppure di essere ricordata, essendo per se stessa poco significante; ma non la passiamo sotto silenzio, perche è anch’essa caratteristica dell’animo di Napoleone. Pio VII, nonostante la Sua povertà, aveva recato a Napoleone ed a Giuseppina dei doni veramente degni di un Papa e di una coppia imperiale, e cioè, per l’Imperatore due antichissimi cammei in pietra preziosa e per l’Imperatrice dei vasi antichi di meravigliosa bellezza e di grande valore; e tanta era l’importanza che Egli annetteva alla qualità dei doni, che per sceglierli aveva chiesto il consiglio del Canova, il più grande artista di quei tempi. Chiunque si sarebbe aspettato che Napoleone avrebbe ricambiato i doni del Papa con altri di uguale, od anche maggiore valore ; tanto più che per lui sarebbe stato conveniente, anche senza i doni del Papa, far vedere il suo apprezzamento e la sua gratitudine per il viaggio fatto dal Papa con tanto sacrificio. E poi, non s’era il suo ministro vantato che Napoleone I, nel ricevere il Papa, avrebbe superato di molto Giuseppe II ? Invece, i doni di Napoleone furono oggetti senza valore: dei gobelins di poco prezzo, due candelieri, un servizio di porcellana per una sola persona, e — ciò che, al paragone, valeva più di tutto — una pietra preziosa strappata dalla corona pontificia di Pio VI, che i soldati di Napoleone avevano a suo tempo rubata al Papa.

     Molto più spiacevole, offensiva ed ingiusta verso il Papa fu l’ottava umiliazione. E’ noto che Napoleone era straordinariamente geloso di tutti: ogni glorificazione, ogni lode, ogni festa la voleva unicamente per sè. La Rémusat (1) scrive di lui che era schiavo della sua passione; aveva paura di ogni potenza, anche di quelle create da lui stesso ; voleva essere l’unico centro del circolo; questa sospettosa gelosia lo perseguitava e si ficcava come un tarlo in tutti i suoi disegni.

     E la gelosia di Napoleone si estese anche alla persona del Papa. Già la prima entrata di Pio VII in Parigi dovette avvenire di notte, perché la festa che, come era da aspettarsi, il popolo avrebbe fatta al Papa, non facesse passare in secondo piano quella che si doveva fare all’Imperatore. In quest’occasione (si trattava di un viaggio notturno) Napoleone cedette ancora la destra al Papa; ma in seguito, tutte le volte che comparvero insieme, sia che stessero in piedi o a sedere, stette sempre lui alla destra, contro la più elementare norma di una cortese ospitalità.

(1) Mémoires de M.me de Rémusat, 1879-1880, Voi. II, 275-6.

     Naturalmente, il popolo, anche contro ai desideri di Napoleone , faceva dappertutto al Papa grandi dimostrazioni di venerazione di omaggio: non solo i fedeli ma anche gli inrceduli erano presi da una specie di entusiasmo. Il Consalvi, che pure evira sempre le esagerazioni ed i superlativi, scrive che le innegabili virtù, il mite carattere, la saggezza, e la cortesia del Papa avevano conquistato i cuori e gli avevano guadagnato un affetto, una stina e una venerazione universale, di cui i Parigini davano segni manifesti ogni volta che potevano vederlo. Ciò Napoleone non poteva tollerare. Perciò non fu permesso al Papa di pontificare pubblicamente, neppure a Natale, nella quale solennità, come scrive il Consalvi,  dovette dir messa bassa in una delle chiese parrocchiali,come pure, per la solita gelosia,  non gli fu permesso di celebrare la Pasqua nella capitale.  “Si vede – scrive il Dott. G. C. Weisz – come fosse gretto Napoleone, quando era in gioco la sua ambizione. Voleva essere lui solo oggetto di ammirazione e di interesse (1).

E la nona sconvenienza? Questa, se fosse riuscita, non sarebbe stata soltanto una sconvenienza, ma la più rozza violazione dell’ospitalità, il più grossolano abuso dell’invito fatto, la più bassa disonestà. Ma la saggia previdenza del Papa riuscì ad impedire la violenza progettata, ed a salvare il Capo della Chiesa dal pericoloso tranello tesogli. — Fin dal 23 febbraio, Pio VII aveva stabilito l’ordine ed il tempo del suo ritorno a Roma: Egli si sarebbe messo in viaggio il

(1) DOTT. G. C. WEISZ, Storia Universale, (Trad. Ungherese di F. Szabó, 1897-1905, voi. XX, p. 545).

15 marzo con una parte delle persone del suo seguito mentre altre sarebbero partite prima, ed altre dopo di Lui. Ma Napoleone lo andava trattenendo con sempre nuovi pretesti, cosicché si fece chiaro il suo disegno, di non permettere che il Papa facesse ritorno a Roma. Come egli stesso lasciò poi scritto, aveva accarezzato il disegno che il Papa ponesse la sua sede a Parigi o ad Avignone per potersene poi servire come di un suddito per i suoi fini politici, e per potergli più facilmente imporre la sua volontà. Un bel giorno, uno dei personaggi della corte imperiale venne a raccomandare apertamente al Papa di rimanere in Francia e porvi la Sua sede.

     Fortunatamente, Pio VII, prima di partire da Roma, aveva già tenuto conto di questa possibilità, dimostrandosi buon conoscitore del carattere di Napoleone.    

     Al personaggio che gli aveva fatto la proposta, rispose che Egli aveva già predisposto per la Sua abdicazione nel caso che Napoleone l’avesse trattenuto in Francia, e che codesta Sua abdicazione, debitamente scritta e firmata, si trovava nelle mani del Cardinale Pignatelli, il quale era allora in Palestina, fuori del raggio della potenza francese; cosicché, qualora lo volessero trattenere a Parigi, si troverebbero tra le mani, invece del Papa, un povero religioso di nome Barnaba Chiaramonti (1). Così il Papa mandò a monte i disegni dell’Imperatore: la Sua risposta fu subito riferita a Napoleone, il quale, vedendo che era inutile trattenerlo, ne permise la partenza, che ebbe luogo il 4 aprile 1805.

(1) CHATEAUBRIAND, Vita di Napoleone, (Trad. Ungh. di D. Antal, Budapest, pag. 76 (senza data)

     Ma ncora poco prima della sua partenza, Pio VII venne a sapere che era stata recata una nuova offesa a’ Suoi diritti, in quanto, nel fare della Repubblica Italiana un regno, si erano poste nello stemma di questo le chiavi pontificie, e si erano dichiarate parte costitutiva inseparabile del nuovo regno le cosidette Legazioni, strappate agli Stati della Chiesa. E un’altra umiliazione dovette subire il Papa nel viaggio di ritorno: Napoleone volle viaggiare davanti a Lui, e ad ogni stazione Pio VII doveva fermarsi ad aspettare il ritorno dei cavalli che venivano a prenderlo dopo aver trasportato l’Imperatore.

     Così fu dato a Pio VII di provare « l’ospitalità » di Napoleone e la sua gratitudine per il grande sacrificio con cui aveva esaudito la sua preghiera !

Le molte dolorose ed amare delusioni provate dal Papa in terra francese furono alleviate soltanto dall’entusiastica riverenza, dalla gioia febbrile e dall’ossequente affetto dimostrato in ogni occasione dal popolo francese verso la Sua persona durante tutto il viaggio di ritorno (1). E finalmente, il 16 maggio, dopo una dolorosa assenza di 185 giorni, si riaprivano dinanzi al Papa le porte della Città Eterna.

(1) Caratteristico dell’entusiasmo quasi favoloso con cui il popolo accorreva attorno al Papa, è il seguente episodio: A Cha- lons-sur-Saone un’immensa folla circondò la Sua carrozza, e tutti volevano avvicinarsi a Lui per baciargli la mano, le vesti, i piedi, cosicché non era più possibile avanzare. Allora i due gendarmi co-mandati alFaccompagnamento del Papa ricorsero ad un’astuzia: posero il Papa in mezzo ai due cavalli attaccati alla carrozza, in modo che la gente non osasse più accostarsi a Lui. Ma le donne si dimostrarono più astute dei gendarmi. Una ragazza, p. es., passò tra le gambe dei cavalli per giungere a baciare il piede del Papa, che poi tenne fortemente stretto, affinchè potesse baciarlo anche sua madre, che l’aveva seguita cacciandosi anch’essa sotto i cavalli.

Nuove pene e delusioni

     Al principio dell’anno seguente, Napoleone causò al Papa una nuova pena e delusione. Infatti, col l.o gennaio 1806 (come era già stato stabilito con un de¬creto del giugno precedente) andava in vigore anche nel Regno d’Italia il Codice Napoleonico. Ciò addolo¬rava molto il Papa, perché quel codice offendeva molti dei principii essenziali insegnati dalla Chiesa, e — se non a parole, certo in realtà — toglieva alla Religione Cattolica, nel Regno d’Italia, il carattere di Religione ufficiale.

     Non molto più tardi, Napoleone credette di aver motivo di prendersela col Papa, per un caso in cui la ragione era, oggettivamente, tutta dalla parte del Papa. Ecco il caso: Il fratello più giovane di Napoleone, Girolamo, aveva sposato in America, nel dicembre 1803, una ricchissima signorina protestante. Finché Napoleone fu Primo Console, non si curò gran che di codesto matrimonio; ma, diventato Imperatore, non voleva più tollerare nella sua famiglia donne di origine borghese. Perciò, quando venne a sapere che Girolamo voleva far ritorno in Europa, diede ordine che la moglie di lui, appena arrivasse in un porto europeo, fosse subito rimandata in America: non voleva saper nulla di lei, e non la voleva neppur vedere. Ma Girolamo approdò in un porto diverso da quello che Napoleone si aspettava, e così fu deluso il desiderio dell’Imperatore, che sua cognata non mettesse piede in Europa.

    Napoleone se n’adontò, e sebbene la moglie di Girolamo stesse già per diventar madre, fece dichiarare civilmente illegittimo e nullo il matrimonio di suo fratello. Volendo poi che fosse dichiarato invalido anche dalla Chiesa, rivolse al Papa una petizione, nella quale, senza troppo curarsi della verità dei fatti, credeva di poter più facilmente guadagnare il Papa al suo intento con dichiarazioni del genere di queste: l’annullamento di tale matrimonio dover servire come esempio per quei membri di case regnanti che pretendessero sposarsi con protestanti ; importare che all’Imperatore non fosse prossima una donna protestante.

     Per quanto il Papa esaminasse il caso, non potè scoprire l’invalidità di quel matrimonio, e quindi non potè dare all’Imperatore una risposta favorevole; perché neppure il Papa ha diritto, potere, o modo di sciogliere un matrimonio validamente contratto e consumato. Nella Sua risposta, il Papa diceva, fra l’altro, che, se si fosse appropriato un tale diritto, si sarebbe reso colpevole davanti a Dio ed alla Chiesa della più flagrante violazione dei doveri del Suo sacro ufficio.

Napoleone, vedendo respinta la sua domanda, andò su tutte le furie e trascorse a dichiarazioni così offensive, che, risaputesi a Roma, rattristarono immensamente il Papa. Nè l’Imperatore lasciò cadere la questione. In una lettera scritta al Papa da Monaco di Baviera il 7 gennaio 1806, torna a lamentarsi di aver ricevuto risposta negativa anche riguardo a cose che erano straordinariamente importanti per la Religione, come per esempio quando si trattava d’impedire che il protestantesimo alzasse la testa in Francia (cioè nel caso del matrimonio di Girolamo). Ed in una lettera del 13 febbraio ritornava sull’affare con tono assai più duro, dicendo che sarebbero stati responsabili davanti a Dio coloro i quali difendevano con tanto zelo dei matrimoni protestanti e volevano costringere lui a permettere che la sua famiglia si unisse con principi protestanti.

     Frattanto s’insinuò nelle relazioni tra il Papa e l’Imperatore un altro spiacevole affare: Napoleone fece occupare dal suo esercito la città ed il porto di Ancona, appartenenti agli Stati Pontifici; ed alle proteste di Pio VII (15 novembre 1805) rispose che egli si considerava il protettore della S. Sede, e che appunto a questo titolo aveva occupato Ancona. Magnifica ragione, invero: il « protettore » che con una inter-pretazione giuridica si trasforma in « possessore »! E Napoleone continuò a « proteggere »: dopo Ancona, fece occupare Pesaro, Senigaglia, Fano ed altri luoghi degli Stati della Chiesa, come pure la fortezza di Civitavecchia. Con codeste occupazioni, non soltanto Napoleone violava la parola data e la neutralità dello Stato Pontificio, ma rendeva anche sospetta la persona del Papa davanti alle altre Potenze, le quali credevano, come si andava sussurrando in tutti i circoli politici, che Napoleone non potesse aver proceduto a tali occupazioni all’insaputa e senza l’approvazione del Papa, il quale in tal modo avrebbe rinunciato, oltreché alla Sua indipendenza, anche all’imparzialità; e per quanto il Papa cercasse di giustificarsi e dare spiegazioni, non riusciva a dissipare i sospetti della diplomazia.

     Ma ecco un altro imbroglio: Per le spese del suo esercito, Napoleone si era fatto anticipare molte somme a titolo di imprestito dalla S. Sede, la quale, per favorirlo, aveva usato tutto il denaro disponibile; ma da parte francese non si pensava alla restituzione. Il Papa scrisse a Napoleone che entro cinque mesi sarebbe stato privo di tutte le sue risorse, se non avesse presto ricevuto indietro le somme imprestate, delle quali appunto sollecitava la restituzione. Manco a dirlo, questa sollecitazione rimase senza effetto.

     Intanto le soldatesche francesi scorrazzavano da padrone per lo Stato Pontificio, vi facevano requisizioni, ne occupavano i porti, e facevano continue prede nelle città e nei villaggi, nonostante le proteste della S. Sede.

     E’ chiaro che questi fatti ponevano sempre più gravi premesse morali e giuridiche per una più seria rottura fra il Papa e l’Imperatore: ormai non mancava più che un’ultima goccia, perché il calice traboccasse, e perché da parte di Napoleone il rancore, il malcontento e l’ira, da parte del Papa il sentimento doloroso delle ingiustizie commesse contro di Lui, contro gli Stati della Chiesa e contro i Suoi sudditi, portassero alla rottura definitiva tra i due sovrani. — Quest’ultima goccia si aggiunse ben presto, in occasione del «Blocco Continentale».

Il Blocco Continentale

     Da Generale e Primo Console, Napoleone aveva ancora conservato qualche apparenza democratica. Ma da Imperatore cambiò interamente. Come scrive il Pournier, tutta la corte viveva di timore ed ossequio: Napoleone evitava attentamente ogni espressione familiare, si circondava di un rigido cerimoniale, e se qualche volta gli sfuggiva una parola un po’ confidenziale, tosto cercava di attutirne l’effetto con qualche frase altezzosa e dura; alla sua presenza non era permesso sedere, neppure ad un suo fratello; nessuno poteva parlargli senza essere interrogato, e nessuno poteva dargli del tu; aveva sempre presente quello che era il continuo scopo della sua ambizione: raggiungere la gloria di Alessandro il Grande; il che era, in fondo, la molla principale di ogni sua azione (1).

     L’irrefrenabile e spietato orgoglio dell’Imperatore non conosceva confini; il suo entourage si adattava a tutti i suoi capricci, e persino i sovrani sopportavano in

(1) A. FOURNIEK, Vita di Napoleone I, (Ediz. Ungli. Buda¬pest, 1916, voi. II, c. V, pp. 266 e 268),

silenzio le umiliazioni. Una volta che il re di Baviera si permise, pur con grande modestia, di criticare una manovra, Napoleone lo richiamò subito vivacemente all’ordine, e Sua Maestà il Re insaccò la sgridata senza dire una parola. Quando Napoleone fece uccidere il principe Eugenio di Borbone, non solamente il Borbone di Madrid non osò protestare o reclamare per l’uccisione del suo parente, ma anzi si diede più da fare per guadagnarsi il favore di Napoleone. La regina vedova d’Etruria non avendo fatto ciò che desiderava Napoleone, questi la privò senz’altro del trono, annettendo l’Etruria alla Francia. Il re di Prussia, per adulare Napoleone, lo pregò di accettare suo figlio come aiutante di campo.

     Come nota il Marmont verso la fine del libro XIV delle sue memorie, ognuno giaceva ai piedi dell’Imperatore e si sarebbe detto che i suoi più piccoli desideri avessero la forza irresistibile delle leggi naturali. Anche coloro che nel loro cuore lo detestavano ed odiavano, e dietro le spalle ne sparlavano, in faccia lo adulavano in modo nauseante. Napoleone stesso si gloriava che principi e sudditi ugualmente accorrevano sotto il suo scettro. Bisognava vedere, come scrive il De Pradt, con quale umiltà la schiera dei sovrani aspettasse il momento di comparire davanti a lui.

     Date tali circostanze, non è meraviglia se Napoleone voleva far credere a se stesso che sarebbe riuscito a disporre del Papa come disponeva dell’entourage imperiale, della folla, de’ suoi generali, ufficiali, impiegati, e degli stessi sovrani. Andava dicendo con arroganza che regnare in Francia voleva dire regnare in Europa, e cioè sottomettere al proprio giogo tutti i sovrani europei, non escluso il Papa. Confessò più tardi (come abbiamo già visto in una nota al cap. V) che non disperava di poter giungere a dirigere il Papa secondo la sua volontà, considerando quale leva sarebbe stata questa per muovere il resto del mondo (1). Era poi un’offesa per l’ambizione di Napoleone, che, mentre aveva fatto di tutta l’Italia un possedimento francese, solo lo Stato Pontificio facesse eccezione, proprio nel centro del paese; e scriveva di non poter tollerare tale stato di cose.

     A questa disposizione d’animo di Napoleone venne ad aggiungersi la grande tensione determinatasi fra lui ed il Papa nella questione del Blocco Continentale.

     Era fervida brama di Napoleone che anche gl’inglesi riconoscessero la sua dignità imperiale. Dopo la sua incoronazione aveva anche scritto in proposito al re d’Inghilterra Giorgio III una lettera, nella quale lo chiamava « fratello », ma tralasciava le espressioni di ossequio e di stima solite nella chiusa. Il re d’Inghilterra fu così offeso dal vedersi chiamato fratello senza la sua autorizzazione e dalla mancanza delle solite forme di cortesia, che non rispose neppure. Soltanto Lord Mulgrave scrisse a Talleyrand, senza però neppure accennare alla dignità imperiale. Ciò accrebbe l’ira di Napoleone contro l’Inghilterra,

(1) « …le catholicisme me conservait le Pape et avec mon influence et nos forces en Italie, je ne désespérais pas tòt ou tard, par un moyen ou par un autre, de finir par avoìr à moi la direction de ce Pape; et dès lors quelle influence! quel levier d’opinion sur le reste du monde! » (Las Cases: Mómorial de Sainte-Helène. To¬me VI, pag. 66. Paris, Delloye, 1840, Cfr. Denkwùrdigkeiten, v. St. Helens, IV, 122-123).

che egli stabilì di umiliare e punire ad ogni costo.

     Nel 1806 l’Imperatore ordinò il così detto Blocco Continentale contro l’Inghilterra. Era rigorosamente proibita qualsiasi relazione, commercio e corrispondenza colle isole britanniche; ogni suddito inglese era dichiarato prigioniero di guerra, ogni proprietà inglese preda di guerra. Uno dopo l’altro, numerosi stati aderirono al Blocco; soltanto il Portogallo ed il Papa vi si opposero decisamente; quello, perché tutto il suo commercio era in mano degli Inglesi; questo, unicamente per principio, non volendo venire in relazioni ostili con nessuno stato. Questa fu la seconda e principale ragione, per cui Napoleone vedeva di mal occhio lo Stato Pontificio.

     Ma s’aggiungeva ancora una terza ragione. Presso la Santa Sede si trovavano i rappresentanti diplomatici dei diversi stati, quindi anche di quelli che erano in relazioni ostili con Napoleone; anzi, in quel tempo tutti gli stati mandavano a Roma proprio i loro diplomatici più eccellenti e più fidati. Era quindi per Napoleone cosa spiacevole ed irritante che, nel bel mezzo del suo impero, ed a fianco della più grande potenza morale, potessero agire i rappresentanti de’ suoi nemici.

     Per Napoleone, dunque, lo Stato Pontificio era in ogni modo un ostacolo; però non poteva soggiogarlo senza umiliare la persona del Papa. E non si dava ragione come codesto stato, di cui militarmente non si poteva neppure tener conto, codesto piccolo « brandello di territorio » col suo vecchio e spossato capo, il Papa, potesse lottare contro la sua imperiale volontà.

      Napoleone stesso confessò clie, secondo lui, due forze mettevano in moto gli uomini: l’egoismo e la paura. Tre erano gli strumenti di cui egli si serviva nella via della potenza: la spada, la gloria ed il denaro. Dalle sue esperienze aveva attinto la convinzione che ciascuno agisce solo per interesse, e che il piacere, la cupidigia ed il sentimento di famiglia spingono ogni uomo soltanto verso il denaro, mentre la vanità, la gelosia e l’ambizione lo spingono soltanto verso la gloria esteriore. Egli, dunque, negava ogni motivo ideale. Ma nel Papa incontrò un’eccezione: Pio VII non si lasciò impaurire dalla potenza e dalle minacce di Napoleone.

Ma vediamo i particolari della vicenda.

Prepotenze di Napoleone verso il Papa

In una lettera del 13 febbraio 1806, Napoleone scriveva al Papa frasi di questo genere: Tutta l’Italia deve esser soggetta alle mie leggi. Non toccherò l’indipendenza della S. Sede, ma solamente a condizione che il Papa sia così riguardoso verso di me negli affari temporali, come io lo sono verso di lui in quelli ecclesiastici, e che cessi di aver inutili riguardi verso gli eretici, i nemici della Chiesa, e quelle potenze che non possono fargli alcun bene. Se il Papa è il sovrano di Roma, io ne sono l’imperatore, come lo era Carlo Magno. Coloro che sono miei nemici, anche il Papa deve considerarli suoi nemici.

     Contemporaneamente, Napoleone dava al Card. Fesch, suo ambasciatore, questi ordini: Fate in modo che ogni Inglese, Russo, Svedese e Sardo sia espulso dagli Stati Pontifici. Se l’ambasciatore inglese si ferma ancora a Roma, esigete che sia arrestato. Nessuna sorta di nave inglese, svedese o russa può far scalo in porti pontifici, e se ve ne compare qualcuna la farò catturare. Non è il caso che la Corte Romana abbia tanti riguardi verso i nemici della Religione.

      Vi rendo responsabile dell’esecuzione di questi due punti: a) che siano espulsi dagli Stati Romani gli Inglesi, i Russi, gli Svedesi ed i Sardi; b) che siano escluse dai porti pontifici le navi dei suddetti stati. Quanto alla Russia, dev’essere considerata come se non esistesse. Se il Papa non s’adatta alle mie intenzioni, lo farò ritornare quello che era prima di Carlo Magno. Dite al Card. Consalvi (Segretario di Stato di S. S.) che, se ama la sua Religione e la sua Patria, può soltanto scegliere tra due vie: o seguire in tutto la mia volontà, o dare le dimissioni.

     Inoltre, Napoleone si faceva innanzi con parecchie altre pretese, che invadevano violentemente i diritti del Papa. P. es., che il Papa mettesse in vigore anche a Roma il Codice Civile Francese, che per la Chiesa di Francia nominasse un Patriarca autonomo, che un terzo del Collegio Cardinalizio fosse formato di prelati francesi, che abolisse tutti gli ordini religiosi ed il celibato ecclesiastico, ecc., ecc.

     Il Papa restò quanto mai meravigliato a sì inaudite pretese, che per di più gli erano comunicate in tono irriverente. E’ chiaro che non poteva accoglierle, senza rompere le relazioni diplomatiche con numerosi Stati, anzi senza farseli suoi nemici. Inoltre accogliere tali pretese avrebbe voluto dire impegnare la S. Sede a considerare amico o nemico qualunque stato, secondo i gusti od i capricci politici della Francia, ed appoggiare la Francia in qualunque guerra giusta od ingiusta, come se la S. Sede fosse un corpo d’armata dell’esercito francese. In una parola, cedendo alle pretese di Napoleone, il Papa avrebbe annullato del tutto l’indipendenza e la libertà della S. Sede, ciò che il Papa, né come capo del mondo cattò¬lico, nè come sovrano di uno stato neutrale, non poteva fare senza calpestare i doveri del suo alto ufficio. Quando il Papa richiese il parere del Collegio Cardinalizio a questo riguardo, tutti, meno uno, consigliarono di respingere le pretese di Napoleone; e quell’uno era il francese Bayanne, creatura di Napoleone.

     Dall’ampia risposta di Pio VII a Napoleone, citiamo solo quanto segue: «Dalla costernazione che abbiamo provato, vediamo purtroppo che le idee espresse da Vostra Maestà minacciano, sia la dignità della S. Sede, sia i più inalienabili e sacri diritti della sua sovranità.

     Noi siamo il Vicario del Verbo Eterno, che non è il Dio della discordia, ma della pace; che uccidendo l’inimicizia annunziò pace ai lontani, e pace a quelli che sono vicini (1). Non la nostra volontà, ma Dio stesso ci pone innanzi il dovere della pace verso chiunque, senza far differenza fra Cattolici ed eretici, fra vicini e lontani, e fra coloro che possono farci del bene o del male. Non possiamo tradire il nostro ufficio, che ci fu affidato dall’Altissimo; ma lo tradiremmo, se contro gli eretici menzionati da V. M., i quali (per citare le parole di V. M.) possono soltanto farci del male, ci diportassimo in modo da sembrar prender parte alla guerra contro di loro.

     Espellere i sudditi degli stati in guerra con V. M„ o chiuder loro i nostri porti, sarebbe lo stesso che interrompere ogni relazione, non solo con essi, ma anche

(1) La seconda parte di questa frase è una reminiscenza di Eph. II, 16-17.

 coi Cattolici dimoranti in quegli stati. Ma possia¬mo noi abbandonare alla loro sorte tante anime fe¬deli, mentre il Vangelo ci proibisce di trascurare la ricerca pur di una sola?

     V. M. dice poi che dobbiamo considerare i suoi nemici come nostri nemici. Ciò è contrario al carattere della nostra divina missione, che non conosce inimicizia neppure con coloro che si sono separati dal centro della nostra unità.

Qualora fossimo così sfortunati, che le nostre parole non avessero effetto sul cuore di V. M., siamo pronti a sopportare ogni conseguenza con apostolica abnegazione. Ci sottometteremo ad ogni pena, come se venisse da Dio. Sì, la giustizia vincerà sempre sulle nostre labbra; nel nostro cuore regnerà sempre la costanza nel mantenere intatti i diritti della S. Sede. Preferiamo affrontare ogni amarezza della vita, anziché renderci indegni del nostro ufficio, oltrepassando anche solo di un capello il limite che la nostra coscienza ci ha tracciato » (1).

     Dalle ultime parole, vediamo che la S. Sede sentiva che Napoleone non si sarebbe accontentato della risposta, ma sarebbe ricorso alla violenza. Ed in realtà le violenze si succedettero l’una all’altra.

     Da otto secoli il Papa esercitava il diritto di investitura del Regno di Napoli. Napoleone, non curandosi di tale diritto, nominò re di Napoli Giuseppe, senza interrogare prima il Papa, al quale comunicò

(1) Questa abbastanza lunga citazione è il primo esempio notevole di quello che dice il Traduttore nella sua Prefazione: infatti, non è riportato qui il testo originale della lettera del Papa, ma la tra¬duzione italiana della trad. ungh, datane dall’Autore. — N. d. T.

 la nomina soltanto dopo il fatto, ed ancora in tono irriverente, minaccioso e persino derisorio, mentre intanto incaricava Talleyrand di pretendere dal Papa l’incondizionato riconoscimento di Giuseppe come re di Napoli, altrimenti egli non avrebbe più riconosciuto lui (il Papa) come sovrano temporale.

     Nè bastò! Napoleone comandò a Giuseppe di occupare Civitavecchia, affinchè « Roma non avesse più nessun accesso al mare ».

     Neppure questo bastò. Napoleone, calpestando il diritto di proprietà, diede in feudo due territori pontifici: Benevento a Talleyrand, e Pontecorvo al maresciallo Bernadotte, esercitando così il diritto di distribuire feudi… coi possedimenti del Papa. E dopo tutto ciò, il 18 aprile l’Imperatore scriveva al Card. Fesch: « Presto o tardi, sarò costretto a punire la Corte Romana ».

     Quando l’Imperatore richiamò da Roma il Fesch, questi andò bensì a congedarsi dal Papa (benché la sua condotta in tale circostanza sia stata più offensiva che cortese) ma non andò, come avrebbe dovuto, a congedarsi dal segretario di stato Card. Consalvi; anzi, quando questi, nella sua magnanimità, volle recarsi da lui per rappacificarlo, ricusò di riceverlo.

     Frattanto le soldatesche napoleoniche andavano occupando, uno dopo l’altro, tutti i punti importanti dello Stato Pontificio, e nello stesso tempo venivano addossate al Papa somme favolose pel mantenimento di quei soldati, che scorrazzavano e stazionavano senza alcun diritto ne’ suoi stati, mentre Roma brulicava di spie imperiali.

Una dichiarazione durante un ricevimento

     Il l° luglio 1806 si dava un ricevimento di corte, e vi erano presenti, oltre a tutta la corte, anche le principali notabilità, fra le quali il Nunzio Pontificio Card. Caprara. Mentre questi si avvicinava a Napoleo¬ne per presentargli i suoi ossequi, l’Imperatore lo investì in modo da essere udito da tutti i presenti, ed in tono iroso ed irriverente prese a condannare la condotta della S. Sede, concludendo con queste parole: « Scrivete a Roma che aspetto da Sua Santità una assicurazione inequivocabile che, sia in questa, sia nella futura guerra, chiuderà i suoi porti a tutti i bastimenti inglesi, siano essi da guerra o commerciali. Se non riceverò, nel più breve tempo, una dichiarazione conforme a’ miei desideri, farò occupare tutto lo Stato Pontificio, isserò l’aquila imperiale sulle porte di ogni sua città e possessione, ne distribuirò tutto il territorio in principati che darò a chi vorrò… Se il Papa si opporrà a’ miei desideri, istituirò a Roma un senato, ed una volta che Roma e lo Stato Pontificio siano nelle mie mani, non li lascerò maipiù. Scrivete tutto ciò senza indugio, e non nascondete nulla: dalla risposta del Papa capirò se avrete detto tutto».

     Il Caprara voleva rispondere a queste violenti parole, ma Napoleone non glielo permise prevenendolo con queste altre: « Checché vogliate dire, e checché siano per ripetere da Roma, è tutto inutile; perché, lo ripeto, la mia decisione è immutabile. Non cedo e non posso cedere. Si sbrighino presto, e mandino al più presto la risposta, la quale deciderà della sorte di Roma ».

     Il Caprara, ed anche il Card. Spina, si spaventarono delle minacce di Napoleone, e pregarono, ciascuno per conto suo, il Papa ad accondiscendere, perché temevano delle conseguenze. Ma il Papa rispose loro tranquillizzandoli: « Quanto a ciò che disse S. M., che quando Roma e l’eredità della Chiesa siano nelle sue mani egli non le lascerà mai più, S. M. può ben crederlo, e può anche essere sua convinzione. Ma noi rispondiamo sinceramente che, se S. M. si lusinga meritamente di aver la forza nelle sue mani, noi a nostra volta sappiamo che al di sopra di ogni sovrano regna Dio, il quale punisce chi offende la giustizia e l’innocenza, e davanti al quale deve inchinarsi ogni potenza… la nostra decisione è irrevocabile e nulla la farà mutare, neppure le minacce ed il loro compimento… Questi sono i nostri sentimenti, quasi come nostro testamento; e se è necessario, siamo pronti a confermarli anche col nostro sangue, confortandoci, in caso di persecuzione, colle parole del Divin Maestro: Beati coloro che soffrono persecuzioni per amore della giustizia. Fate conoscere a S. Maestà i nostri sentimenti in tutta la loro estensione ».

     Fedele all’ordine del Papa, il Caprara desiderava comunicare il contenuto di questa lettera all’Imperatore, ma questi non lo ricevette. E Napoleone ben sapeva il perché: ormai in cuor suo aveva deciso, e non desiderava più altro che affrettare il momento di mandare ad effetto la sua decisione.

Nuove noie e provocazioni

     Il 22 luglio 1807 Napoleone mandò da Dresda tre lettere al principe Eugenio, viceré d’Italia. Tutte e tre erano fattura di Napoleone ; ma la prima conteneva un’istruzione confidenziale per il Principe; la seconda doveva essere mandata al Papa, come se fosse stata composta e scritta dal Principe stesso; la terza poi, intestata ad Eugenio, doveva essere unita alla seconda come allegato, ma in modo da sembrare che Eugenio volesse comunicarla al Papa di propria iniziativa e ad insaputa dell’Imperatore.

     Nella seconda lettera, cioè in quella che era stata composta da Napoleone, ma che Eugenio mandò al Papa come propria, si trovano, tra le altre cose, queste minacce: « Se Vostra Santità è davvero penetrato del sentimento del dovere e del bene della Religione, dia pieni poteri al Cardinale Nunzio a Parigi, ed in otto giorni tutto sarà regolato. Che se ricusa di far ciò, il pontificato di V. S. sarà per la Chiesa più dannoso che quello durante il quale si staccarono dalla Chiesa la Germania Settentrionale e l’Inghilterra ».

     La terza lettera, diretta da Napoleone ad Eugenio, e da questo, come abbiamo già detto, comunicata al Papa quasi di propria iniziativa, conteneva minacce ancor più dure. Diceva, p. es.: « Che cosa vuole Pio, accusandomi davanti alla cristianità? Vuol forse scomunicarmi?… Questa detestabile dottrina fu inventata da Papi furiosi… Se non si cessa di turbare gli affari dei miei stati, non è forse lontano il tempo, in cui non riconoscerò nel Papa niente più che il Vescovo di Ro¬ma, alla pari dei Vescovi de’ miei stati. Non esiterò a sbrigare i miei affari senza il Papa… E’ l’ultima volta che m’immischio in discussioni verbali colla pretaglia (prètraille) di Roma ».

     A questa terza lettera (sempre per ordine di Napoleone!) Eugenio aggiunse ancora questo poscritto: « Questa è l’ultima autorizzazione che ho di scrivere a V. S. D’or innanzi non udrà più nulla, nè di me, nè del mio Imperatore ». In tutte tre le lettere, Napoleone ripeteva la sua pretesa, che il Papa escludesse e cacciasse dal suo territorio e considerasse come suoi nemici gli Inglesi.

     Anche questa volta il Papa rispose con mitezza, senz’ira nè indignazione, ma in modo costantemente coerente a’ suoi principii.

Abbiamo visto che Napoleone aveva fatto chiedere al Papa di dare pieni poteri al Card. Caprara, Nunzio a Parigi. Il Papa accettò di avere a Parigi un rappresentante con pieni poteri ; ma non giudicava il Caprara adatto a ciò, in parte perché, come abbiamo già accennato, si era lasciato del tutto impaurire dalle minacce di Napoleone, in parte perché, come diceva il Papa stesso, questo eccellente uomo era troppo vecchio, per potersi intendere col Sig. Portalis, che era « il più gran parlatore del mondo ». Perciò il Papa designò a quell’ufficio il Card. Litta, e questa designazione fu trovata soddisfacente anche dall’ambasciatore francese a Roma, il quale anzi, nel darne comunicazione al suo governo, lodava il Litta come uomo saggio, colto, moderato, dotato di tutte le più amabili qualità. Tuttavia lo Champagny (successo a Talleyrand nel ministero degli esteri) si affrettò ad informare Roma che egli non avrebbe accettato il Litta, ma designava invece il cardinale francese Bayanne.

     Si ebbe dunque un caso assolutamente nuovo nella storia della diplomazia: che l’uno dei sovrani (in questo caso Napoleone) designasse lui stesso il rappresentante plenipotenziario dell’altro sovrano, senza il consenso di questo; e per di più l’Imperatore pretendeva, come inviato plenipotenziario del Papa, un proprio suddito.

     Il Papa cedette anche a questa impossibile pretesa, come cedeva sempre quando non si trattava di principii religiosi. Con tale arrendevolezza credeva di placare l’Imperatore: ma come s’ingannava! Per tutta risposta, Napoleone ordinò al principe Eugenio di occupare anche le città pontificie di Urbino, Macerata, Fermo e Spoleto; anzi dispose che i soldati francesi che si trovavano negli Stati Pontifici fossero mantenuti, vestiti e pagati dalla S. Sede, dicendo che così egli avrebbe risparmiato molto! E quando il Card. Rivarola, governatore di Macerata, protestò contro l’occupazione della città, fu arrestato e condotto prigioniero a Pesaro. Dobbiamo poi ancora notare che ad alcune lettere del Papa, Napoleone non si degnò neppure di rispondere, come il Papa stesso lamenta nella Sua lettera dell’ll settembre all’Imperatore.

Nonostante tutte codeste angherie, prepotenze ed umiliazioni, l’arrendevolezza del Papa andò ancor oltre: per impedire ad ogni costo l’estrema rottura con Napoleone, e cedendo alle grandi pressioni di lui, decise di romperla coll’Inghilterra. Ma non appena il Bayanne ebbe comunicato questa decisione al ministro francese degli esteri, questi dichiarò che all’Imperatore ciò non bastava, ma voleva che il Papa si alleasse con lui contro tutti i suoi nemici, unendo le sue forze di terra e di mare con quelle dell’Imperatore; che per di più il Papa doveva obbligarsi ad affidare alle truppe francesi i porti di Ostia, Civitavecchia ed Ancona, ed a pensare all’approvigionamento dei tremila soldati francesi stanziati ad Ancona; doveva riconoscere Giuseppe Napoleone come re di Napoli, rinunciando ad ogni pretesa e protesta che fosse contraria ai diritti, alla dignità ed alla sovranità del re di Napoli; doveva riconoscere pure tutte le istituzioni e mutazioni che avevano avuto luogo per ordine di Napoleone in Germania ed in Italia; doveva nominare tanti Cardinali francesi, da formare con essi un terzo del Sacro Collegio. Finalmente fu fatto sapere al Bayanne che, se entro ventiquattro ore non veniva assicurato, in nome del Papa, che tutte codeste richieste eran state accettate, se ne sarebbero aggiunte altre.

     Da tali inaudite pretese, chiunque poteva chiaramente vedere, sentire e convincersi che Napoleone de¬siderava in ogni modo di affrettare la rottura definitiva col Papa.

Ordine di occupare Roma

     Ottenendo quello che pretendeva, Napoleone avrebbe fatto del Papa un impiegato coloniale della Francia, ne avrebbe scosso la potenza morale, e l’avrebbe rovinato finanziariamente. Del resto, simili pretese si sogliono accampare soltanto con un nemico. Era dunque chiaro, e Napoleone lo sapeva bene, che il Papa non le avrebbe accettate. Ma era appunto ciò che Napoleone voleva; perché, colle sue pretese sempre più gravi ed offensive, e colla prevedibile ripulsa di esse da parte del Papa, egli cercava soltanto un pretesto ed un titolo per l’occupazione degli Stati Pontifici, per la quale egli aveva già preparato il suo piano di guerra, ed a cui aveva, in realtà, già dato principio coll’occupazione di Ancona, Urbino, Macerata, Fermo e Spoleto.

     L’ultima ripulsa del Papa fu da Napoleone considerata come una dichiarazione di guerra.

     Già il 10 gennaio 1808 ordinò al viceré d’Italia che facesse marciare su Roma il generale Miollis, col pretesto (questa parola è di Napoleone stesso) che doveva far passare per Roma le sue truppe. Il generale, però, giunto a Roma, doveva occupare Castel S. Angelo, ancora col pretesto di trattenere i briganti che cercavano di scappare nel Regno di Napoli; e naturalmente, continuava l’istruzione, doveva pretendere dal Papa il mantenimento ed il soldo delle sue milizie, col nuovo pretesto che liberava Roma dai briganti.

     Il vero scopo fu comunicato dal governo francese in uno scritto diretto all’Alquier: « L’intenzione dell’Imperatore, con questi ordini e disposizioni, è che il popolo romano si avvezzi alle truppe francesi… ed inavvertitamente, senza dar nell’occhio, la Corte Romana cessi di essere una potenza temporale. A questo fine, gli ufficiali francesi organizzino un grande ricevimento, a cui siano invitate le più grandi dame romane, cosicché si avvezzino le une agli altri. Non solo bisogna impedire ogni manifestazione che il Governo Pontificio volesse fare contro la Francia, ma bisogna fare di tutto perché i giornali parlino dell’arrivo delle truppe secondo il gusto francese». L’istruzione terminava dicendo che non bisognava prendere sul serio un’eventuale protesta del Papa, perché questa sarebbe subito stata seguita da un decreto imperiale, che avrebbe annullato il dono di Carlo Magno, e avrebbe incorporato gli Stati Pontifici nel Regno d’Italia. Contro eventuali ribelli, si facesse uso dei cannoni !

     In seguito a queste istruzioni, l’Alquier scrisse al Papa che in questi avvenimenti, i quali avrebbero forse potuto causar preoccupazioni a Sua Santità, non c’era nulla di preoccupante; del che egli era garante, anzi avrebbe potuto promettere anche di più… Ma tutto il resto della lettera non era altro che frasi tranquillizzanti.

Il Papa ed il Suo Governo capivano benissimo di che si trattava, e ne prevedevano le conseguenze ; perciò non prestavano alcuna fede alle promesse dell’Alquier, il quale, secondo la definizione del Papa, era uno di quegli uomini che si sentono tranquilli pur in mezzo ai loro misfatti, e sanno fare una faccia che non arrossisce mai ; e ciò « au vu et au su de tout le monde ».

Occupazione della Città Eterna

Il 2 febbraio 1808, festa della Purificazione di Maria SS., il Papa aveva appena terminato, alla presenza dei Cardinali, la funzione della benedizione delle candele nella cappella del Quirinale, allorché i soldati francesi, con un colpo di mano, irruppero nell’Eterna Città, ponendo subito dei presidi in ogni strada ed in ogni piazza. Uscendo di Chiesa, i Cardinali ed il popolo furono costretti a passare tra fasci di armi, truppe armate e cannoni. I francesi disarmarono i gendarmi pontifici di servizio, occuparono Castel S. Angelo, ed incorporarono le truppe pontificie nell’esercito francese. Il colonnello pontificio, Bracci, che si oppose coraggiosamente a questa disposizione, fu chiuso in Castel S. Angelo e poi mandato in esilio. Simile sorte toccò agli altri fedeli ufficiali del Papa. Anche contro le finestre del Papa furono puntati dei cannoni, che però il Miollis fece poi togliere.

     I Francesi ruppero le relazioni diplomatiche. Ogni impiegato pontificio nato in Italia dovette ritornare al proprio paese. Tutti i Cardinali non romani dovettero, alcuni nel limite di tre giorni, altri di ventiquattro ore, lasciare il territorio degli Stati Pontifici, sebbene ce ne fossero dei vecchi, ed anche dei malati costretti a tenere il letto. Il Papa proibì loro di allontanarsi, ma quelli che avrebbero voluto ubbidire al Papa furono accompagnati al confine napoletano da guardie colla spada sguainata. Furono ventuno i Cardinali che dovettero andarsene, e fra essi il Card. Dor-ca, che era allora Segretario di Stato e che fu sostituito dal Card. Gabrielli (1). Il Miollis prese la direzione dello Stato, e così gli Stati della Chiesa diventarono di fatto una provincia francese.

     Nel giorno stesso dell’ingresso delle truppe francesi, il Cardinale Segretario di Stato stese una protesta, e la comunicò anche agli ambasciatori delle potenze straniere. Il generale Miollis chiese un’udienza dal Papa, e questi gliela concesse, ma gli dichiarò che finché le truppe francesi fossero rimaste a Roma, egli si sarebbe considerato prigioniero, e non avrebbe potuto intavolare trattative di sorta. Nello stesso tempo, il Papa fece sapere ai suoi che, finché fosse durata l’occupazione francese, egli non avrebbe lasciato la soglia del Suo palazzo.

     Ma non fu risparmiata la Corte Pontificia, anzi neppure la persona stessa del Papa. Incominciarono molestie, fastidi e seccature generali, che avevano per scopo di fiaccare la volontà di Pio VII. Così fu sciolta la Guardia Nobile; furono allontanati dal Papa i Cardinali che gli erano più cari; fu manomessa la posta, non esclusa la corrispondenza del Papa; si fecero stampare e si divulgarono a Roma ed all’estero, giornali e periodici

(1) Vedi lettera del Papa al Card. Caprara, 3 marzo 1808. 

pieni di calunnie contro il Papa e di grossolane offese contro la Sua dignità ed autorità (1); alcune comunicazioni pontificie, sottoscritte dal Segretario di Stato o dal Papa stesso, furono strappate dal luogo dove erano state affisse, fatte a pezzi, calpestate (1); a Roma e nelle provincie, molti personaggi fedeli al Papa furono maltrattati, imprigionati, esiliati; si frugò arbitrariamente nel carteggio riservato degli uffici pontifici e dello stesso Segretario di Stato, e si sequestrarono scritti e documenti (1). Quanto alle prepotenze minori, sarebbe difficile anche solo enumerarle.

     Il 16 marzo il Papa convocò quei Cardinali che Napoleone aveva ancor permesso gli stessero vicini, ed espose loro la Sua difficile situazione, concludendo con queste parole: « Ammoniamo, preghiamo dunque Napoleone, imperatore e re, che muti il suo animo e ritorni a quei sentimenti che aveva dimostrati al principio del suo regno. Si ricordi che il massimo Re è Dio, il quale sta al di sopra di tutti i re, e quindi anche di lui, per quanto grande sia il suo potere; che Dio non fa eccezione di persone e non tiene conto della grandezza di alcuno, anzi giudicherà con maggior rigore coloro che dominano sugli altri.     

      Sappiamo che ci aspetta una grande persecuzione, ma vi ci siamo preparati, ed attingiamo forza dalle parole del Divin Maestro: Beati coloro che soffrono per la giustizia ».

     L’ammonimento del Papa non ebbe alcun effetto. Anzi ! Napoleone il 2 aprile dichiarò che se il Papa non voleva unirsi alla Lega Italiana, egli avrebbe considerato ciò come intenzione di guerra; orbene, la prima

(1) Vedi la bolla del 10 giugno 1809.

 conseguenza della guerra (faceva sapere al Papa) è l’Invasione, e conseguenza di questa è il cambiamento del governo. Inoltre, con due decreti firmati da lui stesso, incorporava per sempre ed irrevocabilmente nel Regno d’Italia i possedimenti pontifici di Urbino, Ancona, Macerata e Camerino già occupati precedentemente, e vi mandava in vigore un codice napoleonico.

     Il 7 aprile compariva davanti al portone del Quirinale una squadra francese, chiedendo di entrare. La sentinella di guardia rispose che non poteva lasciar entrare una squadra straniera, ma che, se l’ufficiale desiderava presentarsi da solo al Papa, poteva ammetterlo. L’ufficiale si mostrò disposto ad entrare da solo; ma nel momento in cui la sentinella apriva il portone, tutta la squadra si lanciò dentro violentemente, disarmò le guardie pontificie ed arrestò tutti gli ufficiali ed i militi della Guardia Nobile, che furono rinchiusi in Castel S. Angelo.

