RICORDI DI RUSSIA DI RAFFAELE PIRONE DAL 1902 AL 1920 – PERSONALITA’

RAFFAELE PIRONE

RICORDI DI RUSSIA

Proemio 1894 – 1901

Dimora 1902-1920

Rivisitazione luoghifermani.it

I N D I C E

1-Le fila lontane                                                                  pag.  2

2-Il primo viaggio in Russia                                                  “     5

3-La partenza per la Russia                                                    “   18

4-Gli anni dal 1902 al 1908 – L’Istituto di medicina

sperimentale – La Croce Rossa – I miei lavori                        “   22

5-Il lavoro al servizio antirabbico – I miei nuovi lavori

6-Fra il 1908 e il 1914 – I miei riposi – I viaggi                      “   34

La vita in Russia fra il 1098 e il 1914                                     “   44        

7- Gli Italiani di Pietroburgo – La colonia – Gli altri              .“  53

8- Gli avvenimenti di Russia nel decennio 1902 – 1912           

La guerra russo – giapponese (1902 – 1905) –

Il prologo o preludio: i moti del 1905 – 1907 –                    

Il periodo di bonaccia (1908 – 1913)                                       “  67      

9- La guerra                                                                             “  92

APPENDICE                                                                    

10- La rivoluzione                          .                                        “ 114

11- Il colpo di mano dei Bolscevichi                                      “ 127

12- Il Terrore                                                                           “ 150

13- Arresto e prigionia a Pietrogrado (Giugno 1919)              “171

14- Nei campi di concentramento di Mosca –

I primi due (Luglio – Agosto 1919)                                        “ 191

15- Nel terzo campo di concentramento –

 Agosto 1919 – Febbraio 1920                                               “ 218

16- La liberazione – Pietrogrado e Mosca –

La primavera del 1920 – La partenza dalla Russia               “ 258                                                

N O T E                                                                               . “ 280 

I

1. LE FILA LONTANE 1894-1902

(Proemio)

   Nell’autunno del 1894, dopo gli esami della sessione di ottobre, ero ad Avellino a passarvi, come facevo tutti gli anni, lo scorcio delle vacanze universitarie: breve tregua di assoluto e spensierato riposo, che io mettevo fra la fatica degli esami (per ottobre me ne lasciavo sempre qualcuno dei più difficili), e la prospettiva della ripresa dei corsi. E quell’anno mi attardavo ancora più; sia per un maggior bisogno di riposo, perché l’esame era stato quello di Patologia Chirurgica, non facile col prof. D’Antona, e la prospettiva erano le fatiche del quinto anno di medicina, assai duro in quei tempi; sia perché le giornate magnifiche di fine ottobre erano un godimento, che mi faceva rimandare di giorno in giorno il ritorno a Napoli.

   Ricevei inaspettatamente la visita di Man., mio ex-compagno di liceo, avellinese, ma stabilito a Napoli con la famiglia; col quale non avevo avuto che rare e superficiali relazioni, anche per la ragione che di qualche anno più grande di me, mi precedeva di un biennio negli studi. Si era difatti laureato l’estate del 1894; ed in novembre sarebbe dovuto andare alla Scuola di Sanità Militare a Firenze, per i corsi di ufficiale medico. E, proprio per questo, era venuto da Napoli a chiedermi di sostituirlo nelle funzioni di assistente presso il dottore Gub., durante la sua assenza: un anno scolastico all’incirca. Sulle prime rifiutai, e gli feci il nome di qualcuno dei comuni conoscenti che mi pareva più adatto.

   Conoscevo poco il dottore Gub., e devo pure dire che non avevo troppe simpatie pei medici pratici, i quali, più per lustro che per necessità, amavano circondarsi di assistenti, e farsi dare del professore. Ma Man. insistè; ci teneva tanto a conservare quel posto, che avrebbe potuto essergli utile, al ritorno, per avviarsi all’esercizio pratico; mal si fidava di altri, che avrebbero finito per accaparrarselo, mentre da me nulla riteneva dover temere; un anno sarebbe presto passato; aveva fatto un viaggio apposta, quasi sicuro di me; non lo rimandassi con un rifiuto, accettassi insomma. Finii per cedere; ma di mala voglia.

     Tornato a Napoli, andai dal dottor Gub., che era già informato. Egli mi incaricò subito di seguire alcuni malati, che non avevano bisogno di cure speciali; e, fra gli altri, un affetto da “paraplegia isterica” al quale bisognava fare due volte la settimana il massaggio elettrico. Mi misi all’opera. Però fin dalla prima visita, nonostante le mie ancora rudimentali conoscenze cliniche, dubitai della diagnosi; ma, non rientrando nel mio compito fare o discutere diagnosi, mi limitai a praticare il massaggio, secondo l’incarico avuto. Più tardi, quando dall’infermo stesso conobbi i particolari della malattia, non solo esclusi l’isterismo, ma mi convinsi dell’inutilità del massaggio in una paralisi completa, dovuta a ben altro che l’isterismo, e che io ritenevo inguaribile.

   Non nascosi questa mia opinione alla moglie dell’infermo, una signora russa, molto intelligente, che con insistenza me ne chiedeva; ed infine avevo fatto appello alla mia coscienza, perché non le nascondessi quel che pensavo della malattia del marito. E non celai, nella mia ingenuità, credendo di parlare ad un indulgente maestro, i miei dubbi al dottore Gub sulla diagnosi, la quale destava nell’infermo speranze di guarigione, che i nostri mezzi erano lontani dal poter dare.

   Ma allora non avevamo le sierodiagnosi, e le cure eroiche; e l’isterismo copriva ancora molte ignoranze. La signora mi ringraziò della mia sincerità; il dottor Gub. invece, me ne rimproverò e forse non a torto, e per la mia indelicatezza verso di lui, e per il poco tatto verso la famiglia del malato; ed aggiunse che di tal guisa io non avrei fatto mai il medico. Gli dissi, nella mia inesperienza giovanile, che ove fossi deciso a farlo, non concepivo altrimenti l’esercizio della medicina. Per fortuna l’anno passò presto, Man. tornò; ed io ero liberato dagli impegni verso il suo maestro e l’ammalato di paraplegia; l’unico in fondo che avevo seguito in modo continuativo. Ma proprio esso non mi lasciò, anzi mi pregò di andarlo a vedere di tanto in tanto; mi mandò a chiamare; mi scrisse, quando le mie visite si fecero più rare; mi invitò a pranzo.

   Finii per frequentare questa famiglia: lui inchiodato su una poltrona da una paraplegia di cui non guarì mai più, pur conservando una grande lucidità di mente; lei ridotta quasi alla cecità da una iridite doppia. E mi affezionai ad essi, che avevano pur bisogno di tante cose; e spesso l’opera dell’amico, in molte piccole necessità giornaliere, tornò più utile di quella precedente del medico. Fui ripagato di profonda gratitudine; ed avviato dalla signora, nelle frequenti conversazioni, ad una migliore conoscenza della Russia, di cui, a proposito della musica e dei romanzi che allora venivano in voga, si parlava un po’ da tutti; ma con molta fantasia e pochissimo giudizio. Per la laurea, mi regalarono un bel samovar, che la signora fece venire dalla Russia. Il dono destò l’ammirazione di quelli che lo videro, e parve a molti la prova irrefutabile delle mie “tendenze russe”. Ai tempi di questi ricordi, si parlava di tendenze russe come di raffinati ed eccentrici esotismi, tanto il tè e la Russia erano ancora lontani da noi.

     Essendosi poi aggravate le condizioni della vista della signora, occorse un’operazione, ed un consecutivo lungo periodo di riposo degli occhi, durante il quale io dovetti farle più volte da segretario nella corrispondenza che lei aveva con una sua nipote in Russia.

     L’ottobre del 1900, la nipote, con due figliuole, venne, per l’inverno, a Napoli. Le fui presentato; ebbi accoglienze più che di pura cortesia; e, fin dai primi giorni, gratificato scherzosamente dalla madre e dalle figliuole dell’appellativo di ourson, che mi rimase in seguito. Orsacchiotto, o un po’ orso, certamente, lo ero, e lo sono sempre stato poi. Ma che si poteva volere da chi passava le migliori ore della sua giornata, o dei suoi giovani anni, in volontaria segregazione fra lo studio e le ricerche scientifiche; nulla presumeva di sé, e nessuna voglia aveva di correre avventure? Eppure, accadde l’impreveduto. L’autunno del 1900, la seconda delle signorine, si fidanzava col piccolo orso, conosciuto per un concorso di circostanze così estranee alla volontà di entrambi.

2. IL PRIMO VIAGGIO IN RUSSIA

     Le nozze furono celebrate a Napoli nel maggio del 1901; poi la benedizione nuziale fu impartita da mio zio vescovo. Occorreva però, per le leggi russe d’allora, che il matrimonio fosse celebrato pure col rito ortodosso; e questo lo facemmo in Russia, a Pietroburgo, dove andammo in viaggio di nozze.