    Si cercò di stornare il Governatore di Roma, Cavalchini, dalla sua fedeltà verso il Papa promettendogli onori, ricchezze ed altri vantaggi, qualora si mettesse dalla parte dei ribelli (1); ed avendo il Cavalchini respinto con orrore tali proposte, arrestarono anche lui, e senza neppur permettergli una visita alla casa paterna, lo rinchiusero tra le strette mura di una lontana fortezza, per l’unica colpa della sua esemplare e disinteressata fedeltà al Papa.

     La stessa sorte toccò al Card. Gabrielli, Segretario di Stato, che fu tradotto a Milano in attesa di ordini di Napoleone, il quale il 17 luglio 1808 scrisse al viceré

(1) Lettera di Cavalchini al Papa, 21 apr. 1808.

 d’Italia: « Ho saputo con piacere che il Card. Gabrielli fu tradotto a Milano. Bisogna lasciarvelo. Chiedetegli se vuol prestare il giuramento di fedeltà prescritto dal Concordato. Se no, mandatelo in un convento e confiscate i suoi beni. Tutto ciò senza rumore, senza scritti ! Abbiate cura che neppure i giornali ne parlino ». Si noti che il governo francese pretendeva che gli impiegati dei paesi tolti alla S. Sede giurassero fedeltà all’Imperatore di Roma, mettendoli così nella dura necessità di scegliere fra il tradire la loro coscienza e l’esporsi a gravi e prossimi pericoli.

   Si andò ancor oltre, reclutando truppe dagli Stati Pontifici per l’esercito francese, e tormentando i sudditi dei medesimi stati con astuzie, inganni e trucchi d’ogni sorta (1). Oltre a ciò, mettendo insieme alcuni cittadini di minor peso, si organizzò un governo civile, per potere, in caso di deposizione del Governo Pontificio, far apparire al mondo che gli stessi sudditi del Papa avessero buttato giù l’antico governo, schierandosi da parte dei francesi (2).

     Intanto si erano messe guardie francesi agli angoli della via che conduceva al Quirinale, e dal l° settembre si presero a perquisire le carrozze che uscivano dal palazzo del Papa; ed ormai il popolo andava sussurrando che si sarebbe dato l’assalto anche a questo palazzo. Nella supposizione che tenessero pel Papa, furono soppressi i monasteri, le suore furono espulse dalle sacre mura, i preti furono umiliati, perseguitati, cacciati o strappati dal loro posto di lavoro (1). Alle tipografie era stato vietato, sotto pena di morte, di stampare

(1)         Bolla 10 giu. 1809.

(2)         Ordinanza pontificia 24 ag. 1808.

alcunchè riguardo a queste cose (1): il che era tanto più grave per la S. Sede, in quanto che, sebbene essa pro¬testasse solennemente in ogni occasione contro le ingiustizie francesi, non poteva trovare nessuna tipografia che osasse sobbarcarsi alla pubblicazione di tali proteste.

(1) Verbale della seduta concistoriale 16 mar. 1808.

Coraggio di due Vegliardi

     Al posto del Card. Gabrielli, cbe, come abbiamo visto, era stato trascinato via da Roma, il Papa aveva nominato Suo Segretario di Stato il Card. Pacca. Ora, siccome questi si diportava verso i Francesi con molta moderazione, il Papa, in occasione di un’udienza, gli disse: « Signor Cardinale, temo che per Roma si vada dicendo che ci siamo addormentati. Bisogna far vedere che siamo svegli. Diriga al generale francese un’energica nota per le prepotenze ultimamente commesse ».

     Del resto, anche il Pacca si era presto accorto che i Francesi non facevano altro che abusare della continua arrendevolezza della S. Sede. Una volta il generale Miollis dichiarò crudamente allo stesso Pacca che aveva ordine di far impiccare o fucilare chiunque fosse tanto temerario da opporsi a’ suoi comandi.     

     Con tali parole egli mirava naturalmente al Cardinale medesimo ma questi rispose: «Signor Generale, da quando siete entrato in Roma, potete esservi convinto che i ministri di Sua Santità non si lasciano far paura dalle minacce. Quanto a me, farò fedelmente quello che S. S. mi ordinerà, qualunque sventura mi sovrasti ».

      Il 6 settembre, mentre venivano presentati al Card.Pacca dei visitatori, entrarono da lui due ufficiali francesi, un maggiore ed un capitano, i quali, appellandosi ad un ordine del Miollis, gli intimarono di lasciar Poma l’indomani stesso. Il Cardinale rispose tranquillamente che egli poteva ricevere ordini soltanto dal Papa, e che perciò si sarebbe recato da S. S. per chiedergli che cosa dovesse fare. Il maggiore, però, gli fece sapere, che, secondo l’ordine del Miollis, egli non poteva permettere al Cardinale di lasciare la sua stanza. Allora il Pacca chiese almeno il permesso di avvisare per iscritto il Papa di ciò che stava succedendo.

     Ciò gli fu consentito, ed il biglietto del Pacca fu fatto avere al Papa per mezzo di un impiegato. Pochi minuti dopo, mentre il Cardinale e gli altri stavano aspettando una risposta, si aprì la porta, ed entrò il Papa in persona, il quale, dichiarando ai due ufficiali che il Segretario di Stato di S. S. non aveva nulla da fare col generale di Napoleone, prese il Cardinale per mano, e se lo condusse nel Suo appartamento privato. I due ufficiali rimasero a guardare come intontiti, finché, non sapendo che dire nè che fare, se ne ritornarono dal Miollis, il quale per allora non fece altro.

     « Nell’ombra del palazzo romano — nota lo Chateaubriand — due vegliardi (Pio VII ed il Card. Pacca) lottano contro un potere che mette alle strette tutto il mondo. L’uomo che si prepara alla morte è invincibile… Un prete settantenne, senza neppure un soldato teneva in iscacco l’impero » (1). Un distinto personaggio Russo, che si trovava allora a Roma, ci dà relazione di questo raro fenomeno: « Ci sono in Roma due governi

(1) CHATEAUBRIAND, Vita di Napoleone, (Trad. ungh. di D. Antal, Budapest, senza data, pp. 77-78).

contrari. Agli ordini dell’uno stanno milizie, gendarmi, fortezze, carceri; in una parola, tutto ciò che può servire ad imporre l’ubbidienza e a dar forza ai comandi ed agli ordini; ma a questo governo non ubbidisce nessuno, e per ottenere l’esecuzione dei comandi e degli ordini bisogna sempre ricorrere alla violenza. L’altro, all’incontro, fu dal primo privato di tutti codesti mezzi; rinchiuso in un palazzo come in una prigione, circondato da truppe nemiche, può far conoscere al pubblico la sua volontà soltanto per mezzo di brevi avvisi; ma a questi tutti obbediscono immediatamente» (1). Del resto, lo stesso Radet si lamentava col ministro degli esteri di Parigi che « il Papa comandava molto più efficacemente colla punta del suo dito, che non i Francesi colle loro baionette » (2).

     E’ veramente interessante e caratteristico, che, mentre le potenze armate d’Europa s’inchinavano a Napoleone, un Papa disarmato, indifeso e vecchio, osasse coraggiosamente, costantemente ed irremovibilmente resistergli. Ma è anche dolorosamente istruttivo, per quanto poco confortante, constatare come in tutto il mondo non ci fosse una potenza che osasse dire una parola in favore del Papa, levarsi a sua difesa, od anche solo mettersi dalla sua parte. Anzi, come nota un insigne biografo di Pio VII, i principi si sentivano persino irritati dalla resistenza del Papa, la quale era, davanti ai loro sudditi, una vergogna per essi che non sapevano far altro che cercare vilmente e servilmente il favore dell’imperatore dei francesi (3).

(1)         Il Pontificato di Pio VII, o. s. I, 373.

(2)         Ibidem I, 416.

(3)         Ibidem I, 354.

Consummatum est !

     Possiamo immaginare il dispetto di Napoleone al conoscere la condotta coraggiosa ed irremovibile del Papa. Solo la guerra di Spagna e quella dichiaratagli dall’Austria poterono trattenere per qualche tempo lo sfogo della sua ira. Però non dimenticava, e dopo la presa di Vienna emise da Schonbrunn (17 maggio 1809) due decreti. Col primo decreto, gli Stati Pontifici venivano annessi all’Impero Francese; Roma era dichiarata città «imperiale e libera»; i pubblici tributi non spettavano più al Papa, ma all’Imperatore, il quale intanto trovava modo di far rendere dai domini del Papa due milioni all’anno; si lasciavano però esenti da tributi e dalla giurisdizione francese i palazzi, i poderi e le sostanze proprie del Papa. Col secondo decreto sì disponeva che una cosidetta Consulta, presieduta dal gen. Miollis, assumesse, col l° giugno, il governo dello Stato Pontificio, e che col l° gennaio 1810 vi andasse in vigore il governo costituzionale.

     Il 10 giugno fu pubblicato per tutta Roma, fra spari di gioia, il decreto imperiale, che fu poi anche distribuito a stampa per le strade; ed intanto si tolse da Castel S. Angelo lo stemma pontificio, a cui fu sostituita la bandiera francese.    

     Quando il Card. Pacca portò al Papa uno di quei fogli che venivano distribuiti per le strade, tutti e due ripeterono le parole dette da Nostro Signore in croce: «Consummatum est ! »

     Lo storico protestante Tbiers osserva: « Napoleone aveva tosto raggiunto il colmo de’ suoi inauditi procedimenti, decidendo di detronizzare Pio VII e di togliergli lo scettro lasciandogli la tiara… Che così si diportasse l’autore del Concordato!… L’uomo più grande non è più cbe un fanciullo, dal momento che si lascia dominare dalle passioni » (1).

     In una lettera del 10 giugno al Miollis, l’Imperatore scriveva: « Non tollerate alcuna opposizione. Anche in casa del Papa, fate arrestare tutti coloro cbe intrigano contro la pace pubblica e la sicurezza de’ miei soldati. Quel prete (così chiama il. Papa!) abusa della sua posizione, ma merita meno riguardo che qualsiasi altro». In un’altra lettera di ugual data, l’Imperatore dava al re di Napoli, Murat, questo ordine: «Nessun asilo dev’essere rispettato (qui è chiara l’allusione all’appartamento del Papa) se non si ubbidisce al mio decreto; e non si deve, sotto alcun pretesto, soffrire alcuna resistenza. Se il Papa, contro lo spirito del suo stato e del Vangelo, predica la rivolta, e vuol servirsi dell’immunità della sua casa per far stampare circolari, deve essere arrestato». In un altro ordine, dato al conte Gaudin, ministro delle finanze, si trovano ancora queste

(1) « Napoléon avait bietót mis le comble à ses procédés inouis en prenant la résolution de détróner Pie VII, et. de lui òter le sceptre en lui laissant la tiare… L’auteur du Conoordat se conduire de la sorte!… l’homme le plus grand n’est plus qu’un enfant, dès que les passions s’emparent de lui », (THIERS: Histoire du Con-sulat et de l’Empire, 1. XXXV, Bruxelles, 1851, tome III,pag. 260).

 espressioni dell’Imperatore: « Trattate col Papa con riguardo ed attenzione. Gli si possono lisciare i mobili di casa, i quadri, gli strumenti, i palazzi che vuol ritenere, ed i poderi da lui indicati; ma non si tolleri altrimenti alcuna opposizione» (1).

(1) Correspond ance de Napoléon I, publiée par Napoléon. III, 1858, XIX, 21.

L’unica arma del Papa

      La Corte Pontificia, in seguito alle continue persecuzioni, ingiustizie, prepotenze e spogliazioni che si succedevano ininterrottamente dal 2 febbraio 1808, aveva ragione di temere anche l’arresto del Papa. Perciò, fin dalla Settimana Santa del 1806, si era occupata della redazione di una Bolla, da pubblicarsi un momento prima dell’ultima tribulazione, per fulminare la corrispondente pena ecclesiastica. La redazione di detta Bolla fu affidata al Cardinal Di Pietro, e fu approvata dal Papa, che la fece anche stampare. La Bolla di scomunica era dunque già pronta nel 1806. Tuttavia il Papa rimandava sempre l’uso di codesto mezzo spirituale; anzi, nel frattempo, si erano anche fatti bruciare tutti gli esemplari stampati della Bolla. Finalmente però il Papa vide e sentì che il calice era colmo e che non si poteva aspettar oltre. Il Card. Di Pietro rifece la Bolla di scomunica, e nella notte tra il 10 e l’11 giugno fu affissa nei luoghi stabiliti la Bolla « ad perpetuam rei memoriam ».

     Questa Bolla è molto estesa. Dapprima il Papa elenca le ingiustizie e le violazioni di diritto sofferte da parte dei Francesi ; fa notare di aver sempre sperato in un miglioramento di condizioni « ma — si domanda — che ne fu di codesta nostra speranza? quali frutti abbiamo finalmente raccolti da tanta nostra arrendevolezza e mitezza ? » Quindi la Bolla si rifa alle violazioni di diritto sofferte dal 2 febbraio 1808 in poi. « Siccome — dice — gli usurpatori non ottenevano nulla colle minacce, si decisero ad un’altra condotta: con una lenta, benché molto grave e spietata persecuzione s’industriarono di indebolire la nostra costanza. Perciò ci tennero chiusi nel nostro palazzo come in una prigione, e dal 2 febbraio non passò giorno, che non fosse segnalato da qualche nuova offesa alla S. Sede od assalto alla nostra coscienza ».

     La Bolla conclude l’enumerazione delle nuove offese con queste parole: « tormentati, oppressi ed ogni giorno più ostacolati nell’esercizio del nostro duplice ufficio con offese e minacce, ringraziamo Dio onnipotente e misericordioso se, per il Suo particolare ed evidente aiuto, per la nostra costanza, per la saggezza dei ministri rimastici, per la fedeltà dei nostri sudditi, e finalmente per il fervore dei fedeli, ci rimase finora almeno un’ombra ed apparenza del nostro duplice po¬tere. Del resto, benché angustiati in ogni modo possibile, non ci duole tanto della nostra sorte presente quanto della sorte futura dei nostri persecutori. Oh se potessimo, anche col sacrificio della nostra vita, impedire la loro eterna perdizione ed assicurare la loro salvezza, come li abbiamo sempre amati, ed anche al presente non cessiamo di amarli ! Oh se potessimo non aver mai da allontanarci dallo spirito di mitezza… Ma ormai non c’è più luogo a lunga tolleranza… D’altra parte, è impossibile che ognuno non veda non esserci più speranza che gli autori di questi attentati, ascoltando ammonizioni e consigli, ritornino in sè. Che altro ci rimane, se non rivolgerci all’estremo mezzo? Non dobbiamo piuttosto temere che ci abbiano poi ad accusare degnamente e con diritto di aver fatto ciò in ritardo, anziché senza matura riflessione e con precipitazione ? »

     Segue poi la sentenza di scomunica « maggiore » contro coloro che avevano comandato, promosso, consigliato, sollecitato od eseguito gli attentati commessi a Roma e negli Stati Pontifici contro la libertà della Chiesa ed i diritti della S. Sede; dalla quale scomunica, fuori del caso di morte, nessuno poteva assolvere, se non il Papa.

     Le ultime parole della Bolla, che porta la data del 10 giugno 1808, esprimono la speranza che i peccatori si convertano: « Per noi — dice il Papa — non spunterà giorno più gradito e più lieto di quello, in cui potremo, per la Divina Misericordia, stringerli al nostro seno, e vedere i nostri figli ritornare all’ovile del Signore ».

     La pubblicazione di questa Bolla, già pronta da mesi, era l’unica arma che il Papa poteva usare contro i Suoi persecutori.

L’arresto del Papa

     Dopo quanto era avvenuto, tutti presentivano, anzi tenevano per certo, elle ormai sarebbe venuta la volta anche dell’arresto del Papa. Fu fatta presente a Pio VII questa possibilità di cui egli stesso era convinto. I suoi sudditi fedeli fecero anche per Lui diversi piani di fuga, e persino di difesa armata (1); ma il Papa respinse ogni proposta del genere, ed esortava tutti alla pace, alla pazienza, alla rassegnazione alla volontà di Dio.

     Se non fecero più in fretta ad arrestarlo, fu solamente perché anche agli occhi dei Francesi appariva un delitto temerario, e nello stesso tempo un’avvilente vigliaccheria, arrestare il Papa, vecchio ed inerme, mite ed indifeso. Ciò risulta da parecchie circostanze, come, p. es., le seguenti:

a)          Sebbene fosse già deciso l’arresto del Papa, tuttavia se ne andava tirando in lungo l’esecuzione.

b)          Le operazioni per l’arresto furono incominciate il 6 luglio 1809, nell’oscurità della notte, dopo le due a. m.

(1) Di questi piani parleremo particolareggiatamente nel c. IV della 2.a parte.

 c)          Si sarebbe dovuto procedere all’occupazione del Quirinale all’una dopo mezzanotte, ma non si osò farlo, perché il generale Radet, che ne era incaricato, venne a sapere che nella torre davanti al portone del Quiri¬nale stava in vedetta uno (dico uno) degli ufficiali della guardia pontificia. Solo quando, alle 2,35, quell’ufficiale si ritirò, si diede il segnale dell’assalto.

d)          Lo stesso generale che compì l’impresa agì evidentemente contro la sua volontà, contro i suoi migliori sentimenti e contro l’ispirazione del suo cuore, eseguendo l’ordine ricevuto soltanto perché si credeva a ciò obbligato dal giuramento militare e pensava che, qualora egli avesse rifiutato di farlo, l’ordine sarebbe stato ugualmente eseguito da un altro, mentre egli avrebbe probabilmente pagato il suo rifiuto colla morte.

e)          Da principio nessuno osava dare per iscritto l’ordine di arrestare il Papa (un ordine di quella portata!)

Il Miollis scrisse soltanto l’ordine di arrestare il Segretario di Stato Pacca, ed anche questo soltanto poche ore prima dell’esecuzione. Quanto al Papa, ne comandò l’arresto a voce, limitandosi, nello scritto, ad ordinarlo condizionatamente « in caso di resistenza ».

f)           Il Radet, fino all’ultimo momento (e cioè fino alle 9 di sera del 5 luglio) non comunicò l’ordine e le istruzioni per l’arresto nemmeno a’ suoi ufficiali, e cercò in tutti i modi, per mezzo di pattuglie di ronda e disposizioni di polizia, di nascondere al pubblico la sua intenzione, facendo anche in modo che neppure le truppe consegnate avessero alcun sospetto di quel che doveva avvenire.

g)          Per invadere l’indifeso palazzo del Papa, si fece uso d’una forza armata assai superiore al necessario.

Si fece venire apposta da Napoli un Battaglione di 800 uomini, si occuparono i ponti, si tennero tutto il giorno consegnate nelle caserme tutte le truppe. La squadra che doveva assalire il Quirinale era composta di fanti, di poliziotti, di gendarmi, e di alcuni sudditi pontifici ribelli, cosicché erano almeno 145 gli uomini che dovevano prender parte attiva all’assalto.

h)          Nel palazzo pontificio non entrarono palesemente, ma di nascosto, a guisa di ladri. Dapprima occuparono silenziosamente la torre del Quirinale, per impedire che qualcuno desse l’allarme colla campana. Poi 30 soldati scalarono il muro del giardino, altri 25 si diressero verso la porta minore, altri 50 entrarono in una casa vicina al Quirinale, passando per la finestra di una stanza senza serratura, e lo stesso gen. Radet, con 40 uomini, tentò di entrare nel Quirinale passando per il tetto della Dataria; ma le scale si ruppero sotto il peso degli uomini, e così fu costretto ad entrare palesemente per il portone, che venne subito aperto dalla guardia pontificia, la quale aveva l’ordine di non dar segno di resistenza in caso di assalto armato.

i)           Lo stesso gen. Miollis, che era stato, in Roma, l’autore dell’ordine d’arresto, comparve sul luogo soltanto in abito borghese.

1) Come la sbirraglia che aveva arrestato Gesù era stata guidata dal traditore Giuda, il quale era ladro (Jo., XII, 6), così la soldataglia che irruppe nell’appartamento del Papa fu guidata da un servo della Corte Pontificia, che era stato licenziato per furto.

Ma vediamo per ordine i vari atti dell’arresto del Papa: Napoleone aveva designato e mandato a Roma per arrestare il Papa il generale Radet, a cui però il compito assegnatogli fu comunicato soltanto il 4 luglio dal Miollis. Spiacque al Radet tale ordine, come egli stesso confessa in una sua lettera del 1814, e perciò vi fece opposizione, come pure fece nuove osservazioni la notte stessa dell’arresto. Ma il Miollis non ne tenne conto, ed il Radet fu costretto a marciare contro il Quirinale. Nel palazzo non incontrò resistenza, perché il Papa non ne aveva dato ordine, «volendo scegliere Dio solo per suo difensore». Del resto, sarebbe stata inutile la resistenza armata, avendo i Francesi già da lungo tempo disarmato le milizie pontificie di qualche importanza. Fu dunque senza alcun bisogno, che gli invasori sfondarono le porte con scuri e col calcio dei fucili e ruppero i vetri delle finestre.

Il Cardinal Pacca si era appena buttato sul letto per qualche ora di riposo, allorché suo nipote venne a dirgli che i Francesi erano già nel palazzo. Affacciatosi alla finestra, il Cardinale dovette convincersi della verità della notizia, che veniva anche confermata dal rumore che i soldati facevano, rompendo usci e finestre. Così com’era, in vestaglia da notte, corse subito a svegliare il Papa, per informarlo di ciò che stava accadendo. Il Papa si alzò tranquillamente, si buttò sulle spalle il manto di porpora, e si affrettò a recarsi nella sala di ricevimento. Fu qui che il già menzionato servo licenziato per furto condusse il gen. Radet.

Quando il Radet si trovò davanti il Papa, fu preso da evidente turbamento. Egli stesso scrive: « Un sacro rispetto prese tutto il mio essere ed ogni forza della mia anima. Quando, alla testa di una squadra armata mi trovai davanti a quel sant’uomo, mi corse spontaneamente per tutte le membra un tremito deprimente: non vi ero preparato e non sapevo come liberarmene. Che fare? che dire? come incominciare? questo era il difficile compito della mia missione ».

Radet si tolse il berretto, si avanzò alquanto con passo incerto, poi, con voce tremante, cercando le parole, disse che l’ordine ricevuto gli era molto sgradito e doloroso, ma che, avendo giurato obbedienza, era costretto ad eseguirlo.

« Che volete? » chiese il Papa, volgendo su di lui uno sguardo pieno di maestà.

« Santo Padre — rispose il Radet — in nome del mio Governo, Vi prego di abdicare ufficialmente alla Vostra sovranità temporale. Se Vostra Santità rifiuta di farlo, ho l’ordine di condurla dal gen. Miollis » (1).

     Il Papa, senza mostrare il più piccolo turbamento, rispose: « Signor Generale, voi credete di dover eseguire l’ordine dell’Imperatore, perchè gli avete giurato fedeltà ed ubbidienza. Ora considerate quanto più dobbiamo difendere i diritti della S. Sede noi, che ci siamo legati con tanti giuramenti. Il nostro dominio temporale appartiene alla Chiesa, e noi non ne siamo che gli amministratori. L’Imperatore può farci a pezzi, ma non potrà mai ottenere da noi l’abdicazione ».

Il Radet, sempre turbato, soggiunse: « S. Padre, so che l’Imperatore ha molti obblighi verso V. Santità ».

« Sì — aggiunse il Papa — e più che voi non sappiate. Ma insomma, che ordini avete? »

« Santo Padre! — rispose il Radet — il mio incarico è doloroso, ma

(1) CHATEAUBRIAND, Vita di Napoleone, (Trad. Ung. di D. Antal, senza data, p. 79). — A. MESZLENYI: A Jozefinizmns Kora Magyarorzdgon (L’epoca del Giuseppinismo in Ungheria) 1934, pag. 168.

poiché V. Santità ha cosi deciso, devo dirle che ho l’ordine di condurla con me ».

Il Papa chiese se doveva andar solo. Avendo il Radet risposto che poteva condurre con sé il Card. Pacca, questi chiese subito al Papa di poter aver l’onore di accompagnarlo, ed il Papa acconsentì.

     Poi il Papa chiese due ore di tempo per prepararsi, ma il Radet rispose che non era autorizzato a fare tale concessione ; mandò tuttavia un ufficiale della guardia a chiedere in proposito istruzioni al Miollis: la risposta fu che « il Papa ed il Card. Pacca dovevano partire subito ». Così il Radet non concesse al Papa neppure il tempo di prendersi un po’ di roba o di denaro.

     Mentre il Papa s’intratteneva nella stanza attigua, ad un dato momento il Radet volle sostenerlo. « Quando la mano di S. Santità — scrive il generale — fu nella mia, non potei soffocare il sentimento di ossequio che mi penetrava fortemente, e baciai con venerazione la sacra mano e l’anello del Pescatore ». Anzi, il Buon Radet propose di ritirarsi, affinchè il Papa potesse affidare a chi volesse i suoi ordini, segreti e valori. Ma il Papa rispose: « Se non ci preoccupiamo della nostra vita, tanto meno ci preoccupiamo dei beni di questo mondo ». E preso con sè soltanto il breviario, il Papa s’avviò per lo scalone del Suo Palazzo come prigioniero di Napoleone.

Alle 3,55 del mattino il Papa entrò in carrozza col Card. Pacca. Al Radet, che gli Chiese se si sentiva bene, rispose: « Mi sento bene. Nostro Signore ha patito, di più ». Intanto le guardie chiusero a chiave tutti gli sportelli della carrozza, ed abbassarono le cortine, fermandole con chiodi.

Anche in Pio VII si compirono le parole che Gesù aveva dette al Suo primo Vicario in terra: « Quando sarai vecchio, stenderai le mani, ed altri ti cingerà, e ti condurrà dove tu non vuoi » (Jo., XXI, 18).

     Ed il Miollis comunicava a Napoleone che aveva eseguito l’ordine di arrestare il Papa.

Il viaggio del Papa prigioniero

     Quanto cortese ed educato si era mostrato il Radet, altrettanto indegno d’un ufficiale fu quello che fece il Miollis, quando, nel dare a Napoleone ampia relazione dell’arresto del Papa, ricorse a basse menzogne, scrivendo, p. es.: « Il Papa resistette con barricate… Radet potè entrare nel Quirinale, soltanto sfondandone le porte ed i muri (!). Il Papa si era fatto circondare da tutti ( !) i suoi Cardinali e Prelati, incaricati di approvare il suo modo di resistenza » (Relazione del 6 luglio). Ed il giorno dopo (7 luglio) volle dimostrare che l’arresto del Papa si era reso necessario, perchè prima di esso stava per scoppiare una ribellione.

Eppure il Card. Consalvi ci dice che il Miollis era un uomo « disinteressato, modesto, energico, padrone di sè, libero da vanità ed incorruttibilmente giusto ». Riesce dunque difficile comprendere come mai abbia steso una simile relazione, tanto più che non è usanza degli alti gradi di un esercito presentare ai loro supremi comandanti relazioni così contrarie alla realtà, false e bugiarde — specialmente poi quando si tratta di comandanti come Napoleone, coi quali non è lecito scherzare.

     Perciò lo scrittore di queste righe non sa dare, di codesta evidente contraddizione, altra spiegazione che questa: e cioè che Napoleone abbia preteso dal Miollis una relazione di tal fatta, che potesse servirgli a giustificare l’arresto del Papa agli occhi dell’Episcopato e del popolo. Questa spiegazione è confermata anche dalla condotta del Miollis nei confronti di quei sudditi pontifici che avevano venduto ai Francesi il loro servizio contro il Papa: subito dopo l’arresto, essi corsero per avere la mercede promessa (i denari di Giuda) dal Miollis, il quale li pagò immediatamente, e poi, rivolto al suo ufficiale d’ordinanza, esclamò: « Maintenant, messieurs, chassez cette canaille! »

     Abbiamo fatto notare che, contro il piccolo numero dei traditori, la moltitudine dei cittadini accompagnava con accorata fedeltà la sorte del Papa, la cui prigionia e deportazione li riempiva di tristezza e dolore. Le vie di Roma furono coperte di piccoli affissi coi versi di Dante (Purg. XX, 86-89):

« Veggio… nel Vicario suo Cristo esser catto,

« Veggiolo un’altra volta esser deriso,

« Veggio rinnovellar l’aceto e ’l fele ».

     Tra le altre cose, nella sua relazione, il Miollis diceva (o forse era costretto a dire) che rispetto al Papa « aveva tenuto presente ogni riguardo possibile ». Quanti riguardi avessero per l’augusta persona del Papa coloro che l’accompagnavano, lo vedremo subito.

     Il viaggio del Papa fu pieno di incomodi, sofferenze e privazioni. Già il fatto stesso clie egli, a 67 anni di età, era stato disturbato dal suo sonno notturno, e fatto partire all’improvviso, senza preparativi, con un solo vestito, senza denari e senza servi, ci permette di immaginare gli scomodi del viaggio. S’aggiungeva il caldo afoso di quei giorni, tanto più insopportabile in una vettura coi finestrini chiusi, e persino colle tendine inchiodate, che non permettevano neppure di guardar fuori.

     A mezzogiorno si fece tappa in un’osteria di montagna, così povera che ci si trovò una sola sedia. Verso sera il Papa chiese da bere, ed un sergente gli porse una bottiglia d’acqua sporca attinta ad una pozzanghera lungo la strada (1).

     Ancor quella notte fecero passare il Papa in una carrozza postale. Dopo diciannove ore ininterrotte di carrozza, alle 11 di notte arrivarono nel villaggio di Radicofani, dove il Papa avrebbe potuto riposarsi dalle fatiche del viaggio in una stanzuccia di una misera osteria. Avrebbe! perchè il caldo opprimente, l’impossibilità di cambiarsi, la febbre che tormentava il Papa in seguito ad un travaso di bile, gli rendevano impossibile dormire.

     Ciò nonostante, il Radet già al mattino presto sollecitò la partenza, perchè aveva ricevuto l’ordine di arrivare a Firenze entro quello stesso giorno (7 luglio).      

     Per via si ruppe una ruota della carrozza, la quale ribaltò, ed il Papa dovette esserne tirato fuori per un finestrino.

(1) CHATEAUBRIAND, O. C., pag. 80.

      A Firenze, Pio VII fu condotto alla Certosa, in una cella custodita da gendarmi, e solo il Superiore della casa potè avvicinarlo. Era sperabile che qui potesse in qualche modo riposare; ma lo fecero alzare quella stessa notte per proseguire il viaggio, ed ormai senza la compagnia del Card. Pacca, che l’aveva seguito fedelmente fin qui, ma che ora fu separato da Lui e sostituito da un servo. Sebbene fosse Domenica, non si permise al Papa di dire la Messa, e neppure di sentirla.

     Il viaggio da Firenze a Genova durò tre giorni continui, coll’interruzione di una sola notte. A nessuno fu permesso di avvicinarsi al Papa, che non poteva neppure parlare col servo senza la presenza dell’ufficiale di turno. Ugualmente umiliante e tormentoso fu il resto del viaggio. In nessun luogo fu permesso ai Preti od ai Vescovi di avvicinarsi al Papa. Allo stesso Cardinal Fesch, zio di Napoleone, fu impedito di consegnargli del denaro, come desiderava. Non era permesso suonare le campane in onore del Capo della Chiesa.

     All’arrivo a Valenza (Dròme), dove era morto Pio VI, Pio VII desiderò di visitare la tomba del Suo antecessore. Anche questo gli fu negato. L’avevan proprio separato dal mondo!

     Soltanto il popolo, nonostante ogni divieto, accorreva in massa a dimostrare al Papa la sua fervente venerazione — il più delle volte in distanza, perchè si cercava di impedire a tutti di avvicinarsi alla carrozza. Vedendo il Papa circondato da gendarmi, le donne piangevano e gridavano contro i gendarmi:

“ Cani! cani! »; molti stavano ad aspettare in ginocchio lungo la strada il passaggio del Papa; le madri sollevavano i bambini, altri tendevano corone, medaglie, statue, per ricevere su di sè, sui loro cari e su quegli oggetti la benedizione del Vicario di Cristo; i signori cercavano di ottenere con denaro di potersi avvicinare al Papa; di notte si accendevano fiaccole e cortei di lampioni accesi precedevano la carrozza; davanti alle case in cui si fermava il Papa, si cantavano inni con accompagnamento di strumenti. Contro codeste masse, erano impotenti anche i gendarmi, che il più delle volte dovevano ricorrere a stratagemmi per aprirsi il cammino tra la folla. Un simile «stratagemma riuscito» fu quello del Radet, che si mise a gridare: « In ginocchio, perchè il S. Padre sta per dare la benedizone! » e quando tutti stavano tranquil-amente inginocchiati aspettando la benedizione del Papa, il cocchiere frustò i cavalli e li lanciò a tutta corsa.

     Il 21 agosto 1809 il Papa arrivò al primo luogo stabile della sua prigionia e del suo esilio, e cioè a Savona, dove doveva rimanere tre anni.

Napoleone ha paura

     Napoleone — quando venne a sapere come tutti gli strati della popolazione accompagnassero il Papa con ossequente amore, attaccamento, compassione e meraviglia; come nelle chiese si pregasse pubblicamente per il Papa prigioniero; come l’opinione pubblica si volgesse contro l’Imperatore, mentre persino nel consiglio di stato i suoi uomini più fedeli erano spaventati alla notizia dell’imprigionamento del Pa¬pa — ebbe paura.

     Sebbene l’idea dell’arresto del Papa fosse stata tutta sua, ed egli stesso ne avesse incaricato, prima il Murat, poi il Miollis, incominciò ora a lavarsene le mani come Pilato. In data 18 luglio 1809 scrisse al ministro di polizia Fouché:

« Sono spiacente che si sia arrestato il Papa: è una grande pazzia. Bisognava arrestare il cardinale Pacca e lasciare il Papa tranquillo a Roma; ma, insomma, non c’è rimedio: quel ch’è fatto è fatto… Il miglior luogo in cui lo si potrebbe collocare, sarebbe Savona… Non m’oppongo, qualora finisca la sua demenza(!), a che egli sia rimandato a Roma… Fate sorvegliare la sua corrispondenza(!)». Una simile lettera diresse a Cambacérès, ed un’altra di nuovo a Fouché il 6 agosto.

     Non è possibile, a mente calma, pensare che alcuno potesse osare di comandare o condurre a termine un affare di tanta importanza storica, come l’arresto e la deportazione del Papa, fuori dell’Imperatore, o senza suo previo consenso, anzi, senza suo ordine. Se qualcuno avesse osato tanto, la sua «grande pazzia », come la chiama Napoleone, non sarebbe rimasta senza un’esemplare e pubblica punizione, nè sarebbe mancata la riparazione e l’immediata liberazione del Papa. Ma non ne fu nulla. Anzi, l’unico debole rimprovero espresso da Napoleone nelle succitate lettere non toccava neppure le persone responsabili dell’arresto del Papa.

     Frattanto Napoleone ordinò ai giornali il più rigoroso silenzio riguardo all’arresto, al viaggio ed alla prigionia del Papa a Savona: non era neppur permesso menzionare il nome di Pio VII. Potevano invece pubblicarsi articoli per sviare la pubblica opinione, diametralmente opposti alla verità. In un articolo, firmato Daunou, p. es., si leggeva: « Il Papa fece di tutto per rendere superflua la sua permanenza a Roma. Anzi, alcuni suoi fedeli resero realmente pericolosa la sua presenza colà. Il 6 luglio il Papa si allontanò da Roma all’insaputa dell’Imperatore, e si recò a Savona, dove Sua Maestà ne assicurò il ricevimento ». Haussonville, nell’opera « L’Eglise Romaine et l’Empire Romain », a proposito di simili articoli osserva: « Napoleone, dopo aver ingannato tutto il mondo, cercò di indurre in errore anche il suo popolo e la posterità ».

     Naturalmente, in un affare così capitale, l’ordine di mantenere il segreto riuscì vano. « Dappertutto — scrive il Thiers — disapprovavano Napoleone come uomo politico, sebbene continuassero ad ammirarlo come eccellente generale».   

     Oppure, come dice il Dr. G-. C. Weisz: « Napoleone era ammirato, ma era temuto; il Papa era prigioniero, ma era amato. L’animo della Francia, nell’interesse dell’oppresso, si volse contro l’oppressore ».

La prigionia di Savona

     A Savona, il Papa fu alloggiato nel palazzo vescovile. Al di fuori, era un palazzo; anzi, per ordine di Napoleone, in principio si circondò il Papa di lusso esterno: gli si assegnarono carrozze e cavalli, si corrispondevano pel suo mantenimento centomila franchi al mese, la sua camera era ornata di uno splendido lampadario, sul suo scrittoio avevano messo un calamaio d’oro. Tutta questa esteriorità non aveva altro scopo, che di persuadere il mondo che il Papa non era prigioniero.

     Eppure, era prigioniero nel senso stretto della parola, e la Sua vita non differiva in nulla da quella dei carcerati comuni: era tenuto sotto rigorosa custodia, non poteva aver comunicazione coll’esterno; Napoleone aveva persino proibito che gli lasciassero anche solo un segretario, non gli rimaneva alcuna distrazione. Più tardi, l’Imperatore gli tolse anche le carrozze, ridusse la Sua provvisione mensile, prima a quindici o venti mila franchi, e poi ancora di tanto, che il Papa doveva stentare la vita con una somma che potrebbe oggi equivalere a cinque lire al giorno.

      Non gli veniva consegnata la Sua corrispondenza personale, e talora gli furono anche tolti i libri, anzi persino gli oggetti di più necessario uso.

Per turno, un ufficiale dei gendarmi montava giorno e notte la guardia intorno alla stanza del Papa, per far osservare le istruzioni di Napoleone. Fu allontanato persino il confessore del Papa (1). L’unico favore che Napoleone concesse al Papa, fu di mettere « a suo servizio » due servitori, naturalmente tutti due coll’incarico di fare da spie: il servo che dormiva nella camera attigua a quella del Papa doveva ascoltare e riferire persino i sospiri e le esclamazioni che sfuggivano al prigioniero durante la notte (2); cosicché a Parigi si conoscevano anche i più segreti pensieri del Papa. L’unica persona, che in segreto aveva un po’ di buon cuore verso il Papa, era lo Chabrol, cui spettava provvedere alla casa del Papa (3); ma anche lui doveva diportarsi secondo le intenzioni di Napoleone: così, p. es., faceva avere al Papa soltanto il giornale ufficiale « Le Moniteur », ed anche di questo soltanto quei numeri che contenevano notizie sfavorevoli alla Chiesa, per togliere sempre più al Papa la voglia di resistere.

Perciò il Papa non voleva neppur valersi di quel po’ di libertà che gli lasciavano. Del « palazzo » usava solo tre piccole camere ad una sola finestra: in una s’intratteneva di giorno, in un’altra dormiva, e nella terza dimorava uno dei servi. Il suo vitto ordinario

(1)         Relazione del Lebzeltern, 16 mag. 1810.

(2)         G. C. WEISZ: Storia Universale, (Trad. ung. di F. Szalxi, Esilila 13.a ediz. 1897-1905. voi. XXII, pag. 278).

(3)         HAUSSONVILLE, JOSEPH OTHENIN DE CLERON, Négoeiations avec Pie VII à Savone, voi. IV, pag. 96.

 era verdura ed un po’ di pesce, eccetto clie qualche buona persona gli mandasse altro di fuori, il che da principio non era proibito. Il Papa non uscì mai dal palazzo.

     La situazione del Segretario di Stato era ancor più aspra. L’ora più amara pel Card. Pacca fu quella in cui fu strappato dal fianco di Pio VII. Poi fu trascinato nella tristemente famosa fortezza alpina di Fenestrelle, fino allora prigione di galeotti: e qui doveva soffrire per tre anni e mezzo. La prigione di Fenestrelle voleva dire maggiori sofferenze che qualunque simile stabilimento di pena: non c’era nè medico nè farmacia, il pavimento mezzo rovinato era coperto di schifezze innominabili, senza parlare dei topi. Naturalmente, al Pacca non fu concesso alcun favore, e riceveva lo stesso vitto scarso e malsano degli altri prigionieri. Anzi, stava peggio ancora degli altri, ai quali era soltanto proibito comunicare colla gente di fuori, mentre al Pacca non era neppur permesso avvicinarsi a suoi compagni di sventura, tantoché non lo lasciavano neppure andare in quel piccolo spazio dove gli altri carcerati facevano la passeggiata quotidiana. In principio lo conducevano ancora a fare ogni giorno, in compagnia d’un ufficiale, una piccola passeggiata intorno alle mura della fortezza; ma poi gli tolsero anche questo. Riceveva libri, ma siccome, a causa dell’oscurità, non poteva servirsene, era condannato all’inazione ed alla noia. Non poteva scrivere lettere, e se qualche lettera indirizzata a lui, e naturalmente passata sotto censura, gli veniva consegnata, non poteva rispondere. Chiese un confessore, che non si nega neppure ai condannati a morte, ma per molto tempo non gli fu concesso. Una volta potè confessarsi, perchè, durante il cambio della guardia, un prete di nome Leonardi, anche lui prigioniero, riuscì ad avvicinarlo, strisciando a quattro gambe nel corridoio in cui si apriva la sua cella. Soltanto dopo un anno gli permisero di scegliersi un confessore tra i preti che erano incarcerati nella fortezza: vi erano infatti, fra i detenuti, 19 preti, che, contro gli ordini del governo, avevano tenuto dalla parte del Papa, e non si erano piegati alle idee di Napoleone.

     Finalmente, verso la fine del gennaio 1813, il Pacca fu informato che il Papa e l’Imperatore avevano firmato un nuovo patto, per il quale i Cardinali che si trovavano in prigione riacquistavano la libertà, ed il 5 febbraio egli poteva lasciare Fenestrelle e recarsi a Fontainebleau, presso il suo amato Sovrano, Papa Pio VII.

     Neppure gli altri Cardinali furono trattati con più riguardi. L’Imperatore aveva disposto che la maggioranza dei Cardinali, come pure i Superiori di Ordini Religiosi, gli addetti alla Cancelleria Pontificia e gli uffici della Dataria e Penitenzieria si traslocassero a Parigi, dove dovevano pure essere trasportati gli archivi della Santa Sede per venir uniti agli archivi imperiali. Furono pure trasportati a Parigi molti preziosi tesori dei Musei Vaticani.

     Facendo andare i Cardinali a Parigi, vicino a sè, Napoleone cercava d’impedire che eventualmente si ripetesse ciò che era avvenuto alla morte di Pio VI e cioè che i Cardinali, radunandosi fuori dei domini dell’Imperatore, scegliessero un nuovo Papa, forse a lui contrario. Inoltre, con tutte codeste disposizioni, Napoleone voleva ottenere che la Francia e Parigi, non solo militarmente e politicamente, ma anche moralmente, diventassero il centro e la capitale del mondo, di cui egli sarebbe stato l’arbitro supremo.

     A quei tredici Cardinali, tra i quali il Consalvi, che non avevano riconosciuto la legittimità della sua separazione da Giuseppina, e conseguentemente non avevano presenziato al suo matrimonio con Maria Luisa, Napoleone proibì di portare la porpora, li privò delle loro rendite, e li scacciò dalla capitale, facendoli accompagnare da gendarmi, anzi, nel suo primo furore, avrebbe voluto farne fucilare tre. Così pure, depose da ogni ufficio ed esiliò il consigliere di stato ed ex-ministro Portalis, solo perchè non aveva denunziato un suo parente, del quale sapeva che aveva ricevuto una lettera dal Papa (1).

     Per la loro fedeltà al Papa, andarono in prigione i Cardinali Di Pietro, Gabrielli ed Opizzoni, monsignor Di Gregorio, e Padre Fontana, Superiore Generale dei Barnabiti, nonché migliaia di Vescovi e Preti. B non soltanto dei preti soffrirono per la loro fedeltà al Papa, anche dei laici, persino delle donne, furono imprigionati, esiliati, ebbero sequestrati i loro beni, solo pel sospetto che tenessero pel Papa (2).

     Per difendere e sostenere le idee di Napoleone non si badava a spese, e la stampa dava prova della più cieca servilità.

     Frattanto, mentre il Papa era prigioniero a Savona, l’Imperatore divise in province gli Stati della Chiesa, e dichiarò che Roma sarebbe stata la seconda

(1)         Lettera di Napoleone al Viceré d’Italia, 5 gen. 1811.

(2)         « Il Pontificato di Pio VII », c. s. II, 127.

 capitale dell’Impero francese, ed avrebbe avuto per re il figlio che egli aspettava. Secondo i suoi piani, il futuro Papa avrebbe dovuto giurare fedeltà all’Imperatore; non avrebbe potuto entrare in possesso del¬la sua sede, se non fosse stato confermato dall’Imperatore; avrebbe dovuto porre la sua residenza dove risiedeva l’Imperatore ; e « forse — nota uno stori¬co — l’audace conquistatore pensò anche che un giorno avrebbe investito del Pontificato la sua famiglia » (1). E’ naturale che volesse a Parigi tutti gli uffici centrali della Chiesa, mentre pensava di fare del Pantheon parigino un mausoleo per la sepoltura dei Papi e dei Cardinali.

     Il 15 aprile 1810, un ordine imperiale disponeva che, entro un determinato e breve lasso di tempo, tutti i Preti, i Religiosi e le Suore che non erano di Roma, lasciassero questa città e si recassero ai loro rispettivi paesi natii. Così pure, Napoleone ridusse a tre il numero dei vescovadi negli Stati Pontifici, e sciolse tutti gli Ordini Religiosi d’Italia, sequestrando i relativi benefici e possedimenti, che furono per la maggior parte incamerati. E siccome « l’appetito viene mangiando », e si volevano ancora prendere altri beni ecclesiastici, fu trovato un pretesto, od un preteso titolo giuridico, anche a questo fine: Napoleone ordinò che quei Vescovi e Preti che si rifiutavano di far giuramento di fedeltà alla Francia, fossero condannati all’esilio ed al sequestro dei beni (2). In base a tale ordine, 13 Cardinali furono dichiarati deposti, 19 Vescovi furono spogliati di tutto

(1)         DK. Gr. C. WEISZ, Storia Universale, c. s., voi. XXII pag. 267.

(2)         Decreto imperiale 15 apr. 1810.

ed accompagnati in esilio dai gendarmi, e circa 200 Preti (Canonici e Parroci) furono deportati in Corsica. Perchè poi i fedeli non potessero sorgere in difesa dei loro Vescovi e Preti, l’Imperatore aumentò di 10.000 uomini la forza armata d’Italia, ed ordinò al Miollis che in caso di insurrezione fosse inesorabile. Intanto, in To¬scana, in Piemonte, ed in tutta l’Italia, s’impadroniva anche dei beni di quei Vescovi che non erano stati confermati dal Papa (1).

E non c’era nessuno che potesse, sull’esempio del mugnaio di Sans-Souci, gridare all’Imperatore: « Il y a des juges à Paris! »

(1) Decreto imperiale 13 giu. 1810

Napoleone tortura il Papa nel

punto più sensibile

Visto che non poteva fiaccare il Papa, nè colla rigorosa prigionia, nè con trattamenti contrari al Suo benessere materiale, nè con offese ed umiliazioni, Napoleone cercò di costringerlo all’obbedienza assalendolo nella Sua qualità di Capo della Chiesa. Dapprima gli impedì intieramente soltanto le relazioni col clero non francese, pur rendendogli molto difficili anche quelle coi Vescovi francesi. Il Papa era così isolato, che, avendo pur bisogno di un segretario, era costretto a ricorrere ad uno dei servi, il quale sapeva bensì scrivere in modo leggibile, ma non avrebbe saputo comporre neppure la più semplice lettera (1). Per conseguenza, per quanto il Papa sbrigasse da sè un numero enorme di affari, tuttavia le petizioni dei Vescovi, le richieste di schiarimenti, dispense, decisioni, giacevano a mucchi senza risposta sul suo tavolo, mentre sovente egli era preso dal capogiro per lo sforzo a cui era costretto. Va da sè che tutte le

(1) Relazione Lebzeltern, 16 e 1 mag. 1810.

lettere che giungevano al Papa, senza eccezione, gli erano consegnate aperte, mutilate, o con grandissimo ritardo. P. es., una lettera scrittagli dal Card. Fesch il 1° aprile, gli arrivò soltanto il 1° maggio.

    Eccetto le già ricordate e non attendibili comunicazioni del Moniteur, il Papa era privo di notizie, non soltanto riguardo agli affari del mondo, ma anche riguardo agli interessi della Chiesa e della Religione. Questo isolamento diventò sempre più rigoroso. Nel 1811 l’Imperatore ordinò che non fosse lasciato giungere al Papa alcun corriere, e che Egli non potesse servirsi di corrieri; e siccome l’occasione più prossima, perchè il Papa s’incontrasse con un Vescovo, l’offriva il Vescovo di Savona, obbligò anche questo a trasferirsi a Parigi. Inoltre comandò al prefetto della provincia di tener nota di coloro che stavano vicino al Papa, e di segnalare i più attivi, affinchè potessero anch’essi venir allontanati. In realtà, alcuni servi, che avevano dimostrato attaccamento al Papa, non solo vennero allontanati, ma anche rinchiusi nella prigione di Fenestrelle (1).

Contemporaneamente l’Imperatore ordinò che tutte le lettere indirizzate al Papa fossero mandate a Parigi, eccetto quelle che non avevano alcuna importanza; e la posta non doveva accettare lettere del Papa, senza autorizzazione superiore. « Voglio — diceva l’ordine di Napoleone — che il Papa senta il mio malcontento per la sua condotta ».

     L’8 gennaio 1811 sequestrarono tutti gli scritti del Papa, frugandogli persino nelle tasche (2).

(1)         « li Pontificato di Pio VII », Voi. II, pag. 123.

(2)         « Il Pontificato di Pio VII », c. s., Voi. II, pag. 122.

     Il 14 gennaio, per ordine di Napoleone, lo Chabrol scrisse al Papa: « Per ordine di Sua Maestà, comunico ufficialmente a Papa Pio VII che colla presente gli proibisco di mettersi in comunicazione con qualsiasi chiesa dell’Impero o con qualsiasi suddito dell’Imperatore, e tutte due queste cose sotto pena dì disubbidienza ».

     Quando l’Imperatore venne a sapere che gli albergatori e gli abitanti di Savona, e persino dei forestieri, si davano cura di provvedere alle necessità del Papa, nel gennaio 1811 comandò che si tenessero d’occhio gli alberghi ed i viaggiatori di Savona, e che il ministro di polizia ordinasse quali dovessero essere arrestati, o mandati via, o lasciati vicino al Papa.

     Nè bastava. Giunse un’ordinanza, secondo cui il Papa non doveva occuparsi di nulla (1), ed a questo scopo gli fu tolto inchiostro, penna e carta (2).

     Gli ordini di Parigi erano eseguiti con grande puntualità, anzi persino sorpassati. Il Lebzeltern scrive che, se gli ordini dell’Imperatore erano suggeriti dalla più grande ingiustizia ed ingratitudine, i suoi dipendenti, nell’eseguirli, dimostravano la più grande rozzezza e malaccortezza (3).

      Ma il più grande dolore che Napoleone procurò al Papa, sperando con esso di costringerlo a cedere, fu il seguente: Napoleone voleva nominare Arcivescovo di Parigi suo zio, il Card. Peschi. Questi però non era disposto ad accettare senza la conferma del Papa. Ma era proprio questo che Napoleone non voleva;

(1)         Relazione di Chabrol al ministro dei culti, 2 febbr. 1811.

(2)         Più tardi riuscì poi a riavere carta, penna e calamaio.

(3)         Relazione Lebzeltern, 18 mag. 1810.

perciò fece delle minacce al Fesch, qualora avesse ricusato di occupare la sede di Parigi senza la conferma del Papa. Il Fesch, da uomo di carattere, rispose: «Magis mori! » (Piuttosto morire!) Allora Napoleone, o che avesse frainteso il latino morì, o per sùbita ira, ribattè rabbiosamente: « Ab? piuttosto Maury?     

     Allora, sia arcivescovo Maury! » (Si noti che il latino « mori », letto alla francese, coll’accento sull’ultima, viene ad avere la stessa pronunzia del francese « Maury »).

     Bisogna sapere cbe questo Maury era uno di quei preti di cui la Chiesa non aveva proprio da gloriarsi: nessuno ne aveva stima, e Napoleone meno di tutti. Per caratterizzarlo, basta ricordare cbe il mite, buono ed arrendevole Pio VII lo disse più tardi « agente del nemico e traditore ingrato degli interessi della Chiesa» e proibì cbe fosse ammesso alla Sua presenza. Era dunque conseguente cbe Napoleone, in opposizione al Fescb, nominasse arcivescovo di Parigi questo indegno ecclesiastico, e che il Maury si mostrasse disposto ad accettare l’arcivescovado senza esigere nè domandare la conferma del Papa.

     Ma non avendo il nuovo arcivescovo ricevuto detta conferma, il Capitolo dell’Archidiocesi di Parigi, secondo i sacri canoni, non poteva considerarlo arcivescovo legittimo, e per mezzo del Vicario Capitolare Astros gli comunicò ufficialmente, ed in termini chiari, che considerava illegittimi i suoi atti. Quando Napoleone venne a conoscere l’opposizione del Capitolo, dapprima voleva far fucilare l’Astros; ma poi, per la viva intercessione del ministro dei culti, gli « fece grazia »… condannandolo al carcere perpetuo.

      L’inaudito rigore della punizione dell’Astros spaventò il Capitolo, e sotto quest’impressione fu facile al Maury indurlo a far atto di ossequio a Napoleone. Il Maury stesso stese il testo di questo atto, e lo fece leggere ai Canonici: questi ne disapprovarono alcuni punti, ed il Maury li corresse. Quando però, guidato dal Maury, il Capitolo fu presentato a Napoleone per fare l’atto di ossequio, l’arcivescovo diede, all’ultimo momento, il manoscritto ad un canonico, perchè lo leggesse ad alta voce: e solo durante la lettura, il lettore stesso e tutti i Canonici si accorsero che il Maury non aveva dato da leggere il testo corretto, ma l’originale, ossia quello che era stato disapprovato dai Canonici. Ma ormai era tardi.

     Napoleone ebbe cura di far pubblicare sul Moniteur le dichiarazioni lette dal Capitolo di Parigi, come pure vi fece pubblicare le lettere di ossequio degli altri Capitoli, composte molte volte dai prefetti delle rispettive province, che poi avevano costretto con minacce i Canonici a firmare.

     Abbiamo già detto che in questo tempo l’unica lettura del Papa era « Le Moniteur », che non mancava mai di comparirgli sul tavolo quando conteneva qualche notizia che potesse spiacergli; così il Papa dovette leggere codesti atti e lettere d’ossequio, che erano proprio la negazione dei principii da Lui sostenuti.    

     Era speranza di Napoleone che il Papa, venendo a conoscere che le opinioni dei vari Capitoli erano contro di Lui, avrebbe finito col cedere: ma s’ingannava; se c’erano dei preti, dei capitoli e dei vescovi che per paura s’inchinavano alle idee di Napoleone, il Papa rimaneva costante eroe delle Sue convinzioni.

Un atto di debolezza e gravissimi sospetti

     Finora, tutti ì piani di Napoleone per spezzare la volontà del Papa avevano fatto naufragio, infrangendosi contro l’inflessibile coerenza, l’inconcussa convinzione e l’immacolata coscienza di Pio VII. L’Imperatore dunque si spinse oltre, architettando nuovi disegni, molto simili a quegli attentati che si sogliono chiamare infernali. — Qui è necessario che ci rifacciamo un po’ indietro.

Dapprima l’Imperatore stabilì di convocare un Concilio Nazionale che consacrasse i suoi disegni: il testo del decreto di convocazione del Concilio pel 9 genn. 1811 era pieno d’accuse contro il Papa. Poi incaricò quattro dei vescovi più ligi a lui di recarsi dal Papa per tentare di incutergli timore e di indebolirlo. Questa commissione ricevette dal governo un’i¬struzione scritta, secondo la quale doveva comunicare al Papa che l’Imperatore considerava ormai nullo il Concordato del 1801, perchè una delle parti, cioè il Papa, non l’aveva osservato, e perciò bisognava fare un nuovo patto, in cui il Papa dovrebbe obbligarsi con giuramento ad accettare i desideri di Napoleone. Contemporaneamente la commissione doveva comunicare ufficialmente al Papa che il Suo diritto di sovranità temporale su Roma era definitivamente e per sempre perduto. Ma la stessa commissione avrebbe dovuto tener segreto al Papa che essa veniva per incarico di Napoleone, ed avrebbe invece dovuto presentarsi come fiduciaria di tutto l’Episcopato; e per confermare ciò, presenterebbe al Papa una lettera, in cui 12 cardinali, arcivescovi e vescovi lo pregavano di ricevere la commissione con paterna benevolenza, sicuro che essa avrebbe parlato a nome di tutto l’Episcopato francese. Nè bastava. Il Card. Pesch (più che probabilmente, per ordine di Napoleo¬ne) indirizzò ancora al Papa una lettera in tono minaccioso, ed anche altri vescovi si rivolsero in forti termini al Papa. (Queste lettere, naturalmente, giun¬sero nelle mani del Papa!)

     Dunque, Napoleone assoggettava moralmente il Papa ad una specie di fuoco tambureggiante, per fargli credere che tutto l’alto e basso clero francese condivideva le idee del governo. « Lui, intanto — come dice uno storico — si teneva scaltramente nello sfondo, spingendo in primo piano i vescovi del concilio, per far paura al Papa »

     Dopo tali preparativi, la commissione arrivò a Savona il 9 maggio 1811, per tentare, di presenza ed a viva voce, di persuadere il Papa ad accettare i desiderata di Napoleone. Il Papa la ricevette la prima volta il 10 maggio; ma l’impressione che Egli, e soprattutto la Sua determinatezza, fece sui vescovi, fu tale, che non osarono parlare di ciò che era il vero scopo della loro venuta, e ne tramandarono la trattazione ad una seconda udienza.

 E qui dobbiamo fermarci!

Il 18 maggio successe un fatto, che dovrebbe essere considerato come un vero prodigio di ordine morale o psicologico, se non potessimo trovarne la spiegazione naturale in quanto diremo in seguito. Successe cioè che il Papa, a viva voce (non per iscritto, nè colla Sua firma!; approvò una nota di quattro punti, messagli davanti, la quale conteneva sostanzialmente tutti i desiderata di Napoleone. Questa fu la prima ritirata di Pio VII, da quando era stato violentemente cacciato da Roma, come scrive il Card. Pacca, il quale aggiunge che chi ha conosciuto il Papa da vicino, e sa quanto fosse grande la Sua modestia, quanto poco si fidasse delle Sue cognizioni, non si meraviglierà di ciò che quei prelati riuscirono finalmente a strappargli, e per questo atto lo compatirà anziché condannarlo.

     Secondo me, però, questa spiegazione non basta a sciogliere l’enigma psicologico della condotta tenuta dal Papa il 18 maggio, così straordinaria, sorprendente e contrastante con tutto il Suo essere. Credo dunque di poter proporre un’ipotesi, una spiegazione, che non posso dimostrare al cento per cento, e di cui non posso indicare una fonte apodittica, ma che, per quanto io conosco gli uomini e le condizioni dell’ambiente, ritengo quanto mai verosimile.     

     Ritengo cioè che il medico del Papa, che era diventato l’uomo di fiducia di Napoleone, abbia potuto somministrare al Papa qualche sostanza sonnifera, stupefacente, atta a fiaccare la forza di resistenza, e che questa possa essere l’unica spiegazione della strana condotta tenuta il giorno dopo, per alcune ore, dal Papa.

      Ecco gli argomenti che m’indussero ad ammettere tale ipotesi:

1.           — In occasione della prima e seconda udienza concessa alla commissione, il Papa aveva ancor dimostrato una fermezza piena ed assoluta, tanto che i vescovi ne erano stati impressionati. Lo stesso prefetto della provincia, in data 10 maggio, aveva comunicato a Parigi che il Papa era tranquillo e deciso; anche dalla relazione della seconda udienza, scritta dal medesimo prefetto, appare che anche allora il Papa si era espresso « colla massima decisione » ed aveva rimandato i commissari; anzi, con sicura penetrazione, aveva dichiarato ai vescovi che, mentre essi gli si offrivano come consiglieri, Egli li considerava come parte interessata e perciò non aveva in essi piena fiducia. Dalla relazione dell’intera discussione appare nel modo più netto e più chiaro che il Papa era pieno ed assoluto signore della Sua volontà e delle Sue determinazioni.

         Ma contemporaneamente, il 10 maggio, il prefetto scriveva: « Ieri il Papa pareva occupato ad esaminare le lettere mandategli. Noi frattanto abbiamo impiegato il tempo ad impiantare nel palazzo una comunicazione, mediante la quale potevamo sapere quello che diceva il Papa conversando confidenzialmente ». Siccome non si conosceva ancora il microfono, dobbiamo supporre che abbiano fatto uso di un portavoce, o che abbiano nascosto qualcuno in qualche mobile. Intanto però abbiamo la prova, nella dichiarazione ufficiale scritta dallo stesso avversario, che qui si agì con assoluta mancanza di rettitudine, di onestà, di signorilità; dunque abbiamo la possibilità, ed un titolo morale, di supporre un’altra simile col¬pevole azione.

2.           — Il 18 maggio, giorno della strana debolezza del Papa, il prefetto scrive di essere andato dal Papa coll’intenzione di parlargli colla massima forza (1). E dopo di lui fu ricevuta la commissione. Il prefetto comunica cbe le sue parole erano state di grande effetto sui Papa, il quale ne era stato impressionato ed aveva appena fatto qualche obiezione. Da parte sua, nello stesso giorno, la commissione riferisce: « Abbiamo trovato il Papa pensieroso ed impressionato. Si lamentava dì sentirsi la mente molto stanca ».

      Leggiamo pure che il Papa, a cominciare da quel giorno, fu per parecchi giorni come in uno stato d’incoscienza, e che gli pareva di essere ubriaco (2). In tutto il tempo della prigionia del Papa, non abbiamo mai letto che si fosse lamentato: non si era lamentato quando gli avevano strappato il Suo Segretario di Stato ; non quando si era rovesciata con Lui la carrozza; non quando gli avevano impedito di dire o sentire la Messa in domenica; non quando, febbricitante, era stato svegliato di notte e costretto a rimettersi in viaggio ; non quando aveva avuto sete ed il sottufficiale dei gendarmi gli aveva dato acqua sporca; non quando gli avevano tolto carta, penna e calamaio… Ed ora si lamenta di sentirsi la mente stanca! Anche questa circostanza dimostra, da una parte, che

(1)         Secondo me, il prefetto questa volta voleva constatare l’effetto di ciò che aveva prescritto il medico, e che poteva anche eventualmente esser stato somministrato, non come medicina, ma sotto altra forma, p. es., colla colazione.

        (2) « Il Pontificato di Pio VII », c. s., II, 164. — G. C. WEISZ, c. s., XXII, 278-9.

 in quel giorno (18 maggio!) il suo carattere, la sua volontà, la sua altrimenti mirabile pazienza e padro¬nanza di sè avevano subito una depressione, cosicché egli prorompeva in lamenti, e d’altra parte, che la causa di tali lamenti doveva essere qualche cosa di straor¬dinariamente insolito, da Lui non prima sperimentato.

3.           — E’ noto che nel palazzo in cui abitava il Papa, ogni uomo era un fedele ed una spia di Napoleone. Era diventato tale anche il medico del Papa, il Porta, al quale, pel suo tradimento, Napoleone assegnò 12.000 franchi di stipendio annuo (1). Durante il suo viaggio in Olanda, Napoleone scrive al ministro dei culti che ha ricevuto la sua lettera, e che compenserà sempre i servizi personali del Porta, il quale riceverà lo stipendio di 12.000 franchi finché rimarrà vicino al Papa: gli faccia sapere da quanto tempo non abbiano rimesso al Porta detta somma, e frattanto « gli mandi subito il vaglia » (2). Un medico comune non interessa certamente tanto un capo di stato, che questi scriva, anche mentre è in viaggio, una lettera speciale per lui ad un suo ministro. Il Dr. Weisz scrive: «Il Porta tradì il suo sovrano (il Papa) e per buon denaro abbracciò gli interessi dell’Imperatore ; che piccineria, per un eroe (Napoleone) comperare con denaro il medico del proprio avversario! » (3)

4.           — Lo stesso Chabrol, in data 12 maggio, scrive: « Porta, il medico del Papa, ci fa un magnifico servizio.

(1)         Il Pontificato di Pio VII », c. s., II, 158.

(2)         Haussonville, Joseph Othenin de Cléron, Négociations avec Pie VII à Savone, IV, 120-1.

(3)         Gr. C. WEISZ, Storia Universale, c. s., XXII, 277-8.

 C’intendiamo perfettamente. Per queste fortunate disposizioni, ieri il Papa ascoltò favorevolmente le comunicazio¬ni della commissione ». Chabrol non poteva esprimersi più chiaramente e comprensibilmente di così.

G. C. Weisz scrive: «Ad un tratto, il medico (Porta) trova che il prigioniero s’indebolisce ed ha bisogno di una medicina, la quale stordisce e intontisce il poveretto, tanto che per parecchi giorni si lamenta e si sente come ubriaco » (1).

5.           — Durante tutta la Sua prigionia di parecchi anni, soltanto in questi giorni si notò in Pio VII codesto stato simile ad ebbrezza, e quasi a follia ; anzi, in tutta la vita del Papa, nè prima nè dopo di quei giorni, neppure quando era moribondo, non si legge mai che abbia sofferto di un disordine spirituale simile a quello di quei giorni.

6.           — Lo stesso Porta dice, nelle sue osservazioni di quei giorni, che « il Papa s’immerge sovente in profonde riflessioni, ha lo sguardo fisso… il polso irregolare, perde l’appetito. Tronca la conversazione, s’incanta su di un’idea, poi si sveglia all’improwiso dal suo incanto, come da un sogno. Temevo che impazzisse ».

7.           — Pio VII ebbe a soffrire qualche volta di fegato, e più tardi di stranguria; del resto era robusto, di costituzione resistente, e mirabilmente sano e forte di nervi. Visse 81 anno, e fu Papa per 23 anni. Il Pradt, che potè vederlo sovente proprio durante la prigionia a Savona ed a Pontainebleau, nonostante i suoi sentimenti poco favorevoli al Papa, scrive di Lui:

(1)         Ibidem.

 « E’ una di quelle anime, cui le variazioni della sorte non tolgono la serenità ». Il Papa stesso, nel 1821, entrando nel 79.o anno, diceva con vivacità a coloro che lo circondavano: « Ci sentiamo pieni di forza e di coraggio ». Anche la causa della Sua morte non fu propriamente una malattia, bensì una maiavventurata caduta. Ma ritorniamo al periodo della Sua prigionia a Savona, verso il tempo del famoso 18 maggio, e cerchiamo di rappresentarci il suo stato: da quattro mesi era tenuto nella prigionia più rigorosa, completamente isolato dal mondo, privato di tutti i suoi libri e per lungo tempo anche del necessario per scrivere, senza servi fedeli, persino senza confessore; l’unica sua lettura, come abbiamo già ricordato, era «Le Moniteur», che giorno per giorno gli faceva conoscere le accuse contro il Papa e le macchinazioni dell’Imperatore e del governo per infrangere la sua resistenza; si aggiunga che in tutto il mondo non si trovava nessuno che, per quanto Egli sapeva, tenesse le sue parti; come Gesù, nel tempo della Passione, era stato abbandonato dal popolo, dai discepoli, dagli stessi apostoli, così era ora di Lui; dai troni cattolici, come scrive il Card. Pacca, neppure una voce in favore del Papa; anzi, Egli stesso doveva constatare, co’ suoi propri occhi ed orecchi, che quegli stessi vescovi, arcivescovi e cardinali che venivano a Lui erano tutti portavoce di Napoleone, piuttosto Suoi avversari che non persone capaci di comprendere e condividere la Sua sorte, di mostrarglisi sinceramente fedeli e di essergli disinteressati consiglieri ; a tutto ciò si aggiunga ancora la Sua età avanzata. A qualunque altro uomo sarebbero venute meno le forze, ed i nervi  avrebbero ricusato il loro servizio. Invece Pio VII, per tutto quel tempo ed anche in seguito, durante una prigionia di quasi cinque anni, anche quando si senti mancare le forze fisiche e credeva di esser vicino a morire, fu sempre, ogni giorno, ogni ora, uno spettacolo prodigioso di serenità e di calma, di forza d’animo e di costanza, di resistente convinzione e fermezza inconcussa.

Proprio soltanto il 18 maggio, nelle ore in cui ebbe luogo l’udienza della commissione, rivelò uno stato d’animo in contraddizione col suo carattere e colla condotta tenuta in tutti i cinque anni della Sua prigionia, anzi in tutta la Sua vita.

8.           — Ancora un punto. Diciamo « punto », perchè ciò che stiamo per dire non è esattamente un argomento ed una prova; ma chi conosce l’abito spirituale dei criminali non chiuderà gli occhi neppure alla circostanza seguente: E’ noto che i ladri, gli omicidi e simili, sentono il bisogno di rivedere dopo qualche tempo il luogo del loro delitto; un’analoga osservazione psicologica ci fa constatare che il colpevole esprime inconsciamente, mentre non c’è nessun motivo di dirla, la parola rivelatrice o conduttrice del suo delitto segreto, e che l’esprime anche prima di commetterlo (anticipano mentalis\ Caratteristica, in questo senso, è la seconda autorizzazione data da Napoleone ai commissari da lui chiamati alle Tuileries il 25 aprile per mandarli dal Papa: in essa, fra il resto, diceva: « Voglio che facciate uso di queste autorizzazioni soltanto qualora vediate che il Papa si trovi in condizioni favorevoli e che, sotto l’influenza dei vostri consigli, si sia liberato da quello stordimento che lo ha guidato già da anni » (1). A quanto pare, l’Imperatore alla parola « stordimento » si riprese, e credette di stornare la possibile impressione dicendo che tale stordimento durava già da anni.

9.           — Dopo l’approvazione verbale della nota presentata dalla commissione mandata da Napoleone, non c’era naturalmente più bisogno di turbamento del sistema nervoso del Papa, nè, quindi, di sonniferi o stupefacenti. Ed ecco che, usciti i vescovi e cessato l’effetto della somministrazione, il Papa, probabilmente nel rileggere la copia lasciatagli della nota da Lui verbalmente approvata, quasi svegliandosi da un sogno, qua¬si riavendosi da uno stato strano ed incomprensibile, non riesce a meravigliarsi abbastanza Egli stesso dell’avvenuto, e con tutta la tensione delle Sue forze spirituali si sforza di distruggerlo: protesta, si stima offeso, fa tutto quello che può per manifestare, dichiarare, gridare al mondo che ciò che era avvenuto il 18 maggio non era conforme alla Sua convinzione, non era l’eco dell’anima Sua. Infatti:

10.        — Il 23 maggio il Papa osservò allo Chabrol: « Non riesco a capire come ho potuto approvare quella nota; da parte mia, fu una pazzia! » Non sono forse queste le parole che si odono dagli ubriachi quando ritornano in sè dopo aver commesso qualche cosa di grave durante l’ubriachezza, o dagli ipnotizzati quando sono svegliati dal sonno ipnotico e vengono a sapere che durante l’ipnosi furono loro fatte compiere cose contrarie alla loro natura, al loro carattere, alle loro idee? (2)

(1)         HAUSSON VILLE: Négociation8, etc. IV, 104-19.

(2)         Vedi Gr. Towek: A hipnotizmus elméleti, yyakorlati pedagógiai, orvosi és buntetójogi szempontból (L’Ipnotismo sotto l’aspetto teorico, pratico, pedagogico, medico e penale). Koszeg, 1926.

11.        — Più tardi, quando lo Chabrol ripropose l’affare, « il Papa, raccogliendosi in se stesso, chiuse gli occhi come chi medita profondamente, e finalmente osservò: Fortuna che non ho firmato nulla » (1). Per poco che uno conosca gli uomini, capisce chiaramente da queste parole del Papa che la Sua concessione del 18 maggio era del tutto aliena dalla Sua convinzione.

12.        — Si potrebbe obiettare: Perchè dunque il Papa ricusò di firmare la nota postagli innanzi, se non era padrone della Sua volontà? — Al che si possono dare due risposte. La prima è che forse la dose somministratagli non era tale da privarlo interamente delle Sue capacità ; se no, la commissione dei vescovi se ne sarebbe accorta, mentre la cosa doveva rimanere assolutamente segreta. Per la seconda, si consultino le opere che parlano di ipnotismo, p. es., quella dell’autore di queste righe (2). Anche nella più profonda ipnosi, durante la quale si possono far dire o fare all’ipnotizzato parole od azioni contrarie al suo carattere, alle sue idee, ai suoi costumi ed alla sua natura, c’è un certo limite, oltre il quale l’ipnotizzato non subisce ordini, direzioni od influenze; e se si prova ad oltrepassare tale limite, l’ipnotizzato si sveglia senz’altro (3).

 (1)        « Il Pontificato di Pio VII », c. s., II, 167.

(2)         G-. TOWER: A Mpnotizmus, ecc., c. s., (opera raccomanda¬ta dal Ministero (Ungherese) dei Culti e della Pubblica Istruzio¬ne e dal Consiglio Nazionale della Letteratura Giovanile), c. VII: « A hipnotizmus hatdra », (Il limite dell’Ipnotismo).

(3)         P. es., è facile suggerire al medium assurdità logiche e pratiche. Così, che il cerchio gli paia un cubo, che ammetta che 2X2 = 10, che senta amaro il miele e dolce l’aeeto, eco. Anzi, anche nel campo morale si può dirigerlo in un senso da cui ripu¬gnerebbe da sveglio. Ma se in questo campo si oltrepassa un certo limite, si nota subito, sul viso e su tutto l’esterno del medium, la ripugnanza ed il senso generale di disgusto e di fastidio: il volto si altera, il corpo trema, il medium perde la sicurezza precedente, e con tutto il suo comportamento tradisce la grande lotta interna fra l’ordine suggeritogli e le sue convinzioni morali. Basta allora andar un po’ oltre, perché il medium neghi l’ubbidienza, o, per la grande scossa morale, si svegli, (G-. TOWER: A hipnotizmus, ecc., pagg. 41-42). Analogo è il caso degli ubriachi, di coloro che sono sotto l’azione di stupefacenti, ecc.

(1) e (2) « Il Pontificato di Pio VII », c. s., II, 166

13.        — Il 30 maggio, il prefetto comunica al ministro dei culti elle il Papa soffre tormenti di coscienza.

14.        — Il Papa, dopo la concessione del 18 maggio, durante la notte — come riferì il servo che stava nella camera attigua — sospirava continuamente, ed andava ripetendo che si pentiva di quel passo disgraziato (1).

15.        — Il 19 maggio, cioè il giorno seguente a quello della concessione, il Papa, al mattino presto, fece chiamare la guardia del palazzo, e con fare costernato e colla massima agitazione s’informò se i vescovi fossero già partiti, desiderando Egli ritirare la Sua concessione. Naturalmente, venne a sapere che erano già partiti. Richiamò poi un’altra volta la guardia, colla massima insistenza gli fece sapere che non poteva accettare la nota e che bisognava informarne i vescovi per mezzo di un corriere. Poi si sedette subito, ed incominciò a scrivere, sulla copia della nota che gli avevano lasciata, delle osservazioni ; e ne scrisse tante, che a forza di correzioni non era più possibile capirci nulla (2). Pece anche chiamare due volte il prefetto, alla cui presenza condannò i punti della nota. Era agitatissimo: diceva di se stesso che era un fedifrago, che la nota conteneva delle eresie, che sarebbe morto cento volte piuttosto di accettarla. Pretendeva che il prefetto spedisse subito un corriere dietro ai vescovi, affinchè cancellassero quei punti della nota che erano contrari alla Chiesa; diceva che, se non avessero fatto ciò, egli avrebbe pubblicato il suo parere in mo¬do sensazionale. E’ naturale che non si siano affrettati troppo a mandare un corriere dietro ai vescovi. Il giorno dopo il Papa si lamentò di aver passato una notte insonne, e di sentirsi come in uno stato di ubriachezza (dans un’ètat d’ivresse) e manifestò il desiderio che la nota non fosse considerata come un patto.

16.        — Il Porta, vedendo il rimorso e la terribile lotta spirituale del Papa, temette che impazzisse (1).

Ecco quant’era lontano dalla mente, dalla convinzione, dalle idee, da tutta l’anima di Pio VII quello che Egli aveva fatto il 18 maggio! A mente calma, chi conosca un poco gli uomini e giudichi oggettivamente non può spiegare la concessione fatta dal Papa il 18 maggio, altrimenti che supponendo che gli fosse stata somministrata, nel cibo o nella bevanda, qualche sostanza sonnifera, snervante, inebriante, stupefacente od ipnotizzante (2).

(1)         Ibidem, 167.

(2) Il DOTT. BIRCHER-BENNER DI ZURIGO, medico e scienziato di fama mondiale, nella sua opera « Eine neue Ernah- rungslehre », (Nuova dottrina alimentare) Zùrieh u Lei-pzig, 4.a ediz., a pag. 91 dice: « Es gibt giftige Stoffe, welche das Gehirn angreifen und veràndern, so dass der Mensch unter ihrem Einflusse ein anderes Bewusstsein bekommt und in einer anderen Welt lebt ». Ossia: Ci sono sostanze venefiche, le quali impres¬sionano ed alterano il cervello, in modo che l’uomo sotto il loro influsso acquista  un’altra coscienza e vive in un altro mondo (Questa nota non si trova nell’edizione originale del libro che stiamo tyraducenso, ma fu suggerita al traduttore dall’autore stesso).

     Ma questo capitolo non sarebbe completo, se non ricordassimo che, eccetto il Porta, il prefetto, e gli intimi di casa, nessuno sapeva che il Papa, già il 19 maggio, cioè il giorno dopo la fatta concessione, fin dal primo mattino aveva ritirato con tutta la forza dell’animo suo ciò che aveva concesso. E’ probabile che gli iniziati abbiano avuto cura che neppure la commissione mandata a Savona ne sapesse nulla.

Il Concilio Nazionale

     Il Concilio Nazionale ordinato da Napoleone incominciò il 17 giugno. Napoleone aveva pensato che questo Concilio potesse legiferare in nome della Chiesa Universale e per tutta la Chiesa, anzi, che stesse al di sopra del Papa e potesse decidere anche riguardo al Papa. Ma, naturalmente, mancavano a detto Concilio le condizioni e le proprietà necessarie a costituire validamente e legittimamente un Concilio Universale: non era stato convocato dal Papa; non vi erano stati convocati tutti i Vescovi, molti dei quali erano in prigione e non potevano neppur mandare i loro delegati ; gli invitati non sapevano perchè fossero stati convocati. Per ordine di Napoleone, i vescovi che erano stati in commissione dal Papa non avevano lasciato trapelar nulla della loro spedizione.

     Dal punto di vista ecclesiastico, dunque, quell’adunata di Vescovi non poteva in nessun modo esser considerata come un Concilio Universale. Ma appunto perchè non vi potevano esser presenti nè il Papa, nè un Suo rappresentante, nè i Cardinali e Vescovi più fedeli al Papa, Napoleone riponeva nel «concilio» la massima speranza. Come dovette disingannarsi! Il concilio fu. aperto colla celebrazione della S. Messa, ed il discorso di circostanza fu affidato a Mons. Boulogne, vescovo di Troyes. Il Card. Fescb, presidente dell’assemblea, lo pregò di fargli vedere prima il testo del discorso; e siccome Napoleone aveva posto sotto la sua responsabilità che quel discorso fosse sotto ogni rispetto conforme a’ suoi desideri, ne cancellò alcuni punti. Ma in chiesa Mons. Boulogne pronunziò il discorso originale, nel quale faceva coraggiosa ed aperta professione di fede nel supremo diritto e potere del Papa sulla Chiesa. Il discorso fu un vero inno di fedeltà al Papa, che chiamava pietra angolare, senza la quale l’edificio sarebbe crollato ; « mai non ci staccheremo — diceva — da quell’anello, senza del quale tutta la catena andrebbe disfatta ». Dopo la Messa, prima di dar principio alle discussioni, si fece il giuramento, nel quale la maggioranza dei Vescovi promise apertamente ubbidienza al Papa prigioniero.

     Si può immaginare l’ira di Napoleone, quando fu informato di tutto ciò. Egli aveva convocato un « concilio » contro il Papa, ed i membri del concilio incominciavano le loro sedute giurando fedeltà al Papa! Lo stesso Fesch, presidente dell’assemblea, aveva fatto tale giuramento. L’Imperatore, dunque, si decise a correre ai ripari, ed aggiornò il concilio al 20 giugno; in questo giorno, poi, con gran meraviglia dei prelati radunati, entrarono nella sala i ministri dei culti di Francia e d’Italia, in uniforme ufficiale, ed uno di essi lesse il decreto imperiale che ordinava si costituisse in seno al concilio, un burreau chargé de la police de Vassemblèe, del quale fossero membri anche i due ministri. A questo attentato i prelati risposero eleggendo a membri di tale « ufficio di polizia » quelli tra loro cbe godevano meno le grazie di Napoleone. Poi il ministro francese dei culti tenne il primo discorso, cbe era pieno di accuse, espresse in modo irriverente, contro il Papa, e fece sull’assemblea una sfavorevolissima impressione.

     Le sedute seguenti, nonostante gli sforzi del Fescb e la prepotenza dei due ministri, non si svolsero certamente secondo i desideri di Napoleone. Sebbene l’Imperatore avesse rigorosamente imposto al Fesch di non permettere mozioni o proposte da parte dei membri del concilio, molti vescovi avanzarono la domanda che fosse restituita la libertà al Papa; ed il Fesch non potè disarmarli, se non con una proposta dilatoria.

     Trattandosi dell’indirizzo da rivolgersi all’Imperatore, l’assemblea ne rifece completamente il testo, che pure era già stato riveduto ed approvato dallo stesso Napoleone. Il quale, conosciute le disposizioni dell’assemblea, fece comunicare ad essa, dal ministro dei culti, che non avrebbe accolto l’indirizzo, e che perciò non desiderava neppure che i prelati gli facessero visita di ossequio.     

     E nella stessa comunicazione si dichiarava che nel concilio si potevano trattare soltanto argomenti che fossero stati in precedenza accettati dall’Imperatore.

     La domenica 30 giugno l’Imperatore assistette alla S. Messa con tutti i membri dell’assemblea, ed in questa occasione trovò modo di intrattenersi brevemente con loro. Verso quelli che gli erano contrari mostrò disprezzo; a due di essi disse: « Volevo farvi cardinali, ma è colpa vostra se d’or innanzi sarete soltanto portinai ».

     La maggioranza dei membri dichiarò apertamente che non riconosceva valido il « concilio », e nello stesso tempo faceva istanza perchè si mandasse una delegazione al Papa; ciò che, naturalmente, Napoleone non volle neppur sentire.

     Perciò l’Imperatore, che « era solito misurare la giustizia unicamente colla lunghezza della propria spada », l’11 luglio sciolse il concilio. L’indomani mattina, tre dei vescovi contrari furono svegliati dal sonno, e senza motivazione alcuna rinchiusi in fortezza; in seguito, poi, tutti tre furono costretti a rinunciare alle loro diocesi.

Nuovo intrigo

     Come abbiamo visto, il disegno del « concilio » non era riuscito, l’assemblea era stata dispersa senza risultati, e Napoleone aveva subito una specie di sconfitta morale. Ma non cedette le armi, e pensò ad un’altra astuzia, od inganno, od intrigo. Il nuovo disegno aveva due scopi: compensare lo smacco subito nell’affare del concilio, e far nuovi esperimenti per fiaccare la volontà del Papa.

     La storia degli sforzi per raggiungere il primo scopo è la seguente: Napoleone, ed il circolo dei prelati ligi a lui, avevano potuto persuadersi abbastanza cbe radunanza dei vescovi, alla quale si era dato il nome di concilio, non si sarebbe indotta a fare da caudatario alle pretese imperiali. Fu allora che l’ignobile Maury, l’arcivescovo di Parigi fatto da Napoleone, diede a questo il famoso consiglio: « Il vino sarà migliore nelle bottiglie che nella botte » ; volendo dire che si sarebbe dovuto tentare di guadagnare i vescovi uno per uno, perchè così sarebbero stati più facili a cedere ed a lasciarsi influenzare, e meno forti nell’opposizione; vinti poi singolarmente, non avrebbero in seguito potuto votare collegialmente contro i desideri di Napoleone. Questi accettò il consiglio; e siccome aveva già cacciato in prigione tre degli oppositori, e faceva correre la voce di altri eventuali mezzi di intimidamento, riuscì di fatto a guadagnare alle sue idee, assalendoli ad uno ad uno, la maggioranza dei vescovi. E’ bensì vero che molti dei vescovi vinti fecero delle riserve e firmarono a certe condizioni; ma egli non ne tenne conto.

     Convinto di aver così dalla sua la maggioranza dei vescovi, Napoleone convocò di nuovo il « concilio ». Però lo stesso Fesch, che ne era il presidente, dichiarò che non considerava quell’assemblea come un concilio, perchè « dal giorno in cui erano stati incarcerati i vescovi, non c’era più concilio: da quel momento era cessata la libertà, e senza libertà non c’è concilio ». Tuttavia fece da presidente all’« assemblea », la quale ormai accettò in maggioranza le decisioni che le furono proposte. Così riuscì a Napoleone di conseguire, in qualche modo, il suo primo scopo.

     Rimaneva da vincere il Papa, e per questo fu progettato il seguente disegno:

a)          Il « concilio » avrebbe mandato al Papa una nuova delegazione, costituita naturalmente di soli vescovi indubbiamente fedeli a Napoleone.

b)          Anche questi delegati, per ordine di Napoleone, avrebbero dovuto far credere che si recavano dal Papa, non per desiderio di Napoleone, ma esclusivamente per incarico del concilio e per impulso del loro cuore.

c)           Affinchè ciò apparisse più verosimile, i membri della delegazione non avrebbero dovuto presentarsi al Papa contemporaneamente, ma separatamente, recandosi a Savona per vie diverse.

d)          La delegazione era incaricata da Napoleone di esigere dal Papa la conferma delle decisioni del concilio, senza alcuna variazione, restrizione o riserva.

e)          Inoltre, si sarebbe spedita al Papa una lettera, colla quale tutti i membri del concilio chiederebbero al Papa la conferma delle decisioni conciliari, ed il Card. Fesch, in una lettera a parte, avrebbe ancora rivolto al Papa la stessa domanda in proprio nome.

     Naturalmente, il Papa non sapeva nulla dei precedenti: ignorava assolutamente che il primo « concilio » era stato per Lui, ed il secondo contro di Lui; non aveva alcun sentore della prigionia dei tre Vescovi oppositori; tanto meno sospettava come fossero stati lavorati i membri del secondo « concilio ».   

     Aveva dunque ragione di credere che i delegati che venivano a Lui rappresentassero davvero il parere unanime dell’insieme dei Vescovi dell’Impero. Perciò, nella speranza di potere, con nuove concessioni, ottenere anche da Napoleone qualche cosa in favore della Chiesa, fece sue, con qualche riserva, le decisioni del concilio. P. es., tra le decisioni del concilio c’era questa, che il Papa confermasse i vescovi nominati dall’Imperatore, e che, se la conferma del Papa non fosse giunta entro sei mesi, il nuovo vescovo fosse confermato dall’arcivescovo, ed in mancanza di questo, da un vescovo della provincia ecclesiastica: il Papa accettò questa decisione, ma colla riserva che la conferma fosse sempre data in nome del Papa.

     In una parola, il Papa accettò bensì le decisioni del concilio ; ma in modo da salvare ed affermare il principio dei diritti pontifici: il cbe volle far rilevare anche nella forma esterna della Sua accettazione, pubblicandola sotto forma di «Breve» (11 sett. 1811).

     Il Papa volle anche, in segno del Suo desiderio di pace e del Suo buon volere, indirizzare una lettera particolare all’Imperatore. Ma Napoleone lasciò questa lettera senza risposta; anzi, non fu neppur contento del Breve. Già gli dispiaceva che il Papa avesse scelto tale forma; meno ancora gli piacevano certe espressioni del Breve, come p. es., che il Papa chiamasse la Chiesa Romana « Signora di tutte le chiese », che i vescovi non avessero riconosciuto la qualità di concilio all’adunata di Parigi, che i nuovi vescovi dovevano esser confermati in nome del Papa, ecc. Perciò non permise la pubblicazione del Breve, e si mostrò scontento dei membri della delegazione, ai quali mandò nuove istruzioni, perchè strappassero al Papa maggiori concessioni. Ma il Papa, meravigliato che si volesse tanto abusare della Sua buona volontà ed arrendevolezza, non concesse più nulla. Quando la delegazione informò il governo della irremovibilità del Papa, il ministro dei culti mandò ai delegati un ultimatum, ed i vescovi stessi, come ultimo tentativo, presentarono al Papa lettere minacciose; ma senza risultato: il Papa vedeva ormai chiaramente che non poteva fidarsi dei delegati, e stabilì di scrivere nuovamente all’Imperatore (24 genn. 1812).

     A questa lettera Napoleone non rispose personalmente, ma fece scrivere dal ministro dei culti una lettera (in data 2 febbr. 1812) la quale per la forma e la sostanza, aspra, irriverente, accusatrice, era piuttosto un’offesa che una risposta. In essa, fra l’altro, si diceva che la condotta del Papa era ridicola, colpevole, malevola, e si accusava il Papa di ignoranza, di pregiudizio e di inabilità, dicendo che non era neppur capace di distinguere, ciò che saprebbe fare qualunque chierichetto, quello che appartiene all’essenza della religione da quello che è puramente temporale; e contemporaneamente s’invitava il Papa a lasciare la sede pontificia ad un uomo più capace.

     Tuttavia il prefetto dovette far sapere a Parigi che tanto la lettera del ministro, quanto le sue pro¬prie minacce orali, erano naufragate contro la resistenza del Papa. « Il Papa — scrive egli il 20 febbr. 1812 — è deciso come ieri: dice che ha deciso, e che non defletterà dalla sua decisione ». Così Napoleone dovette convincersi ancora una volta che, sebbene egli fosse ormai padrone di mezza Europa, non poteva nulla di fronte al Papa. E con suo grande dispetto dovette accorgersi che il Papa, pur nella più rigorosa prigione, era tranquillo, deciso e fermo, come se sedesse libero sul Suo trono di Roma.

Il trasferimento d’un detenuto

     Falliti tutti i tentativi d’imporre al Papa la volontà dell’Imperatore, questi decise di rivolgersi poi personalmente a Pio VII dopo la conclusione della guerra colla Russia. Frattanto, mentre si trovava a Dresda in viaggio per la Russia, il 21 marzo 1812, col pretesto che le navi inglesi avrebbero potuto venire a Savona e far evadere il Papa, ordinò il trasporto del S. Padre a Fontainebleau, nelle condizioni seguenti:

a)          Il Papa doveva viaggiare vestito da semplice prete, per non essere riconosciuto durante il viaggio.

b)          La partenza doveva aver luogo di notte, perchè nessuno se ne accorgesse. (Di fatto, il Papa fu svegliato dal sonno, perchè si preparasse a partire).

c)           Si doveva attraversare la città a piedi, affinchè il rumore della carrozza non richiamasse l’attenzione degli abitanti; solo fuori di città si sarebbe usata la carrozza.

d)          Al personale di palazzo fu ingiunto di tener assolutamente segreta la partenza del Papa. (A questo scopo, per una settimana dopo avvenuta la partenza, si continuarono a portare i soliti pasti nell’appartamento del Papa, e nella cappella del palazzo si continuarono a lasciar accese le candele nel tempo in cui Egli era solito dir Messa).

e)          Il viaggio da Savona a Fontainebleau doveva aver luogo in un sol tratto. (In realtà, non fu neppur permesso al Papa di uscire dalla carrozza: durante i pasti, chiudevano la carrozza in qualche rimessa. Questo viaggio ininterrotto stancò talmente il Papa vecchio e sofferente di mal di fegato e di stranguria, che parve vicino a morire e gli si dovettero amministrare gli ultimi sacramenti. Fu anche chiamato un medico, al quale non si disse chi era il malato, anzi si minacciò la pena di morte, qualora lo avesse riconosciuto e non avesse mantenuto il segreto).

f)           Il viaggio durò 10 giorni intieri (9-19 giugno): si può immaginare con quanta pena del Papa.

g)          Aggravò la crudeltà il fatto che a Fontainebleau non era stato preannunciato l’arrivo del Papa, affinchè la notizia non trapelasse fra la popolazione e non si facessero dimostrazioni. Così Egli fu ricevuto a Fontainebleau senza alcun preparativo.

     In seguito a’ suoi malanni ed alle fatiche del viaggio, il Papa rimase poi tre settimane tra la vita e la morte. Ma quanta pena si dessero Napoleone ed i suoi delle sofferenze di Lui, anzi con quale maligno piacere le aggravassero, è dimostrato dalla seguente circostanza: Quando il Papa, durante il viaggio, e precisamente il 12 giugno, si era trovato in sì grave stato da esser giudicato moribondo, il Lagorse, che lo accompagnava, aveva chiesto in alto loco se non fosse il caso di interrompere il viaggio finché non si avesse un miglioramento — e gli si era risposto che bisognava continuare il cammino. Il Card. Fesch, zio di Napoleone, venuto a conoscere il doloroso viaggio del Papa, gli aveva indirizzato una lettera di condoglianza: naturalmente, questa lettera, come tutte quelle indirizzate al Papa, giunse invece nelle mani di Napoleone, che ne rimproverò lo zio, minacciandogli la prigione. Quando poi il Papa sembrò stare un po’ meglio, i vescovi ligi all’Imperatore, per ordine di questo, ripresero in tutti ì modi a sollecitarlo perchè aderisse ai desideri di Napoleone. Ma il Papa rimase fermo.

     Il ministro di polizia Savary scrive ne’ suoi ricordi (VI, 72) che il Papa riparava da sè i suoi abiti logori, si riattaccava da sè i bottoni, e lavava da sè la sua biancheria. Last but not least dobbiamo anche ricordare che, manco a dirlo, il medico Porta, corrotto da Napoleone, trasportò anche lui le sue tende da Savona a Fontainebleau!

     Chi sa quale orribile sorte, quali nuove umiliazioni, quali altre sofferenze morali e fisiche aspettavano il Papa, se la mano della Divina Provvidenza non avesse mutato la direzione degli avvenimenti!

La spedizione in Russia

     La storia della spedizione in Russia è troppo nota, perchè dobbiamo qui ricordarne i particolari. E’ caratteristico, per questo disastroso esperimento, il noto detto di Talleyrand: « Le commencement de la fin ». Nella seconda parte del nostro libro ritorneremo particolareggiatamente su questa guerra per rilevarne quelle circostanze che meritano speciale considerazione dal nostro punto di vista.