     Il 18 luglio, terminato l’anno scolastico, e, con esso, i doveri dell’assistentato universitario, partimmo. Il mio primo viaggio! Gli anni dopo la laurea, li avevo passati assorbito tutto dallo studio e dal lavoro scientifico nella ”fucina del sapere”, come un po’ iro¬nicamente era chiamato, da coloro che non vi erano potuti arrivare, l’Istituto di Anatomia Patologica dell’Ospedale degli Incurabili diretto dal professore Armanni. Non dimenticherò mai che il giorno di Natale del mio primo anno di assistentato, il 1899, una splendida giornata d’inverno, mentre tutta Napoli era in allegria, e per le vie ferveva l’animazione della festa, il professore Armanni ed io lavorammo fino a tardi nel teatro anatomico. Le giornate le passavo nella mia stanzetta all’istituto che era per me la mia home. Ed ecco che ne uscivo, e non per un piccolo viaggio, ma per attraversare l’Italia, l’Europa, quasi, da un capo all’altro; da Napoli a Pietroburgo. Contrattempi, da inevitabili ignoranze di molte cose da parte mia, ve ne furono; non mancarono imprevisti. Pure, che bel viaggio fu quello; che notte deliziosa passammo inaspettatamente nei boschi della Stiria il secondo giorno di viaggio, fra Napoli e Vienna per un errore della agenzia di viaggi.

     Verso mezzanotte, dovemmo lasciare la vettura a letti, nella quale avevamo viaggiato fino allora, ed aspettare a Sankt-Mikael, una piccola stazione della Stiria, un altro treno per Vienna, secondo l’itinerario dei nostri biglietti a “tagliandi combinabili’’ fornitici dall’agenzia, ma che non corrispondevano al percorso della vettura-letti.

La stazione si trovava in fondo ad una villetta chiusa dai due versanti da colli di pini ed abeti. Il cielo, tutto uno scintillio di stelle, appariva alto e profondo. Intorno, un’aria imbalsamata in cui si fondevano il sottile profumo delle erbe silvestri, l’odore resinoso dei pini, e quello delle rose e dei gelsomini che avviluppavano la stazioncina di legno. E poi una calma, un silenzio appena rotto dal fruscio del Miir che scorreva poco lontano. Un incanto, al quale, certo, le circostanze del viaggio contribuivano per non piccola parte. Ma l’inattesa avventura di una notte all’aria aperta, in un angolo sconosciuto del mondo, che era come un giardino dei mille fiori, era assai bella, perché due giovani anime non ne sentissero tutto il fascino. Venne troppo presto l’alba, e il treno che ci riportò alla vita tumultuosa della città, Vienna. Ma godemmo prima ed, in compenso, lo spettacolo grandioso di un limpido mattino dalle altezze del Soemmering, e il magnifico scenario che di là si offriva alla vista.

     Dopo due giorni di sosta a Vienna: imponente, aristocratica, elegante; ma di cui ciò che mi colpì di primo acchito fu quella gioia di vivere diffusa nell’aria, e si attaccava a tutti e a tutto; ci rimettemmo in treno. Il Danubio, che allora e poi, non vidi mai ‘bleu’, ma sempre biondo come il Tevere, se non più; i sobborghi della capitale; le linde cittadine fra giardini ed orti; le colline precarpatiche; poi i piccoli Carpazi e i Beskidi occidentali, che si profilavano di lontano a destra, mentre a sinistra si snodavano le montagne della Moravia coi ricordi del Pellico, e poi Prerau, Oderberg… ci passarono dinanzi nel giro di poche ore, fra un succedersi ininterrotto di panorami uno più bello dell’altro. Le indicazioni bilingui o trilingui delle stazioni, dicevano da sole che eravamo in Austria; ma ce lo diceva meglio la varietà di tipi fra la gente, che si affollava nelle stazioni più grandi, all’arrivo del treno. Nelle quali, spesso, spiccava l’allegra nota di festoni di fiori, intorno a quelle caratteristiche piramidi di frutta svariate: gli squisiti e belli obsten austriaci. Ricordo un piccolo venditore d’acqua a Trzbinia, che gridava la sua merce in tutte le lingue: dopo un frìsches wasser e una sviéscia voda, gridò pure acqua fresca. Ne bevvi pel piacere di sentirmela offrire in italiano. Poco dopo eravamo a Gràniza, la frontiera russa.

     Le meticolose formalità della polizia nel controllo dei passaporti; la ostentazione di rigida disciplina, di severa osservanza, anche in cose insignificanti: ciò che a tutta prima è tanto facile scambiare per rigore vero, mi parvero confermare quel senso di misteriosa paura della polizia russa, così comune e diffuso allora in occidente; per cui, dietro il gendarme, si vedeva il carcere, la relegazione, la Siberia e peggio. D’altra parte, le immagini sacre, le icòne, che occupavano il posto d’onore nella sala d’aspetto della stazione, con le lampade e i numerosi ceri che vi ardevano innanzi, ex-voto di partenti e di reduci; ed i fedeli, che, o genuflessi pregavano, o vi si fermavano davanti, alternando profondi inchini e segni di croce a non finire, mi rivelavano di essere ormai nella ‘Santa Russia’.

     La visita doganale al bagaglio, le vidimazioni di frontiera dei passaporti, durarono diverse ore; e solo verso la mezzanotte tornammo nel treno, che era rimasto chiuso e custodito da gendarmi durante tutte le formalità. Il giorno dopo, di buon mattino, eravamo a Varsavia.

     La traversammo da un estremo all’altro, dalla stazione dell’ovest a quella dell’est. Passammo dinanzi al monumento a Mizkévic’, intorno al quale si innalzavano le vivide luci di quattro lampade perennemente accese; e, più in là, dinanzi alla Chiesa della Croce, la cui statua di Gesù, che, la faccia rivolta verso la strada, porta una pesante croce, mi sembrò simbolo del popolo polacco. E mi parve che le impressioni, sia pur di fuggita, non mi ingannassero; e che le lampade ardenti dinanzi all’autore delle “Litanie del pellegrino”; e Gesù che porta la croce, e pare si rivolga con lo sguardo ad ogni passante, si completassero nel loro simbolismo.

     Ripartimmo, e, a qualche ora da Varsavia, lasciateci dietro le ultime colline, il treno correva già per l’immensa pianura sarmatica, dagli orizzonti sconfinati, dove il cielo si fonde con la terra, e l’occhio si perde. Le distese uguali e sterminate di pianure verdi, interrotte solo da macchie di betulle o foreste di conifere; i fiumi lenti, tortuosi, ampi, dalle sponde basse; le stazioni sempre più rare; gli umili casolari dei villaggi bassi, oppressi, schiacciati dall’immensa volta del cielo, che si stendeva su di essi: tutto questo in così forte contrasto col paesaggio montuoso dell’Austria, aumentava quel senso dell’infinito, a cui nessuno può sottrarsi, percorrendo la Russia, che costituisce la prima e rimane l’impressione fondamentale del paese. A renderla anche più profonda, si aggiunse un altro inatteso spettacolo: le notti bianche. Verso le dieci di sera eravamo a Dvinsk, a più di mezza via fra Varsavia e Pietroburgo, ed il sole era ancora alto sull’orizzonte, come da noi verso le cinque. Quando più tardi mi abituai alle notti bianche, mi parvero perfino penose; ma quella prima volta, il rapido passaggio, dalle profonde notti stellate del sud alla calma immensa del cielo sotto il sole incombente, che, a sera inoltrata aveva ancora le tinte calde dei nostri pomeriggi di estate, mi dette, col senso dell’infinito dello spazio, il senso della eternità del tempo. Ed il treno correva, correva. Traver-sammo la Dvinà occidentale ricca d’acque, larghissima sotto Dvinask. Ci assopimmo verso la mezzanotte, mentre durava ancora il lungo crepuscolo; ed alle quattro del mattino seguente il sole era già alto, quando arrivammo a Gàtcino, una cittadina a quaranta verste da Pietroburgo, dove mia suocera era in villeggiatura, e ci aspettava.

     La villa si trovava a qualche chilometro dalla città: una verde, linda casetta di legno ad un piano, in mezzo ad un bosco di pini e betulle, circondato da un giardino di rose, allora in piena fioritura. La colazione del mattino di tè, latte, burro, panini freschi, fragole, miele, imbandita sotto una pergola, col panciuto e rilucente samovàr, che gorgogliava in mezzo alla tavola, ci rinfrancava della stanchezza del viaggio. Ma mi rivelava subito di trovarmi in un mondo nuovo, lontanissimo e diverso dal mio, di cui tutto, fin dal primo momento, non poteva non eccitare la mia curiosità, o colpire la mia immaginazione.

     Quel che maggiormente mi attrasse nel mese passato in villa, fu la natura con le sue potenti bellezze. Bisogna pur dire che l’estate di quell’anno fu un succedersi di giornate bellissime, da non farmi sentire la mancanza del caldo e del cielo d’Italia.

     Gàtcino era circondata da una foresta fitta ed estesa: macchie di betulle profumate, dal tronco argenteo e dal fogliame scinto, si alternavano con le più diverse specie di conifere che slanciavano al cielo i loro tronchi. Fra esse una miriade di arbusti intricava il cammino; e sul suolo, il groviglio multicolore dei licheni e dei muschi, appena segnato qua e là da qualche traccia di sentiero. Lì io me ne andavo vagabondando a caso, o mi fermavo in qualche radura nelle ore calde, ad inebriarmi dell’aria satura del caldo profumo di resi¬na delle conifere, attratto dagli aspetti sempre nuovi del bosco, dal fascino della “vita della foresta”, che lì sentii e compresi. Nella calma meridiana, scoiattoli agili si vedevano saltare con lieve fruscio, di ramo in ramo, fino alla cima degli alti abeti; galli di bosco, col loro volo pesante e rumoroso, si gettavano da un albero all’altro; altrove piccole faine sgusciavano guardinghe, tra il fitto tappeto di licheni. Al tramonto, i fusti dei pini si accendevano di tinte rosse a noi sconosciute; la foresta a momenti prendeva l’aspetto di un immenso colonnato di granito; e sopravvenivano i colori viola del crepuscolo, mentre il cuculo faceva sentire il suo sonoro e ritmico canto, e il picchio batteva insistente col becco sui rami degli alberi. Un succedersi di spettacoli che incantavano. Elèna spesso mi accompagnava; e non è a dire se la sua sensibilità finissima ed il sentimento della natura, così profondo pure in lei, non esaltassero ancora più il mio entusiasmo.

     In agosto andammo a Pietroburgo. La città, benché molto grande, seconda capitale dell’impero, nulla aveva che, a primo aspetto, ricordasse, sia pur di lontano, l’aristocratica, elegante, gaia Vienna. Gli edilizi, anche i maggiori o i più antichi, non solo non avevano la patina del tempo, ma nemmeno alcunché di russo nello stile; accanto alle case in muratura ve ne erano moltissime di legno. Non solo; ma costruite la maggior parte in quello stile pseudoimpero detto di Nicola I, appesantite spesso dalla eccessiva mole della costruzione, finivano per dare a molti punti della città una uniformità di linee, ed una monotonia architettonica che fastidivano.

     Eppure, quelle vie spaziose, lunghissime; la Neva ampia, lenta, che allargava di tanto l’orizzonte della città; i ponti arditi, dai quali si aprivano le visuali e le prospettive dei lungoneva, e dei giardini che li intramezzavano; le isole dell’estuario del fiume trasformate in parchi e giardini di freschissimo verde nonostante la stagione avanzata, davano alla città nell’insieme un tono pittoresco ed una certa particolare bellezza ed originalità. E la meraviglia cresceva, pensando che solo la volontà inflessibile di un uomo, aveva trasformato una landa desolata del nord, tra acquitrini e paludi, in una città, e di questa aveva fatto la seconda capitale del suo nascente impero.

     Lo esprimeva la statua equestre, che Caterina la Grande gli aveva fatto erigere nella Piazza dell’Ammiragliato, e che mi mostrarono fra le prime cose notevoli della città, benché a me fosse parsa, dal punto di vista artistico, assai mediocre. Il paludamento classico, e la corona di quercia che gli cinge la fronte, sono, certo, lontani dalla psicologia di Pietro; rientrano tutto al più in quella falsificazione dell’antico di cui la città offre esempi ad ogni passo. Ma, l’atteggiamento di lui, l’espressione del volto; l’enorme blocco di granito del basamento appena sbozzato, il serpente che il cavallo, lanciato alla corsa, si lascia dietro, e schiaccia con uno dei piedi posteriori; perfino la superba dedica: «Petro Primo, Catharina Secunda», rendono l’idea della lotta e della vittoria.

     Un altro monumento mi fu pure mostrato in quella mia prima conoscenza della città: il monumento a Suvórov. Il generale in classico costume romano, la spada sguainata nella destra, copriva e proteggeva con lo scudo, che aveva nella sinistra, la tiara e le corone di Sardegna e di Napoli. Sullo zoccolo la scritta «Knjàz Italijskij»: «principe italico» e più nulla; come chi avesse detto «tanto nomini nullum  par elogium». L’elogio era consacrato poi in due grandi mosaici del museo di Suvórov, che rappresentavano uno la partenza di lui per la campagna d’Italia, l’altro il passaggio delle Alpi. Il monumento freddo e mediocre, i mosaici, il museo mi lasciarono indifferente; il titolo sonoro «italico» invece mi fece male. Senza dire che era una di quelle falsificazioni storiche a cui accennavo. L’Italia di Dante, titolo araldico di un generale di Paolo I di Russia, smarrito coi suoi uomini nel «regno del terrore» delle Alpi (son parole sue a Paolo I), dopo l’inutile avventura della Trebbia, mentre le rimanenti truppe russe erano battute a Zurigo! 

     Però, se dalle vie, dalle piazze, dai monumenti, si passava alle chiese, alle gallerie, ai musei, ai teatri, Pietroburgo allora si mostrava veramente una capitale; e non cedeva alle maggiori d’Europa.

     Le chiese, anche quelle dove più manifesta si rivelava l’opera di artisti italiani, o più evidenti apparivano influssi artistici recenti, conservavano tutte le linee dell’architettura bizantina nelle piante, nelle opere murarie, nelle decorazioni, nell’interno. Ne visitai le principali, specie nei giorni di festa, quando le funzioni religiose si svolgevano con maggior pompa. E nonostante le mie prevenzioni per la chiesa ortodossa, e la ignoranza della lingua, non fui meno vivamente impressionato dalla bellezza della liturgia orientale. Mi sfuggiva allora la funzione del coro, che partecipa largamente alla liturgia, e moltissime cose della intima sostanziale bellezza di questa; ma i magnifici canti di tranquilla gioia, od esultanti della messa; gli accenti mesti di serena rassegnazione, ed a volte tragici, degli uffici funebri, mi colpirono profondamente.

     Vidi il Museo dell’Eremitaggio, una delle maggiori raccolte di opere d’arte dell’Europa, dalle antichità greche trovate in Crimea, ai capolavori del Rinascimento. Vidi il bellissimo Museo Alessandro III, che, oltre ad essere una galleria d’arte moderna russa, conteneva pure una ricca collezione etnografica egizia, passata poi all’Eremitaggio. Fui al Teatro Maria, e vidi la «Vita per lo Zar» di Glinka, una delle più espressive opere liriche russe, sia pel dramma che per la musica, ricca di colorito nazionale. Ma mi fermai assai più all’Istituto di Medicina Sperimentale, fondato dal principe di Oldenburgo, che ne era pure il soprintendente. Mecenate munifico, e mente illuminata, aveva voluto dotare la Russia di un istituto, che mirasse non solo al progresso della scienza, ma pure alla profilassi contro le malattie epidemiche in un paese così esposto come la Russia; e vi era riuscito. Per il valore degli scienziati preposti ai vari laboratori; per la importan¬za delle ricerche che vi si facevano; pei mezzi di cui disponeva, e la larga ospitalità che offriva a chiunque avesse voluto frequentarlo per studi e ricerche scientifiche, l’Istituto di Medicina Sperimentale di Pietroburgo, a giusto titolo, emulo dell’Istituto Pasteur di Parigi, godeva fama mondiale. Quando lo visitai, era diretto dal professore Lukianov, uno dei migliori patologi d’Europa, il quale era pure a capo del laboratorio di Patologia Generale. Egli mi accolse con affabilità e larghe profferte, ove avessi voluto lavorare nel suo laboratorio. A me, che venivo da un istituto, rinomato sì, ma povero e sfornito di mezzi al punto che la più modesta ricerca sperimentale era un lusso, la grandiosità dei laboratori, la loro ricchezza, la tranquillità del posto, fuori e lontano dai rumori della città; fin la biblioteca, che riceveva i giornali di Medicina da tutto il mondo, mentre a Napoli non era possibile avere neppure i maggiori italiani, mi fecero così grata impressione, da aver quasi invidia di coloro, che potevano lavorare in quel cenobio della scienza.

     Alla fine di agosto mentre il precoce autunno nordico batteva alle porte, e da Napoli venivano già i richiami, vi furono le nozze col rito ortodosso: e qualche settimana più tardi, prendemmo la via del ritorno.

     Ci fermammo a Varsavia qualche giorno per vedere la città e i bei parchi di Vilanòv e Lazénki. Ripassammo per Vienna elegantissima nella ripresa della vita mondana: i «Ring» pieni di gente, carrozze ari stocratiche e livree dappertutto, senza contare la bellezza della città che guadagnava ancora più dai colori autunnali. Da Vienna andammo direttamente a Roma; e di lì, dopo una breve fermata, tornammo a Napoli, dove giungemmo ai primi di ottobre, ed io ripresi subito il mio lavoro all’Università ed all’Ospedale degli Incurabili.

     L’autunno fu lieto per la nostra nascente famiglia. Le bellezze dell’autunno partenopeo, la buona compagnia di due miei cari amici, le accoglienze del mio maestro, il professore Armanni accrescevano l’intima letizia dell’anima e le rosee speranze per l’avvenire.

     Ma verso il Natale, mia suocera che era tornata con noi, cominciò un sottile lavorio, perché lasciassimo Napoli e ce ne andassimo in Russia. Fu veramente il peso del distacco della figlia prediletta, come ella diceva, a spingerla a tanto; fu la suggestione di un discorso fattole dal suo medico, un professore universitario, il quale le aveva detto che forse a me sarebbe stato non difficile fare in Russia una carriera scientifica; fu la volubilità del suo carattere a farla venir meno alla solenne parola a me data che noi ci saremmo stabiliti a Napoli; vi furono altre ragioni non saprei dire; io vidi solo che fosche nuvole sorgevano sul nostro orizzonte fino allora sereno. Ad esse non seppi far fronte per mitezza del mio carattere, inesperienza giovanile, timore del peggio. Cedetti; ma a certe condizioni. Saremmo andati in Russia per uno o due anni, io avrei lavorato all’Istituto di Medicina Sperimentale, compiendovi degli studi, che non era possibile fare a Napoli; poi saremmo tornati. È vero che, quanto al ritorno, un mio amico mi diceva di non farmi troppe illusioni. Anche lui, venuto dall’Austria in Italia a studiare in una clinica universitaria, vi era rimasto, accasatosi, e della sua Stiria non sentiva che la nostalgia. Ma io, che conoscevo tanto poco della vita, pensavo che per me sarebbe stato diversamente…

II

1902-1914

3. LA PARTENZA PER LA RUSSIA

     Il 1° febbraio del 1902 partimmo. Lasciammo a Napoli la primavera, i mandorli in fiore e le giornate tiepide; ritrovammo l’inverno sempre più rigido a mi¬sura che andavamo verso il nord. Passammo per Milano, immersa in una fitta nebbia; per Venezia umida e grigia, sotto un cielo basso di nuvolaglia rotta; e ci mettemmo per la via della frontiera, ”il canale del ferro”, incassato in due alte muraglie di ghiaccio. Un turbine di neve imperversava a Pontebba, quando passammo il confine, e toglieva la vista di tutto: un turbine così somigliante a quello che agitava il mio spirito, mentre davo l’addio all’Italia! Ma, feci forza a me stesso; e la ragione riebbe il predominio sul sentimento. Non avrei potuto infine, mi dicevo, fare in Russia più rapida carriera scientifica che in Italia?