     Quando il Papa, da Roma, gli aveva inflitto la massima punizione ecclesiastica, Napoleone aveva chiesto ironicamente: « Crede forse il Papa che la scomunica farà cadere le armi di mano a’ miei soldati? » Ed ecco ora succedere appunto questo prodigio: il gelo fece cadere le armi di mano ai soldati di Napoleo¬ne, ed il suo superbo esercito dovette vergognosamente indietreggiare, salvarsi, fuggire. « Il nemico scappa — riferisce il Platow — come non si vide mai altro esercito fuggire ». La forza dei soldati di Napoleone si sfasciò, il suo esercito si disperse, e nei suoi sudditi venne meno la fede nella sua invincibilità.

Napoleone si rivolge al Papa

     Prima di marciare sui campi di Russia, Napoleone poteva certamente fare disegni giganteschi riguardo al Papa: se i suoi ministri, vescovi e dipendenti non erano riusciti a vincerlo, abbatterlo e ridurlo all’ubbidienza, l’avrebbe pur vinto lui personalmente. Più tardi, egli stesso tradì il suo disegno: « Avrei indotto il Papa a non più rimpiangere il potere temporale… Avrei avuto le mie assemblee religiose come le mie assemblee legislative. I miei concili sarebbero stati la rappresentanza della cristianità; i Papi non ne sarebbero stati che i presidenti. Io avrei aperto e chiuso codeste assemblee, approvato e pubblicato le le loro decisioni, come avevano fatto Costantino e Carlomagno » (1). E Napoleone si compiaceva di pensare agli splendidi frutti di un simile ordinamento: la grande influenza del Papa sulla Spagna, sull’Italia, sulla Lega del Reno e sulla Polonia avrebbe stretto ancor maggiormente i vincoli d’alleanza del grande impero, mentre l’ascendente che poteva esercitare

(1) LAS CASES, Mémorial de 8. Gelóne, Paris 1840, tome VI, pagg- 74-5.

il Capo della Cristianità sui fedeli d’Inghilterra e d’Irlanda, di Eussia e di Prussia, di Austria, Boemia ed Ungheria, sarebbe passato in eredità alla Francia.

Ma… l’uomo propone, e Dio dispone! Il Fesch, che presentiva già la sorte di Napoleone, vide nella sconfitta russa il dito di Dio. Ancor prima di essa, aveva detto: i Vedo il tempo in cui l’Imperatore sarà abbattuto ed annientato. Tutti coloro che rivolgono la loro mano contro l’Arca di Dio incorrono la medesima sorte ». E dopo la sconfitta: «E’ chiaro che qui ha agito il dito di Dio. Soltanto Dio poteva abbattere un simile gigante. Dalla punizione di Faraone, non si era più incontrato negli annali del mondo un caso così spaventoso. Mio nipote si è perduto, ma la Chiesa si è salvata. Perchè, se l’Imperatore fosse ritornato da Mosca vittorioso, chi sa fin dove avrebbe spinto le sue pretese? » Anche il popolo vedeva il dito di Dio nella spaventosa sconfitta russa, che non fu possibile tenergli nascosta. Il Fournier scrive, delle folle: « Non potevano anch’esse vedere nella distruzione dell’esercito l’opera del dito di Dio, che aveva ritirato la Sua protezione dal guerriero colpito dalle maledizioni della Chiesa? » (1)

     Napoleone conosceva bene codesto modo dì sentire e di pensare del suo popolo, che voleva dire diminuzione del suo prestigio ed offuscamento della sua gloria. Il Fesch poi non mancò di comunicargli apertamente le disposizioni della gente. Anche in altri paesi i nemici di Napoleone si servivano, sia della

(1) A. Fournier, Vita dì Napoleone I, (Trad. Ung., 1916, voi. Ili, o. Ili, pag. 178).

sconfitta russa, sia della prigionia del Papa, per eccitare il popolo contro l’Imperatore dei Francesi. Nello stesso tempo, Napoleone conosceva bene l’im¬portanza straordinaria del sentimento popolare, il cui entusiasmo era stato tanto depresso dalla sua sconfitta e dalla prigionia e dai maltrattamenti inflitti al Papa; perciò, non essendo possibile riparare così presto alla sconfitta, pensò che almeno avrebbe potuto fare presto la pace col Papa, dandone tosto notizia a tutti gli strati della popolazione.

Ormai non era più suo desiderio di abbattere e fiaccare il Papa, ma di indurlo in qualche modo a far la pace. Per prima cosa, si migliorarono le Sue condizioni esteriori: improvvisamente se ne rese più comoda la vita, se ne circondò di venerazione la persona, si mise a Sua disposizione l’appartamento imperiale e tutto il parco, si pose una guardia d’onore al palazzo, e si permise ai cardinali ed ai vescovi di visitarlo. Poi l’Imperatore stesso, che prima lasciava senza risposta le lettere del Papa, ora invece, subito il secondo giorno dopo il suo arrivo a Parigi, gli scrisse di sua mano una lettera cordiale, lusinghiera e rispettosa, in cui, tra l’altro, diceva: « Mi affretto a manifestare a Vostra Santità la mia gioia per il miglioramento della Sua salute, perchè l’estate scorsa ero molto inquieto, sapendo che la Sua salute era molto colpita. La nuova dimora di V. S. mi renderà possibile di vederla, perchè desidero molto dichiararle personalmente che, nonostante quanto è intervenuto, sento sempre per la Sua persona la medesima antica amicizia. Sia convinta che nessuna circostanza potrà influire sulla grande venerazione e stima che sento per la Sua persona. Prego Dio che conservi ancora a lungo in vita V. S., affinchè ottenga la gloria della ricostituzione del governo della Chiesa e si allieti dell’opera Sua » (1).

Pel capo d’anno 1813 l’Imperatore mandò un cameriere a portare i suoi auguri al Papa, il quale rispose alla cortesia incaricando il Card. Doria di ricambiarli all’Imperatore. In occasione dell’udienza al Doria, l’Imperatore manifestò subito il suo desiderio di riprendere al più presto le trattative col Papa. A questo scopo, senza neppur aspettare la risposta del Papa, mandò Mons. Du Voisin, vescovo di Nantes, a proporre a Pio VII un nuovo piano d’intesa. Frattanto mandò addosso al Papa anche uno sciame di vescovi ligi all’Imperatore, perchè appoggiassero il suo piano.

     Ma il Papa dichiarò che, finché era prigioniero, non era disposto a trattare coll’Imperatore. Figurarsi la rabbia ed il risentimento di Napoleone! Decise di recarsi a dare personalmente una lezione a Pio VII. Come dice Chateaubriand, Napoleone « questo mostro sanguinario, scappato con gran difficoltà davanti ai Cosacchi, si lanciava addosso ad un vecchio, suo prigioniero » (2).

     Il 19 gennaio 1813 (che fretta !) col pretesto di una caccia, improvvisamente e come per caso, si recò, in compagnia dell’Imperatrice, a trovare il Papa: lo abbracciò, lo baciò, lo chiamò « padre ». Ma era

(1)         Ricordiamo che Napoleone, immediatamente prima della spedizione in Russia, aveva invitato il Papa a cedere il suo posto ad un uomo più capace (v. p. 142).

(2)         CHATEAUBBIAND, Vie de Napoléon, (Trad. Ung. di D. Antal, pag. 131).

venuto all’improvviso a bella posta, per non dar tempo al Papa di esaminare con calma le pretese imperiali. Dall’incoronazione, non s’eran più visti!

     L’esecuzione del piano per persuadere il Papa continuò per otto giorni: «Napoleone — scrive uno storico — usò tutta la sua capacità persuasiva ed il fascino della sua fantasia; ed egli, quando voleva, era capace di trascinare chiunque. Difficile era la posizione del Papa malaticcio, di fronte al loquace e potente sovrano ». L’Imperatore, prima con buone parole, poi con minacce e scene spiacevoli, stancò tanto il Papa, già indebolito ed esaurito dalla lunga prigionia, nonché dalla sua età di 71 anno, che finalmente, con un accorto tranello, riuscì a fargli sottoscrivere un progetto di concordato. La cosa andò così: La sera del 25 gennaio 1813, l’Imperatore fece sapere al Papa che, per un affare urgentissimo, doveva partire immediatamente per Parigi; motivo per cui aveva condotto con sè il suo segretario, perchè mettesse subito in carta i punti che dovrebbero poi servire di base per un concordato da concludersi più tardi. Il Pistoiesi, nella sua Vita del Papa (III, 142) scrive: « Alla fine della conversazione con Napoleone, la quale fu così vivace che si poteva udire dalla stanza vicina, il Papa ricapitolò con calma ciò che aveva fatto e patito in difesa della Chiesa e della Religione, e concluse dichiarando con affabilità, ma con fermezza, che avrebbe voluto esporsi a qualunque cosa, piuttosto che accordarsi su questi punti. Napoleone, che aveva ascoltato attentamente il Papa sino alla fine, fu impressionato da tale sempli¬cità e fermezza apostolica: abbracciò il Papa, e disse: «Se fossi stato al vostro posto, avrei fatto lo stesso» (1). Tuttavia Napoleone cercava di indurre il Papa a firmare gli appunti dettati al segretario imperiale, principalmente insistendo su ciò, elle si trattava solo di un progetto, di una direttiva, che doveva rimane¬re segreta, finché il Collegio dei Cardinali non avesse deciso al riguardo.

     Ma il Papa continuava ad esitare. Erano presenti anche alcuni Cardinali e Vescovi, i quali lo pregavano a firmare gli appunti: Egli li fissava, uno dopo l’altro, quasi volesse leggere nei loro occhi se fossero sinceri; ma essi, parte abbassavano gli occhi, parte si stringevano nelle spalle. Finalmente il Papa firmò il « progetto di concordato », insistendo però che, non solo verbalmente, ma anche nel testo, e precisamente nella conclusione, fosse esplicitamente espresso che tale accordo doveva essere considerato solamente come una base preventiva per un accordo ulteriore e particolareggiato. Ciò fu ammesso anche da Napoleone. « Il Papa — scrive il Card. Pacca nelle sue « Memorie Storiche » (III, 66) — ancor nel momento della firma mostrò chiaramente che tentennava, e che la firma non corrispondeva alla sua convinzione ».

     Sebbene, dunque, raccordo firmato dal Papa fosse soltanto un progetto temporaneo, Napoleone ebbe cura di darne notizia immediata dappertutto ed in tutti i modi (per la stampa, con suoni di campane,

(1) HWISEMAN, « Bicordi dei quattro ultimi Papi e di Poma » (pag. 67) dice di questa scena: « Non è questo un far prigioniero il vincitore, e vincerlo nel senso più nobile della parola? Quale più onorevole ossequio si sarebbe potuto rendere alla condotta de! Papa?»

ecc. coll’intenzione di tranquillizzare il popolo: naturalmente, presentò l’accordo come se il Papa vi avesse acconsentito spontaneamente, col massimo piacere ed entusiasmo; anzi, ciò che era solo stato sottoscritto come un progetto, e colla condizione che fosse approvato dai Cardinali, fu dato come un accordo definitivo.

     Tra le altre cose stabilite in tale accordo, c’era che Napoleone doveva dare al Papa due milioni di franchi all’anno per i possedimenti che gli aveva presi, e permettere ai Cardinali di recarsi liberamente dal Papa: fu così che i Cardinali che erano stati imprigionati riebbero la libertà, e tra essi anche il Pacca, al quale però Napoleone trovò molta difficoltà a far grazia. In cambio, secondo il medesimo accordo, il Papa avrebbe dovuto rinunciare a molti importanti diritti della Chiesa, cosicché i Cardinali che poterono andarlo a trovare non poterono far a meno di disapprovare la Sua arrendevolezza.

     Anzi, anche i migliori fedeli cattolici si stupirono dell’arrendevolezza del Papa: parecchie donne buttarono sul fuoco il Suo ritratto; a Roma, all’annunzio del suddetto accordo, si diceva: « Se è vero, andiamo nel Ghetto e ci facciamo ebrei». Soltanto dopo che, a poco a poco, specialmente per mezzo di Mons. Barrai, arcivescovo di Tours, si venne a sapere in che modo Napoleone aveva ottenuto tale accordo, e che questo era considerato da Pio VII soltanto come un progetto provvisorio, si calmò lo stupore e vi successe una profonda compassione per il Papa.

Anche un biografo di Pio VII dice che l’accettazione di questo progetto di concordato fu l’unico errore di tutto il Suo pontificato. Anzi, il Papa stesso, quando il Pacca potè recarsi da Lui, e mentre gli esprimeva la sua ammirazione per la costanza eroica mostrata durante la lunga e dura prigionia, disse lamentandosi: « Ma alla fine ci siamo macchiati: quei cardinali ci costrinsero a sedere al tavolo e firmare il progetto ».

     Purtroppo, per scusare il Papa, dobbiamo dire che quei cardinali lo persuasero a firmare! E’ vero che si trattava di cardinali più ligi all’Imperatore che al Papa; ma, insomma, erano pur sempre cardinali. D’altra parte, il Papa scelse le concessioni notate nel progetto come un « minor male » di fronte a quel maggior male che Napoleone minacciava, e che i cardinali amici dell’Imperatore facevano temere: che cioè, in caso di rifiuto a firmare, Napoleone si sarebbe staccato dalla Chiesa, separandone, con sè, tutto l’impero. Bisogna poi anche sapere ciò che il Papa comunicò al Pacca, cioè che Napoleone pretendeva anche parecchie altre cose, a cui Egli si era opposto decisamente ed irremovibilmente: p. es., che il Papa ed i suoi successori potessero nominare soltanto un terzo dei Cardinali, lasciando la nomina degli altri ai sovrani; che il Papa pubblicasse un Breve per disapprovare la condotta dei « cardinali neri » in occasione del secondo matrimonio di Napoleone, ecc.

     Quando poi i Cardinali e Vescovi fedeli al Papa, che finora erano stati rinchiusi in prigione e tenuti lontani da Lui, poterono di nuovo avvicinarlo e dichiarargli la loro opinione, che nelle concessioni si era oltrepassato il limite voluto, Pio VII decise, per loro consiglio, di ritirarle. Quanto ai due milioni di franchi annui, Egli ne aveva già respinto antecedentemente la prima rata.

     Naturalmente, non decise di ritirare le concessioni firmate, prima di essersi consigliato a lungo coi Cardinali e di aver con loro esaminato a fondo ogni eventualità. C’erano dei Cardinali che non ap¬provavano tale decisione; ma quelli fedeli al Papa, e quindi i più attendibili, la sostenevano, soprattutto per il fatto che raccordo era stato strappato al Papa colla violenza. A far accettare la decisione contribuì molto la circostanza che, mentre i Cardinali prima imprigionati avevano riacquistato la libertà, la situazione del Papa continuava ad essere simile ad una prigionia: il Pacca scrive che, appena il primo giorno in cui potè tornare presso il Papa, fu subito avvisato di vigilare su ogni sua parola, perchè l’abitazione del Papa era circondata da spie; ed il Papa stesso dovette accorgersi che, mentre diceva Messa, gli incaricati del governo frugavano nelle Sue camere, aprivano i cassetti e gli armadi con chiavi false, e leggevano tutti i Suoi scritti, cosicché tanto Lui come i Cardinali si dovettero mettere a portare con sè, quando andavano a celebrare, gli scritti più confidenziali. Però, la ragione giuridica più grave, per il ritiro del progetto firmato, era il fatto che Napoleone, contro l’intesa comune, aveva pubblicato e fatto stampare il progetto come accordo definitivo, anzi, il 14 febbraio l’aveva promulgato in parlamento come legge dello stato.

     Ed io son costretto a presentare a’ miei lettori l’eventualità che, al tempo dell’accordo verbale del Papa con Napoleone, il Porta, il medico corrotto dall’Imperatore, avesse di nuovo prestato l’opera sua, benché, reso saggio dall’esperienza del passato, in modo più acuto, più accorto, ed in misura più conveniente.

     Quando fu pronto il lungo documento con cui si ritirava il progetto (24 mar. 1813), Pio VII lo fece pervenire a Napoleone sotto forma di una lettera, nella quale dichiarava di tenersi a disposizione dell’Imperatore per la conclusione del tanto desiderato concordato definitivo.

    Possiamo immaginarci quanto codesta lettera abbia fatto dispetto a Napoleone. Finse astutamente di non averla ricevuta, ma non seppe nascondere la sua ira, che si manifestò con parecchie punizioni. Incominciò a dire che « avrebbe fatto accorciare di una testa alcuni preti di Fontainebleau », e se non li condannò a morte, li colpì tuttavia rigorosamente. Ormai il Papa potè soltanto più ricevere Cardinali, e non altri prelati; i cittadini ed i forestieri non furono più ammessi ad ascoltare la Sua Messa; quei Cardinali, che si supponeva avessero consigliato il Papa a ritirare il progetto, in parte furono esiliati, in parte posti sotto vigilanza: p. es., il Card. Di Pietro fu svegliato improvvisamente la notte del 5 aprile, e, senza neppur il tempo di indossare gli abiti del suo grado, fu senz’altro accompagnato ad Auxonne da un ufficiale dei gendarmi; ai Cardinali rimasti a Fontainebleau fu proibito di aver corrispondenza con qualsiasi persona dell’Impero, ed al Papa potevano soltanto più far visita di convenienza o di cortesia, colla proibizione, sotto pena di esser privati della libertà, di trattar comunque d’affari.

     Frattanto Napoleone fece pervenire il progetto di concordato, come legge obbligatoria dello stato, a tutti i tribunali ed uffici, e diede ordine che si preparasse una proposta di legge per la punizione dei violatori, obbligando tutti gli Arcivescovi, Vescovi e Capitoli dell’Impero ad accettare quello che egli chiamava « concordato ».

Quanto alla lettera con cui il Papa aveva ritirato il progetto, avrebbe voluto tenerla segreta; ma ciò gli riuscì soltanto da parte sua, perchè il Papa ne aveva fatto preparare delle copie colla Sua firma e per mezzo dei Cardinali le aveva fatte pervenire anche ad altri; inoltre, il 9 maggio convocò presso di sè i Cardinali, e tenne loro un’allocuzione in cui protestava contro le nuove disposizioni di Napoleone. Di tale allocuzione fu anche consegnata ad ogni Cardinale una copia scritta, colla data del 24 marzo.

Questa allocuzione eccitò di nuovo l’ira di Napoleone. Ma ormai la sua stella era vicina al tramonto. La Prussia si alleò, e la Svezia fece un trattato colla Russia; Amburgo, Berlino e Dresda furono evacuate dai Francesi ; la lega imperiale incominciò a disfarsi e l’Austria si unì all’alleanza Russo-Prussiana; in Spagna gl’inglesi sconfissero Giuseppe; Wellington avanzava; ed a tutto ciò pose il colmo la battaglia di Lipsia. Perciò il superbo Napoleone, per mezzo di diversi fiduciari, venne ancora tre volte a bussare alla porta del Papa, ogni volta con nuove e più beni¬gne proposte; ma Pio VII dichiarò che fuori del territorio della Chiesa non era più disposto a trattare coll’Imperatore.

Il Papa riacquista la libertà

Napoleone aveva ragione di temere che il nemico sempre avanzante gli strappasse di mano e liberasse il Papa, che avrebbe così ricevuto la libertà da una potenza nemica dell’Imperatore. Per evitare questa vergogna, ed anche per placare i Cattolici, che gli erano avversi per il suo modo indegno di trattare il Papa e per la falsificazione del concordato, il 10 marzo 1814 incominciò, benché a malincuore, a restituire al Papa l’apparenza della libertà. Il colonnello Lagorse si presentò al palazzo del Papa, e comunicò al Card. Mattei che aveva l’ordine di condurre il Papa a Savona, e poi a Roma. Al Mattei riuscì subito sospetta tanta buona volontà, della mancanza della quale dovette tosto accorgersi anche il Papa: infatti, quando espresse al Lagorse il Suo desiderio di essere accompagnato nel viaggio da due o tre Cardinali, od almeno da uno, il colonnello, richiamandosi alle istruzioni ricevute dal governo, ricusò di soddisfare tale desiderio.

     Prima della partenza, il Papa andò in cappella con sedici Cardinali, pregò, diede la benedizione, poi salì in carrozza, accompagnato dal Lagorse, dal cameriere Bertalozzi, da due servitori, e dall’immancabile Dottor Porta. I Cardinali rimasti a Fontainebleau furono fatti allontanare, ciascuno in compagnia di un ufficiale dei gendarmi, in modo elle non potessero seguire il Papa; ed anche nelle loro nuove dimore furono strettamente tenuti sotto sorveglianza della polizia. Specialmente vigilato era il Pacca: non gli era neppur permesso celebrare in pubblico, se ne sorvegliava la corrispondenza e le relazioni, e gli si fecero minacce, pel caso che avesse a fomentar malcontenti.

     La libertà concessa al Papa era soltanto finta, condizionata e vigilata: l’ordine segreto di Napoleo¬ne era che lo si facesse viaggiare perle vie più lunghe, con una marcia lenta e dilatoria, affinchè, se per caso la fortuna avesse di nuovo a favorire le armi francesi, si fosse in tempo a ricondurlo a Fontainebleau per finirla con Lui. Ma in questo, Napoleone non poté piu riuscire: tutta l’Europa gli era contro ; i suoi soldati disertavano e passavano al nemico ; il tesoro era vuoto ed il valore del denaro precipitava; l’opinione pubblica diventava esasperatamente minacciosa; il nemico avanzava in territorio francese ; il 25 gennaio l’Imperatore vide per l’ultima volta sua moglie e suo figlio; il 30 marzo si arrese Parigi; il giorno dopo vi entrarono i sovrani nemici; Napoleone fu dichiarato decaduto dal trono. Frattanto, il Papa era già arrivato ai confini degli Stati della Chiesa.

L’ex imperatore dei Francesi fu dapprima mandato all’isola d’Elba, e poi, dopo il suo tentativo di ritorno, all’isola di Sant’Elena come prigioniero di guerra; mentre Pio VII, in mezzo a grandi festeggiamenti, all’entusiasmo fremente ed all’immenso tripudio del popolo, con una scorta di Ussari ungheresi (1), rientrava in Roma e ritornava sul trono pontificio (24 maggio 1814) (2). Dopo il Congresso di Vienna del 1815 riacquistò i possedimenti della Chiesa che erano stati occupati dai Francesi, eccetto soltanto Avignone col Contado Venosino a cui aveva già dovuto rinunciare definitivamente Pio VI nella pace di Tolentino del 1797.

(1) Riguardo a questa scorta di Ussari, vedi ampiamente: TOWER VILMOS, « A papale szerepe hdzdnle megmentésében és fennmaraddsdban », (La parte dei Papi nella salvezza e conserva¬zione della nostra patria « l’Ungheria »), Budapest, 1935, pagg. 225-2T.

(21 Fu appunto a ricordo di questa data, che Pio VII fissò al 24 maggio la festa di Maria Auxilium Ghrislianorum, da Lui istituita per ringraziare la Madonna dell’assistenza che Gli aveva prestata durante la guerra mossagli da Napoleone (N. d. T.).

Umanamente parlando

     Giudicando unicamente da un punto di vista umano, è vero, benché sembri contradditorio, che Napoleone fu una personalità rivoluzionaria: fu la rivoluzione a spingerlo innanzi, a fargli crescere le ali, ad innalzarlo — ed egli fu il più grande rivoluzionario.

     Non importa, infatti, che si faccia la rivoluzione dal basso o dall’alto, in abito da sanculotto od in uniforme da generale, col berretto grigio o colla corona imperiale: c’è solo diversità di stile o contrarietà di direzione; ma il risultato è il medesimo, sia che la palla che mi colpisce il capo o mi penetra il cuore venga da destra, sia che venga da sinistra. La rivoluzione causa esplosioni e distruzioni, rompe e fracassa, innalza ed abbassa — dal basso in alto, come dall’alto in basso.

     Napoleone rovesciò troni e cacciò sovrani, umiliò principi, cancellò confini, sparse il sangue di milioni di uomini, mise in giro falsi principii, asservì la stampa, falsificò il denaro, incarcerò decine di migliaia di persone e ne privò altrettante dei loro diritti aviti, fece tremare troni e magnati, vescovi e pre¬ti, fece angherie, prede, prepotenze ed incusse pau¬ra… come qualsiasi rivoluzionario o rivoluzione.

     Ma Napoleone è perfettamente simile ai rivoluzionari puro sangue anche in questo, che in lui s’ingannarono tutti, ed egli s’ingannò a sua volta in tutti. Perchè, come sentenziò una testa quadrata, « nella rivoluzione gli uomini s’ingannano sempre ».

     In Napoleone s’ingannò la rivoluzione stessa, « che lo innalzò, e ne fu schiacciata; s’ingannò il popolo francese, per cui egli costruì, a prezzo d’un enorme sacrificio di sangue, un fantastico impero, simile ad un castello di carte, che Trafalgar, Aspern, i campi gelati di Mosca e la battaglia delle nazioni ridussero in polvere »; s’ingannò la sua prima moglie, da cui si separò, e la seconda, che perse con lui la corona; s’ingannò la sua famiglia, che ricevette da lui troni, regni, titoli e ricchezze, per poi fuggire pazzamente in tutte le direzioni della rosa dei venti, mendicando un rifugio; s’ingannò la Chiesa, che egli salvò, per farsene poi un lacchè della sua potenza ed un caudatario della sua gloria; s’ingannò il popolo romano (1), e più amaramente di tutti, s’ingannò il Papa, che dapprima aveva creduto alla magnanimità, alla gratitudine ed alle promesse di lui.

     Ma s’ingannò anche Napoleone stesso! S’ingannò nella sua prima moglie, che non l’amava, ma solo lo illudeva, e non gli diede un erede; s’ingannò nella seconda, che lo deluse; s’ingannò nel suo figlio, che egli sognava suo potente successore; s’ingannò ne’

(1) L. MADEI.IN. La Rome de Rapoléon, Paris, Plon et Nourrit.

 suoi parenti, che dopo la sua caduta lo lasciarono alla sua sorte ; s’ingannò ne’ suoi ministri, che si volsero poi contro di lui, e ne’ suoi generali, che lo abbandonarono; s’ingannò nel senato, che lo dichiarò decaduto dal trono ; s’ingannò nel suo amico più fidato, che propose il suo esilio; s’ingannò nel suo segretario, che lo teneva per pazzo, e ne’ suoi servi, che fuggirono da lui; s’ingannò in se stesso, credendosi invincibile e fidando ciecamente nella sua buona stella; s’ingannò negli Inglesi, alla cui « magnanimità » si era affidato; s’ingannò nel Papa, che egli credeva di poter sopraffare; e s’ingannò persino nel suo testamento, che non fu mai eseguito.

     Sì, giudicando unicamente da un punto di vista umano, tutta la persona e l’opera di Napoleone fu un cumulo di inganni, un fuoco fatuo, un falso splendore.

     Ma c’è ancora un altro punto di vista, un piano superiore, una spiegazione ed un insegnamento più interessante e più istruttivo: quello che tocca il soprannaturale. C’è un nuovo modo di concepire e di vedere, un mirabile parallelo e contrasto, proprio tra la sorte del Papa e quella di Napoleone. Esaminare modestamente il nostro argomento sotto questo nuovo aspetto, sarà il compito della seconda parte del nostro libro.

PARTE SECONDA

“ … E DIO DISPONE „

« Eowever party writers may la- bour to distort events, facts will survive in their originai strength ».

                                                                                             R. R. Madden.

(Per quanto scrittori parziali si sforzino di alterare gli avvenimenti, i fatti rimarranno colla loro forza primitiva).

La Benedizione del Papa

     La Sacra Scrittura, il Talmud, il Corano, come pure, nel loro modo d’intender la vita, i Buddisti e gli Hindù, i seguaci di Tao e di Confucio, lo Scintoismo e l’Animismo, tutti ad una voce insegnano che la Divinità non presiedette soltanto all’origine e formazione dell’universo, ma sta anche alla direzione della Storia.     

     Sant’Agostino (De Civitate Dei, IV se¬colo), Bossuet (Discours sur l’Histoire Universelle, 1684), De Maistre (Considérations sur l’histoire de France, 1797), Chateaubriand (Génie du Christiani- sme, 1802), Donoso Cortés (Essai sur le Catholicisme, le Libéralisme et le Socialisme, 1851), Sawicki (Ge- schichtsphilosophie, 1920), Schlegel (Philosophie der Geschichte, 1829), Coulanges (La Cité antique, 1890), e, da quindici secoli a questa parte, tutti i filosofi della storia credenti « considerano la storia come un’apologia della Divina Provvidenza. Se la natura, come fatto, è prova di Dio creatore, altrettanto la storia, come processo, è prova di Dio provvidente » (1).

(1) Ho preso questa citazione dal saggio del DOTT. LADISLAO GALOS SU « La filosofia di Donoso Cortés », (Dr. Gdlos Ldszló, Cortes Donoso Tórténelbólcselete. — M. Kult. 936, 270).

     Sebbene, sull’esempio della S. Scrittura (v. p. es., Judith., IX), i filosofi della storia giustifichino il loro modo di vedere con numerosi esempi, è modesto compito del presente scritto rilevare, dalla lotta tra Napoleone ed il Papa, un nuovo esempio, che finora è stranamente sfuggito all’attenzione dei biografi di Napoleone.

     Non ch’io abbia l’audacia di esplorare dalle inaccessibili altezze della Provvidenza Divina la lotta combattuta da Napoleone col Papa, ma pure oserò richiamare l’attenzione dei benevoli lettori su alcune somiglianze e differenze evidenti, o addirittura sorprendenti, od almeno interessanti e degne di considerazione, che, sullo sfondo di tale lotta, ci son presentate da gran numero di fatti.

     Tuttavia, l’esposizione di codeste somiglianze e differenze, già di per se stesse interessanti e talora anche sorprendenti, mi servirà anche di occasione e di cornice per far conoscere al lettore parecchie circostanze finora sconosciute della caduta e della prigionia di Napoleone. Così pure, cercherò di dare informazioni esaurienti ed oggettive sulle idee religiose di Napoleone, sulla sua condotta religiosa e privata, su’ suoi meriti verso la Religione e la Chiesa, ed anche sulla nobile condotta tenuta dal Papa verso la famiglia Bonaparte dopo la caduta di Napoleone.

     I lettori si saranno accorti che nella prima parte di questo libro non abbiamo considerato i Papi da un punto di vista religioso, cattolico, soprannaturale, o, se così piace, di ordine superiore; ma li abbiamo considerati da un punto di vista esclusivamente umano e storico. Anche nella seconda parte seguiremo lo stesso sistema, permettendoci un’eccezione soltanto in questo primo capitolo ed in quello immediatamente seguente, nei quali vogliamo domandarci se la mano del Papa e la sua Benedizione non abbiano da fare colla sorte delle corone.

     Ricordiamo il gesto con cui Napoleone strappò di mano al Papa la corona e si pose in capo da sè il fulgido simbolo dell’autorità imperiale.

     Chiedere al Papa, e ricevere dalla Sua mano la corona, non voleva soltanto significare l’indipendenza del regno e dell’autorità sovrana da ogni potenza straniera (1); ma voleva anche dire che il sovrano intendeva collocare il suo territorio, la sua corona e la sua sovranità sotto la protezione del Soprannaturale, del Cielo e del Signore del Cielo: * Christi super se imperium », secondo l’espressione di Gregorio VII (2).

     Napoleone non sentì il bisogno di collegare coll’ordine soprannaturale il suo paese, il suo impero, la sua corona e la sua imperiale famiglia: inebriato dalla sua fortuna, pensava che il suo braccio e la forza della sua volontà avessero potere sufficiente per fondare un nuovo impero ed una nuova dinastia potente e radiante di felicità, anche senza l’aiuto del Papa, della Chiesa, del Cielo. Ma quale fu la conseguenza di tale superba e presuntuosa fiducia in se stesso? Quella che la S. Scrittura preannunzia ai superbi:

(1)         Louis THOMASSIN, Ancienne et nouvelle discipline de l’Eglise touchant les Bénéfices et les Bénéficiers, 1678-1679, T. Ili, 1. I, o. 32, n. 13.

(2)         Monumenta Gregoriana, L. Ili, ep. 10, p. 439.

      « Chi si esalta, sarà umiliato » (1). Dopo il giorno dell’incoronazione, non potè mai più portare la corona. Nemmeno a sua moglie aveva lasciato imporre la corona dal Papa; gliel’aveva voluta imporre egli stesso: e nemmeno sua moglie non la potè portare mai più, anzi, più tardi, egli stesso la ripudiò. Quando Napoleone venne a sapere che il generale Malet ave¬va organizzato una congiura contro di lui, esclamò: « E’ ben debole e ben poco sicura la corona sul mio capo, se la temeraria audacia di tre vagabondi può farla vacillare! » (2) E vacillò; anzi, cadde; diventò una corona da burattini.

     Pochi sanno che Beethoven aveva dedicato la sua Terza Sinfonia a Bonaparte. Ma quando seppe che il Primo Console si era fatto incoronare Imperatore, tirò un frego sulla dedica, e scrisse: « Sinfonia eroica in memoria d’un grand’uomo». «C’è in essa (nella 3.a sinfonia) — osserva il Merezskovszkij — una marcia funebre, come se anche Beethoven avesse saputo… » (3). Sì, come se il suo genio avesse presentito che l’autoesaltazione dell’Imperatore sarebbe finita in uno scacco.

     Il Murat, cognato di Napoleone, volle imitare l’Iimperatore, e si mise anche lui in capo la corona d’Italia colle proprie mani: e neanche lui la potè più portare! Cinquanta giorni dopo la sua autoincoronazione, sparì anche l’ombra della sua sovranità.

(1)         Matt., XXIII, 12; Marc., XIV, 11.

(2)         F. MASSON, Napoléon et son fils, 1904, (2.a ed.), pag. 238.

(3)         DEMETRIO SERGEJEVICS MEREZSKOVSKÌÌ, Vita di Napo- eone, (Trad. Ung., Ediz. Dante, senza data, pagg. 151-2).

     Dopo le considerazioni precedenti, sia permesso a noi (1), figli di questa povera Ungheria mutilata, ridotta in miseria dalla crudeltà del Trianon, rivolgere con ispirata devozione il nostro memore pensiero a quel primo nostro Santo Re Apostolico, che nella sua robusta fede, profonda umiltà e grande saggezza seppe e sentì che non avrebbe potuto affidare il suo regno e le sue opere solamente a forze umane, ad aiuti terreni, a protezione di vicine potenze, e perciò volle aggrapparsi alla mano di una potenza di ordine superiore, e chiese ed ottenne la corona dal Papa. Sta su di essa la Benedizione del Papa e da allora noi la chiamiamo la Santa Corona. Ed ecco quale fu la fecondità di quella Benedizione :

Non c’è al mondo corona che sia passata per tante vicende, che abbia sostenuto tanti cimenti, che abbia corso tanti pericoli, quanti la Corona di Santo Stefano. Tante volte andò smarrita; altre volte fu venduta, impegnata, rubata, rapita, nascosta, sepolta; cadde in una palude; fu mandata all’estero di contrabbando; capitò in mano del nemico a Vienna, a Linz, a Praga, a Pavia; diventò proprietà del Sultano; fu rinchiusa nel tesoro

(1) Sono stato qualche tempo in dubbio, se tradurre il brano che segue, che non fu scritto per lettori italiani. Ma poi ho deci¬so di pubblicarlo (sebbene in carattere diverso) come documento della particolare devozione degli Ungheresi per la loro « Santa Corona »: Religione, Patriottismo, Fedeltà si fondono in tale venerazione, per la quale, Dio, Patria e Re sono oggetto di un sol amore, ed hanno ima rappresentazione sensibile precisamente in quella corona con cui fu incoronato il primo re d’Ungheria, Santo Stefano, e che viene conservata e venerata, non solo come cimelio storico, ma soprattutto come sacra reliquia. E’ pur da notare che nessuno può essere considerato vero Re d’Ungheria se non è stato incoronato proprio con quella corona.

(Nota del Traduttore).

dell’imperatore di Germania; dovette fuggire davanti alle armi turche, austriache, francesi; la sua croce si piegò; due volte le cadde vicino il fulmine; i comunisti volevano fonderla e si preparavano a venderla… eppure, da quasi un millennio, questa « benedetta » Santa Corona, non solo si conservò, non solo lottò contro ogni vicenda, cimento e pericolo, contro ogni volontà e malizia nemica, ma abbracciando nel suo cerchio tutti i popoli dell’Ungheria, di qualsiasi razza, nazionalità e lingua, li difese, protesse e benedisse, tenendoli uniti fra loro e col sacro suolo della Patria. Si conservò, si elevò come « un simbolo, del quale non è possibile trovarne uno più grande e più bello » (1). Più splendido che le sue pietre preziose rifulge il suo valore morale, e cioè l’eccezionale stima, venerazione, devozione di cui è circondata, e il diritto che essa rappresenta.

La nostra Santa Corona è stata fino ad oggi il compendio di tutte le glorie, i trionfi, i lutti, i dolori e le spe¬ranze dell’Ungheria; la sua storia è la storia avventurosa, cruenta e gloriosa della nostra nazione; in essa si compendia il nostro passato, il nostro presente e il nostro promettente avvenire. L’abbiamo ricevuta dalle mani del Papa; sta su di essa la Sua benedizione e la Sua preghiera! Vi rimanga sempre, e aiuti la nostra cara Patria a risorgere al più presto, ed a conseguire una nuova felicità e gioie trionfali!

(1) Parole dette alla Camera dei Deputati da Tiberio Zsit- vay, ministro della giustizia, il 20 giugno 1930.

La condanna del Papa

     Nel precedente capitolo, abbiamo potuto contemplare il meraviglioso attecchire e crescere, la vigorosa vitalità e continua reviviscenza della benedizione del Papa; nel presente, vedremo quale terribile efficacia abbia avuto la Sua parola punitrice sulla sorte ulteriore di Napoleone, anzi, quale solco profondo abbia tracciato la mano punitrice del Papa nel misterioso campo della Storia Universale.

     Nella prima parte del nostro libro abbiamo elencato ampiamente e particolareggiatamente i motivi che avevano finalmente costretto Pio VII ad usare contro gli usurpatori, predatori e violatori de’ Suoi stati l’unica arma che aveva a sua disposizione, pubblicando e facendo affiggere la Bolla «Ad perpetuam rei memoriam», datata 10 giugno 1809, colla quale colpiva di scomunica maggiore coloro che avevano ordinato, promosso, consigliato, sollecitato od eseguito gli attentati commessi in Roma e nello Stato Pontificio contro la libertà della Chiesa ed i diritti della S. Sede.

     La Bolla non faceva il nome di Napoleone, ma tutti sapevano, e Napoleone meglio di tutti, che quella pena ecclesiastica era diretta a lui pel primo. Ed egli se ne fece beffe. « La Bolla di scomunica — scrisse al suo ministro dei culti — è un documento così ridicolo, che non merita neppure attenzione ». Già precedentemente aveva detto, ridendo: « Crede forse il Papa che con ciò cadranno le armi di mano a’ miei soldati? » E’ caratteristico che Napoleone — prevedendo, a quanto pare, la possibilità della scomunica — avesse usato codesta frase già anche due anni prima (1), a Dresda, in una lettera indirizzata al principe Eugenio il 22 luglio 1807.

     Ciò nonostante, la Bolla di scomunica gli suscitò nell’anima una tempesta. Già la stessa ripetizione delle parole sopra citate ne è un segno ; ed un altro segno ne è che sentì il bisogno di sottoporre la Bolla all’esame de’ suoi dotti, affinchè manifestassero il loro parere in proposito e la confutassero (2). Egli, che si era una volta vantato dì presentire il futuro, avrebbe potuto presentire, nella Bolla della sua condanna, ciò che Talleyrand espresse in quella frase già da noi riportata: « Le commencement de la fin ».

     Napoleone era padrone di mezza Europa, ma voleva diventarlo di tutta. Una volta aveva detto all’ambasciatore della Prussia: «Ancor due o tre anni e sarò padrone dell’universo». Ed un’altra volta aveva voluto intimidire l’ambasciatore della Russia dicendogli: « Fra cinque anni sarò padrone del mondo;

(1) « BRIEFE NAPOLEONS I », (Ediz. Stuttgart, 1910, voi. II, pag. 229). Cfr. C. XII della l.a parte del presente libro.

(2) DR. J. MARX —- F. BILKEI, A lcat. Egyhàz tórténete, (Storia della Chiesa Cattolica), 1932, pag. 720.

rimane ancora la Russia, ma la schiaccerò » (1).

     Perciò, al colmo della sua potenza, nel 1812 diresse il suo esercito contro la Russia. Fino ad allora, il mondo non aveva ancora visto un tale esercito. Dei 600.000 uomini della spedizione, 200.000 dovevano proteggere la marcia, e 400.000 marciavano con lui, che comandava personalmente il grosso dell’eserci-to. Secondo Chateaubriand, l’esercito completo constava di 690.300 fanti e 166.800 cavalieri (2). Vi appartenevano inoltre 1.300 batterie. L’esercito era seguito da una fila sterminata di carri pel trasporto delle vettovaglie e delle munizioni. I commissari di guerra avevano tenuto conto di tutte le eventualità. I paesi che rimanevano alle spalle facevano sforzi inauditi per appoggiare la spedizione.

     Possiamo aggiungere che Napoleone ed i suoi soldati non erano mai partiti per la guerra con maggior fiducia, anzi con maggior sicurezza di vincere, che quando mossero contro la Russia. Prima di partire, in una seduta dell’assemblea legislativa, l’Imperatore spiegò i suoi futuri disegni con tanto calore, che pareva già anticipatamente inebriato delle vittorie e dei trionfi che si aspettava. A Dresda, come un padrone avrebbe fatto col suo personale di servizio, fece venire a sè i suoi principi vassalli, compreso il re di Prussia e l’imperatore d’Austria, i quali resero omaggio al prossimo padrone dell’Europa. Napoleone si esaltava alla vista de’ suoi soldati.

(1)         ADORJAN, KERI, SERESS, A nagy /rancia forradalom Ss Napoleon, (La grande rivoluzione francese e Napoleone). Buda¬pest, senza data, voi. V, pag. 146.

(2)         CHATEAUBRIAND, Vie de Na-poléon, (Trad. ung. di D. Antal, senza data, pag. 95).

     Gli ufficiali di servizio lo sentivano, nella sala vicina, camminare velocemente su e giù, cantando entusia¬sticamente a pieni polmoni queste parole dell’inno rivoluzionario: Et du Nord au Midi la trompette guerrière

                        A sonné l’heure des combats:

                        Tremblez, ennemis de la France !

     Uno de’ suoi generali scriveva a casa: « La nostra fiducia è così grande, clie non discutiamo neppure la possibilità della riuscita di tale impresa. Siamo avvezzi airinfallibilità dell’Imperatore ed alla riuscita de’ suoi piani » (1).

     Anche le condizioni del nemico erano tali da far ritenere sicura la vittoria di Napoleone. I Russi potevano mobilitare, con grande difficoltà, soltanto 200.000 uomini, ed i loro comandanti non erano eccellenti, punto paragonabili a Napoleone od a’ suoi generali. Lo stesso Napoleone diceva che lo Zar era soltanto un generale onorario, e che aveva soltanto tre veri generali: Kutusoff, da cui non c’era da temere, perchè russo ; Benningsen, che era già vecchio sei anni prima ed ora era diventato un vero bambino; e Barclay, maestro di ritirate.    

     In verità, occorreva più tempo allo Zar per radunare le sue truppe, che a Napoleone per arrivare a Mosca. C’era dunque ogni speranza ed ogni condizione oggettiva per abbattere « l’orso russo ». Eppure… Che cosa aveva detto Napoleone, ridendosi della scomunica del Papa? « Crede egli forse che questa farà cadere le armi di mano a* miei soldati? ».

(1) CASTELLANE, Journal, 5 ott. 1812.

     E fu appunto questo che capitò, nel senso letterale della parola.

Benché l’esercito francese si trovasse già da lungo tempo in territorio russo, il nemico aveva sempre evitato ogni scontro. Non era ancora corso sangue. Ma già la sfortuna, in modo incredibile e donde meno si attendeva, levava la mano contro l’esercito più formidabile che avesse mai visto la storia, guidato dal temuto genio di Napoleone: e gl’infliggeva un colpo, del quale forse la storia non ne ricorda più grave. Soltanto il 16 agosto i Francesi incominciarono l’assalto a Smolensk, e già qui avvenne ciò che pareva un prodigio: un solo corpo d’armata russo tenne testa per due giorni all’intero esercito francese, senza lasciare in mano ai francesi neppure un prigioniero. Ognuno vede il grande scacco della spedizione.

     Per noi, il caratteristico non è che il superbo esercito napoleonico dovesse vergognosamente ritirarsi, salvarsi, fuggire ; ma che avesse alle calcagna un nemico più grande, più pericoloso e più irresistibile dello stesso esercito russo: non un nemico umano, ma un freddo insolitamente rigoroso anche per la Russia, cosicché davvero le armi cadevano dalle mani gelate dei soldati.

       Sebbene Napoleone fosse stato preveggente, ed avesse calcolato le condizioni meteorologiche della Russia per il periodo degli ultimi cinquant’anni precedenti, e da tale esteso esame fosse risultato che il gran freddo non era mai incominciato prima del 20 dicembre, questa volta un’eccezione venne a sconvolgere i dati e le previsioni. Lo stesso Napoleone scrive: « Durante la notte, i cavalli perivano, non a centinaia, ma a migliaia ; certi giorni ne caddero più di 30.000. Eravamo costretti ad abbandonare gran parte delle vettovaglie e munizioni. Il freddo, eccedente ogni misura, rendeva critica la nostra posizione». 

     Il Fournier, che è solito esaltare, accentuare ed affermare in grado superlativo la grandezza, la gloria ed il genio di Napoleone, scrive: « L’occhio di Napoleone, in Russia, aveva la vista annebbiata… Non si poteva più riconoscere l’Imperatore, e si voleva gettarne la responsabilità su di una specie di febbre causata dal freddo. E’ certo che questa volta Napoleone non era proprio all’altezza della situazione ». Ed in seguito dice: «Il termometro si abbassò ed un vento gelato coperse il suolo di uno strato di neve. La strada diventò liscia come uno specchio, i cavalli cadevano in massa, e le loro carogne erano l’unico nutrimento dei soldati. Questi abbandonavano continuamente i cannoni e facevano saltare intiere file di carri di mu¬nizioni. Altre migliaia se ne perdevano, i quali, per il freddo e la stanchezza, gettavano via le armi e lasciavano la colonna di marcia ritirandosi in disparte, dove poi gelavano a mucchi. A migliaia e migliaia gettavano le armi, ed una volta tentennò persino la guardia del corpo.    

     Allora Napoleone si fece in mezzo a’ suoi granatieri, e così parlò loro: Vedete la rovina del mio esercito; la maggior parte de’ miei soldati, nella loro disgraziata cecità, hanno buttato via il fucile » (1).

Ecco che, come lo stesso Napoleone ammette, confessa e riconosce

(1) A. FOUBNIER, Vita di Napoleone I, 1916, (già citato), voi. Ili, c. II, pagg. 123, 125, 127, 138, 146, 151, 159. Cfr. E. Ludwig, Napoleone, (Trad. ungh. di G-. Turóczy, senza data, pag. 355).

 apertamente, capitò quello che egli aveva risposto beffardamente alla scomunica del Papa: davvero caddero le armi di mano a’ suoi soldati. E non il nemico le strappò loro, non le perdettero nel calore di un glorioso combattimento; no! essi stessi le buttarono via. La forza dei soldati di Napoleone si disarmò da se stessa, come dice Napoleone, «nella loro disgraziata cecità».   

      Erano diventati ciechi, e nello stesso tempo sordi alla voce del loro duce.

Anche Chateaubriand scrive: a I nostri soldati si sentivano morire le gambe; le loro dita pavonazze ed irrigidite lasciavano cadere le armi, il cui contatto le scottava: le buttavano a terra, e la neve le copriva facendo dei piccoli tumuli sepolcrali…Il sole sorgente illuminava i soldati che giacevano morti, irrigiditi» (1).

     Il 6 novembre, ad Orcha, Napoleone bruciò gli appunti in cui aveva notato l’orrore di quell’inverno eccezionale, affinchè la posterità non venisse a conoscere il suo tremendo scacco (2). Ma più lamentevolmente di ogni appunto, eternarono quei tormenti ed orrori i quadri di Alberto Adam, de’ cui personaggi fu detto espressivamente che non sono altro che pelle ed ossa.

      Molto interessante è l’opinione del Tolstoi su questi avvenimenti. In « Guerra e Pace » egli scrive: «(In Russia) gli eserciti erano i medesimi, e così pure i generali, i preparativi e gli ordini; ugualmente deciso ed energico era il comando; anzi, egli stesso (Napoleone) era il medesimo. Egli lo sapeva, e sapeva anche di

(1)         CHATEAUBRIAND, O. C., pag. 118.

(2)         Ibidem, pag. 123.

essere più esercitato di prima. Anche il nemico era il medesimo che ad Austerlitz ed a Priedland. Ma, per qualche stregoneria, il terribile slancio della sua mano cadeva impotente… E vedeva che quegli uomini esperimentati nella guerra che lo circondavano, sentivano tutti la stessa cosa… Era come quando si sogna di essere inseguiti da un malfattore, e ci si getta su di lui con quella tremenda forza con cui si è sicuri di annientarlo, e lo si colpisce anche, ma intanto si sente che la mano, senza forza è molle, cade come uno straccio, e nel sentimento della propria impotenza ci si sente l’anima invasa dal terrore della rovina indifferibile. Non il solo Napoleone fu preso da una simile impressione, paragonabile a quella che si può avere in sogno, di sentir cadere senza forza il terribile slancio della sua mano; ma anche ogni generale dell’esercito francese, anche ognuno di quelli che vi appartenevano e che non vi appartenevano, era preso da un ugual sentimento di panico » (1).

     Naturalmente, il Tolstoi, come scismatico e di sentimenti avversi al Papa, non osa dare al Papa la soddisfazione di attribuire alla Sua parola punitrice ed alla condanna della Chiesa l’incomprensibile scacco di Napoleone e del suo esercito; ma il suo genio ed il suo eccellente senso artistico non trova, per l’insolita impotenza e perdita diforza e d’animo dell’esercito francese, altra spiegazione che qualche intangibile, invisibile, incomprensibile e misterioso potere, che egli chiama « stregoneria ».

« La sera prima — disse Napoleone al conte Molé — ero ancora il padrone

(1)         TOLSTOI, Guerra e Pace, Voi. 2.o, libro III, parte 2.a, c. 34.

 trionfante del mondo, ed avevo a’ miei ordini il più bell’esercito dei tempi moderni. Il giorno dopo, non rimaneva più nulla » (1).

Così, di quell’esercito di oltre mezzo milione di uomini, ne perirono centinaia di migliaia, e la Francia perdette il fior fiore de’ suoi soldati, de’ suoi uomini, de’ suoi cittadini atti alle armi… e ciò, si può dire, senza l’opera di umano nemico! Nè solo furono perduti, ma furono perduti invano; anzi, peggio cbe invano ; perché — ciò che fu più fatale per Napoleone — i popoli si liberarono dall’illusione della sua invincibilità e dal fascino della sua persona, mentre intanto i nemici riacquistavano fiducia in se stessi. E si andò ancor oltre: nella stessa Francia, quelli che prima lo adulavano incominciarono a manifestare e pubblicare coraggiosamente le loro convinzioni contrarie all’Imperatore, e giudicare apertamente la sua persona, i suoi piani, le sue istituzioni. Quando Murat, cognato di Napoleone, giunse a Gumbinnen, convocò i suoi ufficiali, e disse loro: « Sarebbe una stoltezza continuare a servire uno che è impazzito. Sulle sue opere non c’è più benedizione! » (2)

Lo stesso Napoleone, in occasione del complotto di Malet, e per la condotta degli organi governativi in tale circostanza, si dovette disingannare riguardo alla sua fiducia ne’ suoi sudditi, nel loro amore, nella loro fedeltà, nella loro confidenza verso di lui e nel loro attaccamento alla sua famiglia. In seguito alla completa e generale mutazione di sentimenti, i soldati incominciarono ad esimersi dai loro obblighi militari, i coscritti non si presentavano ed in parecchi

(1)         A. FOURNIER, O. C., voi. Ili, pag. 481, (cap. 17).

(2)         CHATEAUBRIAND, O. C., pag. 127.

luoghi si ebbero degli ammutinamenti. Nello stesso tempo, la sconfitta russa significava anche un gigantesco danno materiale, pur senza contare i circa dieci milioni di franchi oro che caddero in mano ai Russi durante la ritirata (1).

Ecco la forza della condanna del Papa!

(1) A ohi desiderasse uno studio imparziale, dal punto di vista militare, della spedizione di Napoleone in Russia, suggeri¬sco L. Q. F.: Campagne de Russie. Opérations militaires,’ (Pa¬ris, Gougy). L’autore è così imparziale, ohe attinge la maggior parte dei suoi dati alle comunicazioni del nemico.

Il Papa e la prigionia di Napoleone

     Il lettore potrebbe forse obiettare cbe, nelle .relazioni tra i fatti ricordati nei due precedenti capitoli, ebbe parte il cosiddetto « caso ». Può essere. Ma in quanto segue, il lettore scoprirà, riguardo alla posizione presa da Napoleone proprio di fronte al Papa e fra le sorti delle loro due persone, tali meravigliose somiglianze e differenze, die gli suggeriranno spontaneamente il pensiero della direttiva d’una mano superiore; ed il credente troverà avverati i vecchi proverbi, i quali dicono che « Dio non ha fretta, ma non dimentica » e che « i mulini di Dio macinano adagio, ma con sicurezza » (1). Infatti:

a)          Napoleone imprigionò il Papa due volte (Pio VI nel 1796 e Pio VII nel 1809) e Napoleone fu fatto prigioniero due volte (nel 1814 e nel 1815).

b)          Napoleone tenne Pio VII prigioniero in due luoghi: a Savona ed a Fontainebleau (non contando

(1) Due proverbi ungheresi, che corrispondono al nostro: « Dio non paga il sabato », (N. d. T.).

I luoghi dove lo fece trattenere provvisoriamente) e Napoleone fu prigioniero in due luoghi: Elba e Sant’Elena.

c)           I due Papi viaggiarono come prigionieri per 153 giorni (Pio VI fu arrestato il 20 febbraio e giunse a Valenza il 14 luglio, ma con un’interruzione di 38 giorni a Briangon ; Pio VII, dall’arresto a Roma all’arrivo a Savona, viaggiò 46 giorni). I due viaggi di Napoleone prigioniero durarono pure 153 giorni: 14 giorni per andare all’Isola d’Elba (20 aprile — 4 mag¬gio) ed il resto per andare a Sant’Elena, notando che giunse a Longwood soltanto il 10 dicembre.

d)          La prigionia dei due Papi durò più di sette anni (1798-9; 1809-14) e quella di Napoleone durò altrettanto (4, VI, 1814 — 1, III, 1815; 15, VII, 1815 — 5, V, 1821).

e)          Al momento dell’arresto, i due Papi erano stati perquisiti e privati di tutti i loro valori. Napoleone fu spogliato già dagli stessi Francesi: quando fu mandato all’Isola d’Elba, gli si tolsero, senza badare a diritto o ad equità, gli undici milioni di franchi di sua proprietà privata, i diamanti della corona, i suoi famosi servizi da tavola, persino la tabacchiera, ed altri oggetti di valore (1). Poi fu spogliato dagli Inglesi: allo sbarco dal Bellerofonte, perquisirono minuziosamente e rigorosamente lui ed il suo seguito, sequestrando tutto l’oro, l’argento e le cambiali che avevano (2).

A suo tempo, avevano strappato dal dito di Pio VI l’anello che era segno della

(1)         DR. G-. C. WEISZ, Storia Univ., (ripetut. citata) 1897- 1905, voi. 12, pagg. 847 e 849.

(2)         O’ MEARA Ti. E., Napoleon in der Verbannung, Dresda, 1822, Voi. I, pagg. 2-3.

dignità pontificia; anche a Napoleone si volle strappare il distintivo della sua dignità militare: uno degli ordini dati al capitano del Northumberland, era appunto di disarmare Napoleone (1).

(1) CHATEAUBRIAND, O. e., pag. 224.

Ancor prima della prigionia

Già molto tempo prima dell’arresto e della deportazione di Pio VII, tutti, ed il Papa stesso, ne prevedevano la possibilità. Non solo fu fatto presente al Papa tale pericolo, ma si pensò anche a salvarlo, e gli si consigliò la fuga. Napoleone stesso, temendo appunto che il Papa tentasse di fuggire, fece occupare da’ suoi soldati tutti i porti e le province di riviera. I fedeli del Papa architettarono anche piani particolareggiati per salvarlo, anzi per difenderlo colle armi. D’accordo col governo inglese, Ferdinando IV mandò, collo scopo di rilevare segretamente il Papa, una nave da guerra, sulla quale erano preparate parecchie stanze per il Papa e per quei Cardinali che volessero seguirlo. Ma Pio VII dichiarò che non voleva fuggire, e che avrebbe piuttosto permesso che lo trascinassero via colla violenza, anziché lasciare spontaneamente Roma.

     In seguito, i Gesuiti armarono un bastimento, il cui intero personale, dal comandante sino all’ul¬timo uomo, era formato di Gesuiti, per non esporre altri a pericolo di morte. Informato segretamente di questi preparativi, il Papa non accettò neppure questa via di salvezza.

     I Romani si offersero a dare addosso ai Francesi, qualora il Papa lo permettesse; anzi, un ricco signore si disse pronto a liberare a mano armata il Papa dal Quirinale con 500 uomini, mentre un altro s’incaricò di occupare Castel Sant’Angelo. Ma il Papa consigliava a tutti la pace e la rassegnazione, e comandò che si ricevessero amichevolmente i soldati francesi, raccomandando la sottomissione alla volontà di Dio, anzi dichiarando colpevole di disubbidienza chiun¬que avesse causato il minimo turbamento (1). Più volte ripetè che Egli aveva fiducia nella magnanimità di Napoleone. Purtroppo, sappiamo quanto amaramente si sia in ciò ingannato !

     Ebbene: la stessa sorte toccò anche a Napoleone.

Anche a lui furono proposti molti piani di salvezza, prima che lo imbarcassero per S. Elena. Anche per lui furono preparati due bastimenti: uno lo aspettava alla foce della Gironda, l’altro era proprietà di un Americano, che si offriva di nascondervelo in modo che gli Inglesi non potessero scoprirlo. Anche l’esercito che si stava ritirando dietro la Loira si offrì a difenderlo contro i suoi nemici.

     Ma Napoleone respinse tutte le offerte di salvezza, e si consegnò agli Inglesi, fidando nella loro magnanimità. Sappiamo quanto si sia ingannato anche lui. Egli stesso, a Sant’Elena, così si lamentava: « J’ai eu la sottise, ho commesso la sciocchezza di consegnarmi nelle mani di John Bull, e devo inghiottire le pillole

(1)         Relazione Lebzeltern, 8 mag. 1810.

che mi prepara » (1). Ed al suo medico inglese diceva: « Ho dimostrato alla vostra nazione quale stima avessi dell’onore degli inglesi, consegnandomi a loro dopo aver combattuto contro di essi per tanti anni. Ora vedo con dolore che mi sono sbagliato (2). «Un écolier eut été plus habile que moi». E così, ancora, si lamentava cll’Antonmarchi: « Mi sono consegna¬to ai Britanni perchè volevo piantar fra loro la mia tenda, e speravo un’onesta ospitalità; ma invece, anche a dispetto di ogni diritto delle genti, mi ammanettarono » (3). Dichiarazioni che esprimono abbastanza la sua tremenda delusione (4).

(1)         0’ MEARA, O. o., voi. Ili, pag. 78, (v. Résumé de la rela¬tion du Dr. O’ Meara, 1816, in appendice al Memorial di Las Ca- ses, Parigi, 1840, pag. 246).

(2)         Denkwurdigkeiten des Dr. Antonmarclii ùber die let- zten Lebenstage Napoleons (Lipsia) 1825, voi. II, pag. 64. (19 Apr. 1821). Quest’opera sarà da intendersi ogni volta che cite¬remo Antonmarchi.

(3)         0’ MEARA, O. C., voi. II, 50-1, (v. Résumé, c. s., pagg. 194-5).

(4)         Sulle relazioni di Napoleone cogli Inglesi, vedi partico-lari, non trovabili altrove, in COQUELLE « Napoléon et VAngle- terre », Paris, Plon et Nourrit.

L’abdicazione

a)          Napoleone, a Fontainebleau, aveva Invitato, anzi, aveva voluto costringere il Papa a rinunziare al potere temporale. Più tardi, nella stessa città, nello stesso palazzo e nella medesima stanza, le potenze costrinsero Napoleone a rinunziare al trono (1).

b)          Napoleone aveva promesso al Papa, qualora avesse abdicato, una pensione annua di due milioni di franchi (proposta di Concordato del 1813, art. 3). Nel trattato di Fontainebleau del 1814, in forza dell’articolo 6, i sovrani alleati costituirono per Napoleone appunto una rendita di due milioni di franchi, a carico del tesoro francese.

c)           Napoleone non pagò mai al Papa i due milioni a titolo di compenso per gli stati pontifici che gli aveva tolti. (E’ vero, però, che il Papa non li avrebbe neppur accettati, come di fatto ne respinse la prima rata). — Neppure della rendita di due milioni stabilita per Napoleone col trattato dell’11 aprile 1814 giunse mai un

(1) Molti nuovi ed interessanti particolari si trovano a questo proposito in HENBY HUSSAYE, « La seconde abdication », Paris, Perrin.

centesimo nelle mani dell’ex-imperatore (1), al quale non fu nemmeno permesso di ricevere denaro da sua madre o da’ suoi fratelli (2). (Ed è vero altresì, che neppur Napoleone avrebbe accettato la rendita assegnatagli. Almeno, a Long- wood disse cbe se l’imperatore d’Austria o lo Zar di Russia gli avessero offerto qualsiasi grande somma di denaro, non l’avrebbe accettata) (3).

(1)         M. A. Thiers, La prima ascesa al trono di Napoleone I, (Trad. ungi., 1888, pag. 134).

(2)         E. LUDWIG, Napoleone, (Trad. Ungli. di G-. Turóczy, senza data, pag. 543).

(3)         0’ MEABA, O. C., voi. Ili, pag. 78, (v. Résumé, c. s., pag. 246).

Il diritto di sovranità

Napoleone aveva fatto di tutto per imporre e far sottoscrivere al Papa un accordo, che non gli avrebbe assicurato nessun vero diritto, ma solo qualche apparenza di diritto e la già ricordata pensione annua. Ed ecco come Napoleone, dopo la sua abdicazione incondizionata, si lamentava con Colaincourt: « Soffro, senza dubbio; ma tutte le altre mie sofferenze non son nulla, in paragone di una, che le supera tutte: finire la mia carriera, firmando un trattato in cui non ho potuto stipulare neppure una cosa d’interesse generale, neppur una d’interesse morale, co¬me la conservazione della nostra bandiera o della Legion d’onore!  Firmare un trattato in cui mi si dà del denaro! » (1)

     Nel Papa, Napoleone riconosceva soltanto il capo religioso della Chiesa, e non un sovrano temporale: davanti a diverse ambasciate lo aveva chiamato semplicemente «prete romano»; aveva anche dichiarato che Cristo non aveva due vicari, cioè il Papa e l’Imperatore, ma uno solo, cioè l’Imperatore, posto

(1) M. A. THIERS, Histoire du Consulat et de l’Empire, li- vre 53.e, pag. 556, (Bruxelles, 1857).

da Dio come suo luogotenente e rappresentante del suo potere sulla terra (1); confessò poi, a Sant’Elena, di aver pensato di por termine al potere temporale del Papa, facendo del Papa quasi il suo cappellano, e di Parigi la capitale del mondo cristiano (2).

     Orbene, le potenze costrinsero anche Napoleone ad abdicare alla sovranità. A Sant’Elena, egli protestava perchè non lo riconoscevano e non lo chiamavano imperatore o maestà, ma soltanto generale; e durante tutta la sua prigionia, era appunto questo che lo offendeva maggiormente.

     «Preferisco morire, preferisco lasciarmi scorticare — ripeteva Pio VII prigioniero — anziché rinunciare ai diritti del Capo della Chiesa». Ed a Sant’Elena, Napoleone ripeteva: «Preferisco morire, prefe¬risco dare cento volte la vita, anziché accettare il titolo di generale Bonaparte» (3). Come scrive un suo biografo, egli si aggrappava convulsamente al titolo di imperatore, come chi sta per annegare si aggrappa ad un filo di paglia (4).

     Ma era vana ogni protesta. Quando il Bertrand «gran maggiordomo» di Napoleone, protestò, in nome dell’Imperatore suo Sovrano, contro il modo in cui era trattata Sua Maestà, ricevette per risposta che l’Inghilterra non conosceva un «Imperatore Na¬poleone», ma soltanto un «Generale Bonaparte». L’ex-imperatore propose, come via d’uscita, di prendere il nome dì Duroc,

(1)         REMUSAT, Mémoires, 1879-80, III, 50.

(2)         0’ MEARA, O. o., voi. Ili, pag. 59.

(3)         Ibidem, voi. II, pag. 350, e voi. IV, pag. 17, (ofr. Résu¬mé, c. s., pag. 277).

(4)         MEREZSKOVSKIJ, o. c., pag. 324.

oppure quello del suo aiutante di campo Muiron, caduto in battaglia; ma l’Inghilterra gli negò anche questo, che sarebbe stato un diritto esclusivo dei sovrani. In ultimo, anche gli ufficiali inglesi finirono col chiamarlo soltanto Napoleone Bonaparte, o semplicemente Bonaparte. Una volta gli gridarono: «Come out, Napoleon Bonaparte !» (1) (Venite fuori, N. B. !) Anzi, il Governatore tentò di sostituire al cognome Bonaparte quello originario di Buonaparte. « Così — scrive un biografo — dopo aver avuto sette nomi, per tale ironico giro, tornò, coll’ottavo, al punto di partenza della sua carriera ».

     Quando Napoleone stava ormai così male, che poteva soltanto più nutrirsi di liquidi, e non poteva più camminare, anzi neppure star seduto per bene, il conte Bertrand, nel settembre del 1820, voleva far giungere a Lord Liverpool una domanda, per ottenere che l’Imperatore fosse traslocato in un clima migliore, e per far presente che il malato aveva assolutamente bisogno di acqua minerale.    

     Ma il Lowe non inoltrò la domanda, per il motivo che in essa si dava a Napoleone il titolo d’imperatore (2).

La proibizione del titolo imperiale rimase in vigore anche dopo la morte di Napoleone. La sua fossa fu coperta con alcune lastre e mattonelle tolte ad una cucina economica fuori uso. I fedeli di Napoleone chiesero di potervi scrivere il nome di Napoleone. Ma il Governatore lo permise solo a condizione che

(1)         0’ MEARA, O. C., voi. IV, pag. 162.

(2)        Lettera del conte Montholon alla principessa Paola Bor¬ghese, da Longwood, 17 marzo 1821.

vi si scrivesse anche il cognome Bonaparte. Cosicché non vi si scrisse nulla (1).

Napoleone aveva tenuto il Papa prigioniero contro il diritto delle genti. Ed ecco le parole di Napoleone: « Mi han portato qui contro il diritto delle genti, ed io non riconoscerò mai loro il diritto di tenermi qui prigioniero » (2).

(1) E. LUDWIG, O. C., pag. 582.

(2) O’ Meara, o. c., voi. I, pag. 44.

II luogo della prigionia

     Eccetto a Fontainebleau, Napoleone aveva tenuto i due Papi prigionieri in luoghi indegni, pur senza contare le stanzucce, i fienili, le osterie di strada dove erano stati costretti a pernottare durante i vari viaggi. L’abitazione di Pio VI, nella cittadella di Valenza, non differiva in nulla da una delle migliori carceri. A Savona, Pio VII fu dapprima circondato di un esteriore quasi principesco, per far credere al mondo che il Papa non era prigioniero; ma Egli «limitò tanto le Sue pretese, da sembrare che il semplice monaco Chiaramonti fosse ritornato ad abitare nella cella di un chiostro benedettino: si restrinse in tre sole camere ad una finestra, e qualche volta passeggiava un poco nel giardino del palazzo, lungo appena 50 passi » (1). (Si notino bene queste due circostanze, che abbiamo distinte). Sappiamo poi che Napoleone soppresse a poco a poco le esteriorità concesse da principio, cosicché anche l’abitazione di Pio VII diventò una vera prigione, dove Egli era tenuto sotto la più rigorosa sorveglianza, e tutti

(1) « Il Pontificato di Pio VII », c. s., voi. II, pagg. 69-70.

i suoi movimenti erano osservati per essere riferiti in alto.

Simile fu la situazione di Napoleone a Longwood. « Fino a ieri — scrive il Ludwig — a Longwood c’era una stalla. Soltanto ora l’hanno trasformata in casa d’abitazione: dei negri e dei marinai coprono lo strame con un palchetto, senza però darsi pensiero di asportare il letame. Così avviene che, non molto tempo dopo che vi è venuto ad abitare l’Imperatore,

     Il palchetto incomincia a marcire ed a fendersi, e qua e là vien fuori il colaticcio del letame, cosicché l’Imperatore deve cambiar camera. Di una stalla da vacche e da cavalli, e di una lavanderia hanno fatto, l’abitazione per lui e per i suoi compagni. La sua camera da letto è un buco stretto e buio, colle pareti rivestite di carta, da cui trapelano grandi macchie di salnitro. I libri sono invasi dalla muffa». Il tetto della casa era fatto di assi coperte di carta incatramata.

     O’ Meara scrive che le connessure non erano soltanto comode per il passaggio dei topi, ma lasciavano anche colare il catrame fuso dal calore del sole e quando pioveva l’acqua cadeva liberamente nella sua camera (1).    

     Davanti a dei visitatori inglesi, l’Imperatore proruppe in queste parole: « Abito in questa baracca di legno, dove mi consumerà il calore, o mi tormenterà la fredda umidità » (2). O’ Meara dice che non aveva ancor mai visto un’abitazione in cui avesse dovuto patir tanto per la muffa e l’umidi¬tà (3). Antonmarchi nota che l’umidità era orribile in tutte due le stanze, e rovinava tutto.

(1)         O’ -MEARA, O. C., II, 171 —- Antonmarchi, c. s., I, 70.

(2)         Adorjan, Keri, Seress, La grande rivoluzione francese e Napoleone, senza data, voi. V, pag. 242.

(3)         0’ MEARA, O. C., II, 140.

 Il medesimo ricorda che, quando si recò la prima volta da Napoleone, non riuscì da principio a vederlo, tanta era l’oscurità della stanza (1).

In questa miserabile casa, anche a Napoleone toccarono tre stanze, quante appunto ne aveva usate il Papa a Savona ed a Fontainebleau. Veramente gliene avevano assegnate sei; ma in una stava il Marchand, un’altra era una specie di anticamera per i servi, e la camera da letto usata in principio era di¬venuta inservibile per il trapelare del colaticcio che già sappiamo, cosicché Napoleone doveva dormire in quella che gli serviva anche da gabinetto da lavoro. D’estate, poi, non si poteva stare neppure nella cosiddetta sala del bigliardo, per il caldo insopportabile che vi faceva; ma in compenso, d’inverno c’era tanta scarsità di legna, che una volta Novarre dovette rompere un letto per far fuoco; « il che, naturalmente, non giovò molto » (2).

     Neppur dopo la morte di Napoleone si mostrò grande rispetto per quella che era stata l’abitazione del grande Imperatore: ne fu messo all’asta l’arredamento, la casa fu comprata da un contadino, e le due stanze abitate dall’Imperatore ridiventarono stalla e porcile (3).

     Quando il governo francese mandò a ritirare da Sant’Elena le ceneri di Napoleone, i membri della delegazione spedita all’uopo vollero piamente

(1)         ANTONMARCHI, C. s., I, 55 e 32.

(2)         0’ ME ARA, o. c., II, testo e illustrazione; III, 136, (cfr. Bésumé, o. s., pag. 257).

(3)         E, LUDWIG, c. s., pag. 582.

visitare la casa in cui l’Imperatore aveva passato quasi sette anni. Ma in quale stato la trovarono! Appena potevano credere clie qualcuno avesse mai potuto abitarvi: nè porte, nè finestre; soltanto cocci e rottami. Il Las Cases scrive in una sua relazione: « Mi son fermato là tremante di dolore e d’indignazione; mi cadevano le lacrime; dovetti abbandonare quel luogo, e per quel giorno non potei più pensare a nulla » (1).

     Per molti anni i Francesi non si mirarono della « cascina della maledizione », come essi chiamavano Longwood. Finalmente, dopo la guerra mondiale, nel risveglio dell’orgoglio e del sentimento nazionale, organizzarono una colletta per ristaurare quella cascina cadente e rovinante, diventata ormai nido di topi e d’insetti: e riuscirono a mettere insieme una grande somma… che sparì tutta attraverso alle mani del famoso Stavisky.

(1)          Armakd Dayot, Napoléon I, (Trad. tcd. di (). Marscliall von Bieberstein, 1897, pag. 459).

Il trattamento

Nelle sue relazioni col Papa prigioniero, Napoleone si era dimostrato grossolano e rozzo, trattandolo in modo umiliante, offensivo, spietato, senza rispetto per le convenienze o per la giustizia. A Fontainebleau ci fu un momento in cui il Papa ebbe a temere che l’Imperatore lo pigliasse pel collo, tanto era lo strepito che faceva, per la rabbia che il Papa non cedesse sui Suoi principii (1). Di qui la voce che si sparse, e che fu poi smentita dal Papa stesso, che l’Imperatore l’avesse schiaffeggiato.

     Anche a Napoleone toccò un simile trattamento. Protestava perchè lo tenevano prigioniero, si appellava alle leggi, parlava di tradimento e di perfidia, diceva lamentandosi: « Ogni giorno ripetono il loro desiderio dì umiliarmi e svergognarmi » (2). Ma, a questo proposito, Chateaubriand si domanda a buon diritto: « Si addiceva questo a lui? Non si era anch’egli fatto beffe del diritto? Non aveva anch’egli, nei giorni della sua potenza, calpestato queste sacre cose, a

(1)         ADOKJAN, KERI, eoe., o. s., voi. V, pag. 130.

(2)         Dichiarazione dell’Imperatore, 16 ag. 1819. Vedi 0’ MEARA, O. e., IV, 161.

cui ora si appellava? » (1) Non aveva anch’egli fatto arrestare, e tenuto in lunga prigionia, il Papa, che gli voleva bene, che l’aveva unto imperatore, che era il suo supremo Pastore? « Con ciò aveva insegnato coll’esempio all’Inghilterra a fare quello che aveva fatto lui ». Non poteva dunque appellarsi al diritto, se gli Inglesi trattavano grettamente ed ingiustamente lui, che era stato il loro più grande nemico.

A Sant’Elena, Napoleone poteva muoversi soltanto in uno spazio di dodici miglia inglesi. Per al¬lontanarsi da tale spazio, doveva essere accompagnato da una guardia inglese; ma poiché ciò offendeva i suoi sentimenti, finì con rinunciare ad allontanarsene. Inoltre, non poteva uscire dopo le nove di sera. In una lettera al Las Cases (1816) così si lamenta: « Mi si uccide a punture di spillo. La mancanza di tutto ciò che può sostenere la vita mi condurrà presto alla fine ».   

     Quando, il l° genn. 1817, O’ Meara gli augurò buon Capo d’Anno, Napoleone rispose: «Può darsi che io muoia, il che sarebbe il meglio. Non po¬trei star peggio di quel che sto presentemente».

     Ciò che più dispiaceva a Napoleone, e lo feriva a sangue e lo amareggiava all’estremo, era la condotta del governatore, Sir Hudson Lowe, a suo riguardo. Il Papa, per lo meno, era stato maltrattato da un principe, da un sovrano, da un imperatore; ma Napoleone doveva soffrire le più grandi umiliazioni da una persona, che egli, anche come uomo, aborriva, odiava e disprezzava. Già la prima volta che Napoleone aveva visto la faccia lentigginosa ed i capelli rossi del

(1) CHATEAUBRIAND, O. C., pag. 223.

suo carceriere, così si era espresso a suo riguardo: «Che uomo abbominevole !     

     Un vero tipo da forca. Mi guardava biecamente, come una iena presa in trappola». Ed altre volte: «Questo governatore non ha altro scopo che di ammazzarmi lentamente: si appella continuamente a restrizioni, e vuol farmi credere che io ne posso ringraziare la sua bontà». «Ci si può abituare alla prigione, alle manette, ai ceppi, ma non mai al capriccio altrui» (1). « Questo Hudson è un paria di Sant’Elena: quel che guarda, quel che tocca, diventa immondo. E’ tale un miscuglio di imbecillità e di malvagità, che un segreto istinto me ne tiene lontano» (2). Quando Napoleone chiese legna invece di carbone, perchè non poteva sopportare l’odore del carbone, il Lowe rispose che non era solito adattarsi ai capricci altrui (3).

Abbiamo visto che Napoleone provava piacere a far giungere al Papa quelle notizie che si riferivano ad espressioni od atteggiamenti di vescovi, cardinali o preti contro il Papa. Che cosa abbiano fatto anche con Napoleone, ce lo dicono abbastanza queste sue parole: «Stavo in ansia che fosse capitato qualche cosa di male a mio figlio; ma un istante di riflessione mi convinse che non doveva esser così, perchè in caso diverso il governatore me l’avrebbe subito fatto sapere per amareggiarmi » (4).

Napoleone aveva condannato il Papa all’inazione. Anche Napoleone,

(1)         0’ Meara, O. C., voi. IY, pagg. 158-9, e voi. Ili, pag. 74, (Cfr. Késumé, o. s., pagg. 179 e 244).

(2)         ANTONMARCHI, O. C., I, 98-99, (26 ott. 1820).

(3)         0’ Meara, O. C., III, 137,

(4)         Ibidem, II, 82-

quest’uomo tutto vita, moto, lavoro, ambizione, energia, fu condannato, nella sua prigionia, ad un riposo senza movimento, senza attività, senza scopo; per dirla col Puskin, «fu condannato al tormento del riposo». Napoleone stesso diceva al Monge nel 1815: «Per me, il più crudele tormento è l’inazione». Ed altra volta, così si lamentava: « Questo passaggio dalla vita attiva all’immobilità assoluta ha rovinato tutto in me. On m’assassine à coups d’épingles » (1).

     Poco prima della sua morte, il 28 aprile 1821, Napoleone disse ad Antonmarchi: «Direte che il grande Napoleone ha spirato l’anima sua nello stato più compassionevole, privo di ogni cosa, abbandonato a se stesso ed alla sua fama » (2).

     Persino il suo testamento fu eseguito soltanto in parte, e molto tempo dopo la sua morte.

(1) O’ MEARA, o.c., II,77.

(2) Nota dell’Antonmarchi, 28 Apr. 1821.

Infedeltà ed abbandono

Come sappiamo, Napoleone aveva fatto di tutto per costringere i vescovi ed i preti del suo impero a mettersi dalla sua parte contro il Papa, ed a tale scopo non aveva avuto orrore di ricorrere a violenze, ad incarceramenti, a deportazioni, a destituzioni, a pri-vazioni d’onori, e persino a minacce di morte. Inoltre, per spezzare la resistenza del Papa, lo aveva condannato ad un isolamento completo, allontanando dai due Papi prigionieri i loro cardinali e consiglieri favoriti, e non lasciando elle nessuno, neppure coloro in cui essi avevano più fiducia, si avvicinasse a loro, eccetto quelle persone che potevano servire da spie; cosicché il Papa dovette soffrire la deprimente tortura morale del completo abbandono.

    Ma non molto dopo anche Napoleone dovette gustare tutta l’amarezza dell’infedeltà, dell’ingratitudine, della spogliazione e dell’abbandono da parte de’ suoi. Era ancora Imperatore, che già dovette vedere il tradimento metter fuori il capo fra i suoi stessi fratelli. «Doveva aver più paura del suo fratello maggiore quando questi dimorava nel suo palazzo di Parigi. che quando sedava sul trono reale di Madrid »(1). Murat concluse un armistizio coll’Inghilterra ed un’alleanza coll’Austria. Il consigliere di Elisa era quel Fouclié, traditore senza carattere, che desiderava la morte dell’Imperatore, e di cui più tardi Napoleone disse che si pentiva di non averlo fatto impiccare (2). Luigi violò la proibizione di suo fratello, cosicché l’Imperatore voleva condannarlo all’esilio. Girolamo scappò segretamente, abbandonando il suo regno ed il suo popolo. Luciano continuava a starsene lontano, facendo il broncio. Non diversamente agivano i generali: «Non ho più generali — lamentava Napoleone — il freddo di Mosca ha consumato la loro onestà». Prima di partire per l’Isola d’Elba, dovette congedarsi da’ suoi soldati, e per via venne a sapere che anche il maresciallo duca Augereau l’aveva tradito. Quando giunse all’Elba, eccetto sua madre e sua sorella Paola, tutti gli altri, fratelli, cognati, parenti, che egli aveva fatti grandi, ricchi e potenti, e sui quali voleva fondare la sua imperiale famiglia, lo abbandonarono alla sua sorte (3). Frattanto morì Giuseppina, senza aver prima scritto neppur una lettera all’Imperatore, ma lasciando un debito di tre milioni, che i creditori esigevano da Napoleone.

     Tutto ciò era però soltanto un saggio del più completo abbandono, delle più infedeli defezioni, della più vergognosa ingratitudine e della più dolorosa separazione che egli doveva sperimentare dal 1814 in poi.

(1)         E. LUDWIG, O. C., pag. 376.

(2)         Le migliori informazioni sul carattere misterioso dell’ex – oratoriano Fouché si possono trovare in L. MADELIN, « Fouché, 1759-1820 », (Paris, Blond et Nourrit).

(3)         La miglior fonte sulla vita di Napoleone all’Isola d’Elba è Paul Gruyer, « Napoléon roi de l’Isle d’Elbe », (Paris, Hachette).

Non era ancor stato privato del trono, e già dovette congedarsi dalla moglie e dal figlio (24 genn. 1814), che gli furono strappati da Francesco II per mezzo del principe Eszterhàzi, e che egli non potè mai più rivedere. Forse l’Imperatore presentiva quel che sarebbe avvenuto, quando disse al Caulaincourfc: « Oh voi non prevedete che cosa si farà dì me fra tre o quattro giorni! non prevedete quanti sono quelli che mi abbandoneranno! »

    L’Imperatore aveva comandato a suo fratello Giuseppe di rimanere a Parigi, ma Giuseppe se la svignò, con grande dispiacere di Napoleone. Dopo la battaglia di Lipsia, tutti i suoi alleati lo abbandonarono. Il 1°aprile 1814 il Senato, che solo poche settimane prima attendeva servilmente i suoi ordini, gli voltò le spalle, ed il giorno dopo lo dichiarò decaduto dal trono, sciogliendo l’esercito dal giuramento di fedeltà. Il consiglio municipale fece affiggere dei manife¬sti in favore dei Borboni, e la maggioranza dei pub-blici ufficiali aderì alla decisione del Senato sulla decadenza di Napoleone. Talleyrand, che era stato il braccio destro ed il consigliere di Napoleone, il quale l’aveva creato principe e fatto suo confidente politico, giungendo fino a dire che Talleyrand e la sua propria moglie erano le persone che egli amava di più (1), lo tradì anche lui sfacciatamente, ospitò presso di sè lo Zar quando venne a Parigi, e nel congresso di Vienna fu lui a proporre che Napoleone fosse posto pubblicamente al bando (13 marzo 1815) (2).

(1)         KEMUSAT, Mémoires 1879-80, III, 51.

(2)         L’opera di Talleyrand è messa in una luce del tutto nuova da BKINTON CEANE, The lives of Talleyrand, (New York, W. Norton, 1936). Riguardo a’ suoi più o meno noti precedenti, è ec¬cellente BEBNABD: Talleyrand, evéque d’Autun, d’après dea do¬cumenta inédits, (Paris, Perrin).

     Quando Napoleone offerse al governo i proprli servizi, perchè si sentiva ancora il primo soldato della patria, il ministro Fouché disse beffardamente:   

     «Come imperatore, non ci può più aiutare; e per caporale, è già troppo grasso». Quel Cambacérès che era stato il primo a salutare Napoleone imperatore, si voltò contro di lui. Il Marmont, amico d’infan¬zia di Napoleone, allevato con lui, elevato da lui di grado in grado, creato duca di Ragusa e diventato uno dei più autorevoli generali dell’esercito, passò con tutto il suo corpo d’armata dalla parte degli alleati. Il suocero di Napoleone, l’imperatore Francesco II, dichiarò che non voleva più saperne del suo genero, e che non avrebbe più trattato con lui. Napoleone affidò il comando dell’esercito al Berthier, coll’incarico di farne la consegna al governo provvisorio. Il Berthier aveva promesso di ritornare, e Napoleone aspettava disperatamente il suo ritorno, ma invano. Anzi, ogni giorno qualche altro grande ufficiale l’abbandonava.

     I suoi migliori generali, Ney, Lefevre, Oudinot e Macdonald, anche a nome degli altri generali, si presentarono all’Imperatore per dichiarargli che non aveva altra scelta che l’abdicazione. Il giorno dopo, i generali che ritornarono da lui gli negarono apertamente l’ubbidienza, e gli rinnovarono l’invito ad abdicare senza alcuna condizione.

     Se c’era uno che poteva essere grato a Napoleone questi era certamente l’ex-sottufficiale Giovanni Bernadotte: Napoleone Paveva fatto maresciallo, gli aveva assegnato una rendita annua di 300.000 franchi, gli aveva fatto avere una gratificazione di 200.000 franchi, l’aveva creato duca, gli aveva perdonato la condotta tenuta ad Auerstadt, a Wagram ed a Walchern e diversi spropositi di tattica, anzi persino la con¬giura fatta per rovesciare lui stesso, l’aveva aiutato a diventare re di Svezia e frattanto gli aveva fatto do¬no di un milione dal suo tesoro privato. Ma nonostante tutto ciò, Bernadotte nutriva sentimenti ostili a Napoleone. Appena la stella napoleonica prese a declinare, Bernadotte fu tra i primi a separarsi infedelmente da lui, e si mise coi Russi e coi Prussiani contro il suo massimo benefattore, anzi ebbe gran parte nella caduta dell’Imperatore (1).    

     Correva allora il detto che Bernadotte era un genio nell’ingratitudine, e Fouché un genio nel tradimento.

     Non è meraviglia se Napoleone, quando a Fontainebleau, Caulaincourt gli fece sapere che doveva abdicare, non soltanto per sè, ma anche per la sua famiglia, esclamò che non aveva paura de’ suoi nemici, ma de’ suoi amici ingrati e de’ suoi generali infedeli. Voleva prender congedo dal suo esercito con un proclama, ma il governo fece sparire il documento. «Coloro che dovevano dir grazie di tutto a me — esclamava più tardi — hanno ora giurato la mia rovina». Uno de’ suoi fidati riuscì a farsi consegnare da lui tutto quello che si trovava nel suo scrigno, e, dopo essersi allontanato con tutti i segni della devozione e

 (1) Per la psicologia e conoscenza degli uomini, merita di esser letto LEON CE PINGAUD, « Bernadotte », che è anche la miglior biografia del B., (Paris, Plon et Nourrit).

della gratitudine, passava anch’egli al nemico (1).

     Napoleone aveva due servitori di fiducia. Uno era il mammalucco Rustam, che egli aveva condotto con sè dalla spedizione d’Egitto, ricompensandolo sempre abbondantemente e riponendo in lui tutta la sua fiducia; l’altro era il suo vecchio servo e caro confidente Constant. Anche questi due gli scapparono il 19 aprile 1814 (2).

     Ormai gli restavano più soltanto gli ultimi fedeli: sua madre, due fratelli, ed altre tre persone. Ma quando chiese chi di loro fosse disposto ad accompagnarlo, risposero tutti, eccetto sua madre, in modo sconcertante ed evasivo, dicendo che «l’avrebbero forse seguito più tardi ». A sua volta, egli non volle esporre la vecchia madre ai pericoli del viaggio. Il suo segretario, che ancora il giorno prima aveva promesso di seguire il suo padrone, ora «si ricordò» che aveva la madre cieca, la quale lo pregava che non si allontanasse da lei (3). Napoleone avrebbe voluto condurre con sè il chirurgo Maingaud, suo medico personale, ma anche questo rifiutò di seguirlo.

     «Un deserto divenne quel palazzo, di cui Napoleo¬ne aveva fatto un deserto per il Papa! »

(1)         ANTONHAECHI, I, 112 e 113.

(2)         CONSTANT, Denkwùrdiglceìten iiber Napoleon, 1830. Rie¬laborazione tedesca di 0. Marschall von Bieberstein, 1904.

(3)         E. LUDWIG, O. C., pag. 455.

Ancora: infedeltà ed abbandono

     Come abbiamo visto particolareggiatamente nella prima parte, e ricordato al principio del capitolo precedente, Napoleone non aveva permesso cbe nessuno, eccetto quelli ligi a lui, si avvicinasse al Papa prigioniero. Quando Napoleone fu a Sant’Elena, anche gl’inglesi non permisero a nessuno, neppure a sua madre, di avvicinare Napoleone, eccetto quei pochi che condividevano volontariamente la sua prigionia. La sua sorella più cara, Maria Paola, fece di tutto per arrivare a Longwood, ma inutilmente. Così si lamenta Napoleone medesimo: «Coprono Longwood con un velo, che vorrebbero rendere opaco, per nascondere la loro malvagia condotta». Ed anche l’inglese O’ Meara confessa che era desiderio dei ministri inglesi che l’anima ed il corpo di Napoleone stessero chiusi nella notte del carcere (1).

Metternich, mandando a Sant’Elena il barone Sturmer, gli dava l’istruzione di evitare colla massima cura ogni contatto con Napoleone e co’ suoi compagni,

(1) 0’ MEARA, O. C., IV, 156 e 159.

e di scansare con ugual fermezza ogni iniziativa del genere da parte loro (1).

     E’ caratteristico il seguente caso: Giunse una volta a Sant’Elena un botanico tedesco, per studiare la flora locale. Napoleone sapeva che costui aveva visto a Schònbrunn sua moglie Maria Luisa e suo figlio, coi quali aveva anche scambiato qualche parola. Quanto avrebbe bramato d’incontrarsi con lui, per udir qualche cosa de’ suoi! Ma, come disse egli stesso, «quei barbari glielo impedirono». «O’est le comble de la cruauté — diceva poi lamentandosi. — Bisogna essere ben barbaro, per negare ad uno sposo, ad un padre, la consolazione di parlare con una persona che da poco tempo ha visto sua moglie e toccato suo figlio (qui la voce di Napoleone s’indebolì). Gli antropofaghi non farebbero altrettanto.. I cannibali disapproverebbero le crudeltà che fanno qui» (2). E’ pur interessante leggere le note dell’Antonmarchi sulle enormi difficoltà creategli dagli Inglesi prima della sua partenza per Sant’Elena: (3) giunsero persino a pagare dei vagabondi perchè attaccassero briga con lui, dando così alla polizia un pretesto per arrestarlo.

     I forestieri non potevano avvicinarsi al territorio di Longwood senza una speciale tessera di riconoscimento.

     Col tempo, anche il piccolo entourage di Napoleone si assottigliò. Dopo sei anni, era ridotto alla metà.

(1)         Dr. HUTTKAY LIPOT, Bonaparte Napoleoni emlékirataì (memoriali di N. B.), 1915, pag. 17.

(2)         0’ MEABA, o. C., IV, 68, 158 e 159., (Cfr. Bésumé, c. s., pag. 201).

(3)         ANTONMAKCHI, o. C., pagg. 12-13.

     Gli strapparono il suo fedele Las Cases (il quale veramente aveva già cercato ogni sorta di pretesti per andarsene). Il generale Gourgaud stette soltanto due anni, e poi chiese spontaneamente congedo, anzi fece amicizia cogli Inglesi e ricevette una lettera di raccomandazione dai mortali nemici del suo signore. Anche la contessa di Montholon, e poi il suo caro medico Dr. O’ Meara, lasciarono l’isola. Nella sua ultima malattia, Napoleone venne a conoscere il maligno opuscolo pubblicato da suo fratello Luigi. Nelle ultime quattro settimane della sua vita, dovette ancora vedersi abbandonato da quattro servi e dal più vecchio dei due cappellani. Ma persino quei due signori che resistettero fino alla fine, stavano da tempo pensando al modo di svignarsela: il generale conte di Montholon cercava già un sostituto, ed il Bertrand si preparava già alla partenza, ed andava rinfacciando al suo signore, a cui doveva dir grazie di tutto, certe verità che aveva da lungo tempo soffocate in se stesso. «Se continua così — diceva l’Imperatore al suo cameriere Marchand — finiremo con rimaner qui soltanto tu ed io » (1).

E sua moglie? Erano vissuti insieme quattro anni; Maria Luisa non aveva mai avuto da lamentarsi di suo marito, che non le lasciava mancare denaro, cortesie, pompa, e soddisfaceva ogni suo desiderio; mentre l’amore di Napoleone per Giuseppina era stato piuttosto sentimentale, quello per Maria Luisa era ideale e costante; la stessa Maria Luisa, scrivendo a suo padre e parlando col principe di Schwarzenberg, non riusciva a dire abbastanza quanto l’Imperatore, come

(1) A. HELFERT, Marie Luise, pag. 206. 

marito, fosse amorevole e pieno di attenzioni e di abnegazione (1); sappiamo cbe Napoleone si era separato dalla prima moglie perchè non ne aveva avuto erede, ed aveva sposato Maria Luisa perchè da lei sperava la conservazione della sua imperiale famiglia: eppure, in occasione della nascita del tanto atteso erede, quando gli era stato detto che doveva scegliere tra la vita della madre e quella del figlio, egli aveva deciso in favore della madre; (2) nell’Isola d’Elba, aveva fatto dipingere sull’entrata del suo palazzo due colombi (simboleggianti lui e sua moglie) uniti insieme da un nastro, in modo che, quanto più volassero lontani l’uno dall’altro, tanto più si stringesse il nodo; a Sant’Elena lasciava sempre, accanto al suo posto a tavola, un posto vuoto per l’Imperatrice (3) ; nella sua prigione di Longwood pensava sovente a sua moglie con caldo amore e grande stima e mandava lettere su lettere alla « sua Luisa » ; quando il Las Cases, l’O’ Meara, oppure l’uno o l’altro de’ suoi servitori si allontanava dall’isola, pensava subito a raccomandarli a sua moglie; ad O’ Meara in particolare diede l’incarico di salutare in suo nome «la sua cara Luisa e sua madre», nominando così sua moglie prima di sua madre; nel suo testamento, (15 aprile 1821), così ricorda la moglie: «Ho sempre avuto da lodarmi della mia carissima sposa Maria Luisa, le conservo fino all’ultimo momento i più teneri sentimenti»; e prima di morire incaricò l’Antonmarchi di portare il suo cuore a Parma, alla sua cara Maria Luisa, e di dirle che egli l’amava teneramente ed immutabilmente (1).