     Il mattino dopo, giungemmo a Vienna, l’aspetto invernale della città contribuì a distrarmi nonostante la neve e il cielo grigio, intensa era la vita delle vie: le fogge invernali dei magnati ungheresi e dei signori polacchi, pellicce sfarzose, slitte, giardini d’inverno, parchi di pattinaggio: anche a non volerlo, se ne era colpiti.

     Qualche corsa per le librerie a comprare libri di medicina; qualche breve visita ai maggiori monumenti della città; e ripigliammo il treno, che riprese a corre¬re affannosamente verso il nord.

     Qui mi sovviene un ricordo dei miei anni universitari che mi tornò alla mente, proprio partendo da Vienna quell’inverno del 1902. Nei viaggi d’allora da Avellino a Napoli, il treno si fermava a lungo alla stazione di Cancello, nodo stradale che univa l’altipiano irpino con la Campania, Roma, l’Italia, il resto del mondo. Per molto tempo le montagne di Cancello furono le colonne d’Èrcole dei miei viaggi; al di là della stazione, alla svolta della strada ferrata, cominciava per me l’ignoto con tutte le sue seduzioni.      Ricordo con qual senso d’ammirazione, aspettando che il nostro modesto “treno locale”, fatto di vecchie carrozze, potesse proseguire per Napoli, vedevo passare gli “espressi”, che da Napoli andavano verso Roma ed oltre, con vagoni rilucenti, “vetture-ristorante”, “sleepings”, pieni di gente, la più parte stranieri; di quelli che, fra l’autunno e la primavera, inondavano Napoli. Uomini eleganti e signore che mi figuravo sempre giovani, belle, bionde, nordiche eroine di romanzi, le quali appena gettavano uno sguardo sul nostro treno, nei pochi minuti di fermata del potente diretto. Spesso il diretto non si fermava a Cancello: era un direttissimo, che passava sbuffando, ed allora la fantasia correva an¬che più, la fantasia della gioventù! Ed ecco, un giorno anch’io presi a Napoli il direttissimo, passai per Cancello, mentre il mio modesto treno dell’altipiano era là, aspettando “la via libera” ed i passeggeri ci guar¬davano tra la curiosità e l’ammirazione; e volai lontano, verso l’ignoto, come preso da un turbine.

     Ed il treno, appena partiti da Vienna, volava davvero; ed, a misura che correva verso il nord, cresceva il contrasto fra il paesaggio dell’estate e quello dell’inverno. Non più le verdeggianti distese di messi, ma neve sempre più abbondante, che copriva tutto, sotto uno sterminato biancore, in mezzo a cui si delineava appena, verso oriente, la curva dei Carpazi. A Gràniza, la frontiera russa, le solite formalità di polizia, durante la lunga fermata notturna; e la corsa riprese. A Varsavia i miei vestiti d’inverno, che a Napoli erano pesantissimi, non bastarono più a ripararmi dal freddo: eravamo già a parecchi gradi sotto zero. Tra Varsavia e Pietroburgo il treno non fece che traversare sconfinati campi di neve, interrotti da macchie di pini ed abeti, anche essi ammantati di bianco. Il cielo basso, uniforme, plumbeo, chiudeva in giro l’orizzonte. Più d’una volta, nembi di neve si vedevano levarsi, in un attimo, dalla immensa distesa bianca, avanzare con una violenza di bufera da nulla trattenuta, stringere il treno nei loro vortici, turbinare intorno, sì che pareva il treno stesso dovesse esser portato via, e sparire con la stessa rapidità con cui erano sorti. E poche verste più in là, tornava la calma delle bianche distese di neve, su cui si vedevano ancora fresche orme di lupi. Di tanto in tanto, i tetti bassi delle isbà, di qualche villaggio affondato nella neve, si disegnavano appena sotto il manto bianco, o si vedeva spuntare più in alto, ma raro raro, il campanile di una chiesa. Non era più il senso dell’infinito, ma lo sgomento dell’infinito che mi cominciava a prendere; e più d’una volta mi sembrò di trovarmi solo in una regione di sogno, e mi domandavo dove andassi, in balia di quale forza mi trovassi. Ed il treno divorava le distanze, inghiottito esso stesso, minuscola cosa, dalla immensità dello spazio, affannandosi per portarci sempre più lontano, quasi ai limiti del mondo e della vita. Gròdno, Vilno, Dvinsk, Pskòv, così ridenti d’estate, chi le riconosceva più? Finalmente arrivammo. Il viaggio da Vienna a Pietroburgo, che mi era sembrato eterno, era durato meno di due giorni. Giungemmo a Pietroburgo alle nove di un mattino scuro e freddo; il mastodontico termometro della stazione segnava quindici gradi sotto zero; una densa caligine toglieva la vista a pochi passi. Le vie erano coperte da un alto strato di neve, che attutiva ogni rumore; gli uomini, le carrozze passavano accanto a noi come ombre; i fanali accesi non erano che scialbe fiammelle; mi sembrò di trovarmi nel regno del silenzio e dei fantasmi.

     Rimasi qualche giorno in casa. Ma un pomeriggio che il sole pareva avesse diradato la cappa di piombo del cielo, e lembi di azzurro trasparivano fra le nubi grigie, nonostante il termometro segnasse parecchi gradi sotto zero, uscii, preso dal bisogno, dalla nostalgia dell’aria e del sole. Non che in casa facesse freddo, faceva anzi fin troppo caldo; ma era il caldo secco del riscaldamento artificiale al quale non ero abituato, e che, sulle prime, mi dava molestia. Ahimè! Il sole non riscaldava. Provai una delle più strane sensazioni che avessi mai avuto: non so più se di sorpresa, di de¬lusione, di malessere, o di tutto questo insieme. Né valsero, a farmela vincere, i richiami alle mie cognizioni di geografia fisica. Chi aveva mai pensato, sotto il magnifico cielo di Napoli, in cui luce e calore sola¬re sono sinonimi, che vi fossero plaghe della terra, do¬ve queste due funzioni del sole si sdoppiassero, come lassù dove ero.

     Ma, oltre a questa, tutte le impressioni di quel primo inverno russo, non erano che una continua meraviglia. Ripensandoci ora, dopo che tanta acqua è passata sotto i ponti, trovo le mie meraviglie un po’ ingenue. Allora, non riuscii a sottrarmi al senso di sorpresa, o di meraviglia, che il nuovo ed il diverso finiscono sempre per esercitare su di noi; per lo meno non potevo non rilevare il contrasto fra le impressioni dell’estate e quelle dell’inverno. La Neva, così imponente l’estate, per la massa d’acqua agitata da larghe onde, era immobile, irrigidita in uno strato di ghiaccio tanto solido, che, non soltanto i pedoni ed i cavalli, ma persi¬no un tram elettrico, la attraversava nella sua maggiore larghezza. Vi erano poi sul ghiaccio giardini di inverno, giuochi pubblici, e campi di pattinaggio dove si pattinava giorno e notte. Per le vie, non più le piccole carrozze ad un cavallo; ma le slitte che volavano come frecce sulla neve alta e soffice: le tròiki dai cavalli focosi, con i cocchieri immensi infagottati nei grossi kaftany. E poi le fiere di beneficenza; le esposizioni di ogni specie: da quelle di belle arti, alle mostre dei kustary, l’artigianato rurale; i teatri, i ricevimenti, i pranzi.

     Ad un gran pranzo fui invitato anche io, pochi giorni dopo l’arrivo. Fu una fantasmagoria pantagruelica. Ne vidi poi di maggiori; ma quel primo mi colpì indimenticabilmente. Era un pranzo dato dal nostro Console per la inaugurazione di una esposizione d’arte italiana. Vi erano l’Ambasciatore e il seguito, gli artisti che avevano ordinato l’esposizione, e qualche estraneo. Dopo il pranzo, vi fu il ricevimento della colonia italiana; ed a mezzanotte, secondo l’uso russo, vi fu la cena. Quanto e che cosa si consumò fino alle quattro del mattino è incredibile. Si mangiò per ore intere senza interruzione: scomparvero trofei di burro, cumuli di antipasti, piatti di salami di ogni specie, di intingoli caldi e freddi, di pesce affumicato di ogni dimensione, dalle minuscole sardine agli storioni immensi, di caviale; e poi prosciutto crudo e cotto, carni rifredde con varie salse; e vini, e frutta a non finire; e poi liquori, torte, marmellate, pasticcini, cioccolatini. E le mascelle lavoravano senza tregua con ripresa lena ad ogni alzata di bicchiere; ed alzate ve ne furono innumerevoli, secondo quello che seppi poi esser l’uso russo. Nonostante le spinte e l’esempio, finii col non poter più mangiare; e rimasi il resto della serata a vedere quella distruzione omerica di ogni ben di Dio, finché il festino non ebbe termine.