    E Maria Luisa, quando la stella di Napoleone tramontò, fu la prima a lasciarlo. Prima che al Congresso di Vienna si procedesse a dichiarar Napoleone fuori legge, fu richiesta l’opinione di Maria Luisa. Disse essa forse una parola in favore di suo marito? « No! Questa femmina — scrive E. Ludwig — prende un foglio, e dichiara solennemente davanti al Congresso che essa non vuol aver nulla in comune con suo marito » (2). Si lasciò poi tanto allontanare ed alienare da lui, che giunse a dichiarare che, quand’anche le avessero permesso di ritornare presso di lui, non ci sarebbe andata: e non fece nessun tentativo per poterci andare, anzi, non solo non gli scrisse mai, ma non si degnò neppure di rispondere ad alcuna delle sue lettere. Eppure Napoleone, ogni volta che giungeva un bastimento a James Tawn, aspettava tutto il giorno nervosamente ed ansiosamente se mai gli giungesse qualche risposta o qualche segno di vita da sua moglie. La quale intanto non voleva più saperne di lui, ed andava coltivando col conte Niepperg, generale austriaco, delle relazioni colpevoli, le cui conseguenze erano già palesi mentre Napoleone viveva ancora. Per qualche tempo, Napoleone non seppe nulla di ciò; ma alla fine, pel tramite del Menevai, ex-segretario dell’Imperatrice, o, secondo altri, per mezzo di una lettera anonima, venne informato di tutto. Si può immaginare come tali notizie

(1)Antonmarchi, o. c., 28 apr. 1821; Masson, Napoleon, und die Frauen, (ediz. di Lipsia) pag. 64.

(2)E. LUDWIG, O. C., pag. 433.

lo ferissero al cuore; ma non spensero il suo amore, ed egli tenne tutto come un segreto profondamente sepolto nell’animo suo, nè mai si lasciò sfuggire parola di biasimo o di lamento. Appena poche settimane dopo la morte di Napoleone, Maria Luisa sposò il Niepperg, essendo ormai urgente il matrimonio. Quando poi l’Antonmarchi, che era stato l’ultimo medico dell’Imperatore, volle riverire Maria Luisa e presentarle la lettera con cui i conti Bertrand e Montholon le comunicavano gli ultimi desideri del defunto marito, Maria Luisa non lo volle ricevere. L’Antonmarchi riuscì soltanto ad avvicinare il Fesch, ma, come egli stesso scrive, il cardinale non gli rivolse neppure una domanda riguardo all’ex-imperatore. « Mai nessun uomo fu così abbandonato come Napoleone — scrive Chateaubriand — Egli era stato insensibile alle sofferenze altrui ed ora il mondo ricambiava insensibilità con insensibilità » (1).

Lo stesso Napoleone così grida al mondo l’insopportabile tormento dell’abbandono e della solitudine: «Potrei ricevere, senza mutar volto, la notizia della morte di mia moglie, di mio figlio, di tutta la mia fa¬miglia: non si scorgerebbe sul mio viso nè emozione nè alterazione, tutto vi sembrerebbe calmo e indifferente: ma quando sono solo nella mia camera, abbandonato a me stesso, allora soffro, ed i miei sentimenti diventano quelli di un uomo che soccombe sotto il peso de’ suoi mali » (1). E l’Antonmarcihi ci fa sapere che più

(1) 0. o., pag. 220. — Quanto all’indegna condotta di Ma¬ria Luisa verso Napoleone, la fonte più oggettiva è: Due db RO¬vigo, « Mémoires pour servir à Vhistoire de Napoléon ». Edition nouvelle, refondue et annotée par Lacrois, (Paris, Garnier).

volte l’Imperatore esclamava: « Che abbandono! che sventura! » Ed altra volta: «Vedete quale destino grava su di me: tutto ciò che amo ed a cui è attaccato il mio cuore, mi viene strappato. Non parrebbe che il cielo e gli uomini avessero congiurato contro di me?» Abbandonato da ognuno, colui che era stato l’onnipotente padrone dell’Europa stava mo¬rendo prigioniero su di uno scoglio sperduto nell’Oceano…

     E parve che nell’ultima settimana della sua vita anche la natura volesse voltargli le spalle e tradirlo: il 4 maggio, vigilia della sua morte, un fremito di tempesta svelse il salice all’ombra del quale Napoleone era solito fermarsi a godere il fresco, e rovinò tutte le altre piante. Un solo albero rimaneva ancora nel giardino, ma anche questo finì coll’essere sradicato e gettato nel fango dal terribile uragano: «Più nulla di ciò che gli fu caro deve sopravvivergli » nota, sotto quella data, l’Antonmarchi.

     La salma di Napoleone fu sepolta sotto un salice piangente. Ma il pubblico — sia pure per pietà o per avere un ricordo — non lasciò in pace nemmeno questo salice, e ne strappò tutti i rami a cui potè giungere colla mano; cosicché neppure una pianta rimase come segno della sua tomba, la quale non fu distinta neppure da alcuna iscrizione o da alcun ornamento. Perchè poi l’abbandono di Napoleone fosse completo, Sir Hudson Lowe proibì anche di visitare il luogo dov’era sepolto e di deporvi dei fiori; e per assicurare l’osservanza della sua

(1) 0’ MEARA, o. C., IV, pag. 24, (v. Résumé, c. s., pag. 280

proibizione, lo circondò d’uno steccato e vi pose una guardia di 12 soldati al comando d’un ufficiale (1).

     Nemmeno dopo la morte di Napoleone la Francia si inchinò davanti alla memoria di colui che era stato il suo grande Imperatore: non eseguì il suo testamento; dichiarò proprietà dello stato i suoi averi; gli negò il diritto di disporre validamente de’ suoi beni; non si curò del suo cadavere. Tanta noncuranza fu riparata soltanto quando salì sul trono di Francia Napoleone III.

(1) Antonmakchi, o. e., Annotazioni alle date 18 nov., 6 nov., (voi. I, pagg. 144 e 199) ed alle date 4 e 8 maggio 1821. 

Circondato da spie

     Nella prima parte abbiamo visto fino a qual punto Napoleone avesse circondato di spie il Papa prigioniero: ogni servo, ogni impiegato addetto al Papa, ogni persona ammessa presso di Lui, era una spia pagata o mandata d’ufficio dal governo francese; il servo cbe «dormiva» vicino alla camera del Papa, doveva riferire anche le eventuali esclamazioni del Papa nel sonno, e se avesse dormito bene o male; ogni passo e movimento del Papa era sorvegliato.

     In uguali condizioni si venne a trovare, nella sua prigionia, anche Napoleone.

Nel suo viaggio all’Isola d’Elba, fu accompagnato dai fiduciari delle potenze, incaricati di sorvegliarlo. Lo Zar Alessandro, mandando all’Elba lo Schuwaloff, gli disse che lo rendeva responsabile, sulla sua testa, di Napoleone (1). A Sant’Elena, poi, lo spionaggio era rigorosissimo. Lo stesso governatore dell’isola, Sir Hudson Lowe, era stato prima capo del servizio di spionaggio in Italia: era dunque pratico dei metodi di sorveglianza segreta, e neppure a

(1) M. A. THIERS’, Prima abdicazione di Napoleone I, (Traduz. Ungli., 1S88, pag. 106).

Sant’Elena rinnegò il suo passato. Tutto il territorio di Longwood era percorso da spie, le quali non solo sorvegliavano Napoleone ed il suo entourage, ma si tenevano anche d’occhio a vicenda. Il governatore circondò di spie anche il medico inglese concesso a Napoleone; ed il medico stesso, ora a voce, ora per iscritto, doveva riferire sulla salute di Napoleone. Antonmarchi scrive che egli, anche per recarsi a visitare ammalati inglesi e britannici, doveva essere accompagnato da un suddito britannico (1). Lo spionaggio e la sorveglianza giungeva a tal punto, che osservavano ogni movimento con cannocchiali, e segnalavano con bandiere le osservazioni al governatore. Anche gli inviati e gl’incaricati di altre potenze s’intrattenevano nell’isola solo a scopo di spionaggio.

     Le guardie stavano a distanza di 50 passi l’una dall’altra, e di notte si stringevano nelle immediate vicinanze della casa di Napoleone. Se questi chiamava qualcuno dopo le nove di sera, il chiamato veniva preso fra due guardie, le quali, secondo la consegna, gli tenevano la baionetta puntata in direzione del cuore (2).

Ogni passo, parola, atto o movimento, anzi persino gli sguardi di Napoleone, e di quelli che erano con lui, venivano osservati e riferiti alle rispettive Corti. Tra gli incaricati delle potenze, a Napoleone piaceva soltanto il colonnello inglese Campbell Niel; ma poi s’accorse che anche quello era una spia. Perciò Napoleone, all’infuori de’ suoi più intimi compagni, non si fidava più di nessuno;

(1)         ANTONMARCHI, O. C., I, 66.

(2)         E. LUDWIG, O. C., 529.

anzi, quando giunse l’Antonmarchi, suo compatriotta, lo ricevette colla massima diffidenza, dicendogli che sospettava di ogni singolo uomo, e non si fidava neppure di uno (1).

      La presenza degli ufficiali, che seguivano e sorvegliavano ogni suo passo, tornava così sgradita a Napoleone, che rinunciò ad uscire a cavallo, e poi anche a piedi, solo per non sentirsi il sorvegliante alle spalle. In seguito si limitava a passeggiare nel giardino della sua casa, ed in certi giorni non lasciava neppure la sua camera, per salvarsi da’ suoi custodi… Quasi che anche in questo volesse imitare esattamente la condotta di Pio VII quando era tenuto prigioniero da lui stesso!

(1) ANTONMARCHI, o. c. f. 31 e 35

Sorveglianza della corrispondenza

Sappiamo come Napoleone facesse sorvegliare rigorosamente la corrispondenza del Papa prigioniero: tutte le lettere mandate al Papa o dal Papa dovevano passare per le mani del governo francese; al Papa, poi, non si lasciava giungere altro giornale che quello ufficiale del governo, od eventualmente qualche altro che sostenesse gl’interessi della Francia. Per principio, Napoleone era contrario alla libertà di stampa; i preti non potevano ordinariamente farne uso; gli ordini della Chiesa e dei Vescovi erano censurati, ed era stato anche pubblicato un decreto, secondo il quale gli ecclesiastici non potevano pubblicare nulla senza l’autorizzazione preventiva del prefetto.

     Anche in questo, Napoleone doveva avere, a Longwood, la medesima sorte.

Tutte le lettere sue e de’ suoi compagni, sia quelle in partenza, sia quelle in arrivo, passavano per le mani del governatore (1). Napoleone avrebbe desiderato di poter corrispondere coll’Europa con lettere sigillate, ma non vi riuscì. Parecchie sue lettere vennero soppresse, come p. es., quella in cui pregava il Principe Reggente di dargli notizie della sua famiglia. Egli stesso si lamenta così: «I miei custodi leggono ogni mia lettera. Non posso scrivere alla mia famiglia, e la mia famiglia non può scrivere a me». Una lettera di sua madre gli fu consegnata con un anno di ritardo (1). Non fu mai permesso, nè a sua madre, nè a’ suoi fratelli, di mandargli denaro od altro. Maria Paola tentò di fargli avere segretamente dei gioielli, ma la persona che li portava fu presa, ed i gioielli sequestrati e mandati a Londra.

     Las Cases era uno dei più utili compagni d’esilio di Napoleone, perchè era l’unico che sapesse bene l’inglese; siccome però una volta scrisse a casa una notizia vera, ma sgradita al governatore inglese, lo arrestarono, e dopo averlo trattenuto in arresto qualche settimana lo allontanarono dall’isola. Napoleone avrebbe desiderato vederlo ancor una volta e salutarlo, ma il governatore non lo permise per timore che Napoleone se ne approfittasse per inoltrare qualche notizia orale o scritta.

     Per lungo tempo, i comandanti dei bastimenti che giungevano all’isola dovevano presentare a Sir Hudson Lowe la lista di tutti i libri e giornali, specialmente politici, che si trovavano a bordo, affinchè nessuno stampato sgradito al governatore arrivasse nelle mani di Napoleone. Si aveva cura che non gli giungesse nulla, eccetto qualche libro o giornale che il Lowe ritenesse opportuno. Così ogni tanto Napo¬leone riceveva qualche numero del Times, o del Mornìng chronicle, o di qualche giornale francese antinapoleonico. Tuttavia O’ Meara riuscì qualche volta a fargli avere qualche altro giornale (1). Una volta, alla presenza di Arnott, Napoleone esclamò: «Non mi lasciano giungere dall’Europa neppure una notizia, neppure un giornale, se non attraverso le loro mani» (2). Anche in Europa le notizie riguardanti Napoleone erano censurate o sequestrate; anzi, durante la prigionia di Napoleone, la stampa d’Inghilterra e di altri stati non poteva pubblicare articoli su di lui, se non con un permesso preventivo.

     Anche riguardo a lui, come egli aveva fatto fare riguardo al Papa, furono messe in giro notizie false ed ingannatrici: venne fuori sul suo conto un’intiera biblioteca di scritti sprezzanti ed oltraggiosi. Egli stesso così se ne lamentava: «La calunnia ha diretto contro di me tutto il suo veleno » (3); ed in altra occasione: « Oggi s’affaccendano a falsificare la storia » (4). In una lettera del 17 maggio 1821, il conte di Montholon scrive da Longwood alla principessa Paola Borghese: «I giornali di Londra vanno continuamente fabbricando lettere da Sant’Elena, coll’evidente scopo di mistificare l’Europa». P. es., mentre Napoleone era già verso la fine, i giornali ufficiali pubblicavano «lettere da Sant’Elena» che dicevano ch’egli stava benissimo, e girava per l’isola à caccia

(1)         0’ MEARA, O. e., I, 192-4; IV, 131-2; II, 59.

(2)         ANTONMARCHI, O. e., II, 65.

(3)         0’ MEAEA, O. o., IV, 170 e 76-78.

(4)         ANTONMAKCHI, O. e., I, 115.

di gatti selvatici (1). Cosicché, quando giunse la notizia della sua morte, si stentava a crederla. «Ma era davvero ammalato il generale Bonaparte? — chiedeva un forestiero — Andavano pubblicando che stava ottimamente! »

     La sorveglianza non cessò neppure dopo la morte di Napoleone. « Hudson Lowe mise sossopra e frugò tutto ciò che l’ex-imperatore aveva lasciato, aprendo persino quei pacchi ch’egli aveva sigillati personalmente prima di morire. Frugò in ogni angolo» scrive l’Antonmarchi (2). Ed intanto non permise che il cuore e lo stomaco di Napoleone fossero trasportati in Europa (3).

(1) 0’ MEARA, IV, 147.

(2) ANTONMARCHI, note al 5 ed 8 mag. 1821.

 (3) DE NORVIXS, Histoire de Napoléon, 4.e ódition, 1833, voi. IV, 398; e 21.e édition, I, 354.

Il medico personale

     Sappiamo che non si era avuto nessuna cura della salute dei due Papi tenuti prigionieri da Napoleone. Ugual trascuranza si ebbe per Napoleone a Sant’Elena, dove, come abbiamo già visto, la stessa abitazione, ed il tenore di vita a cui era costretto, nonché le continue offese, contribuivano a rovinare la sua salute. Sappiamo pure quanto abusasse Napoleone del trattamento medico del Papa, corrompendo il medico e dirigendolo in modo che anche nel curare il Papa servisse in tutto ai piani dell’Imperatore. Ed anche questo fu fatto a Sant’Elena riguardo a Napoleone.

     Napoleone sentiva bisogno dei medici. Finché fu al potere, ne teneva sempre uno presso di sé ; andando all’Isola d’Elba, aveva condotto seco il medico Fourreau de Beauregard; dovendo partire per Sant’Elena, aveva pregato il chirurgo Maingaud di accompagnarvelo, ed avendo questi rifiutato, pregò il medico irlandese O’ Meara di incaricarsi della sua cura medica; appena sentiva un qualche male, faceva subito chiamare un medico (1); amava intrattenersi co’ suoi medici de’ suoi mali e di questioni mediche generali; chiedeva anche i loro

(1) 0’ Meara, o. c., IV, 16-17; III, 174, e IV, 8.

consigli, sebbene li accettasse di rado ; più tardi volle che il medico dormisse in una camera attigua alla sua (1).

     Ciò nonostante, durante la sua prigionia dovette vivere e soffrire come se non avesse vicino alcun medico: si può dire che non se ne potesse neppure servire. Perchè? Anzi tutto, perchè i suoi primi medici erano sudditi inglesi, dipendenti dal governatore inglese, che li dirigeva ed influenzava: p. es., O’ Meara era obbligato, due volte alla settimana, dapprima per iscritto, poi soltanto a voce, a render conto della salute di Napoleone al governatore inglese od al suo luogotenente (2). Il governatore teneva tanto a che il medico si attenesse a’ suoi voleri, che quando sospettò che O’ Meara si fosse affezionato a Napoleone fece di tutto per allontanarlo dall’isola e presto vi riuscì: giunse per l’O’ Meara l’ordine di lasciar subito Longwood, senza neppure il tempo di comunicare con Napoleone o con alcuna delle persone che abitavano con lui. Quanto dipendessero dal governatore inglese i medici di Longwood si può anche vedere da questa notizia di Antonmarchi: al suo arrivo dall’Italia, Sir Hudson gli presentò il medico inglese Stokoe (o Sokoe), e questi, quando l’Antonmarchi gli chiese notizie sulla salute di Napoleone, «prima lesse negli occhi e negli sguardi del governatore la risposta che doveva dare». Lo stesso Antonmarchi fu parecchie volte arrestato e maltrattato, perchè si sospettava che parteggiasse per Napoleone (3).

(1)         ANTONMARCHI, O. C,, II, 37.

(2)         0’ Meara, O. C., IY, 23-33 e 101.

(3)         ANTONMARCHI, O. C., I, 26 e 152-3.

     Napoleone stesso, poi, non ricorreva, o meglio, non osava ricorrere all’aiuto dei medici, perchè aveva ragione di temere che, come egli aveva corrotto il medico del Papa e gliene aveva fatto un nemico, così anche gli inglesi facessero co’ suoi medici. Perciò non se ne fidava, anzi ne aveva paura. Quando, p. es., venne a sapere che O’ Meara doveva fare sul suo conto due rapporti settimanali, sebbene proprio allora si sentisse assai male, non si degnò di rispondere neppure ad una delle sue domande: fiutava in lui una spia ed un nemico, che gli si voleva metter contro «per arrivare più presto alla fine» (1).

     Abbiamo già detto che Napoleone aveva ricevuto con cautela e diffidenza addirittura offensiva il suo compatriotta Antonmarchi, che pure gli era stato mandato da sua madre e da suo zio cardinale, perchè temeva che anch’esso fosse uno strumento degli inglesi. Poi gli fece giurare di non comunicare ai medici inglesi neppure la minima notizia riguardo al suo stato di salute (2).

     Perciò Napoleone non osava prendere nessuna medicina dalle mani dei medici inglesi od in seguito a loro prescrizione. Richiesto una volta del perchè di simile rifiuto, rispose che non aveva mai fatto uso di medicine; mentre soleva usare quelle che egli stesso s’immaginava e riteneva buone. Finì poi col non dar più nessun ascolto a quello che dicevano i medici (3). Anche dal suo compatriotta Antonmarchi non accettò mai altre medicine, se non qualche rara volta qualche innocuo purgante; anzi, una volta che dopo lunga resistenza si era

(1)         0’ MEARA, O. c., IV, 20-1.

(2)         ANTONMARCHI, O. C., I, 30-1.

(3)         0’ Meara, o. c., I, 114; II, 171; IV, 4; III, 179; IV, 134-5.

indotto a prendere un antiemetico, volle prima che ne prendessero i presenti, compreso il medico; e soltanto dopo che tutti l’ebbero assaggiato lo prese anche lui. Un’altra volta, parendogli che gli avessero dato un’arancia amara, sospettò che lo volessero avvelenare, ed esclamò: «Ho già sofferto tante offese e privazioni. In che mani son capitato! »

     Anche ogni medico forestiero gli era sospetto. Quando, nel congedarsi da lui, il Dr. Stokoe gli raccomandò in sua vece il Dr. Verlinge, rispose ostinatamente che non accettava medicine se non dal suo medico (1). Una volta che, mentre egli era già molto ammalato, O’ Meara gli consigliò di far chiamare anche il Dr. Baxter, non ebbe il coraggio di ammetterlo alla sua presenza: «Non ho motivo — disse — di proibire che gli comunichiate il mio stato, ma non ho bisogno di lui».    

     Poi, venutogli il sospetto che in quel consiglio avesse parte il governatore, aggiunse: «Potete dire al governatore che X ed Y vogliono ammazzarmi colla malattia… Ci son tante maniere di uccidere: pistola, pugnale, veleno… ». «Voialtri medici — disse in un’altra occasione — avete da render conto della vita di tutti quelli che avete spediti all’altro mondo, come i generali d’armata » (Ed accennava alle negligenze ed agli errori fatali che possono commettere i medici). «E’ mio parere — diceva pure — che i medici ammazzino tanti uomini, quanti i generali ». E proprio davanti al suo medico inglese esclamava: «Morrò qui consumato dalla malattia e senza soccorso. Ma la mia morte bollerà per

(I) Antonmarchi, o. c., I, 99, 108, 214; II, 4-5, 12, 33, 48, 56 e 13.

sempre la vostra nazione» (1). Per lunghi periodi, una volta per un anno di seguito, stava senza medico ; e diceva lamentandosi: «Per più d’un anno m’han privato di as¬sistenza medica, togliendomi i medici in cui avevo fiducia».

     O’ Meara fu allontanato nel luglio del 1818, e Stokoe nel 1819, perchè Hudson Lowe sospettava che fossero inclinati a favorire il prigioniero (2). La madre di Napoleone riuscì a far in modo che finalmente gli fosse posto vicino un medico non inglese, ma suo compatriotta: il còrso Antonmarchi; però Napoleone non ne fu molto grato, anzi «questo (medico) non era affezionato all’Imperatore, non credeva a’ suoi mali, e riteneva che la sua fosse una malattia politica, per ottenere di essere rimandato in Europa. Nei momenti dei più forti accessi non gli stava vicino». I medici inglesi erano stati allontanati dal governo, ed il compatriotta mandatogli da sua madre avrebbe voluto allontanarlo egli stesso (3). Due settimane prima di morire, cacciò l’Antonmarchi con queste parole: «Non vi perdonerò mai la vostra mancanza di cuore. Fuori, fuori di qui! » (4)

E non ne voleva altri al suo posto. Il 30 genn. 1821 dichiara che in nessun caso vuole vedere medici inglesi o chiedere i loro consigli, e che preferisce soffrire anziché essere visitato da essi. Il 28 aprile ordina che nessun medico inglese lo tocchi. Il 3 maggio ripete ancora lo stesso ordine: « Caso mai o ripete ancora lo 

(1) 0’ Me ara, o. c„ III. 176-7 182, 181; IV, 135, (Cfr. Ré¬sumé, o. s., pag. 268).

(2)         ANTONMARCHI, o. c., I. 13 e 47.

(3)         E. LUDWIG, O. C., 568-7.

(4)         MEREZSKOVSKIJ, o. C-, 310.

stesso ordine: « Caso mai perdessi la conoscenza, in nessun caso si tolleri clie mi venga vicino un medico inglese ». Si avverò quello clie il conte di Montholon, il 17 marzo 1821, aveva scritto a Paola Borghese: « Napoleone morrà su questo orribile scoglio senza alcun aiuto » (1).

(1) ANTONMARCHI, o. o., II, 12, 74, 82, 89.

Gli « Eretici »

     Come sappiamo, Napoleone pretendeva che il Papa considerasse come suoi propri nemici i nemici della Francia, col pretesto che erano eretici o scismatici. Argomentava anche che egli, come i suoi predecessori della seconda e della terza famiglia regnante francese, era il figlio primogenito della Chiesa, che portava la spada per difendere la Chiesa, e che perciò non poteva tollerare che il Papa rimanesse in relazione cogli eretici inglesi e cogli scismatici russi.

     Ed ecco che «proprio la vittoria delle tre potenze non cattoliche su Napoleone mise il Papa nella possibilità di ritornare a Roma» (1). Sappiamo dalla storia di N. S. Gesù Cristo che quando Vebreo Erode cercava a morte l’odiato « re dei giudei », invece dell’ebreo Erode fu¬rono tre principi pagani (« i tre Re Magi ») che vennero ad ossequiarlo. Il cattolico Napoleone voleva spogliare il Papa della Sua sovranità, e tre sovrani acattolici si affrettarono, dopo la caduta del superbo imperatore, a visitare, salutare ed ossequiare Papa Pio VII.

(1) Leopoldo Kauke, I Papi romani negli ultimi quattro secoli, (Trad. Ungh. di Ignazio Acsàdv, 1889, voi. Ili, pag. 208).

      Lo Zar Alessandro, impedito di venire personalmente, mandò in sua vece il granduca Michele, suo fratello, a presentare al Papa i suoi saluti ed a farsi interprete presso di Lui de’ suoi migliori auguri (1819). Il Principe Reggente d’Inghilterra mandò a Roma (1819) il primo pittore del suo paese, il famoso Tommaso Lawrence, perchè ritraesse ed immortalasse, per la pinacoteca del castello di Windsor, Papa Pio VII ed il Cardinale Segretario di Stato Consalvi. Finalmente (1822) il Re di Prussia Federico Guglielmo andò a riverire il Papa co’ suoi due figli e con Alessandro Humboldt, che era uno de’ più grandi scienziati del suo tempo.

Contrasto

     Finora abbiamo constatato una corrispondenza sorprendente, o per lo meno interessante, fra la sorte che toccò in prigionia al Papa e quella che toccò a Napoleone. Ma verso la fine del primo atto del dramma il parallelo si muta in un forte contrasto: l’ultima partenza dal suo regno, di quel Napoleone che voleva umiliare, abbattere, calpestare il Papa, fu piena di vergogna, di avvilimento, di disprezzo ; mentre il contemporaneo ritorno del Papa a Roma fu solenne, vittorioso, trionfale, maestoso, glorioso.

     Già in occasione della sua partenza per l’Isola d’Elba, Napoleone aveva potuto convincersi che il popolo si era voltato contro di lui. Quanto più si avvicinava verso il mezzogiorno della Francia, tanto più forte sentiva gridare: «Abbasso il tiranno ! Morte al tiranno! » Ad Avignone, la folla voleva che le si consegnasse il «Corso» per farlo a pezzi e gettarlo nel Rodano. Quando da Orgon giunse la voce che la plebaglia aspettava Napoleone per impiccarlo, l’Imperatore indossò una divisa da ufficiale straniero, vi appuntò sopra la coccarda borbonica (che odiava tanto) ed andava continuamente cambiando posto nella vettura. Questo bisogno di nascondersi e di travestirsi e di far quasi una commedia, trasse le lacrime da’ suoi occhi. Caratteristica dell’umore del popolo fu la condotta del sindaco di Orgon: era stato lui che, al ritorno di Napoleone dall’Egitto, l’aveva ossequiato in ginocchio! ed ora, in un discorso al popolo, parlando dell’Imperatore che stava recandosi all’Elba, urlava: «Lo impiccherò colle mie proprie mani; voglio vendicarmi di lui ! » (1) Il Cardinal Pacca scrive che in parecchi luoghi, nel suo viaggio da Usetz a Milano, vide buttar in acqua la statua di Napoleone (2).

     Dopo Waterloo, Napoleone dovette convincersi ancor meglio che la Francia l’aveva scomunicato da sè, ed era contenta che finalmente il suo ex-imperatore se n’andasse. Secondo la testimonianza d’un contemporaneo, la notizia della sua abdicazione fu ricevuta con un entusiasmo confinante colla pazzia (3). Il Duca Davout, maresciallo di Francia, ex-comandante della guardia imperiale, che era stato educato nella scuola militare di Brienne con Napoleone e si poteva gloriare di goderne la piena fiducia, nel giugno del 1815 stava ancora in ginocchio davanti all’Imperatore; ma nove giorni più tardi diceva già a Flahaut: «Il vostro Bonaparte non vuole andarsene; ma bisogna che ci liberi dalla sua presenza. Ormai ci è di peso. Se pretende che ci interessiamo ancora di lui, si

(1)         Merezskovskij, L’uomo Napoleone, (ediz. ungi, di Ni¬cola Biró, senza data, pag. 28).

(2)         Dott. G. C. Weisz, Storia Universale, già citata, voi. XXII, pag. 845.

(3)         Dott. Fr. Trachu, Le Ouré d’Ars, (Trad. Ungh. di B. Nagy, Arvay, 1932, pag. 82).

sbaglia di grosso. Non vogliamo più saperne di lui. Ditegli che se ne vada, perchè se non se ne va, lo faccio senz’altro arrestare, anzi l’arresto io stesso» (1). E Fouché, ex-ministro di Napoleone, gli intimò di partire al più presto. Così poco sicuro si sentiva Napoleone nel suo proprio paese, che preferì gettarsi nelle braccia del suo più grande nemico.

     Diametralmente opposti furono i sentimenti del mondo durante il viaggio del Papa verso Roma, contemporaneo alla partenza di Napoleone per la prigionia.

Il governo provvisorio francese, subito il 2 aprile, prese, riguardo al Papa, la seguente determinazione: « Il governo provvisorio, informato con dispiacere degli ostacoli opposti al ritorno del Papa ne’ suoi stati, e dolendosi della continuazione di quelle offese che Napoleone Bonaparte aveva fatte a Sua Santità, ordina che siano subito rimossi gli ostacoli opposti al viaggio di S. S., e che le siano resi dovunque i convenienti onori. Si affida alle autorità civili e militari il compimento della presente ordinanza».

     Veramente il viaggio del Papa fu un trionfo senza pari, seguito dalla gioia entusiastica della Chiesa universale. Dovunque andava, era ricevuto con un entusiasmo sconfinato non mai provato prima, con un giubilo erompente spontaneo dal cuore. In molti luoghi la folla staccò i cavalli dalla carrozza del Papa, per tirarla essa medesima. Ognuno voleva vedere e salutare il Papa ed averne la benedizione. Di notte s’illuminavano le vie e le piazze, e se ne

(1) G-. C. Weisz, Storia Universale, c. s., XXII, 949-950,

precedeva, accompagnava e seguiva il passaggio con lampioni, fiaccole e fuochi artificiali, e col suono festivo delle campane.

     Chateaubriand, contemporaneo e testimonio oculare, scrive: « Il Papa viaggiava fra canti di gioia, lacrime e scampani!. Viva il Papa ! Viva il Capo della Chiesa! gli gridavano acclamandolo. Non gli offrivano le chiavi delle città, non gli accumulavano dinanzi le conquiste fatte a prezzo di sangue e di omicidi, ma venivano gli infermi perchè li guarisse, i fidanzati perchè pregasse per loro, le madri offrendogli i loro bambini perchè li benedicesse. Restava a casa soltanto chi non poteva camminare. I pellegrini passavano la notte all’aperto, per poter salutare il Papa liberato. I protestanti dicevamo commossi: «Questo è il più grande uomo del secolo ! » E tutto ciò in terra francese. Ed a tale gioia, festa e venerazione, come appunto nota Chateaubriand, non partecipavano soltanto i Cattolici, ma anche quelli di altra religione.

     Murat, cognato di Napoleone e re di Napoli, scrive al Papa (4 apr. 1814): « Santo Padre, poiché la fortuna della guerra mi ha fatto sovrano di territori che erano in possesso di Vostra Santità quando fu costretta a lasciare Roma, io li restituisco ora in Suo potere, e rinunzio in Suo favore ad ogni mio diritto come conquistatore di questi paesi » (1).

     Il 24 maggio 1814, quando il Papa giunse a Roma, trenta giovanotti delle più distinte famiglie dell’Urbe tirarono la sua carrozza fino in piazza S. Pietro.

(1) Chateaubriand, Vie de Napoléon, (Trad. Ungh. di D. Antal, senza data, pag. 140).

L’entusiasmo raggiunse il colmo quando Pio VII, sceso di carrozza, si avviò lentamente, col volto raggiante, per la gradinata di S. Pietro, a rendere, prima di ogni altra cosa, grazie a Colui, la cui provvida mano l’aveva, dopo tante sofferenze, ricondotto nella sua capitale (1).

     Napoleone, dall’altezza della più grande gloria dell’età moderna, precipitava nella prigione di uno scoglio sperduto nell’Oceano, ed il suo prigioniero risaliva sul primo trono del mondo !

     I regni di cui Napoleone era stato signore furono divisi; la Repubblica veneta, che durava da più di un millennio, sparì dalla carta geografica; il venerabile Impero Romano-Germanico non risorse più; tutta l’Europa aveva mutato aspetto. Solo il Papato rimaneva quello d’una volta!

     I principi cattolici si affrettarono ad ossequiare il Papa. Francesco, imperatore d’Austria e re apostolico d’Ungheria, si recò personalmente da Lui coll’Imperatrice e col principe Giuseppe. I principi protestanti, come abbiamo già visto nel capitolo precedente, andavano a gara nel mostrare ed esprimere la loro gioia, il loro consenso, i loro ossequi ed i loro auguri.

La morte in prigionia e l’affare dei topi

     Papa Pio VI era morto lontano dalla sua patria e dalla sua sede, prigioniero di Napoleone. Anche Napoleone dovette morire in luogo remoto, prigionie¬ro de’ suoi nemici.

     Ed ecco ora un particolare molto interessante poco noto al gran pubblico, ma che pure ha un posto caratteristico tra i vari punti di contatto che abbiamo visto, e che vedremo in seguito, fra la sorte di Napoleone e quella del Papa.

     Abbiamo ricordato che il cadavere di Pio VI era stato collocato nella cantina di una casa privata, chiuso in una doppia cassa, intorno alla quale scorrazzavano i topi, che la fiutavano da ogni parte. Persino in questo particolare Napoleone dovette seguire la sorte del Papa che egli aveva perseguitato: nell’Isola di Sant’Elena i topi presero d’assalto il cuore di Napoleone, e poco mancò che non lo divorassero.

     Dopo la morte di Napoleone, ne estrassero dal cadavere il cuore e lo stomaco, per portarlo, secondo che egli ne aveva pregato l’Antonmarchi, in Italia a sua moglie Maria Luisa. L’Antonmarchi li mise dapprima in un comune recipiente d’argento; ma poi, accortosi che sarebbe stato difficile collocare tale recipiente nella bara, andò co’ suoi compagni in cerca d’un altro recipiente, in cui si potesse collocare il cuore, e che poi, riempito d’alcool e ben turato, potesse trovare convenientemente posto nella bara. Frattanto il cadavere ed il primo recipiente, col cuore e collo stomaco, furono affidati al medico militare inglese (chirurgo del 20.o reggimento) Dr. Archibaldo Arnott ed all’aiutante medico Rutledge. L’Arnott, che doveva già passare quella notte a Longwood, portò detto recipiente nella camera in cui doveva dormire. Ed ecco che, durante la notte, fu disturbato da un rumore: guardò, e vide con orrore che due topi avevano incominciato a rosicchiare il cuore di Napoleone. Naturalmente, si affrettò a cacciarli ed a porre al sicuro il recipiente.

     Siccome quest’affare dei topi, per essere poco conosciuto, fu da qualcuno messo in dubbio, anzi relegato nel mondo delle favole, mi si permetta di fermarmici un poco.

     Avendo notato che i più ritengono inverosimile il fatto, perchè, come dicono, non riescono ad immaginarsi come mai i topi potessero arrivare ad accostarsi al cuore, anzi, senz’altro, ad entrare nella camera del medico, richiamo anzi tutto l’attenzione sul fatto che la casa di Longwood brulicava di topi in ogni angolo. Napoleone stesso la definiva una «trappola», e diceva all’Antonmarchi: « Vedete come scorrazzano in camera mia questi topacci? bucano le pareti, bucano tutto, in questo triste tugurio » (1).

     0’ Meara, che fu medico di Napoleone a Sant’Ele-na per tre anni, scrive: «A Longwood, i topi sono in numero incredibile. Spesso si radunavano come i polli intorno agli avanzi di cucina. Bucavano in tutte le parti ed in ogni direzione il pavimento e le pareti di legno, e per queste aperture si muovevano a loro agio. Chi non l’ha provato, non può neppure immaginarsi il rumore che fanno codesti animali, quando scorrazzano su e giù dappertutto, o danzano a schiere sul soffitto, sia per cercarsi del cibo, sia per eseguire le loro danze preferite. Di notte, quando venivano in camera mia e mi passavano addirittura addosso, spesso mi svegliavano, ed io gettavo loro addosso gli stivali, il cavastivali e tutto ciò che mi capitava fra mano, ma non riuscivo neppure a disturbarli, tanto che alla fine dovevo alzarmi per cacciarli. Talvolta ci divertivamo a lasciarli entrare in una stanza, poi barricavamo tutte le aperture, ed i servi, entrati dentro coi cani, facevano una vera lotta, per uccidere quelle bestie, che talora si rivoltavano e mordevano. Non pensavamo ad avvelenarli, perchè la puzza dei cadaveri avrebbe reso inabitabile la casa: non una volta sola ci toccò sfondare una parete, per toglierne un topo morto che mandava un fetore insopportabile » (1).    

     Il Ludwig scrive che quelle stanze, ed in generale tutta la casa co’ suoi dintorni brulicavano di topi, che uccidevano le galline e mordevano le coscie dei cavalli (2). Il Merezskovskij dice che i topi scorrazzavano in ogni direzione, ed

(1)         0’ Meaba Barky Edward, Napoleon in der Verban- nwng, (Dresda, 1822, II, 152-3).

(2)         E. Ludwig, Napoleon, (Trad. Ungh. di Turóczy, voi. I, senza data, 523).

 una volta ne saltò fuori uno dal cappello dell’Imperatore (1). Del resto, anche oggi, nelle vecchie e crollanti stanze di Longwood, dimorano a schiere i topi e gl’insetti (2).

     Devo notare che anch’io, quando, quarantanni fa, lessi per la prima volta in un libro tedesco (3) questo affare dei topi, rimasi in dubbio: e tanto più crebbe il mio dubbio, quando trovai che certi scrittori esageravano la cosa. P. es., le fonti ungheresi (4) dicono che i topi non solo intaccarono il cuore di Napoleone, ma lo divorarono addirittura, ed allora i medici, temendo uno scandalo, fecero ammazzare un montone e ne posero il cuore nella bara di Napoleone; cosicché, secondo loro, « coloro che vanno ad onorare Napoleone sotto la cupola degli Invalidi a Parigi, guardano sospirando il cuore di un innocente montone morto martire per il vero cuore di Napoleone» (5). Anche il Wilson, nella sua « Vita di Carlyle » esagera quest’affare.

     Perciò volli informarmi della cosa risalendo alle prime fonti, ed interessai personalmente degli specialisti, sia nella mia Patria, sia all’estero. La maggioranza dei dati al riguardo sono custoditi nell’archivio del British Museum,

(1)         MEREZSKOVSKIJ, S. D., Vita di Napoleone, (in ungherese ediz. « Dante », senza data, 324).

(2)         Ciò mi fu -comunicato nell’agosto del 1935 dal Sig. Edvin Fielding, che era stato personalmente a Longwood nel 1934. Cfr. la comunicazione di un testimonio oculare nel numero del 20 noe. 1935 del giornale <t Uj Magyarsàg », pag. 8.

(3)         JULIUS STEIN, Napoleon ah Mensch, Held und Kaiser, (Leipzig, 1847, 2.a ediz. pagg. 188-9).

(4)         « Napoleon – Album », Budapest, Ediz. Hornyànsky, 1913, pag. 128. — SZINI GYULA, « Napoleon szerlmei », 1914, pag. 3, (Modem Kònyvtàr, n. 396-7).

(5)         « Pesti Napló », 7 mar. 1911.

e dell’affare si occupò minutamente il dotto inglese Dr. Arnoldo Chaplin. Da ambo le fonti ebbi esaurienti spiegazioni, ed anche risposte scritte, chieste da me per poter poi giustificarmi davanti a’ miei lettori.

     Con lettera in data 18 nov. 1925, il British Museum mi fece avere, col Dr. Chaplin, una risposta esauriente, di cui riporto qui la parte che ci interessa: «I nomi dei medici che erano presenti sono noti. C’era fra essi un certo Dr. Archibaldo Arnott, e la storia che il cuore di Napoleone sia stato mangiato da topi si fonda su referenze di una sua conversazione. Il Dr. Arnott non lasciò nessuna affermazione scritta in proposito, ma raccontò la cosa a Sir James Young Simpson, il famoso chirurgo, il quale la raccontò a sua volta a suo nipote, il fu Prof. Alessandro Russel Simpson. Il racconto era che, dopo l’esame post mortem del corpo di Napoleone il 6 maggio 1821, il cuore dell’Imperatore era stato posto in un piatto, coll’intenzione di conservarlo poi nell’alcool in un vaso separato, che sarebbe stato posto nella bara. Durante la notte, l’Arnott fu disturbato da un rumore nella stanza in cui era stato messo il cuore; ed entrandovi trovò due topi che stavano cercando di portar via il cuore » (1).

(1) « The names of thè medicai msn present are well known. There was among them a Dr. Archibald Arnott, and thè story that Napoleoni heart was eaten by rats rests upon reports of his conversation. Dr. Arnott left no written statement on thè sub- jeet, but he told thè story to Sir James Young Simpson, thè famous surgeon, and Sir James told it to his nephew, thè late Professor Alexander Russel Simpson. The story was that after thè post mortem examination of Napoleoni body on May 6 th, 1821, thè heart of thè Emperor was placed in a dish, with a view to its afterwards being preserved in spirits in a separate vessel, which would be placed in thè coffin. During thè night, Arnott was disturbed by a noise in thè room in which thè heart.  

     La comunicazione del Dr. Arnott non viene infirmata dagli scritti di Hudson Lowe, custoditi nel British Museum, contenenti la relazione particolareggiata dell’esame necroscopico di Napoleone. E’ chiaro infatti, che l’affare dei topi non fu considerato nè così importante, nè giuridicamente tale da doversi assolutamente comprendere nella relazione, e neppure tale da menarne vanto ed eternarlo per iscritto.

     Secondo le fonti trovate, il cuore di Napoleone fu affidato all’aiutante medico (assistant-surgeon) Rutledge coll’ordine verbale di non perderlo mai di vista («not to allow it out of his sight»). La relazione del Rutledge (1), che rende conto del suo operato, tace pure dell’affare dei topi; ma nessun codice al mondo esige che alcuno manifesti, e proprio in uno scritto ufficiale, le proprie colpe, negligenze, od azioni biasimevoli. Del resto, dà già motivo di sospettare la circostanza stessa che la relazione faccia notare l’ordine dato al Rutledge di non perdere di vista il cuore di Napoleone.

     Alla credibilità dell’episodio non nuoce neppure il fatto che la maggioranza delle biografie inglesi e francesi non ne parlano. Anzitutto, il 95 per cento delle biografie di Napoleone sono elogiative, ed in esse poteva sembrar ripugnante far menzione di tale affare. Poi, molti biografi ne tacciono, forse perchè le fonti pubblicate durante la vita, o poco dopo la morte di Napoleone, non ne parlavano, non essendo l’episodio venuto a conoscersi se non attraverso conversazioni tenute parecchio tempo più tardi. La maggioranza dei biografi

 (1) Archivio del British Museum, in Addit. M. S. 20, 133.

può anche non aver ritenuto degno di nota tale affare. Finalmente, sia gli Inglesi, sia i Francesi, potevano avere un motivo psicologico per tacerlo: gli Inglesi, perchè sapevano bene che i Francesi rinfacciavano loro (e rinfacciano ancor oggi) il modo come avevano trattato Napoleone, e non volevano quindi irritarli maggiormente col menzionare tale episodio ; i Francesi, perchè la cosa pareva loro poco gloriosa per il loro grande Imperatore; anzi, come mi confessò apertamente un professore francese, difficilmente uno scrittore francese oserebbe registrare tale storia, che ecciterebbe l’indignazione dei lettori.

Il luogo ed il tempo della sepoltura

Abbiamo già ricordato nella Parte Prima che Pio VI, prima del suo arresto, aveva manifestato il desiderio di esser lasciato a Roma, dove desiderava morire ed esser sepolto; ma gli si era risposto che «si può morire dovunque».

     Lo stesso successe a Napoleone. Ancora il 20 febbraio 1806 aveva ordinato la restaurazione della chiesa abbaziale di San Dionigi, perchè desiderava destinarne la cripta alla sepoltura sua e dei principi della sua famiglia (1). Ma sappiamo che codesto suo desiderio non fu soddisfatto, e che già nel suo testamento dovette dare altre disposizioni.

     Pio VI, poco prima di morire, ripetè il desiderio, già espresso nel Suo testamento, che il Suo cadavere fosse trasportato a Roma: e questo desiderio fu soddisfatto, ma soltanto dopo anni (1802).

      Napoleone ordinò nel suo testamento (punto 2.o) che le sue ceneri fossero portate a riposare sulle rive della Senna, in seno al popolo francese: anche questo suo desiderio fu soddisfatto, ma soltanto dopo anni (1840).

 (1) CHATEAUBRIAND, O. C., 67.

     Sappiamo che Napoleone desiderava che il suo cuore fosse mandato a Maria Luisa: appunto a questo scopo l’Antonmarchi aveva estratto dal cadavere il cuore e lo stomaco. Ma il governatore dell’isola non permise la spedizione, e bisognò collocarli nella bara (1).

     Il cadavere di Pio VI era stato finalmente consegnato, senza alcuna solennità, a Mons. Spina, che era stato autorizzato a rilevarlo. Anche il cadavere di Napoleone fu poi rilevato dall’Isola di Sant’Elena col cerimoniale più limitato e freddo, e soltanto dopo 19 anni potè riposare nella cripta sotto la cupola degli Invalidi.

(1) Nota dell’Antomnarchi, 5 mag, 1821.

ll figlio di Napoleone

Nell’ex-castello imperiale di Schònbrunn, ancor oggi ogni visitatore può osservare la stanza in cui Napoleone abitò, e dove firmò il decreto cbe poneva termine agli Stati della Chiesa ed al potere temporale del Papa. In seguito a tale ordinanza, gli Stati Pontifici vennero uniti all’impero francese, e Roma fu dichiarata «città imperiale e libera» e seconda capitale dell’impero (17 mag. 1809). Di tale stato, così dichiarato francese, Napoleone nominò più tardi il sovrano, nella persona del suo nascituro figliuolo.

     Codesto figliuolo nacque il 20 marzo 1811 (1). Già la sua nascita fu poco felice: il bambino pareva morto, (2) onde il medico lo avvolse in un panno e lo pose sul pavimento per occuparsi soltanto della madre. Poco dopo però il bambino diede improvvisamente segno di vita, incominciando a piangere sonoramente: allora gli amministrarono il Battesimo di necessità, dandogli i nomi di Napoleone Francesco Carlo Giuseppe.

Il giorno dopo, l’Imperatore, al colmo della feli cità, ricevette dal trono le

(1)         Un’opera completa sul figlio di Napoleone è « Napoléon et 8on fils », di FREDERIC Masson, (Paris, Ollendorf).