4. GLI ANNI DAL 1902 AL 1908

L’ISTITUTO DI MEDICINA SPERIMENTALE

LA CROCE ROSSA – I MIEI LAVORI

     Pochi giorni dopo, il 20 marzo, andai all’Istitu-to di Medicina Sperimentale. Rividi il professore Lukiànov, e gli esposi un mio piano di studi. Egli, pur lasciandomi libero nel mio lavoro, mi parlò di alcune ricerche alle quali teneva molto in quel momento, e che voleva proporre, come tema a qualcuno del laboratorio. Compresi il suo desiderio; d’altra parte l’argomento, nuovissimo, era dei più invogliami come tema di ricerche: lo accettai senz’altro. Quel giorno stesso ebbi il mio posto di lavoro, già arredato di tutto il necessario; e cominciò così per me il periodo dell’in¬tenso lavoro scientifico, che durò ininterrotto quasi un ventennio.

     Come ho accennato di sopra, alla direzione dei vari laboratori dell’Istituto erano scienziati di fama. Il fisiologo Pàvlov, forte come un tronco di quercia, espansivo, parlatore non senza un certo umorismo, continuava nel laboratorio di Fisiologia lo studio della digestione con una particolare tecnica ed una serie di ricerche, ognuna delle quali è davvero una pietra miliare nel cammino della scienza.

     Dirigeva la sezione di Chimica il Néncki, il cui nome ricorre anche oggi nei trattati di Chimica Fisiologica. Emigrato polacco nei suoi giovani anni, aveva conquistato all’estero uno dei primi posti nel campo della chimica biologica, ciò che gli valse il ritorno in Russia, quando il principe d’Oldenburgo lo volle all’Istituto.

     Il professor Lukiànov, come ho detto, era direttore dell’Istituto e della sezione di Patologia Generale. Aveva da poco pubblicato le sue lezioni sulla “Patologia Generale della Cellula”, che segnavano una nuova via nel campo della citologia, e proseguiva con  lena ininterrotta i suoi studi sulla cellula, slegati in apparenza, ma che riconnettevano ad un più largo piano di ricerche che metodicamente egli stesso prosegui¬va od accompagnava. Era nel laboratorio dalla mattina fino a sera tarda. Conoscitore delle lingue straniere, che parlava, specie il francese e il tedesco, a perfezione, leggeva tutti i giornali di medicina, per modo che nessun lavoro scientifico gli sfuggiva. Lasciò l’Istituto per andare al Ministero della Istruzione Pubblica, ad attuarvi le prime riforme liberaleggianti del 1904-1905. Lo sostituì il professore Podvysózkij dell’Università di Kiev, non dell’altezza di lui; ma fra i migliori della Russia.

     Alla sezione di Microbiologia vi era il Vinogràdskij, che, per le sue scoperte sui batteri azoto-fissatori, era già allora uno dei primi batteriologi del mondo.

     Intorno ai maestri, aiuti ed assistenti, fedeli col- laboratori, che presto vennero in fama, anche essi, pei loro lavori. Zàbolotnyj, batteriologo, Bóldvrev, fisiologo, Omeljànskij, microbiologo, Vladimirov, Kliménko e le sorelle Sciumova, di cui una successe al Néncki. E poi tedeschi, inglesi, giapponesi, francesi, che venivano soprattutto da Pàvlov, e frequentavano l’istituto come “praticanti”.

     Ogni mese vi era una riunione scientifica, nella quale i direttori riferivano sulle ricerche in corso nei loro laboratori; o facevano brevi comunicazioni sui risultati ottenuti. Tutti conoscevano in tal modo il lavo¬ro dell’Istituto; non vi erano segreti, non gelosie, non preoccupazioni che altri potesse lavorare intorno al proprio argomento. Sorgeva spontanea, anzi, la collaborazione, come spesso avveniva, fra chimici e fisiologi, sperimentatori ed istologi: di che son prove quasi tutte le pubblicazioni dell’Istituto di quel tempo. Come e quanto tutto questo dovesse giovare al progresso scientifico, si comprende facilmente. Ma che di ciò si avvantaggiasse pure l’atmosfera spirituale dell’Istituto, la familiarità fra persone della più diversa provenienza, era cosa che saltava all’occhio, produceva nel nuovo arrivato una delle più gradevoli impressioni. Contribuiva anche al cameratismo la mensa, la stolóvaja. L’Istituto si trovava fuori della città, su una delle isole della Neva, abbastanza lontano dal centro; l’andarvi era un mezzo viaggio che, specialmente d’inverno, con le cortissime giornate, prendeva buona parte del tempo utile per il lavoro. La mensa permetteva di passare all’Istituto tutta la giornata, offrendo un breve riposo intermedio. A prezzo modestissimo si poteva avere un eccellente pranzo, o una colazione, del caffè e, come bibita, quella piacevole bevanda russa di pane fermentato: il kvàs. C’era, oltre la sala da pranzo, una sala di lettura, con giornali stranieri ed un biliardo.

Alla stolóvaja, fra mezzogiorno e l’ima, si incontravano direttori, assistenti, praticanti dei vari laboratori in una intimità veramente familiare; nella quale, tra la conversazione, i ricordi di viaggi — chi non era sta¬to all’estero ed in Italia alla Stazione Zoologica a Napoli? — le lepidezze, il buon umore, nascevano simpatie, si chiarivano dubbi, si eliminavano diffidenze, pregiudizi, preconcetti; si rinsaldavano in una parola, i vincoli e le buone relazioni del personale, non ultimo vanto dell’Istituto.

     Io vi fui accolto con grande ospitalità. Ma, debbo pur dire che i miei primi passi furono seguiti non senza tal quale diffidenza, o attesa curiosa (1), di che può essere illustrazione il caso occorsomi col dottore Selinov, direttore della sezione di Anatomia Patologica. Avendogli io detto che venivo da uno dei migliori istituti di Istologia Patologica d’Italia, egli, un po’ per scherzo, un po’ per “provarmi”, come mi disse più tardi, quando si strinsero fra noi relazioni di amicizia, mi mostrò un preparato microscopico di interpretazione alquanto difficile. Gli dissi subito di che si trattava, e gli parlai pure di alcuni procedimenti di tecnica, da noi già in uso, che rendevano simili preparati assai più dimostrativi. Egli non mi nascose il suo compiacimento, ed anche la sua meraviglia; e candidamente mi dichiarò che non sapeva che in Italia si lavorasse a quel modo, che pareva avergli provato io.

Queste parole mi si impressero nella mente. Era vero. Che poteva saper di noi la Russia, economicamente e scientificamente infeudata alla Germania? Ed anche noi non eravamo forse asserviti alla Germania, se, per fare che i nostri lavori fossero conosciuti all’estero, eravamo obbligati a pubblicarli su giornali tedeschi? Non era, quasi, un titolo di merito, veder pubblicato dagli Archivi di Virchow o dai Beitràge di Ziegler un nostro lavoro? Quante ricerche fatte all’estero in quei tempi, passarono per nuove, e dettero fama ai loro autori, mentre erano state già compiute in Italia; ma ignorate dal mondo scientifico, perché pubblicate su giornali nostri., che non varcavano le frontiere; o, se pur arrivavano fuori, non erano letti, o compresi?

     Iniziando il mio lavoro all’Istituto, mi parve che fosse mio dovere di italiano innanzi tutto, e poi di discepolo della scuola medica napoletana, far conoscere quello che noi eravamo, almeno nell’ambito dei miei studi. E mi detti a questa opera delicatissima nella Russia d’allora; per la quale l’Italia era sempre e solamente il paese del cielo azzurro, delle classiche antichità, e del dolce far niente. Occorreva anche non urtare convinzioni radicate sul valore assoluto della scienza tedesca, per non venir meno ai doveri della ospitalità accordatami. Ma, a poco a poco, il mio lavoro, assiduo come la goccia, la vinse. Dissipai con l’esempio un primo pregiudizio: quello della nostra indolenza, ed incapacità al lavoro tenace. Mostrai poi quello che si faceva in Italia. E destò non poca meraviglia conoscere che in Italia si fabbricassero microscopi non inferiori ai tedeschi (io ne avevo con me uno eccellente di fabbrica italiana); si pubblicassero libri didattici di medicina, non inferiori ai più reputati francesi od inglesi, e solidi trattati non meno dei tedeschi; e meraviglia anche maggiore, che le scuole mediche italiane potessero vantare metodi propri di indagini scientifiche; e la scuola napoletana ne aveva e di che valore! Secondato dal bibliotecario dell’Istituto, mi adoperai per un aumento dello scambio dei giornali medici tra la Russia e l’Italia; e, sotto questo impulso, molti giovani medici che frequentavano l’Istituto negli ultimi tempi avevano cominciato ad imparare l’italiano. Poco prima della guerra, gettavamo le basi per la istituzione di un comitato italo-russo, non accademico, né dottrinario; ma essenzialmente pratico, che mirasse, mediante un attivo scambio di pubblicazioni, ed un bollettino in due lingue, ad una migliore conoscenza del lavoro scientifico dei due paesi… La immane catastrofe troncò tutto.

     Era il 1898 ed il 1902 avevo pubblicato a Napoli un gruppo di lavori di Anatomia Patologica. Altre ricerche avevo menato a buon punto, ma non avevo potuto finirle; lo feci in Russia, mentre iniziavo il mio lavoro all’Istituto. Così, pel 1903 avevo già pronta una seconda serie di lavori, parte concernente il materiale portato con me da Napoli, parte le ricerche sperimentali fatte all’Istituto. Di essi attesi alla pubblicazione nell’inverno del 1903.

Quanta fatica questi mi costassero, non dirò. Chi ha sentito, ed io fortemente lo sentivo e maggiormente in paese straniero, la responsabilità di affrontare il giudizio di maestri, ed il controllo di altri ricercatori, può intendermi. Scontento sempre fin della forma dei miei scritti, per tema di non riuscire chiaro abbastanza nella esposizione, critico rigoroso di me stesso, per timore di non dedurre dalla osservazione dei fatti più di quanto essi non permettessero; guardingo nei giudizi, nemico delle ipotesi seducenti; ogni lavoro era per me un travaglio, da cui sentivo la liberazione solo quando licenziavo lo scritto per la stampa.

     Ai primi del 1905 mi fu proposto di dirigere tem¬poraneamente il gabinetto di ricerche di un ospedale della Croce Rossa da poco fondato. Accettai. Si parlava tanto in quel tempo degli ospedali della Croce Rossa russa come di istituzioni modello; delle suore laiche, enfaticamente esaltate: avrei visto tutto questo da vicino.

     La Russia, dopo la guerra di Crimea, aveva aderito alla convenzione di Ginevra del 1864, donde ebbe origine l’istituto internazionale della Croce Rossa, ed aveva perciò anche essa una sua Croce Rossa, con ordinamento non diverso da quello degli altri paesi.

      Sennonché, invece di servirsene esclusivamente in tempo di guerra, la teneva in una specie di mobilitazione permanente; in quanto che, a causa delle condizioni demografiche del paese, se ne serviva come organo sussidiario per la assistenza ospedaliera dei malati, sia nelle città che nelle campagne. Una rete, in continuo sviluppo, di comunità: le òbsciny Kràsnogo Krestà, erano sparse per tutto il paese da Arcangelo a Odessa, da Batùm a Pietroburgo, a Vladivostok; nelle città, e nei grandi centri industriali dove si affollavano gli operai; nelle campagne, dove il medico condotto, per le enormi distanze, non sempre poteva arrivare in tempo; e nelle steppe del basso Volga, alle porte dell’Asia, dove vi era sempre la minaccia di scoppi di epidemie da focolai endemici di malattie infettive. Ogni òbscina comprendeva padiglioni di medicina, chirurgia, e specialità, costruiti secondo gli ultimi dettami dell’igiene, forniti abbondantemente di tutto il necessario, spesso arredati con lusso; e, con essi, un convitto-scuola per le future suore. Non mancava la chiesa o una cappella. Le òbsciny si intitolavano o da qualche santo dei più venerati in Russia, ed erano le più antiche; o dal nome di benefattori: ricchi industriali, famiglie aristocratiche che le avevano fondate o contribuivano al loro mantenimento, membri della famiglia imperiale, ed erano le più recenti, come quella dove fui chiamato.

     I corsi duravano due anni; i programmi erano adatti agli scopi pratici, per quanto molteplici, ai quali mirava la preparazione delle giovani che li frequentavano. Queste, terminati i corsi ed un periodo di prova, acquistavano ”il diritto di fregiarsi di una croce rossa sull’abito”, e il titolo di “suore di carità”; continuavano a vivere in comune, sottoposte ad una disciplina che tuttavia lasciava loro sufficiente libertà, sotto la guida di una superiora o direttrice; prestavano la loro opera nei padiglioni medici o chirurgici della comunità, ed avevano perciò il trattamento ed un piccolo assegno mensile; dalle òbsciny potevano passare in ospedali maggiori, in cliniche private, dovunque fosse richiesta l’opera di una intelligente assistenza sanitaria; potevano anche uscirne. Meno per alcune comunità più antiche, che serbavano come una tradizione di casta, ed accoglievano soltanto signorine dell’alto ceto; le suore della maggior parte delle comunità appartenevano al medio ceto, cittadino, o campagnuolo. Per esse la Croce Rossa era la via per elevarsi; fare, in certo modo, una carriera; formarsi uno stato. Ora, erano queste comunità di “suore laiche” che, nel periodo in cui maggiormente infierì nella vita italiana, ed anche negli ospedali, quel laicismo settario di infausta memo¬ria, erano esaltate come modelli di quella morale laica di cui tutti erano infatuati. Intanto vi era da osservare: che le comunità russe non erano punto areligiose, in quanto ognuna aveva la chiesa, come ho detto, officiata tutti i giorni; che le suore assistevano tutte alle funzioni religiose oltre alla messa festiva; che nelle comunità, prima o dopo i pasti, si dicevano le preghiere; vi si facevano i digiuni ordinati dalla chiesa ortodossa. Ma sta di fatto che la guerra russo-giapponese fu la prova del fuoco della saldezza delle giovani suore. E si parlò allora di beaucoup de noces, peu de mariages. Lungi da me l’idea di far mio il sarcasmo di queste parole, che udii sovente ripetere; o che esse si dovessero riferir a tutte le suore che furono alla guerra. Ne conobbi non poche esperte, intelligentissime, che vi andarono, non per cercar marito o avventure; ma animate solo da profondo patriottismo ed immenso spirito di sacrifizio. Però, non è men vero che, tirate le somme, la “prova” riuscì tutt’altro che vantaggiosa per la moralità laica.

     Per circa un biennio, fino al 1906, lavorai dunque nell’òbscina della “Granduchessa Elisabetta”. Vi ero entrato da poco, che la comunità dovette fornire pure essa il suo contingente di medici e suore per la guerra russo-giapponese. Qualche giorno prima della partenza, un freddo e grigio mattino della primavera del 1904, le due Imperatrici, la vedova di Alessandro III, Maria, e la moglie di Nicola II, Alessandra Fedorovna, vennero a salutare i partenti, che erano quasi la metà del personale. Vi fu, come in ogni cerimonia russa, una funzione religiosa alla quale assisterono le auguste donne. Poi, mentre era servito il tè, il corpo sanitario fu presentato alle due sovrane, che distribuirono delle immagini sacre, dicendo a tutti parole cortesi; più loquace e disinvolta l’imperatrice vedova, più riservata con una certa mestizia nel volto, ma più regale l’imperatrice Alessandra. Quando le fui presentato dal medico capo, e seppe che ero italiano, mi domandò in francese, e con molta affabilità, come tollerassi il clima della Russia. La regalità esercita sempre un fascino, al quale non si riesce a sottrarsi. Ricorderò sempre questa donna alta, chiusa in un vestito di velluto granato, che le dava maggior risalto; lo sguardo talora assente, che pareva piegare sotto il peso della sovranità, ed a cui era serbato un fato così tragico.

     Lavorando alla Croce Rossa, non avevo interrotto i miei studi all’Istituto. Anzi fra il 1906-1907 il prof. Podvysozkij mi volle collaboratore in alcune sue ricerche istologiche, frutto delle quali fu un lavoro pubblicato insieme.

     Ma proprio quegli anni traversai un periodo di forte depressione morale, alla quale contribuirono non poche disgrazie che si abbatterono su di me: la grave malattia di uno dei miei fratelli, la morte dei genitori, la morte subitanea del primo bambino; e, non ultima, la libera docenza in Patologia Generale venutami meno a Napoli, e sulla quale io contavo molto per un ritorno in Italia. Fu un periodo assai triste; decaddi anche fisicamente, fino al punto d’aver disgusto perfino del lavoro scientifico che abbandonai per vari mesi.

     L’estate del 1908 la famiglia era a villeggiare in Finlandia. Io ero rimasto a Pietroburgo per seguire tanto per distrarmi, ed occupare in qualche modo il mio tempo, i corsi estivi di batteriologia all’Istituto.

Fosse l’esser solo, o il non aver vicino i bambini, un giorno mi sentivo più triste del solito; e tornando a casa dall’Istituto, ripensavo con amarezza alla mia vita, tanto diversa da quella sognata. A casa trovai un biglietto di un mio conoscente dell’Istituto. Mi scriveva che il direttore del Servizio Antirabbico desiderava parlarmi di urgenza, e mi pregava di passar da lui.

     Conoscevo poco il direttore del Servizio Antirab¬bico.

    Una volta mi aveva chiesto di tradurgli un lavoro italiano sulla rabbia; credei si trattasse della stessa cosa, però almanaccai molto intorno al laconico biglietto. Il giorno dopo ero da lui. Lo incontrai proprio all’ingresso dell’Istituto, e lì, quasi senza preamboli, mi propose il posto di aiuto nella sua sezione. Alla obiezione, che gli mossi, di non essere suddito russo e non avere il diploma russo, rispose che lo sapeva: che la prima non era una difficoltà grave, e che, per la seconda, invece del diploma vi erano i miei lavori.

     Aggiunse che da un pezzo desiderava di avermi da lui e non voleva lasciar passare l’occasione, allora presentatasi, di potermi prendere; che ne aveva parlato pure al direttore dell’Istituto, e questi si era mostrato favorevole; ed altro ancora perché accettassi. Accettai, e dopo qualche giorno entrai al Servizio Antirabbico, e lasciai la sezione di Patologia Generale.