(2)         0’ MEARA, O. C., IV, 104.

felicitazioni del Senato e del Consiglio di Stato, e nella sua risposta disse: «Mio figlio compirà la sua eccelsa vocazione». Parigi nuotava nello splendore. Il bambino ricevette già nella culla la gran croce della Legion d’onore e della corona di ferro. Il popolo ebbe gratis spettacoli teatrali e, nelle piazze maggiori, da bere e da mangiare. (Questa fu l’ultima festa popolare sotto il regno di Napoleone I). Il Marmont, verso la fine del 14.o libro delle sue Memorie, scrive: «Il figlio dell’Imperatore, che era considerato come un pegno della pace e del riposo del mondo, quale arcobaleno politico della nazione, pareva chiamato ad essere il felice erede delle molte corone cariche d’alloro, ed a ricevere lo scettro dell’universo. Ormài anche i nemici di Napoleone erano convinti del sicuro avvenire dell’impero e della famiglia imperiale napoleonica ».

     Il 9 giugno, nella Cattedrale di Notre-Dame, si supplirono solennemente le cerimonie del Battesimo, coll’intervento di 20 Cardinali, di 200 Prelati, del Senato, del Corpo Legislativo, e dei rappresentanti di quasi tutti gli stati d’Europa. Alla fine delle cerimonie battesimali, il bambino fu unto Re di Roma! E bisognava chiamarlo così. Come nota un biografo, «Napoleone non trovava altro nome degno di ornare l’erede della sua potenza, che quello dell’antica dominatrice del mondo » (1).

     Alla fine di tutta la cerimonia, Napoleone sollevò il figlio fino all’altezza del proprio capo, e raggiantete di felicità lo mostrava ai presenti, come mallevadore

(1) A. Fournier, Vita di Napoleone I, 1916, voi. II, c. 6, pag. 398.

del glorioso avvenire, secondo imperatore dei francesi, massimo fra i sovrani della terra.

     Madame Montesquiou, «educatrice del figlio della Francia», ricevette l’ordine di portare ogni mattina, durante la colazione, il piccolo Napoleone alla tavola dell’Imperatore. Questi allora se lo prendeva in grembo, giocava con lui, gli cingeva la sua spada, gli metteva il proprio cappello… diventava bambino col suo bambino.

     Qualche volta si compiaceva di investire il bambino della propria autorità — e qualche uomo di spirito trasse profitto da codesto debole dell’Imperatore. P. es., Madame Durand racconta che un accorto signore indirizzò una sua petizione «à Sa Majesté le Roi de Rome». L’Imperatore lo condusse presso la culla del bambino, e volle che il richiedente leggesse ad alta voce la sua petizione. Poi chiese: «Ebbene, che cosa ha risposto il Re di Roma? » « Maestà — rispose quel tale — Sua Maestà non ha risposto nulla». «Bene — concluse l’Imperatore — chi tace acconsente ». E quel tale ottenne ciò che desiderava (1).

Secondo le previsioni umane, quale gigantesca, anzi quasi favolosa ed inimmaginabile potenza sarebbe un giorno dovuta toccare al piccolo Napoleone, Re di Roma! — Ma «l’uomo propone, e Dio dispone». A quel figlio, invece del più grande impero del mondo, toccò una piccola stanza; e proprio a suo figlio, al Re di Roma, successe ciò che Napoleone temeva di più e riteneva « la più triste

(1)         A. v. Helfert, Maria Luise, Erzherzogin v. Osterreich, Kaiserin d. Fmnzosen, 1873, pag. 210.

sorte della storia». Egli aveva infatti scritto a suo fratello, in data 8 febbraio 1814: « Preferirei che strangolassero mio figlio, piuttosto di vederlo educato a Vienna come un principe austriaco». Ed il 16 marzo di quell’anno, scriveva ancora al medesimo Giuseppe: « Ricordati sempre che vorrei piuttosto vedere mio figlio al fondo della Senna, anziché nelle mani de’ suoi nemici. Ho sempre ritenuto la sorte di Astianatte, preso dai Greci, come la più triste sorte dì tutta la storia » (1). E fu proprio questa la sorte di suo figlio: fu educato come un principe della nemica Austria, secondo lo spirito austriaco ; il «Duca di Reichstadt» diventò prigioniero di Schònbrunn; cadde nelle grinfie del principe di Metternich, il più grande nemico politico di Napoleone, che ne odiava il rampollo, ed apposta ne trascurava l’educazione fisica, spirituale e morale, per impedire che diventasse un giorno pericoloso; fu lasciato poltrire, non fu mai costretto ad occuparsi seriamente nello studio o nel lavoro, anzi gli furono offerte occasioni di darsi ai piaceri. Mentre suo padre avrebbe voluto farne il capo del più tremendo esercito del mondo, egli non potè mai far più che giocare con soldatini di legno, finché suo nonno materno non lo nominò colonnello onorario di un reggimento di fanteria ungherese: (2) ma anche questo era un onore apparente, da computarsi fra i giuochi. Il giovane fu sempre illuso con politica; non gli lasciarono mai vicino un vero amico; il Prokesch, che gli voleva davvero bene, fu allontanato da lui, e

(1)         Correspondance de Napoléon 1, publiée par Napoléon III, 1858; XXVII, 21.210 e 21.497.

(2)         Codesto reggimento portava il nome di Gustavo Wasa, principe reale di Svezia.

 gli furono invece posti accanto dei falsi amici, delle spie, degli informatori, cbe dovevano osservare e riferire anche i suoi segreti e le sue intime aspirazioni.    

     Neppur sua madre s’interessava di lui. Il poveretto diceva che tutta la sua vita non era altro che la sua nascita e la sua morte (1).

     Napoleone, dopo che aveva ormai rinunciato a veder migliorare le proprie condizioni, continuava a lavorare nell’interesse di suo figlio: nel 1820 dettò un disegno di costituzione, al quale nell’anno seguente aggiunse ancora speciali consigli per suo figlio; e poco prima di morire, com’è noto, ordinò ripetutamente che si sezionasse il suo cadavere, affinchè i medici potessero vedere se ci fosse modo di salvare suo figlio dalla sua malattia, od almeno di allungargli la vita (2).    

     Ma questo figlio di tante speranze morì tisico, il 22 luglio 1832, in età di 21 anno, dopo lunghe sofferenze e tra grandi dolori, prigioniero dell’Austria, senza aver potuto ripassare neppure una volta i confini dell’ex-impero di suo padre.

      Ed il «Re di Roma» morì in quella stessa città, in quello stesso palazzo di Schonbrunn, addirittura in quella medesima stanza, in cui il suo padre trionfante aveva posto fine, con un suo decreto, al legittimo regno di Roma, allo stato del Papa. Anzi, il giovane duca morì in quello stesso letto in cui suo padre aveva dormito, ed in cui forse aveva concepito il pen siero di detronizzare il Papa!

(1) HUTTKAY Lipot, Bonaparte Napoleon emlékiratai, (già citato), 1915, pag. 230.

(2)         Lettera di Hudson Low * al barone Stiirmer, da Sant’E- lena, 27 mag. 1821. — Cfr. Antonmarchi, o. c., II, 75, 76, 79.

 E quando portarono via il suo cadavere, la porta della stanza fu chiusa da quello stesso servitore di corte che l’aveva aperta per il suo vittorioso padre, Napoleone (1). « Tristissima mors rapuit » dice caratteristicamente l’iscrizione funebre sulla sua bara: « Una morte tristissima lo rapì ». Chateaubriand scrive: «Del figlio di Napoleone non rimase nulla, se non un melanconico valzer, composto da lui a Schònbrunn, che veniva suonato per le vie di Parigi su di un organetto, davanti al palazzo di suo padre». Oggi non si suona neppur più questo: il mondo non sa più nulla di lui.

     «Di lui non rimase nulla» dice Chateaubriand. Una cosa tuttavia avrebbe dovuto rimanere, per richiamare visibilmente il ricordo del «Re di Roma». Dico «avrebbe », perchè il fatto è il seguente, e lo ricordo per il suo significato: subito dopo la nascita di suo figlio, Napoleone voleva edificare, di fronte al ponte di Jena, un maestoso e splendido palazzo, che si sarebbe chiamato «Le Palais du Roi de Rome». Il governo decise immediatamente di comperare le case che sorgevano sul terre-no stabilito. Ora, il proprietario di una di quelle case, un povero bottaio di nome Bonvivant, per la sua casetta che poteva valere tremila franchi, ne chiese diecimila. Il governo trovò la somma eccessiva, ma Napoleone ordinò ugualmente la compera. Quando però si trattò del pagamento, il proprietario dichiarò che ci aveva pensato meglio, e che non intendeva darla per meno di ventimila franchi. Napoleone accettò anche questo

(1) HCTTKAY LIPOT, C. S., 232.

prezzo. Allora il nostro uomo, prima di accettare il pagamento, chiese trentamila franchi. L’Imperatore era disposto a pagare anche questa somma, ma il Bonvivant, all’architetto mandato per sbrigare la faccenda, chiese ora quarantamila franchi. L’Architetto non osava quasi neppure riferire ciò a Napoleone, eppure Napoleone accettò l’aumento. Allorché però il bottaio fece un nuovo aumento, richiedendo cinquantamila franchi, l’Imperatore, irritato, rinunciò al disegno primitivo. Così intanto si era ritardato il principio dei lavori; tuttavia, sebbene in proporzioni minori, fu incominciato il «palazzo del Re di Roma», coll’intenzione di compensarne la minor grandezza col maggior splendore. Ma se ne erano appena poste le fondamenta, che ritornarono i Borboni e le fecero distruggere, cosicché del progettato palazzo non rimase pietra sopra pietra (1). Non solo dunque il regno, ma neppure il palazzo del Re di Roma potè diventare realtà. «Nisi Dominus aedificaverìt domum, in vanum laboraverunt qui aedificant eam (Ps. 126): Se non fabbrica la casa il Signore, invano s’affaticano quelli che la vogliono fabbricare ».

     E tutto quello che rimane del Re di Roma, è una semplice bara nella cripta dei Cappuccini di Vienna.

(1) O’ MEARA, o. c., IV, 195-7.

Idee religiose di Napoleone

     Quanto si è detto fin qui potrebbe ingenerare nel lettore un’opinione erronea, quasi che tutta l’opera di Napoleone, ed ogni sua intenzione ed istituzione, fosse diretta contro il Papato, la Chiesa e la Religione. No ! Napoleone ebbe anche, proprio verso la Religione, la Chiesa ed il Papa, dei meriti indimenticabili. Anzi, anche in codesti meriti troviamo la stessa mirabile corrispondenza che abbiamo constatata riguardo a’ suoi errori. Prima però di passare a considerare particolareggiatamente sotto questo aspetto i meriti di Napoleone, conviene che vediamo in generale quali fossero le sue idee religiose.

     Aveva Napoleone una convinzione religiosa? Sì. Ma la sua fede non riposava su principii ben definiti: era religioso, ma a modo suo.

Credeva in Dio. « Non sono assolutamente ateo », diceva (1). Durante il viaggio in Egitto, udendo sul ponte della nave i dubbi dei dotti sull’esistenza di Dio, alzò la mano verso il cielo stellato, e domandò:

(1) Fkederic Masson, Napoléon, Marmscripts inédits, 1907-5.

«E quello, chi l’ha creato? » (1) A sant’Elena, osservando la meravigliosa struttura d’un fiore di fagiolo, pensò alla sapienza di Dio e prese a parlare dell’esistenza del Creatore (2). 0’ Meara gli ricordò che molti lo ritenevano incredulo, ma egli corresse subito l’errore, dicendo: «Non è vero ! Son ben lontano dall’essere ateo » (3). In un’altra occasione, disse queste parole, registrate dal Las Cases: «Si crede in Dio perchè tutto lo proclama intorno a noi, e gli spiriti più grandi vi han creduto; non soltanto Bossuet, che era il suo mestiere; ma anche Newton e Leibnitz che non ci avevano interesse… Nelle grandi tempeste, nelle stesse suggestioni accidentali dell’immoralità, l’assenza di codesta fede religiosa, posso affermarlo, non mi ha mai influenzato in alcuna maniera, e non ho mai dubitato di Dio; perchè se la mia ragione non fosse bastata a comprenderlo, il mio intimo non l’avrebbe meno adottato» (4). Altra volta disse che l’uomo morale non dubita mai dell’esistenza di Dio, perchè, se anche la sua intelligenza non vi arriva, vi crede l’istinto naturale dell’anima sua: ogni intimo senso dell’anima armonizza coi sentimenti religiosi (5).

     L’8 giugno 1816, come nota il Las Cases nel suo Memoriale sotto tale data, «L’Imperatore, dopo un movimento très vif et très chaud, disse: Tutto proclama resistenza d’un Dio, è indubitabile ». Ed ancora: «Sono come l’orologio, che esiste e non conosce se stesso; tuttavìa il sentimento religioso è così

(1)         MEREZSKOVSKTJ, L’uomo Napoleone, c. s.

(2)         LAS CASES, Mémorial de Sainte Hélène, 1823, II, 76-77.

(3)         0’ Meara, o. c., II, 106-7, (Cfr. Résumé, c. s., pag. 210).

(4)         Las Cases, Mémorial, c. s., Paris, 1840, VI, 64-65.

(5)         Montholon, Geschichte der Gefangenschajt Napoleone auj St. Helena, (Doutsch von Diezmann, 1886, II, 343).

consolante, che il possederlo è un beneficio del Cielo ». A parecchi membri del suo personale, l’Imperatore aveva rinfacciato che non credessero in Dio. P. es., aveva detto a Talleyrand: «Voi siete un uomo senza coscienza, che non credete in Dio ! » (1) Quando il Pesch gli mandò a Sant’Elena due missionari osservò: «Com’è limitato questo Cardinale! mi manda dei missionari, come se fossi un infedele». Una volta, a Sant’Elena, Napoleone stava parlando di religione coll’Antonmarchi, ed ecco ciò che questi riferisce: «Stavo osservando con inquietudine la contrazione muscolare del viso dell’Imperatore, allorché questi credette scorgere sul mio volto non so quale particolare movimento che gli dispiacque, e mi disse:

—          So bene che voi vi credete superiore a questi sentimenti dell’umana debolezza; ma pensate che io non sono nè filosofo nè medico. Io credo in Dio, e professo la religione di mio padre. Non sono tutti atei, quelli che vogliono sembrarlo. — E poi aggiunse, in tono di rimprovero: — Come si può essere così increduli da non credere in Dio, la cui esistenza c’è palesata da tutto ciò che ci circonda? E forsecchè ogni mente veramente grande non credette nell’esistenza di Dio?

—          Ma, Maestà, risposi io, io non sono mai stato un negatore di Dio ! Stavo solo osservando attentamente le pulsazioni di Vostra Maestà, allorché V. M. fraintese il mio atteggiamento. — Voi siete un medico, ribattè Napoleone, e codesti signori pescano sempre soltanto nel materiale, e non credono in Dio e

(1)         MEREZSKOVSKIJ, L’uomo Napoleone, c. s., 126.

 nell’immortalità » (1).

    Un giorno, Napoleone giunse fino a cacciar dalla sua camera il medesimo Antonmarchi, perchè gli parve che deridesse la sua fede in Dio. Dicono anche che avesse dato un calcio nella pancia al filosofo Volney che aveva pronunciato una bestemmia (2).

     Napoleone credeva anche nei miracoli. « Gli uomini, diceva, hanno bisogno di miracoli » (3). Ed altra volta: « Viviamo in mezzo ai miracoli » (4). Ed ancora: « Tutto è miracolo » (5).

     E’ vero che qualche volta si lasciò andare ad espressioni che potevano far pensare che non credesse in Dio: ma erano solo modi di dire che gli sfuggivano di bocca, di rado ed incidentalmente, mai in occasioni serie. In tali casi, o non si esprimeva liberamente, o voleva dire qualche cosa di grosso. La sua anima, però, credeva profondamente e con piena convinzione in un Dio provvido e governatore del mondo: ciò è accertato, non solo da molte sue espressioni in momenti gravi e da numerose sue lettere e raccomandazioni, ma anche da tutta la sua vita, da molte delle sue istituzioni e dalla sua condotta in parecchie occasioni.

Che poi la sua fede non fosse «dogmatica », non avesse limiti precisi e non fiorisse in una vita esemplarmente religiosa, si può spiegare con diverse circostanze. E la prima era l’irreligiosità dell’epoca in cui visse: egli era stato

(1)         ANTONMARCHI: O. C., I, 51, (25 sett. 1820) e II, 67, (21 apr. 1821).

(2)         MEREZSKOVSKIJ, O. C., 151.

(3)         Masson, Napoléon, manuscripts inédits, 1907, 6.

(4)         Masson, Napoléon à S.te-Hélène, 1912, 434, 478.

(5)         0’ Meara, Napoléon in exile, II, 39.

allevato nell’ambiente della rivoluzione, quando era di moda negare Dio, anima, eternità, vita futura; le idee atee, irreligiose, anticlericali de’ suoi tempi intaccarono ed infettarono anche la sua anima (1). In quei tempi, poi, nelle scuole militari non s’insegnava religione: Napoleone non ebbe mai un’istruzione religiosa regolare, eccetto la prima istruzione ricevuta dal padre gesuita Pianti (2). Esposto poi, mentre era ancora un giovanetto inesperto e flessibile, ai flutti delle opinioni, a 13 anni perdette la fede, e per parecchi anni non si curò più di questioni religiose. Disse egli stesso: « Ciò mi è successo (di perder la fede) che aveva appena tredici anni. Forse tornerò a credere ciecamente. Dio lo voglia! Certo, io non vi faccio alcuna resistenza; non domando di meglio; capisco che deve essere una grande e vera felicità » (3).

     Straordinariamente frequenti erano le sue affermazioni dell’importanza della Religione. Eccone alcune: « La religione può purificare ed ingentilire le coscienze. Il maggior bene si opera nei paesi più religiosi (4). — La religione è veramente la patria dell’anima, è speranza, àncora di sicurezza, salvezza dal male (5). — Dove decadrebbe l’umanità senza religìone? Per una pena più

(1) Un esauriente studio sulla vita religiosa ai tempi di Napoleone si trova in L. de Lanzac de Laboibe, « Paris sous Napoléon », 3 voli., (Paris, Plon et Nourrit).

(2)         Nuovi e caratteristici particolari sulla manclievole edu-cazione religiosa di Napoleone sono pubblicati nell’eccellente opera di ARTHUR CHUQUET, « La Jeunesse de Napoléon », 3 voli., Paris, Colin.

(3)      LAS CASES, o. c., VI, 64-65. 

(4)         G-OURGAUD, Savute-Hélène, (Paris, I, 441).

(5)         MONTHOLON, Qeschiehte, eco., c. s., 1846, II, 343.

grande, per una ragazza più bella, ci si strangolerebbe a vicenda » (1).

     Riguardo alla persona di Gesù Cristo, dapprima si lasciò influenzare dalla lettura di Voltaire, di Rousseau e degli Enciclopedisti; ma poi crebbe a poco a poco in lui la convinzione che Gesù Cristo era Dio. L’anima di Napoleone fu specialmente impressionata dal fatto cbe in tutta la storia sia avvenuto una volta sola cbe qualcuno si dichiarasse Dio. Anche i tiranni pagani si facevano chiamare dèi; ma il loro scopo evidente era soltanto di pretendere per sè, nella loro pazza vanità, quegli onori che i loro sudditi rendevano anche agli idoli. Ma se un uomo nobile d’animo e ricco di mente si dichiara, nel vero senso della parola, Signore del cielo e della terra, e nei secoli seguenti tutti i popoli civili e milioni di uomini nobili e sapienti accettano la sua dichiarazione, quell’uomo non può non essere Dio: « Come sono persuaso di non essere altro che un uomo — diceva Napoleone — così son persuaso che Cristo era altro che uomo (2). Credo di intendermi un poco di uomini, e vi dico che Gesù Cristo non era uomo» (3).

Nell’Isola di Sant’Elena, Napoleone così parlò di Gesù Cristo al generale Bertrand: «Questo è ciò che ammiro maggiormente, e che per me è la prova indubbia della divinità di Cristo: anch’io ero capace di entusiasmare le turbe che si precipitavano alla morte per me; ma per accendere il fuoco nei cuori ci voleva

(1)         Antonmarchi, Mémoires, 1825, II, 91.

(2)         DR. Engelbert L. Fischer, Napoleon I, 1904, 206.

(3)         Gourgaud, o. c., I, 409. (In realtà, G. C. era vero Dio, ed anche vero uomo. Siccome Napoleone non pensò mai a negare l’umanità di G. C., le due ultime frasi vanno intese così: Cristo era anche altro che uomo. Gesù Cristo non era soltanto, uomo. N. d. T.).

la mia presenza, lo splendore lampeggiante del mio sguardo, la mia voce, la mia parola. E’ certo che in me c’è il segreto di quella forza incantatrice che è capace di trascinare gli uomini ; ma non posso darla ad altri, non riuscii a comunicarla neppure ad uno de’ miei generali, e non conosco il segreto di eternare nel cuore degli uomini il mio nome ed il mio amore, per far loro compiere dei miracoli senza aiuto della materia. Lo stesso fu per Cesare e per Alessandro Magno. Finirono per essere dimenticati, ed il nome dei conquistatori servirà soltanto più per argomento di compiti scolastici. — Quale abisso si apre fra la mia miseria e l’eterno regno di Cristo, che è amato, adorato e predicato in tutto il mondo! Può dirsi che Cristo sia morto? o non vive piuttosto in eterno? Questa è proprio la morte di Cristo: non la morte di un uomo, ma di un Dio » (1)

(1) Fr. W. Yoerster, Christus und das menschliche Leben 1922, 93.

Meriti di Napoleone verso la

Religione e la Chiesa

E’ un fatto noto elle, dopo la rivoluzione che aveva combattuto Dio e la Religione, fu Napoleone a ristabilire in Francia la Religione nel suo primiero diritto, ed a restituire al popolo la completa, libertà religiosa. Codesta sua opera incontrò difficoltà straordinarie, in un’epoca in cui tutti coloro che contavano per qualche cosa erano sotto l’influenza di Voltaire e compagni. Napoleone stesso diceva che gli era stato più difficile ristabilire la Religione che vincere delle battaglie. Ma non aveva ceduto: « Il nemico più temibile — diceva — non è il fanatismo, ma l’ateismo » (1).

     All’arrivo a Parigi per l’incoronazione di Napoleone, Pio VII fu salutato, in nome dell’assemblea legislativa, dal presidente, che era il famoso ed esimio oratore Fontanes. Questi, tra le altre cose, disse: « Quando il vincitore di Marengo concepì, in mezzo al campo di battaglia, il disegno di ristabilire l’unità religiosa e di rendere ai Francesi il loro antico culto, preservò da una rovina

(1) MEREZSKOVSKIJ, o. C., 13 S e 132.

 completa i principi della civiltà… Giorno memorabile, ugualmente caro alla saggezza dell’uomo di stato ed alla fede del cristiano! Allora la Francia, abiurando troppo gravi erro¬ri… sembrò riconoscere cìie tutti i pensieri irreligiosi sono anche pensieri impolitici, e che ogni attentato contro il cristianesimo è un attentato contro la società » (1).

     Ma udiamo, a questo riguardo, la’ persona più adatta: il Papa stesso, il quale, nella lettera che scriveva a Napoleone per pregarlo d’intervenire nell’affare dell’incameramento dei beni ecclesiastici in Germania, diceva: « Voi ci siete stato del massimo aiuto quando si trattò di ristabilire in Francia la Religione e ridarle sicurezza; cosicché, dopo Dio, dobbiamo ringraziare voi di tutto ciò che avvenne in quel paese per il bene della Religione, che per sì lungo tempo vi era stata esposta ai più terribili assalti. Perciò vi raccomandiamo questa nuova occasione di affermare il vostro attaccamento alla Religione e di accrescere nuovamente la vostra gloria ». Quando poi la famiglia di Napoleone si rivolse al Papa nell’interesse dell’ex-imperatore, Pio VII, nella lettera che diresse in proposito al Card. Consalvi, Segretario di Stato, scriveva: « Dopo Dio dobbiamo soprattutto ringraziare lui (Napoleone) per il ristabilimento della Religione nel grande regno francese… Savona e Fontainebleau furono soltanto un errore della mente od un passo falso della vanità umana. Il Concordato fu un’opera di

(1) M. A. THIEB3, Histoire du Oonsulat et de l’JEhn/pire, Bruxel¬les, 1845, Libro XX: Le Sacre, pagg. 756-7.

redenzione cristiana e degna di un eroe ».

     Napoleone non si levò solo in difesa della Religione in generale, ma venerava ed apprezzava espressamente la Religione Cattolica e dava grande importanza alla Chiesa Cattolica (1). Quanto apprezzasse la collaborazione colla Chiesa Cattolica, lo dimostra il grande impegno con cui, ad ogni costo e nonostante tanti ostacoli, volle concludere con essa un concordato. E gli ostacoli erano grandissimi, non soltanto da parte della Chiesa, ma anche de’ suoi stessi consiglieri: egli stesso dice che si troverebbe difficoltà a credere le resistenze che ebbe da vincere per ricondurre il Cattolicismo (2). I sentimenti di Napoleone per il Cattolicismo sono ottimamente espressi nel discorso che tenne ad un’adunanza del Clero di Milano, il 5 giugno 1800. Fra l’altro disse: « Desideravo vedervi qui insieme, per poter manifestare personalmente i miei vivi sentimenti riguardo alla Religione Cattolica, Apostolica, Romana. Convinto che questa è l’unica Religione che offre una vera felicità ad una società ben ordinata e che può fortificare le basi del governo, vi assicuro che sarà mio impegno sostenerla e difenderla in ogni tempo e con ogni mezzo. Dichiaro che chi osasse in qualsiasi maniera disprezzare la nostra comune Religione e permettersi

(1) Anche sua madre era una donna religiosa. Napoleone nacque il 15 agosto, festa dell’Assunta, e poco mancò che non nascesse nella casa di Dio. Infatti sua madre presentì la sua na¬scita proprio mentre assisteva alla messa solenne di quel giorno: si affrettò a ritornare a casa, e due ore dopo nasceva Napoleone. (Marschall v. Bieberstein, Na-poleon kwrz vor seinem Tode. Leipzig, 1903, I, 172. — Antonsiarchi, Denkwiirdiglceiten, ecc-.. Lipsia, I, 137).

(2) LAS CASES, Mémorial, 1810, VI, 65 (17 ag. 181.6).

la minima offesa contro di voi, come ministri consecrati della Religione, sarà da me considerato come un perturba-tore dell’ordine pubblico ed un nemico del bene comune, e trattato col massimo rigore, ed anche, se necessario, punito colla morte. Desidero che la Religione Cristiana, Cattolica, Romana si mantenga nella sua pienezza e sia praticata pubblicamente. La Francia, rinsavita dalla sua sventura, ha finalmente aperto gli occhi e riconosciuto che solo la Religione Cattolica è quell’àncora a cui può tenersi ferma e trovar salute nelle sue tempeste: perciò ricevette nuova¬mente la Religione Cattolica nel suo seno. Non nego di aver avuto parte in sì bell’opera. Vi assicuro che in Francia si sono riaperte le Chiese, la Religione Cattolica ha riacquistato il primiero splendore, ed il popolo vede con venerazione i suoi sacerdoti ritornare pieni di zelo fra le loro gregge abbandonate » (1).

     Nel 1804 Napoleone dettò a Talleyrand queste parole: « L’Imperatore… pone la sua gloria e la sua felicità nell’essere uno dei più costanti sostenitori della S. Sede e dei più sinceri difensori del benessere delle nazioni cristiane. Vuole che la venerazione con cui si è sempre diportato verso la Chiesa di Roma sia considerata fra i primi e principali fatti che acquistarono gloria alla sua vita » (2). Quando era già incominciato il dissidio fra Napoleone ed il Papa, l’Alquier, in una lettera indirizzata al Papa in nome del governo imperiale in data 8 luglio 1806, diceva che l’Imperatore considerava come il più onorevole pri vilegio connesso

(1)         Correspondanoe de Napoléon I, 1857, VI, 426.

(2)         ARTAXJD, Histoire du Pape Pie VII, 1836, voi. II, cap. 3.

colla sua dignità il grande vantaggio di proteggere la Chiesa, la cui benefica ed augusta potenza nessuno stimava più di lui.

     Tanto più è da ammirarsi l’attaccamento di Napoleone alla Chiesa ed alla Religione Cattolica, in quanto molti de’ suoi consiglieri, e l’Inghilterra stes¬sa, gli consigliarono sovente di introdurre il protestantesimo, o di creare una nuova religione «francese», rendendosi così indipendente dalla Chiesa e dal Papa. Nel suo discorso al Clero di Breda, nel maggio 1810, disse, che, se si fosse fatto protestante, trenta milioni di francesi avrebbero senz’altro seguito il suo esempio; ma non l’aveva fatto, perchè credeva che i principii della Religione Cattolica potessero accordarsi con quelli del governo civile (1). Ed altra volta respinse il protestantesimo, perchè non voleva esporre il suo paese agli orrori della guer¬ra e della discordia religiosa (2). Contro i consigli dell’Inghilterra, di adottare nel suo paese la religione anglicana, opponeva che la Religione Cattolica è migliore dell’anglicana (3). Ed altra volta diceva: « Sono Cattolico, e sostengo la Religione Cattolica in Francia, perchè questa è la vera religione, la religione della Chiesa… e farò di tutto per rafforzarla » (4)-

     Dovendo scegliere la sua moglie o dalla famìglia imperiale russa o da quella austriaca, tra gli argomenti che lo decisero per la seconda ci fu anche questo, che la prima non era cattolica (5).

(1)         « Il Pontificato di Pio VII », c. s., II, 90.

(2)         Las CASES, C. S.

(3)         Gourgaud, Mémoires de Napoléon à S.te-Pélène, 1823, II, 547.

(4)         DR. EUG. FISCHER, Hapoleon I, 1904, .207.

(5)         « Il Pontificato di Pio VII », e. s., II, 40.

     A coloro clie gli consigliavano di fondare una nuova religione «francese», rispose: « Non vorrete, spero, che io fondi una nuova religione. Io la vedo diversamente: mi occorre la vecchia Religione Cattolica, che è la sola che mi può guadagnare i cuori ed appianare ogni ostacolo » (1). E più tardi: « Che io fondi una nuova religione? chi vuol fondarne una deve salire il Calvario: ed io non ne ho voglia » (2).

     Napoleone non s’inchinava soltanto in generale davanti alla Religione Cattolica, ma ne venerava anche i dogmi. Ad una domanda del Dr. O’ Meara, rispose: « Sì, credo tutto ciò che crede la Chiesa » (3). Ed altra volta: « Nelle mie questioni col Papa, avevo per prima cura… di non toccare il dogma » (4). Ed ancora: « Sono stato attento a non toccare i dogmi, come un soldato non deve trattare di cose non militari » (5).

(1)         PASQUIER, Histoire de mon temps, 1893-5, I, CO.

(2)         DR. EOG. Fischer, c. s., 208.

(3)         0’ Meara, o. C., I, 130.

(4)         LAS CASES, 1. c.

(5)         DE. EUG. FISCHEE, O. C., 214.

Meriti di Napoleone verso il Papa e

verso l’alto e basso Clero

     Per quanto Napoleone abbia causato ai due Papi, Pio VI e Pio VII, giorni ed anni di tristezza, amarezza ed umiliazione, pure dobbiamo affermare e rilevare due fatti.

     Il primo è che onorava e stimava il Papa, sia come Capo della Chiesa, sia come persona. Se, nei mo¬menti immediatamente seguenti alle resistenze del Papa, fu sovente furioso e diede in espressioni gravi riguardo al Papa, fuori di quelli ne parlava sempre con lode. Riteneva specialmente buono, mite e santo Pio VII, la cui irremovibilità attribuiva all’influenza di coloro che lo circondavano.

  Nè bisogna dimenticare che la sua condotta dura, offensiva, ingiusta ed umiliante verso il Papa fu favorita dalla condotta vile, opportunistica, incerta, servile, interessata, senza principii e senza carattere, di una parte dell’alto e basso clero.

     Naturalmente, per l’incredibile superbia e vanità di Napoleone era anche causa di grandissima irritazione ed offesa che ci fosse qualcuno — in questo

caso il Papa — che osasse opporsi apertamente e fermamente alla sua volontà.

     A scusa di Napoleone possiamo ancora ricordare un fenomeno psicologico: l’incredibile velocità con cui la sua fortunata carriera l’aveva portato ad una altezza vertiginosa, ed il riconoscimento ossequioso del mondo, poterono facilmente indurlo a credere di essere stato scelto dalla storia, od ordinato dalla Provvidenza, ad una riforma mondiale, alla quale uno dei più grandi impedimenti era la posizione del Papa.

     Infatti, i disegni di Napoleone, al principio, erano modesti. Ancor nel 1795 si sentiva felice per aver ricevuto in dono dalla signora Tallien un paio di scarpe ed alcuni capi di vestiario. Posso dire di più: al tempo della sua entrata in Milano, la maggior parte de’ suoi ufficiali mancavano di calzature e si tingevano i piedi di nero, per nascondere la mancanza di scarpe.

     Ma ecco che ottenne vittorie sopra vittorie, e contro splendidi eserciti condotti da buoni generali! Tutti i giornali del mondo andavano a gara nel glorificare il trentenne generale. L’imperatore France¬sco non finiva di ammirare il Primo Console, e già nel 1802 ripeteva che, se Napoleone gli avesse chiesto la mano di sua figlia, gliel’avrebbe data volentieri. I Borboni facevano di tutto per tirare dalla loro quel grand’uomo. Persino i giornali inglesi scrivevano articoli sulla potenza del fascino di Napoleone, tanto che la corte inglese non osava proporlo per un’udienza al re Giorgio. Senza parlare del suo popolo, che dopo i successi del 1805-7 glorificava Napoleone come un semidio. Se aggiungiamo la condotta quasi servile dei sovrani tedeschi verso di lui ad Erfurt e più tardi a Dresda, o le esaltazioni ossequiose di uomini come Goethe, Giovanni Miller ed altri, allora non possiamo meravigliarci che i disegni di Napoleone crescessero all’infinito.

     Ma mentre gli splendeva dinanzi l’ideale di un impero universale come il Romano, che oltre l’Europa comprendesse anche una buona parte dell’Asia e dell’Africa, ecco che, proprio in quello che avrebbe dovuto essere il centro del sognato impero, e cioè a Roma, un uomo — il Papa — stava sul suo cammino come un impedimento politico. Da un punto di vista psicologico, dobbiamo in ogni caso considerare questa come una circostanza attenuante, se Napoleone volle togliere dal suo cammino questo ostacolo politico (1).

     Il secondo fatto che dobbiamo rilevare ancor meglio è che, per quanto Napoleone umiliasse, offendesse e tormentasse il Papa, riguardo alla fede s’inchinò sempre al potere spirituale ed alla supremazia religiosa del Papato. Dell’istituzione del Papato, così giudicava: « L’istituzione che mantiene l’unità della fede, cioè il Papa, custode dell’unità cattolica, è una istituzione ammirevole. Si rimprovera a codesto capo di essere un sovrano straniero: lo è, infatti; e bisogna ringraziare il Cielo. Ecchè! si può immaginare, nello stesso paese, una simile autorità a fianco del governo dello Stato? Unita al governo, codesta autorità diverrebbe il despotismo dei sultani ; separa-

(1)         Da questo punto di vista psicologico giudicano Napoleone le opere seguenti: I. E. DAHAULT, Napoléon en Italie, (Paris, Alcan, 1907) e A. Vandal, L’Avénement de Bonaparte, (Paris, Blond, 1908, 2 voll.).

ta, forse ostile, produrrebbe una rivalità orribile, intollerabile. Il Papa è fuori di Parigi, e va bene così; non è nè a Madrid nè a Vienna, ed appunto per ciò noi sopportiamo la sua autorità spirituale. A Vienna, a Madrid, hanno ragione di dire lo stesso. Si crede forse che, se stesse a Parigi, i Viennesi e gli Spagnuoli acconsentirebbero a ricevere le sue decisioni? Si è dunque troppo contenti che risieda fuori di casa nostra, e che, risiedendo fuori, non risieda fra i nostri rivali, ma abiti in quella vecchia Roma, lungi dalla mano degli imperatori di Germania, lungi da quella dei re di Francia o di Spagna… Così hanno disposto i secoli, ed hanno fatto bene. Per il governo delle anime, è la migliore, la più benefica istituzione che si possa immaginare » (1).

     Quando l’incaricato d’affari d’Inghilterra voleva persuadere Napoleone a romperla del tutto col Papa, e cercava di far temere al Primo Console che altrimenti il Papa avrebbe dominato sopra di lui, egli rispose: « Adesso ci sono due autorità: per gli affari della terra ho in mano la spada, e questo basta al mio potere; per gli affari del Cielo c’è Roma, ed in questo campo Roma deciderà senza interrogarmi; ed in ciò ha ragione: è questa la pienezza del suo potere» (2).

     Ancor nella già ricordata lettera diretta al Papa in data 13 febbraio 1806, nella quale si esprimeva rabbiosamente e pretendeva la sottomissione politica del Papa, Napoleone scriveva che come capo della Religione lo venererebbe sempre in quel modo filiale

(1)Thiers, Eistoire du Consulat et de l’Empire, Bruxelles, 1845, Libro XII «Le Concordai » pag. 377.

(2)DE. EUG. FISCHER, O. C., 207-s.

di cui aveva già dato prova in tante circostanze. Anche nella già citata lettera dell’Alquier si asserisce che, per quanto Sua Maestà sia amareggiata perchè il Papa non soddisfa i suoi desideri, tuttavia non ha altro desiderio che di dar prova della sua filiale pie¬tà verso il Capo della Chiesa ed un nuovo segno del suo personale ossequio verso Sua Santità. Il 12 novembre 1806, parlando col Vescovo d’Arezzo, Napoleo¬ne affermò che, se il Papa non cedeva al suo volere, egli lo avrebbe privato del potere temporale, ma lo venererebbe sempre come capo della Chiesa. E davanti al clero di Dyle, disse: « Voglio avere ogni riguardo possibile per il Papa. Lo riconosco come Capo spirituale della Chiesa, successore di S. Pietro, Vicario di Gesù Cristo, in tutto ciò che appartiene strettamente alla Religione; ma non s’immischi ne’ miei affari temporali ». E colia commissione ecclesiastica, nel 1811, così si esprimeva: « Non nego al Papa il potere spirituale, perchè l’ha ricevuto da Gesù Cristo-, ma Cristo non gli ha dato potere temporale » (1).

     Gli abitanti dell’Isola di Sant’Elena circondavano di grande riverenza i due sacerdoti colà mandati presso Napoleone; di ciò il governatore non era contento, e lo faceva sentire ai due preti. Del che informato, Napoleone esclamò: « Non tollererò che questi eretici offendano la Tiara: nè il Papa nè il Concistoro mi perdonerebbero simile tolleranza. Fatemi chiamare i due apostoli». E nel congedarli, disse agli altri presenti: « Dicano poi che non ho avuto cura del debito onore della Chiesa ». A Sant’Elena, Napoleone capì come fosse

(1) “Il pontificato di Pio VII”, c.s., II, 01 e 145.

pericoloso toccare il Papato. « Il potere di Roma è incalcolabile; — disse — l’abbiamo sbagliata a romperla con essa: essa sola ne ebbe vantaggio » (1).

     Napoleone ebbe ancche grandi meriti verso il Clero.

In primo luogo fece sentire il suo buon volere al Clero italiano, perchè in principio era ancor molto forte nella stessa sua patria il sentimento rivoluzionario. Già nel proclama di Bologna (1797) dichiarò che i preti, i religiosi, i ministri della religione, qualunque fosse il loro titolo, godevano tutti protezione e rimanevano al posto che occupavano (2). Poi, nel pro¬clama di Macerata, permise ai preti espulsi dalla Francia di rimanere negli Stati della Chiesa; proibì «sotto la minaccia della più rigorosa punizione» di recar loro disturbo ; ordinò ai conventi di mantenerli, promettendo di pagarne le spese (3), e dichiarò che avrebbe gradito tutto ciò che i Vescovi ed altri pietosi pastori di anime avrebbero fatto per migliorare la sorte di tali preti (4). Abbiamo già ricordato, del discorso tenuto da lui a Milano il 5 giugno 1800, un brano che tornerebbe opportuno anche qui.     

     Nello stesso discorso disse ancora: « So quanto avete sofferto nelle vostre persone, e quante privazioni avete patite. Ancor una volta vi ripeto: le vostre persone saranno d’or innanzi rispettate e sicure; quanto ai vostri be¬ni, per quanto sarà permesso dalle circostanze, provvedere che li riabbiate almeno in parte ed avrò cura che vi siano assicurate rendite convenienti ed onorevoli

(1)         ANTONMAKCHI, C. 8., I, 76 e 135.

(2)         Correspondance, c. s., II, 270-1.

(3)         CHATEAUBRIAND, c. s., 241.

(4)         Correspondance, c. s., II, 431

provvigioni ». In realtà, Napoleone lasciò in Italia i vari benefici e beni immobili ecclesiastici; la Chiesa ebbe somme importanti, la situazione del Clero fu migliorata e la sua opera resa più libera.

     In seguito, Napoleone fece molto nell’interesse del Clero anche in Francia. E’ noto che la convenzione Francese aveva perseguitato i preti ed i religiosi cattolici, i quali a centinaia avevano sofferto il martirio per le loro convinzioni. Molti erano stati espulsi, a migliaia si erano rifugiati all’estero, e molti si tenevano nascosti in Francia, errando di luogo in luogo per amministrare i Sacramenti con continuo pericolo della vita. Napoleone fu il primo che prese sotto la sua forte protezione i preti perseguitati. Più tardi assicurò la loro situazione materiale: propose al Consiglio di Stato l’aumento del loro stipendio, in modo che i parroci avessero mia rendita di almeno seimila franchi, per il che bisognava diminuirne il numero, riducendo le parrocchie minori a chiese filiali (1). Parlando col Dott. Antonmarchi il 15 febbraio 1820, disse: « Disposi che il Clero potesse avere ima rendita onorevole, di cui era privo da dieci anni. Per sostenere convenientemente i parroci, volli che si provvedesse sollecitamente alla loro situazione materiale. So che molti di essi, specialmente nei paesi di montagna, sono in strettezze. Io mi applicai a migliorare al più presto il loro stato ». Ed al medesimo, il 18 marzo 1821, diceva ancora: « I poveri preti esiliati e perseguitati in Francia si sarebbero miseramente perduti, se io non avessi steso la mano per aiutarli. I tribuni popolari non osarono più offendere Quelli che io proteggevo. Io ho mantenuto per la Chiesa i suoi preti » (1).

     Napoleone provvide anche rendite convenienti pei Vescovi ed Arcivescovi, ed assicurò pure le prebende dei Capitoli.

     In Italia, sotto la dominazione austriaca, i seminari erano stati privati di tutto: neppur uno aveva più entrate regolari. Napoleone li dotò nuovamente, anzi dichiarò che « riteneva ciò come il primo suo obbligo di coscienza » (2).

      Anche i Religiosi dovevano molto a Napoleone. Le Suore di Carità poterono ritornare in Francia (3), il grande convento del S. Bernardo fu ristabilito e dotato d’una rendita di quarantamila franchi. Era anche desiderio di Napoleone erigere in Francia quattro nuovi conventi (4). Giunse a dire (12 gennaio 1817) che gli piacevano i conventi e che avrebbe egli stesso voluto ritirarsi a vivere in un chiostro.

     In una allocuzione ai Cardinali, il 26 giugno 1805, Pio VII disse: « In Francia, i preti di S. Vincenzo e le sue congregazioni sono ritornate in vita; con pubblici decreti fu provveduto al restauro delle chiesa più importanti ed alle spese necessàrie per l’esercizio del culto; furono offerti ampi e begli edifici per nuovi seminari, e mi fu promesso che i seminari riceveranno in eredità beni mobili ed immobili, ed alcuni saranno sussidiati dal tesoro dello stato; furono aumentate

(1)         ANTONMARCHI, o. C., II, 16 e 30.

(2)         « Il Pontificato di Pio VII », c. s., I, 179.

(3)         RBMUSAT, Napoleon u. sein Hof., 1800, III, 337.

(4)         GOUBGAUD, Mémoires, e. s,, I, 409 e 430.

le entrate di molti Vescovi e Capitoli; le città e le province furono obbligate a mantenere le chiese e provvedere agli arredi sacri; i Missionari francesi all’estero, per interessamento dell’Imperatore, riebbero il diritto di acquistare proprietà, ed essi stessi sono appoggiati e protetti dal potere imperiale; fu ampliato il potere disciplinare dei Vescovi; si ebbe cura della istruzione religiosa della gioventù e di provvedere ai bisogni spirituali dei soldati infermi e del popolo: queste sono le conseguenze dei nostri negoziati col grande sovrano (Napoleone) » (1).

     Dobbiamo ancor ricordare due atti caratteristici di Napoleone verso il suo cappellano Buonavita: scelse, per la celebrazione della S. Messa, l’ora meno incomoda pel vecchio prete; e quando s’accorse che per il medesimo il soggiorno di Sant’Elena era troppo dannoso, Io rimandò in patria con una pensione di tremila franchi (2).

(1)         « II Pontificato di Pio VII », o. s., I, 201-3.

(2)         ANTONMAKCHI, o. o., II, 29, (17 mar. 1821).

Vita religiosa di Napoleone

     A buon diritto afferma il Carlyle che «Si ha ragione, sotto ogni rispetto, di dire che il fatto più importante per un uomo è la sua religione» (1). Anche per Napoleone, dunque, importa sapere, non soltanto quali fossero le sue idee religiose in teoria e nelle sue relazioni cogli altri, ma ancor più in qual misura egli stesso praticasse personalmente la sua religione. A tale riguardo, possiamo stabilire quanto segue: Napoleone leggeva ripetutamente e qualche volta ad alta voce, la S. Scrittura, sia il Nuovo che l’Antico Testamento (2). Las Cases ricorda che in un’occasione fece portare dal piccolo Las Cases il Vangelo e lo lesse dal principio sino al Discorso della Montagna, dicendosi rapito, estasiato, della purezza, della sublimità e della bellezza di quella morale (3).  

     Dopo le vittorie più grandi e gli avvenimenti più lieti, soleva ordinare un Te Deum, a cui assisteva egli stesso solennemente con tutta la sua corte. Già nel 1801 fu registrato come un avvenimento che destò meraviglia in tutto il dominio francese il fatto che il 18 giugno Napoleone aveva assistito con tutto il suo stato maggiore alla Messa solenne di ringraziamento, celebrata nel Duomo di Milano, del che egli stesso aveva dato notizia agli altri due Consoli (1). Così pure, il 25 marzo dell’anno seguente per la pace d’Amiens, ed il 18 aprile per la conclusione del Concordato, ordinò solenni funzioni di ringraziamento, alle quali intervenne personalmente a capo de’ suoi generali, come fece poi sempre in seguito.

     Anche altre volte Napoleone ascoltava la S. Messa; e quando dimorava a Parigi l’ascoltava ogni domenica, coll’Imperatrice e la corte. Fu poi sempre notata la sua dignitosa compostezza durante le sacre funzioni, in contrasto col frivolo atteggiamento dei precedenti re di Francia (2).

     A Sant’Elena, quando giunsero presso di lui i due preti, non solo dispose che «ogni domenica e festa di precetto» uno dei due celebrasse la S. Messa nella sua sala da pranzo, ma ebbe cura che anche altri potessero ascoltarla, e più tardi volle che si celebrasse tutti i giorni (3).

(1)         Correspondance etc., c. s., VI, 269.

(2)         De. Eug. Fischer, o. c., 232 e 235. — Masson: Nwpo- ieon zu Hause, (deutseh v. Marsohall v. Bieberstein, 3.a ed. 278).

-— Weisz, Szabo, Storia Universale, (ediz. ungh. 1897-1905. voi. XXII, 249 e 253).