     L’inverno seguente, il posto, da temporaneo, divenne definitivo. Entravo in tal modo a far parte dell’Istituto, dove non mi fu difficile percorrere quella carriera scientifica che era in cima dei miei desideri ed alla quale avevo ormai rinunziato.

     Molte volte tornai poi con la mente nell’estate del 1908, alle inattese circostanze di quei giorni; agli incontri imprevisti, né cercati; al tenue filo ordito senza mio concorso, che mi apriva la strada proprio quando tutte le vie sembravano chiuse. E mi è parso sempre di ravvisarvi quel raggio della Provvidenza, che arriva a noi quando le forze pare stiano per cedere, le difficoltà crescono intorno, e fin la speranza sembra abbandonarci.

5. IL LAVORO AL SERVIZIO ANTIRABBICO.

I MIEI NUOVI LAVORI FRA IL 1908 E IL 1914.

I MIEI RIPOSI. I VIAGGI

     Ho già parlato dell’Istituto; quel che però non ho detto, è che la culla, l’origine di esso fu proprio il Servizio Antirabbico.

     II 1885 due ufficiali di cavalleria della Guardia Imperiale erano morsicati a Pietroburgo da un cane arrabbiato. Il principe d’Oldenburgo, che era il comandante del reggimento, li inviò, a sue spese, a Parigi, per seguire il trattamento contro la rabbia, che il Pasteur, ”non senza trepidazione”, cominciava ad applicare all’uomo. Coi morsicati, mandò pure un ufficiale medico ed il veterinario del reggimento, perché apprendessero il metodo di cura del Pasteur, oggetto di appassionate discussioni, e vivo interessamento, anche fuori del campo scientifico. I medici tornarono da Parigi con poche nozioni teoriche; ma con un più prezioso carico: due conigli inoculati, dallo stesso Pasteur, di virus fisso. Con essi cominciarono a lavorare; ed un anno dopo, in un modesto locale dell’infermeria del reggimento, si apriva la prima stazione antirabbica russa. Ma il lavoro è contagioso; le idee scientifiche pure, specie fra giovani; ed ecco che, in quell’embrione di laboratorio, mentre il dottor Kraiuschkin studiava la rabbia, un altro ufficiale medico, lo Sperk, che fu poi uno dei maggiori sifilodologi russi, iniziava lo studio sperimentale della sifilide; ed il veterinario, Helmann, quello della morva. La strettezza però e l’insufficienza dei locali, da una parte; e, dall’altra, la tecnica, i metodi primitivi, e la ancora scarsa conoscenza che allora si aveva delle malattie infettive, in genere, rendevano il lavoro difficoltoso, e le ricerche non scevre di pericoli. Un assistente di Helmann si contagiò di morva nel corso degli esperimenti e morì: prima vittima della scienza dell’Istituto di Medicina Sperimentale, non ancor sorto; come l’ultima, fu il Vischnikevitch, direttore del laboratorio antipestoso. Il principe d’Oldenburgo, che prendeva interesse alle ricerche, le seguiva assiduamente, comprese che, per un lavoro proficuo, il quale non fosse, d’altronde, un pericolo continuo, per coloro che vi si erano dedicati, occorreva assai più che le due modeste stanzette, nelle quali lavoravano già troppe persone; e, mecenate e munifico, acquistò, di suo, una villa col terreno alla via Lopuchinskaja, su una delle isole della Neva. Nel tempo stesso, costituì un comitato, col fisiologo Pàvlov alla testa, per la fondazione in Russia di un istituto di Medicina, dedicato sia alle ricerche scientifiche, che allo studio dei problemi pratici, e delle misure di profilassi contro le malattie infettive degli uomini e degli animali.

     Cinque anni dopo, nel dicembre del 1890, si inauguravano un Laboratorio di Fisiologia, uno di Anatomia Patologica, il Servizio Antirabbico, un gabinetto di Batteriologia Medica. Fra il 1891 e il 1892, sorsero gli edifizi e le sezioni di Microbiologia, di Chimica Biologica, di Patologia Generale; più tardi i laboratori per la produzione del siero antidifterico e della malleina. Un vecchio forte, su un isolotto allo sbocco della Neva, fu adibito al laboratorio per lo studio della peste e la produzione del siero antipestoso. L’Istituto di Medicina Sperimentale, che lo Zar permise si fregiasse del titolo di imperiale, era completo, e quale io lo trovai il 1900.

     Nel giro di pochi anni acquistò importanza gran¬dissima nel paese, e fama fuori, grazie alle ricerche originali di Pàvlov, Néncki, Vinogràdskij, Lukiànov.

     Le spedizioni scientifiche all’interno, volute dal fondatore, iniziarono l’attività pratica dell’Istituto, con lo studio e la profilassi delle malattie infettive endemiche lungo il Volga: minaccia continua, non solo per la Russia, ma per l’Europa; e che, d’allora, cessarono di esserlo. Il 1908 l’Istituto poteva far fronte rapida-mente all’epidemia di colera scoppiata a Pietroburgo, circoscriverla, e domarla in qualche settimana. Focolai endemici di peste dei rosicanti, nelle steppe del Volga e del Caspio, furono snidati, studiati, distrutti dalle spedizioni dirette da Zàbolotnyj, con l’aiuto di un personale sperimentatissimo di assistenti, studentesse, suore, infermieri, che egli si era formato, e lo seguiva sempre e dovunque. Malattie epidemiche del bestiame, che prima infierivano e distruggevano questa ricchezza del paese, furono riconosciute e debellate.

     Il servizio Antirabbico, oltre ad essere il primo, come ho detto, fu e rimase anche il maggiore della Russia; e, come l’Istituto Pasteur in Francia, fu il centro, donde ebbero origine gli altri istituti congeneri sorti nella Russia centrale, lungo il Volga, fin nella Siberia.

     Con tutto ciò, il 1908, aveva ancora una circoscrizione come mezza Italia, che comprendeva: quasi tutto il nord della Russia fino ad Arcangelo, la Carelia e la Finlandia, le province baltiche d’allora e il litorale del golfo di Finlandia, la Russia Bianca, l’interno fino agli Urali. E vi era poi Pietroburgo con circa tre milioni d’abitanti. Da tutta questa zona, affluivano giornalmente al servizio i morsicati dai più diversi animali, per la cura antirabbica.

     Appartenevano alle più differenti classi sociali, alle più diverse nazionalità, ai più diversi gruppi etnici della città e delle campagne. Vi erano russi del centro, bianco-russi, lituani, polacchi, estoni, lettoni, finlandesi, careliani; capitarono perfino degli eschimesi. Vi erano signori e contadini; alti funzionari e gente minuta; grandi dame e operaie, perfino membri della famiglia imperiale; in media, un centinaio al giorno circa.

     Il trattamento durava due o tre settimane, secondo i casi; e durante questo tempo, i morsicati, che venivano da lontano, erano ricoverati nella clinica annessa al Servizio Antirabbico. Quando a questo avrò aggiunto che non meno di un centinaio di persone al giorno seguivano la cura; ed avrò ricordato la familiarità, che si stabilisce subito fra medico e paziente, specie quando questo è trattato bene; ed i pazienti del Servizio Antirabbico erano trattati benissimo ed en¬travano subito in confidenza e parlavano facilmente; si comprenderà quale osservatorio sia stato per me, per più di un decennio, il mio posto; e come io abbia visto e saputo lì della Russia uomini, cose, fatti, assai più che se non fossi andato io stesso a cercarli o studiarli.

     Nessuno sapeva ancora, per dirne una, della fatale malattia dello Zaveric’, ed al setvizio già se ne era informati giorno per giorno; si sapeva delle ansie della madre, delle ricadute, della comparsa di Rasputin, allor che i medici disperarono.

     E così di tante altre cose: dal piccolo e grande pettegolezzo dei circoli di corte, ai fatti più seri della vita pubblica e della politica: oggetto talora di commenti o riflessioni fra colleghi nei brevissimi momenti di riposo. Poiché invero il lavoro giornaliero non era scarso, fra la ricezione dei nuovi venuti, la preparazione del vaccino, le iniezioni, l’esame degli animali sospetti, le autopsie, la diagnosi istologica della rabbia, la vaccinazione preventiva degli animali morsicati.

     Al nuovo lavoro mi posi con impegno, per il largo campo di studi che offriva, ai quali mi diedi subito, e proseguii ininterrottamente, per oltre un decennio. Du¬rante il quale, con non minore interesse, mi adoperai a che il movimento scientifico russo fosse più e meglio conosciuto in Italia e ne venisse apprezzata l’importanza da una parte, e dall’altra, a che il movimento italiano fosse seguito in Russia con non minore interesse. Mi furono in questa opera validi collaboratori i medici russi che erano stati in Italia, qualcuno pure a compiervi gli studi di medicina, o a perfezionarvisi, i quali mi si strinsero intorno in questa duplice propaganda. Fu così che alla Esposizione di Igiene di Pietroburgo del 1913, ottenni che vi figurasse pure l’Italia col chinino dello Stato, la profilassi antimalarica, la legislazione sanitaria del lavoro, l’igiene della scuola; per cui le furono conferiti due dei maggiori premi assegnati agli Stati esteri per le misure di profilassi nazionale contro le malattie infettive.