(3)         ANTONMARCHI, o. e., I, 52 e 80; II, 67.

Davanti all’altare del Santissimo faceva genu¬flessione (1).

Quando si vuotarono, nella camera di Napoleone, le casse portate daH’Antonmarclii, tutti diedero una mano, anche lo stesso Napoleone; ma quando si giun¬se agli arredi di chiesa, l’Imperatore non volle che alcuno li toccasse, eccetto i due preti, dicendo: «Guai a chi tocca questi oggetti! fate chiamarei due preti » (2).

     Finché fu sul trono, non fece mai la S. Comunione. Ma anche in questo è caratteristica la sua condotta franca e virile. In occasione della sua incoronazione, avrebbe dovuto comunicarsi, secondo l’antico cerimoniale: se fosse stato incredulo o non si fosse curato del Sacramento,, avrebbe preso anche questa cerimonia alla leggera, e si sarebbe senz’altro comunicato; ma Napoleone non voleva ricevere indegnamente il Sacramento, e perciò preferì farsi dispensare dalla Comunione. Anche Pio VII l’intese così (3).

     Al Venerdì Santo, digiunava con tutta la sua cor¬te. Quanto agli altri digiuni, se ne fece dispensare pe’ suoi disturbi di salute (4).

Napoleone visse con Giuseppina, fino all’incoronazione, col solo matrimonio civile, forse già colla segreta intenzione di separarsi da lei qualora non ne avesse avuto figli; dagli altri però pretese sempre il matrimonio religioso: p. es., obbligò suo cognato Murat a sposarsi in chiesa. Prima dell’incoronazione

(1)         « II Pontificato di Pio VII », c. s., I, 163.

(2)         AKTONMARCHI, C. S., I, 61.

(3)         DR. E. FISCHER, O. c., 200-1. — Montholon, O. C., II, 344.

(4)         DR. E. FISCHER, C. S., 235.

regolarizzò religiosamente anche il proprio matrimonio con Giuseppina, sebbene questo matrimonio sia poi stato dichiarato invalido (1). Ma con Maria Luisa contrasse un regolare matrimonio religioso per procura.

Gli fu sempre molto caro il suono delle campane all’« Ave Maria » della sera (2).

Verso la fine della vita, fece chiamare parecchie volte il prete. Per non destare ammirazione, voleva che venisse in abito borghese, e nel giorno della co¬munione volle che « non mostrasse a nessuno ciò che portava » (cioè il Santissimo). « Un giorno (la sera del 20 aprile) il generale mi disse — scrive il Montholon — che chiamassi il prete. Ed aggiunse: Poi ci lasce- rete soli, e tornerete solo dopo la partenza del prete; ma nessuno sappia che Vignale è stato stassera da me. — Ubbidii. Il prete rimase presso l’Imperatore per un’ora. Quando ritornai presso l’Imperatore, lo trovai molto tranquillo: la sua voce non tradiva nessuna eccitazione; parlò di religione per qualche minuto, poi si addormentò » (3). Il 21 aprile Napoleone disse al Vignale: « Sono nato nella Chiesa Cattolica, voglio compiere i doveri corrispondenti, e voglio godere dei conforti offerti dalla Chiesa ». L’Antonmarchi scrive che un giorno (3 maggio) mentre il Vignale usciva dalla camera dell’Imperatore, s’accorse che gli aveva

(1)         Àdducendo per motivo, ohe non era presente al matrimo¬nio il « pastore proprio » delle parti, il quale non era nejipure stato avvisato; mentre il Concilio di Trento richiede tale presenza (almeno per delegazione) come condizione necessaria per la validità.

(2)         Las Cases, Mémorial, c. s., (ediz. 1823, III, 251).

(3)         MONTHOLON, O. C., II, 533-4.

amministrato i Sacramenti degli infermi (1). In realtà, Napoleone si confessò e ricevette gli ultimi Sacramenti; poi disse queste belle parole: « Ho fatto pace con tutta l’umanità » (2).

(1)         ANTONMARCHI, O. C„, Il, 67 o l-ts.

(2)         E. FISCHER, o. c., 251-2,

Nuovi paralleli

     Conoscendo i meriti di Napoleone verso la Religione ed i suoi ministri, possiamo trovarvi ancora qualche corrispondenza nella sua vita.

     Napoleone si era levato in difesa del Clero, cosicché questo potè riprendere la sua opera in Francia; così anche lui potè aver la grazia di essere assistito, nella sua prigionia, da due preti cattolici. Già nel 1818 Napoleone aveva espresso il desiderio di avere presso di sè un prete cattolico, e la sua famiglia aveva pregato il Papa di fare in modo che tale desiderio venisse soddisfatto. Il Papa se n’interessò subito, ed incaricò il Suo Segretario di Stato di far di tutto presso le potenze alleate per ottenere il compimento del desiderio di Napoleone e della sua famiglia, asserendo che ne sarebbe venuta infinita gioia al cuor Suo se gli fosse stato dato di mitigare le sofferenze di Napoleone. L’intervento ebbe buon esito, e furono scelti i sacerdoti còrsi Buonavita e Vignale, che giunsero a Sant’Elena il 18 sett. 1819. Napoleone aveva con essi frequenti contatti, e d’allora in poi si palesò un notevole miglioramento nel suo umore e nella sua condotta (1).

(1) Forsyth, Geschichte der Gefangenschajt Napoleone auf St. Relena, (Trad. ted. di Seybt, 1853, II, 112).

     Ma sappiamo pure, purtroppo, che Napoleone lasciava avvicinare al Papa prigioniero soltanto quegli ecclesiastici che erano favorevoli all’Imperatore, e che perciò non potevano essere, per il Papa, consiglieri adatti. Ed ecco che anche a Napoleone prigioniero furono mandati due preti, nessuno dei quali era adatto a tale importante compito. Buonavita, vecchio e sordo, era un missionario ormai invalido che a stento poteva fare qualche cosa. «Temo — diceva Napoleone — che il buon vecchio sia venuto qui solo per esservi seppellito. L’Arcivescovo mi mandò un uomo degnissimo certamente di ogni venerazione, ma tanto vecchio e spossato, che non posso assolutamente servirmene» (1). L’avevano scelto, soltanto perchè un tempo era stato confessore della madre di Napoleone e della principessa Paola, ed ormai non poteva più essere utile in altri uffici ecclesiastici, sebbene fosse, per altro, uomo di grandi capacità. In seguito ad un colpo apoplettico era stato offeso alla lingua e poteva a stento parlare. Perciò gli avevano posto accanto il Vignale: ma questi era appena uscito dal seminario, non aveva esperienza, nè scienza, nè tatto, e per la sua stessa giovinezza non era adatto a poter fare da direttore spirituale ad un Napoleone (2).

     La vanità di Napoleone era poi offesa dal fatto che presso la «Sua Maestà» fossero stati mandati dei semplici preti. Perciò avrebbe desiderato che al

(1)         ANTONMARCHI, o. o., I, 36.

(2)         E. Ludwig, O. C., 565, (Si noti pure che è norma della Chiesa che un missionario non sia mandato da solo in paesi non cattolici).

Buonavita fosse conferito un titolo prelatizio (1); anzi, una volta gli disse di portare l’anello episcopa¬le. Il vecchio si opponeva fortemente, e Napoleone aggiunse: « Ve lo permetto io! » Continuando quegli a resistere, l’Imperatore dichiarò che voleva, anzi esigeva, che portasse i distintivi della dignità vescovile, ed ordinò al conte di Montholon di far venire da James Town, o dal Capo, il necessario a tale scopo. Ma il generale non potè eseguire l’ordine, perchè non fu possibile trovare distintivi vescovili o stoffe vio-lacee, cosicché il buon missionario dovette continua¬re a vestire da semplice prete.

     Come abbiamo detto sopra, Napoleone aveva ordinato sovente, e con gran solennità, Messe di ringraziamento, alle quali aveva sempre assistito, come aveva regolarmente assistito alla Messa festiva. Perciò potè, nella sua prigionia, aver la grazia che un prete celebrasse per lui tutte le domeniche, e più tardi tutti i giorni. Alla Messa che il Buonavita celebrava ogni domenica e festa alle 9, Napoleone era sempre presente; nei giorni feriali, la Messa veniva celebrata nella camera vicina a quella di Napoleone. Frattanto il Vignale celebrava in casa dei Bertrand (2).

     Sebbene Napoleone non lasciasse avvicinare nessuno a Pio VI prigioniero, quando però questi si sentì vicino a morire e chiese un confessore glielo concesse subito. Così, come abbiamo visto, anche Napoleone ebbe la grazia di lasciar questa valle di lacrime in modo esemplarmente cristiano, confortato dagli ultimi Sacramenti.

(1) EUG. FISCHER, o. c., 247.

(2) Antonmarchi, o. c., I, 51, 52 e 80; II, 67.

 Il Papa per Napoleone decaduto

Un ultimo parallelo!

Abbiamo visto che, per quanto Napoleone avesse trattato il Papa duramente, senza cuore e senza pietà, in realtà egli voleva diminuire, anzi sopprimere in favore di ciò che egli credeva interesse della Francia, soltanto il potere temporale del Papa; ma ne aveva sempre riconosciuto l’autorità spirituale, ed appunto per questo si era fatto ungere imperatore. Anzi, quando gli avevano consigliato di romperla col Papa e di seguire l’esempio di Arrigo VIII, egli non solo aveva resistito alla tentazione, ma si era levato in difesa dell’autorità spirituale del Papa.

     In compenso di tale difesa, anch’egli ebbe la grazia di vedere, dopo la sua caduta, il Papa levarsi in sua difesa: il Papa fu il solo che cercò di alleviare la prigionia, e di soddisfare, per quanto potè, tutti i desideri dell’ex-imperatore. Anzi, nel capitolo conclusivo del mio lavoro, bisogna che richiami l’attenzio¬ne su di un fatto sovente taciuto, ma tanto più caratteristico: come si diportò Papa Pio VII verso il Suo oppressore e persecutore Napoleone, dopo la caduta e dopo la morte di lui.

     Il Papa non si vendicò, non serbò rancore, non godette del male del suo più grande nemico. Tutto al contrario!

     Napoleone, mentre era ancora Primo Console, aveva detto una volta (1802) al Card. Caprara, Nunzio Pontificio: « Le Pape doit avoir confiance en moi ». Ed il Papa aveva avuto fiducia in lui, ma era stato amaramente deluso dall’Imperatore, mentre questi era al colmo della sua gloria. Quando però Pio VII fu ritornato gloriosamente sul suo trono, davvero potè dire all’Imperatore, ormai decaduto e scacciato dall’Europa: « Abbia fiducia in me! »

     Mentre i suoi compatriotti e sudditi mettevano al bando il loro Imperatore, mentre il senato, i generali, l’esercito, il governo, i nobili si allontanavano da lui, l’ingiuriavano, lo svergognavano, lo denigravano, mentre sua moglie gli voltava le spalle e si dava ad altri, mentre l’Europa intiera si fregava le mani e godeva delle disgrazie di lui, lieta di essersi liberata dalla crudeltà del grande tiranno, mentre gl’inglesi privavano l’ex-imperatore di ogni comodità, il Papa solo considerava la sorte di Napoleone con un sincero sentimento di compassione, e cercava con tutte le sue forze di mitigarla.

    Nel 1818 indirizzò da Castel Gandolfo queste righe al Segretario di Stato Card. Consalvi: « La famiglia dell’Imperatore Napoleone ci ha fatto presente che lo scoglio di Sant’Elena è un luogo mortifero, e che la salute del povero esiliato va sempre peggiorando. Questa notizia ci ha recato un grande dolore, che Lei

certamente condivide… Noi, già da tempo, abbiamo dimenticate e perdonate le offese. Savona, Fontainebleau furono soltanto un errore della mente ed un passo falso della vanità umana… Scriva in nostro nome ai principi alleati, specialmente al Principe Reggente d’Inghilterra, e lo preghi che alleggerisca le amarezze dell’esilio. Gran gioia avrebbe il nostro cuore, se potessimo concorrere ad alleviare le sofferenze di Napoleone ».

     L’intervento del Papa ottenne pur qualche cosa, e la madre di Napoleone gli fece pervenire i suoi ringraziamenti per mezzo del Cardinal Segretario di Stato. Merita udire le sue commoventi espressioni: « Io sono veramente la madre dei dolori. L’unica mia consolazione è il sapere che Sua Santità dimentica il passato e mostra soltanto carità verso i miei. Sua Santità e Vostra Eminenza sono i soli in Europa che si sforzano di lenire le sofferenze di mio figlio e desiderano affrettarne la fine » (1).

     Il Papa continuò sempre a chiamare « imperatore» Napoleone decaduto e prigioniero, nonostante che avesse abdicato e che le potenze non lo riconoscessero più come imperatore.

Quando poi il Papa venne a sapere la morte di Napoleone, celebrò una Messa in suffragio dell’anima sua, coi segni del più grande lutto.

(1) HUTTEAY, Bonaparte Napoleon emlékiratai (già citato), 1915, pag. 9.

Il Papa e la famiglia di Napoleone

     Nel maggio del 1810 Napoleone si trovava a Breda, in Olanda. Il Clero approfittò dell’occasione per fargli una visita di omaggio, come a sovrano e capo di stato; siccome però Napoleone era colpito da sco¬munica, non gli si presentarono in tutta la pompa degli abiti sacerdotali. Napoleone comprese che con ciò essi volevano significare che il Clero non pregava ufficialmente per lui. Perciò li ricevette da arrabbiato, e chiese loro con ira: « Chi siete voi? Avvocati, notai, medici…? » E rivoltosi al capo della delegazio¬ne, chiese, sempre con lo stesso tono: « E voi, chi siete? » — « Maestà, rispose quello, sono il Vicario Apostolico » — « Voi dunque, continuò l’Imperatore, non volete pregare per me, perchè un certo prete di Roma mi ha scomunicato?… Come imperatore, esigo la vostra ubbidienza: altrimenti si ripeterà quello che avvenne per gli Ebrei: vi perseguiterò e vi disperderò sulla faccia della terra » (1).

     Orbene: dopo la caduta di Napoleone, si ripetè davvero ciò che era avvenuto per gli Ebrei; ma non per i preti ubbidienti al Papa, bensì per Napoleone e per i

(1) « Il Pontificato di Pio VII », c. 8., II, 90.

membri della sua famiglia, che furono scacciati e dispersi in tutte le direzioni della rosa dei veliti. Sua madre si ritirò in Corsica, e poi si rifugiò a Roma. I suoi fratelli Giuseppe e Gerolamo andarono a finire in America, dove voleva recarsi anche Luciano, che fu invece imprigionato dagli Inglesi, mentre Luigi si trasferiva a Firenze. L’ex-imperatrice «vagabondava» per l’Italia. Il cognato Murat sbarcava in Calabria, e la cognata Clara Giulia andava a Francoforte, poi a Bruxelles, poi a Firenze. Con Napoleone, veniva perseguitata anche la sua famiglia.

     Solo il Papa concesse, cordialmente e con piacere, rifugio e protezione a tutti quei parenti di Napoleone che si rivolsero a Lui. Finché Napoleone era stato potente, il debole e vecchio Papa aveva lottato con lui colla tenacia, irremovibilità e fortezza di un eroe; ma verso il nemico caduto, e verso la sua famiglia, si dimostrò di una arrendevolezza, pietà, misericor¬dia, generosità e magnanimità sovrumana.

     Anzitutto il Papa diede rifugio alla madre di Napoleone. Pio VII non era ancor neppur giunto a Roma, e si trovava ancora a Cesena, sua città natale, allorché Letizia, madre di Napoleone, giunse colà, e per mezzo del Card. Fesch chiese al Papa che le permettesse di stabilirsi a Roma. Il Papa la ricevette a braccia aperte, e l’assicurò che, per quanto dipendeva da Lui, farebbe di tutto per renderle gradito il soggiorno. Due giorni dopo, Letizia era già a Roma. Essa scrisse poi lettere commoventissime ai sovrani d’Europa nell’interesse di suo figlio; ma non ricevette neppure risposta. Anzi, più tardi i governi l’accusarono di organizzare una congiura in tutta la Francia, e di avere a sua disposizione milioni di persone; e volevano che il Papa, per mezzo del Segretario di Stato, gliene chiedesse conto. Ma il Papa, non solo continuò a darle rifugio, ma la protesse colla sua autorità morale, la difese, e fece molto bene a lei ed al fi¬glio. Così scriveva Letizia al Card. Segretario di Stato: «I miei figli Luciano e Luigi sono stati molto commossi da tutto ciò che il Papa e Vostra Eminenza hanno fatto, a nostra insaputa, per la difesa della nostra tranquillità minacciata dalle potenze. Fuori del Governo Pontificio, non troviamo in alcun luogo protezione e rifugio. La prego di farsi interprete presso S. S. Pio VII del mio ossequio, che presento anche in nome di tutta la mia perseguitata famiglia, e specialmente di colui che sta lentamente morendo su quello scoglio abbandonato». Letizia rimase a Roma fino alla sua morte, avvenuta nel 1836. Sulla sua tomba furono incise queste parole: Mater Regum.

    Abbiamo detto che Luciano, fratello minore di Napoleone, era stato arrestato dagli Inglesi, che lo tenevano come prigioniero di guerra. Dal suo esilio, già fin dall’11 aprile 1813, diresse al Papa una lettera, nella quale diceva: «Vostra Santità mi permetta  di farle cordiali auguri per il fortunato, benché tardo, riacquisto della Sua libertà. Non ho cessato di pregare fervorosamente per tale libertà, da quando fui strappato da quel rifugio, in cui potevo godere della Sua paterna protezione… Prego V. S. di concedere a me, a mia moglie ed a’ miei figli la Sua benedizione, finché potremo riceverla personalmente, prostrati a’ Suoi piedi». Nel 1814 gli Inglesi lasciarono libero Luciano, che corse subito negli Stati Pontifici, dove il Papa non solo lo ricevette amorevolmente, ma lo fece principe di Canino. Poco dopo Luciano cadde prigioniero degli Austriaci e il Papa intercedette per la sua liberazione, che fu concessa nel settembre 1815, a condizione che Luciano non si allontanasse dagli Stati della Chiesa.

    Luigi Bonaparte, l’ex-re di Olanda, rimase a Roma anche durante i cento giorni. Anche Girolamo si stabilì a Roma (1827-1831) e così pure lo zio di Napoleone Card. Fesch. Tutti godettero indisturbati dell’ospitalità del Papa, nonostante che i parenti maschi di Napoleone, eccetto il Card. Fesch, ne abusassero, prendendo parte attiva alla società segreta dei Carbonari. Ma il Papa, pur sapendo ciò ed essendone anche avvertito dall’estero, non cessò di continuare alla famiglia la Sua ospitalità e protezione.

   Persino quel tipo senza carattere e senza principi! del Card. Maury, che aveva causato al Papa tanto dispiacere lasciandosi indurre a qualunque cosa per piacere a Napoleone, chiese ed ottenne rifugio a Roma (1814); poi, al ritorno di Napoleone (1815) si mostrò di nuovo ingrato al Papa, ed il Papa di nuovo lo perdonò.

     Napoleone era ancora al sommo della sua potenza, quando, in occasione del Concilio Nazionale di Parigi (1811) disse alla delegazione che doveva presentarsi al Papa a Savona: «Il Papa è buono; non soltanto buono, ma santo» (1). Eppure allora non poteva neppure sospettare la futura magnanimità del Papa; non poteva sospettare che, fra non molto, le onde tempestose sorte contro di lui e della sua famiglia si sarebbero infrante contro le mura di Roma, sul sensibile, misericordioso e nobile cuore del Santo Padre!

(1) DR. HXJTTKAT L., O. C., p. 222. 19 — Tower: Napoleone.

 ramente perduti, se io non avessi steso la mano per aiutarli. I tribuni popolari non osarono più offendere quelli cbe io proteggevo. Io Ilo mantenuto per la Chiesa i suoi preti » (1).

     Napoleone provvide anche rendite convenienti pei Vescovi ed Arcivescovi, ed assicurò pure le prebende dei Capitoli.

In Italia, sotto la dominazione austriaca, i seminari erano stati privati di tutto: neppur uno aveva più entrate regolari. Napoleone li dotò nuovamente, anzi dichiarò che «riteneva ciò come il primo suo obbligo di coscienza» (2).

     Anche i Religiosi dovevano molto a Napoleone. Le Suore di Carità poterono ritornare in Francia (3), il grande convento del S. Bernardo fu ristabilito e dotato d’una rendita di quarantamila franchi. Era anche desiderio di Napoleone erigere in Francia quattro nuovi conventi (4). Giunse a dire (12 gennaio 1817) che gli piacevano i conventi e che avrebbe egli stesso voluto ritirarsi a vivere in un chiostro.

     In una allocuzione ai Cardinali, il 23 giugno 1805, Pio VII disse: « In Francia, i preti di S. Vincenzo e le sue congregazioni sono ritornate in vita; con pubblici decreti fu provveduto al restauro delle chiese più importanti ed alle spese necessarie per l’esercizio del culto; furono offerti ampi e begli edifici per nuovi seminari, e mi fu promesso che i seminari riceveranno in eredità beni mobili ed immobili, ed alcuni saranno sussidiati dal tesoro dello stato; furono aumentate

(1)         ANTONMARCHI, o. C., II, 16 e 30.

(2)         « II Pontificato di Pio VII », e. s., I, 179.

(3)         Remusat, Napoleon u. sein Rof., 1800, III, 337.

(4)         G-OURGAUD, Mémoires, c. s,, I, 409 e 450.

le entrate dì molti Vescovi e Capitoli; le città e le province furono obbligate a mantenere le chiese e provvedere agli arredi sacri; i Missionari francesi all’estero, per interessamento dell’Imperatore, riebbero il diritto di acquistare proprietà, ed essi stessi sono appoggiati e protetti dal potere imperiale; fu ampliato il potere disciplinare dei Vescovi; si ebbe cura della istruzione religiosa della gioventù e di provvedere ai bisogni spirituali dei soldati infermi e del popolo: queste sono le conseguenze dei nostri ne¬goziati col grande sovrano (Napoleone) » (1).

     Dobbiamo ancor ricordare due atti caratteristici di Napoleone verso il suo cappellano Buonavita: scelse, per la celebrazione della S. Messa, l’ora meno incomoda pel vecchio prete; e quando s’accorse che per il medesimo il soggiorno di Sant’Elena era troppo dannoso, lo rimandò in patria con una pensione di tremila franchi (2).

(1)         « II Pontificato di Pio VII », c. s., I, 201-3.

(2)         ANTONMARCHI, O. C., II, 29, (17 mar. 1821).

solo lo ricevette amorevolmente, ma lo fece principe di Canino. Poco dopo Luciano cadde prigioniero degli Austriaci e il Papa intercedette per la sua liberazione, che fu concessa nel settembre 1815, a condizione che Luciano non si allontanasse dagli Stati della Chiesa.

Luigi Bonaparte, l’es-re di Olanda, rimase a Roma anche durante i cento giorni. Anche Girolamo si stabilì a Roma (1827-1831) e così pure lo zio di Napoleone Card. Fesch. Tutti godettero indisturbati dell’ospitali¬tà del Papa, nonostante che i parenti maschi di Napoleone, eccetto il Card. Fesch, ne abusassero, pren¬dendo parte attiva alla società segreta dei Carbonari. Ma il Papa, pur sapendo ciò ed essendone anche avvertito dall’estero, non cessò di continuare alla famiglia la Sua ospitalità e protezione.

Persino quel tipo senza carattere e senza princi¬pi! del Card. Maury, che aveva causato al Papa tanto dispiacere lasciandosi indurre a qualunque cosa per piacere a Napoleone, chiese ed ottenne rifugio a Roma (1814); poi, al ritorno di Napoleone (1815) si mostrò di nuovo ingrato al Papa, ed il Papa di nuovo lo perdonò.Napoleone era ancora al sommo della sua potenza, quando, in occasione del Concilio Nazionale di Parigi (1811) disse alla delegazione che doveva presentarsi al Papa a Savona: « Il Papa è buono; non soltanto buono, ma santo» (1). Eppure allora non poteva neppure sospettare la futura magnanimità del Papa; non poteva sospettare che, fra non molto, le onde tempestose sor¬te contro di lui e della sua famiglia si sarebbero infrante contro le mura di Roma, sul sensibile, misericordioso e nobile cuore del Santo Padre!

(1) DR. HUJTTEAY  L., o. c., p. 222. 19.

La Legge Eterna

     Al termine della nostra opera, possiamo citare le belle, sapienti ed istruttive parole colle quali il Cardinal Wiseman, autore del pregiatissimo libro «Ricordi dei quattro ultimi Papi », traccia un breve parallelo tra Napoleone e Pio VII:

     L’uno (Napoleone) oltrepassando lo scopo originario della sua nobile vocazione, lasciò che il suo nobile destriero, sul quale prima cavalcava da maestro, scorrazzasse attraverso ai popoli calpestandoli e piantasse le sue zampe rovinose sui dorsi dei sovrani. A guisa di Ciro, si dimenticò di Colui dal quale aveva ricevuto il potere e la forza, e credette che nulla potesse resistere alla sua potenza. La sua educazione non gli aveva dato una chiara idea dei sottili confini tra i due poteri essenzialmente diversi. Coloro che avrebbero dovuto servirlo col consiglio lo sviarono, non cercarono di arginare la sua fede superstiziosa, che divenne per lui come una seconda natura, nella sua invincibilità ; anzi, con una sola eccezione (l’abate E- méry), concorsero ancora ad aumentarla. Egli fu un uomo di mirabile genio, di forza irresistibile, di sicura

riuscita; un soldato, un condottiero ed un legislatore audace, cui spettava il compito di domare il più terribile degli sconvolgimenti sociali. Non c’è da meravigliarsi, se si credette insuperabile ; e lo fu difatti, fin¬ché si mosse nel suo campo e nel suo territorio, sul suo cavallo di battaglia e sul suo trono.

     Ma fu sufficiente un solo umile e pio religioso (il Benedettino Barnaba Gregorio Chiaramonti, diventato Papa Pio VII) allevato in un chiostro, che conosceva poco gli uomini, modesto nella sua cella, semplice, sincero e franco nelle sue parole e nel suo discorso, non gran parlatore, senza qualità o capacità brillanti, debole, mite, cordiale, umile e santo: bastò soltanto un tal Papa, di media capacità, ma fedele alla sua vocazione, per dimostrare che c’è un potere superiore od più potente conquistatore, e perchè il secolo avesse un altro, benché disarmato, eroe.

     E non è meraviglia se l’imprigionatore diventò prigioniero ed il vincitore fu vinto: perchè uscì dal suo campo, scese dal suo cavallo e dal suo trono — e penetrò nel santuario, dove, appunto, quel vecchio dall’aspetto bonario e dalla voce mite si trovava in casa propria.

     E tutto l’insieme non potè esser altro che la ripetizione d’una scena tante volte rappresentata, ed il risultato non fu altro che l’applicazione della Legge Eterna.

Nolite tangere!

«Nolite tangere Christos meos, et in Prophetis meis nolite malignari (Salmo 194, v. 15): Non toccate i miei Unti, e non fate del male ai miei profeti ». — A queste parole cantate dal salmista mille anni prima del primo Papa, fa eco un detto francese, diventato ormai proverbiale, basato sull’esperienza di molti secoli: « Qui mange du Pape, en meurt: Ohi mangia del Papa, ne muore » (1).

     La verità di questa dura sentenza si manifestò sin dal principio della vita della Chiesa.

Erode Agrippa I tiene prigioniero nel suo splendido palazzo, sotto la guardia di quattro « quaternioni» di soldati, e cioè nella più stretta custodia militare, il primo Papa, l’Apostolo S. Pietro, il quale sta aspettando, legato a due catene fra due guerrieri, la sua sorte: si tratta di giustiziarlo pubblicamente l’indomani; i Giudei si preparano con gran festa allo spargimento del sangue del primo Papa, e con gioia maligna pregustano la morte di Pietro… Ma che avviene?

(1) Questa frase s’incontra la prima volta nella « Ohronique des très Chretiens Roys de France des relations aux Pape» » (1463) e diventò universalmente nota ed usata dopo il De Maistre. Gli Ungheresi hanno il detto: « Megbanod a napot, amelyen megbanod a papot: ti pentirai di quel giorno, in cui avrai offeso un prete».

Pietro se ne va libero; neppur un capello gli vien torto nel paese di Giuda. Invece, vengono incatenati i suoi carcerieri, i quali, per la « lex ad commen- tariensem», sono giustiziati in suo luogo. Questo fu il preludio e il simbolo della sorte dei persecutori del Papa.

     Pietro, libero, trasporta la sua sede a Roma. Erode Agrippa voleva soffocare nel sangue il primo Papa, e proprio questa intenzione assassina fece sì che Pietro lasciasse la piccola città di Gerusalemme e si. recasse in quella che era allora il centro del mondo, per stabilirvi quella società che doveva avere la vita più lunga di quante ne potrebbe contare la storia. Perciò dice il Kohont che «la pace più tranquilla non sarebbe mai stata più utile a Pietro, di quell© che gli fu l’intenzione assassina del persecutore Erode». C’è nella S. Scrittura una frase che sembra del tutto insi¬gnificante: «Egressus, abiit inalium locum (Atti, XII, 17): Uscito, (Pietro) andò in un altro luogo ». Eppure, questa frase significa un fatto d’importanza universale: il primo Papa veleggia verso Roma, mentre il suo regale persecutore, diventato, ancor prima di morire, come un cadavere purulento e verminoso, si contorce ne’ suoi dolori. Cadde per sempre lo scettro dalle mani di Erode e de’ suoi ; con Pietro invece incominciò l’ininterrotta serie dei Papi. Qui mange du Pape, en meurtl Ed a Roma? un dopo l’altro, dieci imperatori si sforzano di spezzare la rocca di Pietro: giudici, carnefici, eserciti, carceri, torture, impiegati, calunnie, denaro, potenza, li appoggiano nella loro intenzione assassina. Con qual risultato? Citiamo solo un episodio caratteristico. Uno dei monumenti più significativi della potenza universale, dell’augusta grandezza e del prestigio semidivino degli Imperatori romani era la statua equestre, collocata sulla colonna alta 39 m, eretta nel bel mezzo di Roma a Traiano, anche lui un persecutore dei cristiani. Dentro vi avevano collocato “per l’eterno riposo” l’urna contenente le ceneri dell’imperatore. Ebbene: la colonna e ancor oggi in piedi, ma la statua dell’Imperatore è sparita da lungo tempo e delle ceneri di lui non rimane più traccia. Invece sull’alto della colonna fu collocata la statua di S. Pietro, primo capo visibile della Chiesa perseguitata dagli Imperatori. Di là annunzia, urbi et orbi, le parole di Cristo: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa !”

     Certo, queste parole di Cristo si riferiscono soltanto alla perennità del Papato come potenza e di istituzione spirituale, e non ai possedimenti temporali del Papa. Ma la storia ci dice che neppure coloro i quali attaccarono la Chiesa nelle sue “temporalità” ebbero fortuna. Quanti assalirono la Roma papale! E nonostante tanti potenti assalitori e terribili nemici, Roma sta, e da quasi duemila anni vi regna gloriosamente il successore di Pietro, come padre comune di 350 milioni di fedeli sparsi nelle cinque parti del mondo, che egli guida e dirige nelle vie dello spirito con la sua mano benedicente !

APPENDICE

OPERE UTILIZZATE DALL’AUTORE

(L’Autore avverte che talvolta dovette, nel corso del suo lavoro, usare edizioni diverse della medesima opera, secondo che poteva prendere a prestito il libro dall’una o dall’altra biblioteca. — Nei punti più importanti della 2.a parte del presente libro, l’autore ha notato a parte i luoghi precisi della fonte usata).

1.           Adorjdn, Kéri, Seress, A nagy francia forradalom és Napoleon.

Senza data, (La grande Rivoluzione Francese e Napoleone).

2.           Antonmarchi, Denkwùrdigkeiten des Dokt. A. uber die letzten

Lebenstage Napoleons. 1825.

3.           Artaud, Histoire du Pape Pie VII. 1836.

4.           Bon Leo, La Révolution Franqaise et la psyehologie des

Révolutions. 1915.

5.           Bourgoing, Mémoires historiques et philosophiques sur Pie VI et son Pontificat. 1800.

6.           Brinton Orane, The lives of Talleyrand. 1936.

7.           Carlyle Th., On heroes, hero-worship and thè heroic in history.

1873.

8.           Channing, Napoleon, sein Charakter und seine Zeit. 1831.

9.           Chateaubriand, Napoleon élete, (Vita di Napoleone, trad. un¬

gherese di D. Antal). Senza data.

10.        Constant, Denkwùrdigkeiten ùber Napoleon. 1904, (Trad. te¬

desca di 0. Marschall von Bieberstein).

11.        Grétineau — Joly, Bonaparte et le Concordat. 1869. e

Mémoires du Cardinal Consalvi. 1864.

12.        Dayot A., Napoléon I. 1897.

13.        Dunning W. A., Truth in History. 1914.

14.        Fischer Engelbert, Napoleon I. 1904 e Cardinal Consalvi. 1899.

15.        Fodor S., Napoleon. 1909.

18.        Forsyih, Gesohichte der Gefangenschaft Napoleons. 1853.

17.        Fournier Ag., Napoleon életrajza, (Vita di Napoleone, trad.

ung.). 1916.

18.        Gourgaud, Mémoires de Napoléon à Sainte-Hélène. 1823.

19.        Gregorovius F., A pàpàk siremlékei, (Le tombe dei Papi, trad.

ung. in Olcsó Kònyvtàr, n. 517-8).

20.        Harnach, Uber die Sicberheit und die Grenzen gesohiobtl.

Erkenntuiss. 1917.

21.        Haussohville, L’Eglise Romaine et le premier Empire. 1800,

1814,   1868-70.

22.        Helfert, Marie Luise. 1873.

23.        Hugo A., – Elsnsr H., Vollstand. Gesohichte d. Kaisers Napoleons. 1839.

24.        Hutikay L., Bonaparte Napoleon emlókirata. 1915, (Memoriale di N. B-).

25.        Kircheisen, Napoleonbibliograpbie. 1902.

26.        Landmann K., Napoleon. 1903.

27.        Las Gases, Mémorial de Sainte-Hélène. 1823.

28.        Ludwig E., Napoleon, (Trad. ung. di I. Turóczy). Senzadata.

29.        Macaulay, A pàpasag, (Il Papato, in Olcsó Kònyvtàr).

30.        Marmont, Mémoires. 1856-7.

31.        Musson, Napoleon et les femmes. 1894. — Napoleon et son

fils. 1904. — Napoléon: Manuscripts inèdita. 1907. — Na¬poleon zu Hauseo deutscb von O. Marschall v. Bieberstein, 3.a ediz.

32.        Marx – Bilìce, A Katolikus Egykàz Tòrténete, (Storia della

.Chiesa Cattolica). 1932.

33.        Merezsìcovskij, Napoleon élete, (Yita di Napoleone) e Napoleon

az ember, (L’uomo Napoleone).

34.        Meszlényi A., A Jozsefinizmus kora Magyarorszàgban, (L’epoca

del Giuseppinismo in Ungheria). 1931.

35.        Mettermeli, Uber Napoleon Bonaparte. 1875.

36.        Montholòn, – Diezmann, Geschichte d. Gefangenschaft Napoleons

auf St. Helena. 1846.

37.        Napoléon I, (Correspondance de) publiée par Napoléon III.1858.

38.        De Forvine, Histoire de Napoléon. 1852.

39.        O’ Meara, Napoleon in esile, or a voice troni St. Helena. 1822.

40.        Pacca, Memorie storiche per servire alia storia ecclesiastica

del sec. XIX. 1830.Id. Relazione del viaggio di Pio VII a Genova ecc. 1836.

41.        « VII Pius papdsdga », (Il Pontificato di Pio VII). 1876.

42.        Pflugh, Napoleon I. 1900.

43.        Iiarike L., – Àcsàdy 1., A római pàpàk az utolsó 4 szazadban,

(I Pontefici Romani negli ultimi quattro secoli). 1889.

44.        Bémusat, Memoires. 1879-80.

45.        Bevwe des questions historiques, (annate 1892 e 1894).

46.        Santini N., Le tombeau de Napoléon et son gardien. 1856.

47.        Sipos I., A római kérdés, (La Questione Romana). 1917.

48.        Stimmsn der Zeit, (alcune annate),

49.        Szentpétery I., A Tórténettud. objektivitàsànak kritikà ja,

(Szàzadok, 1906). (Critica dell’oggettività della scienza storica).

60. Szini Gy., Napoleon szerelmei, (Gli amori di N.). 1914.

51.        Baine H., Origines de la Franco contemporaine 1895. e Bonaparte –

Napoleon, (trad. ung.). 1919.

52.        Theiner, Histoire de deux Concordats. 1869.

53.        Thiers, Histoire du Consulat et de l’Empire. 1845-69. e I. Napoleon

elsò trónlépése: (Prima ascesa al trono di Napoleone I, trad. ung.), 1888.

54.        Wartenburg V., Napoleon als Feldherr. 1901.

55.        Weisz K. J. – Szabó F., Yilàgtorténet. 1897-1905, (Storia

Universale).

56.        Wissman – Fink, Erinnerungen an die vier letzten Pàpste.1858.

GIUDIZI DELLA STAMPA SULLA PRESENTE OPERA

Il Dott. Francesco Galla, professore universitario, scrive nel « Nemzeti Ujsàg »:

«Con profonda conoscenza dell’immensa bibliografia relativa al suo argomento, e con amoroso interesse, l’Autore ci conduce ad una conoscenza più. completa della vita’e ad un’idea più veri¬tiera del carattere di Napoleone; mentre, con occhio particolarmente acuto nel rilevare la connessione dei fatti, vi inquadra a scopo apologetico gli episodi, esaminandoli con profondità di filosofo ».

Il generale Béla Szabó de Nemestóth, nel« Nyukosz », scrive:

«Dopo ampissimi studi, il nostro distinto storico G. Tower illustra la vita di Napoleone con sagace maestria e saggezza cri¬tica, in un libro .impareggiabilmente interessante, istruttivo e suggestivo, che colma davvero una lacuna nella pur immensa bibliografia napoleonica ».

Ed il Prof. D. Horvdth nel « Veszprómi Hirlap »:

« Il dotto ed instancabile autore raccoglie con forza drammatica e con mirabile senso criminologico i dati storici che finora non erano ancora stati posti in evidenza. Tutta l’opera testimonia una grande preparazione scientifica ».

Ed ecco giudizi di altri periodici:

«Questo libro, che non poteva uscire in tempi più opportuni, raggiunge il suo scopo colla precisione delle sue messe a punto, coll’evidenza dei paralleli, coll’ordinata esposizione di minuti particolari caratteristici ».

                                                                                           (Katolikus Szemle)

«Forse non sarebbe neppure il caso di parlar molto di quest’opera, e basterebbe dire che è un libro del Tower, perchè ognuno sapesse che si tratta di un lavoro condotto con metodo coscienzioso sulle migliori fonti, così da costituire uno studio attendibile sulla vita di Napoleone, ed anche una lettura straordinariamente interessante ».

                                                                                            (Magyar Kulttira)

«Segnaliamo quest’opera, che offre abbondante materiale per conferenze, ed è specialmente raccomandabile agli insegnanti di Religione ».

                                                                                            (Egyhdzi Lapok)

«E’ una lettura affascinante, un racconto piacevolmente scorrevole, che ha anche il merito di aver evitato il difetto solito dei libri su Napoleone: la partigianeria ».

                                                                                          (Pannonhalmi Szemle)

«E’ un libro straordinariamente istruttivo ed interessante, il cui autore, con mirabile diligenza ed a prezzo di sacrifici, ha messo in luce tutti i dati che erano stati trascurati dai biografi di Napoleone ».

                                                                                          (A Szlv)

«Con estrema diligenza ed in seguito a ricerche originali raccoglie fino alla minuzia i dati riferentisi a Napoleone ».

                                                                                          (Utunk)

«II Tower è uno dei più bei vanti della letteratura ungherese: non si finisce di ammirare il suo sapere. Anche da questo libro s’impara di più che da una biblioteca ».

                                                                                           (Szent Antal)

ALTRE OPERE DEL MEDESIMO AUTORE

1. A HIPNOTIZMUS ELMÉLETI, GYAKORLATI, PEDAGÓGIAI, ORVOSI ÉS

jogi szempontból, (L’ipnotismo sotto l’aspetto teorico, pratico, pedagogico, medico e giuridico). Opera utile a chi desidera una maggiore, più ampia e più pratica conoscenza dell’uomo. Raccomandata ufficialmente dal Ministero Ungherese dei Culti e della Pubblica istruzione e dal Consiglio Nazionale per la Letteratura giovanile. (Prezzo: 3 Pengò).

2.           A Pàpàk szerepe hazànk megmentésében es fennmaradàsàban, (La parte dei Papi nella salvezza e conservazione della nostra

Patria: l’Ungberia). Opera grande e vastissima. (5 P.).

3.           Papi és szerzetési dièta, (Regime dietetico per preti e religiosi).

Opera scritta in collaborazione con medici ungheresi e stra¬nieri. Raccomandabile a chi desidera conservare la saluto e prolungar la vita. (3 P.).

4.           A Kepességvizsgàlatok, (Oli esami delle attitudini). (1 P.).

6. A Katolikus hitvai. làs, (La fede cattolica). Catechismo per le persone colte, 2.a ediz. (5 P.).

6.           Krisztus Igazsàga, La verità di Cristo. Dottrina, 5.a ediz.(70 filler).

7.           KRISZTUS AKARATA, (La Volontàdi Cristo).Morale. 4.a ed. (90 f.).

8.           Krisztus Kozelsége, (La Vicinanza di Cristo). Liturgia. (70 f.).

9.           Krisztus Orszàga, (Il Pegno di Cristo). Storia Ecclesiastica.(1 P., 40 f.).

10.        A bùcsijnap megùnneplése: La celebrazione del giorno del perdono » secondo le ultime disposizioni liturgiche. A quest’opera fu assegnato il premio « Horvàth » dalla facoltà teologica della R. Università « Pàzmàny » di Budapest. (5 P.).

11.        Reformeszmék a papnevelést ilbetoleg, (Idee di riforma riguardo all’educazione del Clero). (3. P.).

12.        A gyónótukrokrol, (De speculis poenitentium). (1 P.).

13.        A FEGYELMEZÉS TEKMÉSZETES EZKOZEI, (I mezzi naturali della

disciplina). Di quest’opera è in preparazione la 2.a edizione).

14.        Levelek egt zulohoz, (Lettere ad un genitore). (2 P.).

15.        Illem-kodex, (Galateo). Aduso dei preti e religiosi. Di quest’opera è uscito il l.o volume, ed è in preparazione il 2.o.

16.        Szent borbàla, (Santa Barbara). Di quest’opera l’Autore ha dato anche la traduzione tedesca, come segue:

17.        Die Heiligb Barbara, Edita a Vienna dalla già imperiale e

reale Scuola Militare d’Artiglieria. (3 P.).

18.        DER MONISMUS UND SEINE RICHTUNGEN, (Il Monismo ed i

suoi indirizzi). (3 P.).

19.        INSTRUCTIO PRACTICA DE MISSIS VOTIVIS ET DE REQUIE. 2.a

ediz. (3 P.).

20.        Ecce Sacerdos. Ritus recipiendi Pontificem. (2 P.).

N. B. — Chi desiderasse procurarsi le opere accennate, o qual¬cuna di esse, potrebbe rivolgersi direttamente all’Autore, col se¬guente indirizzo: Méllósagos és Fòt. Tower Vilìios, ppai prelàtus, ny. m. kir. fòesperes urnak, Budapest, I. Logodi-ucta 9.

INDICE

Prefazione del Traduttore…………………………… …………….Pag. 2  

Prefazione dell’Autore…………………………………………………. “    2 

PARTE PRIMA: « L’uomo propone……………………..……….….  “   4

Napoleone e i due Papi ………………………………………………..   “   4                

Campagna di rapine e caccia di pretesti»…   ………………….   “  4

Uccisione del generale Duphot e sue conseguenze …..……… “  6

Il Papato è finito!………………………………………………………………………… “  8  

Bonaparte s’accorda col Papa, ma l’inganna ………………….  “ 10

Domanda di Napoleone al Papa…………………………………….. “ 13

Incoronazione dell’Imperatore ed umiliazioni del Papa …..“ 15

Nuove pene e delusioni…………………………………………….……“ 19 

Il Blocco Continentale…………………………………………….…….  “ 21

Prepotenze di Napoleone verso il Papa…………….…….……… “ 23

Una dichiarazione durante un ricevimento……………………..“ 25

Nuove noie e provocazioni  ………………………………………….  “ 26

Ordine di occupare Roma     ………………………………………….  “ 27

Occupazione della Città Eterna…………………………………..….. “ 28

Coraggio di due Vegliardi………………………………………………. “ 30

« Consummatum est! »…………………………………………………  “ 32

L’unica arma del Papa……………………………….………………….. “ 33

L’arresto del Papa…………………………………………………………. “ 34

Il viaggio del Papa prigioniero………………………………………  “ 37

Napoleone ha paura………………………………………………..……  “ 39 

La prigionia di Savona………………………………………………….. “ 39 

Napoleone tortura il Papa nel punto più sensibile ……..….  “ 42

Un atto di debolezza e gravissimi sospetti…………………..… “ 44

Il Concilio Nazionale……………………………………………………. “ 50

Nuovo intrigo               ……………………………………………..…….. “ 52

Il trasferimento d’un detenuto………………………………….….. “ 54

La spedizione in Russia…………………………….…………….…… “ 55

Napoleone si rivolge al Papa……………—………………….….… “ 55

Il Papa riacquista la libertà  ……………………….………………… “ 60

Umanamente parlando……………………………………………..….  “ 61

 La benedizione del Papa………………………………………………. “ 62

La condanna del Papa…………………………………………………… “ 65

Il Papa e la prigionia di Napoleone ……………………………………… “ 69

Ancor prima della prigionia……………………………….…..……  “ 70

L’abdicazione………………………………………………………….…… “ 71

Il diritto di sovranità …………………………………………..………. “  71                    

Il luogo della prigionia…………………………………………..……  “ 73

Il trattamento              …………………………………………..………  “ 74

Infedeltà ed abbandono……………………..……………………….. “.76

Ancora: infedeltà ed abbandono………………………….…….… “ 78

Circondato da spie……………………………………………………..  “ 82

Sorveglianza della corrispondenza……………………………… “ 83

Il medico personale  …………………………………………………… “ 84

Gli « Eretici »…………………………………………………………  “  86

Contrasto………………………………………………………… …..  “   87

La morte in prigionia e l’affare dei topi…………………….. “  89

Il luogo ed il tempo della sepoltura………………..………… “  92

Il figlio di Napoleone………………………………………..……… “  92

Idee religiose di Napoleone……………………………………… “  95

Meriti di Napoleone verso la Religione e la Chiesa..….   “   98

Meriti di Napoleone verso il Papa ed il Clero ………………  “ 101

Vita religiosa di Napoleone……………………………………… “ 104

Nuovi paralleli…………………………………………………….….  “ 106

Il Papa per Napoleone decaduto………………………………. “ 107

Il Papa e la famiglia di Napoleone…………………………….  “ 109

La Legge Eterna………………………………………………….…… “ 112

« Nolite tangere! »…………………………………………….……  “  112

APPENDICE

Opere utilizzate dall’Autore……………………………………  “  114

Giudizi della Stampa sulla presente opera………………..  “  115

Altre opere del medesimo Autore  » ………………………..  “  116

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