     Il posto avuto all’Istituto, mi fece sentire la necessità di mettermi in regola con la legge russa pel riconoscimento della mia laurea. Nonostante le parole e le assicurazioni del direttore, io sentivo, proprio per esse, l’obbligo morale di corrispondervi da parte mia, e non esser da meno degli altri aiuti dell’Istituto. Mi spingeva ancora il fatto che, partecipando ormai alla vita della colonia, non potevo più sottrarmi all’esercizio professionale fra i connazionali. E mi sarei trovato in disagio, a farlo senza averne il diritto, sia perché la legge russa colpiva l’esercizio abusivo della medicina; sia perché, anche a voler limitarlo ai connazionali, non per questo sarebbe stato meno illegale. E d’altra parte, rifare tutti gli esami all’Accademia di Medicina, come prescriveva la legge russa: tornare studente in Russia, dopo esserlo stato assai prima, e non indegna¬mente nel mio paese, non me la sentivo. In questo, venni a conoscenza di una vecchia disposizione di legge, per cui poteva venir concesso a persone fornite di diploma straniero, ma che avessero titoli di carriera o pubblicazioni scientifiche, il riconoscimento del diploma, mediante una prova orale, un colloquium come si chiamava, sostenuto dinanzi al Consiglio Superiore di Sanità. Ma la cosa non era facile, perché il Consiglio di Sanità rifiutava sistematicamente la concessione di una simile prova, per prevenzioni e diffidenza verso quelli che ne facevano richiesta, quasi sempre ebrei o ebree laureati in Svizzera. Vinsi tuttavia le prevenzioni e le difficoltà; presentai curriculum vitae e lavori; e finii per far valere per me la disposizione di legge. L’8 marzo del 1910 sostenevo il colloquio; e mi veniva convalidato, per l’esercizio professionale in Russia, il diploma italiano; ero dottore in medicina anche in Russia.

     Fu questo un più forte incentivo al lavoro: il lavoro intenso e molteplice di quegli anni, che era per me fonte di vera gioia. Ho amato il lavoro; ho sempre stimato che dovesse rappresentare il corrispettivo che ognuno è tenuto a dare in cambio del bene e della bellezza della vita, che ritengo bene e bellezza sommi. Ma quegli anni provai la passione del lavoro come tale, per l’intimo piacere, che da esso mi veniva, di prender parte, sia pur modestamente, alla somma del sano, del produttivo lavoro umano. Le forze fisiche attingevano sempre nuova energia dal morale elevato; non sentivo la stanchezza; non mancai mai al Servizio Antirabbico, che era aperto tutti i giorni, anche le maggiori feste, come il Natale e la Pasqua, nelle quali, non essendovi per la città né carrozze né tranvai, mi toccava di fare a piedi un lungo tragitto per arrivarvi; non venni mai meno ai doveri che mi ero imposto.

     L’Istituto dava un mese e mezzo di riposo all’anno, che io passavo quasi sempre in Italia, fra Montevergine, con D. Amato, la casa paterna coi fratelli; o Castellamare di Stabia, dove ero sicuro di incontrare vecchi colleghi di studi, legati come me alle acque italiane da antica consuetudine. I ritorni in Russia, però, non erano privi di malinconia; e ricordo la stretta al cuore che provavo sempre nell’udire la parola ultima, gridata, nel suo gergo abituale, dal conduttore del treno, alla stazione italiana di confine. Ultima del mio paese; e quando ritornerò, e mi apparirà la prima, mi dicevo?

     In uno di questi ritorni in Russia, per un ritardo del treno nella traversata dell’Appennino toscano, dovetti rimanere una giornata intera alla stazione di Pontebba. Non dimenticherò mai quella bellissima giornata di settembre passata nel pittoresco e recondito angolo del nostro confine di allora, in piena aria, sotto un cielo di azzurro terso, fra gli effluvi dei pini e degli abeti delle foreste circostanti, in una pace assoluta, rotta soltanto dal mormorio delle acque del Fella che correvano verso l’Italia. Più volte quel giorno rifeci il viaggio fra l’Austria e l’Italia, ripassando il breve ponte sulla Pontebbana, il piccolo affluente del Fella, che in quel punto segnava il confine fra i due paesi. Ad un capo del ponte, lo scudo di Savoia ed il tricolore, all’altro l’aquila bicipite ed il giallo nero; da una parte la grande e bella stazione italiana di Pontebba coi vividi stemmi delle nostre province, dall’altra la stazione austriaca di Pontafel, grigia, monotona, e, dietro di essa, in un piccolo giardino, un mezzo busto di Francesco Giuseppe, che appariva ancor più piccolo, lassù, fra i monti alti che gli si serravano intorno. Quanti pensieri dinanzi a quella piccola statua; e come più superba sorgeva davanti alla mente la statua di Dante a Trento. Che ne sarà di essa, pensavo, se un giorno faremo la guerra? Ed allora ne eravamo tanto lontani! E non la bellezza del panorama, né l’incanto del paesaggio riuscivano a liberarmi dalla visione di una povera piccola statua in frantumi. La stessa idea e la stessa domanda mi tornavano alla stazione di Gràniza, la frontiera russa piantata allora nel cuore della Polonia, dinanzi alle icòne ed alle immagini orto¬dosse: che ne sarà di questa religione imposta qui con la forza e la gendarmeria?…

     Quando non potevo andare in Italia, me ne andavo per l’estate in Finlandia, o viaggiavo per la Russia.

     La Finlandia fu uno dei primi paesi visitati; ne riportai una profonda impressione e il desiderio di tornarvi. E vi tornai spesso, per qualche giorno di riposo, nei piccoli periodi feriali. In tre ore si andava da Pietroburgo a Vyborg, linda e graziosa cittadina sul golfo di Finlandia e si aveva l’impressione di tornare davvero in Europa. Ma, più che le città, una più bella dell’altra, la cultura e la civiltà degli abitanti erano quelle che rendevano la permanenza nel paese quanto mai gradevole, senza dire delle bellezze naturali, che esercitavano un fascino grandissimo. La maestà tranquilla e malinconica dei boschi immoti; i reconditi laghi nascosti nelle foreste, o distesi a specchio di erte rupi di granito; le tinte diafane del cielo; e quei tramonti, che accendevano nei boschi e nelle rocce le più straordinarie tinte: dal rosso dei tronchi, al viola delle chiome dei pini e degli abeti, o delle cime dei colli, che sfumavano nell’azzurro tenue del cielo: erano bellezze tanto diverse da quelle dell’Italia nostra, ma che pure parlavano all’anima un linguaggio non meno suggestivo. E i paesaggi invernali? Ricordo la rapida d’Imatra d’inverno. Quella massa d’acqua in tumulto, che correva tra mille vortici, si gonfiava, ribolliva, infuriava, frangendosi contro le alte sponde di ghiaccio, o scavandovi antri e grotte azzurre: unica cosa viva in mezzo allo sterminato e fitto manto di neve, che tutto copriva ed uguagliava nel suo candore e nel suo silenzio, mi incatenava, e non riuscivo a staccarmene ogni volta che vi tornavo.

     I viaggi per la Russia poi, mi mettevano sotto gli occhi, in certa guisa, tutte le questioni politiche ed economiche del paese, attraverso osservazioni, rilievi, minimi segni, o particolari, insignificanti in apparenza, ma indici, sempre, di più profondi fatti e importanti fenomeni.

     Vidi Pskòv, coi suoi ricordi di libero comune; e i vecchi monasteri dei dintorni, ricchi di opere di arte russa, ma su cui erano evidenti i segni della nostra più grande arte del Rinascimento. Vidi Mosca: la città sacra della Russia, la « matuschka » Mosca; la città delle mura bianche fra l’Europa e l’Asia, antemurale dell’occidente e nel tempo stesso estrema propaggine dell’oriente, per dove sarei passato più tardi in ben altre condizioni. Visitai Almàsnaja nel bacino del Donéz, fervida in lavoro, anche fra le più fitte nevi invernali, che, di notte coi numerosi altiforni accesi, somigliava ad un arcipelago di vulcani; ed i cui mina¬tori avevano, già dal 1904, una assistenza economica, sanitaria, culturale modello, tale che gli operai delle nostre solfatare, a quel tempo, neppure avrebbero sognato.

     Vidi Khàrkov, la immensa borgata-bazar, dove nord, sud ed est della Russia si incontravano pei loro scambi. E poi: i latifondi della Russia del centro; i feudi dei ricchi proprietari terrieri; le piccole industrie dell’artigianato rurale; le città costiere del golfo di Finlandia, così poco russe; e la Polonia e la Lituania oppresse e disprezzate… genti e popoli, come tutti gli altri allogeni, che la Russia, non che fondere, neppur seppe unire con quel cemento economico che pure teneva insieme la monarchia austro-ungarica.

     Eppure, ogni nuovo viaggio per la Russia era, per me, una nuova conferma che la Russia, lungi dal trovarsi in uno stato di immobilità, progrediva, fosse pur lentamente; in molte cose anzi, non la cedeva a più avanzati paesi. Evoluzione lenta, specie delle sane forze della campagna, sia pure attravero il contrasto con la città; ma continua e sensibile da per tutto; di cui si avevano indizi e manifestazioni non trascurabili nelle opere di assistenza sociale, di elevazione civile di cultura del popolo delle campagne, promosse dagli Zemstvo e, non di rado, favorite dai più ricchi signori del posto. Evoluzione, di cui negli ultimi tempi si avevano segni e riflessi fin nel teatro imperiale di prosa, che aveva sempre conservato un certo suo carattere aulico, e metteva allora in scena drammi come « Holòpy » e « Bolsciój Celoviék », in cui erano presentati problemi, uomini e fatti del giorno.

     Ma il movimento era lento; mentre gli avvenimenti politici, che mettevano capo alle città, incalzavano; e lo sorpassarono e lo travolsero.

6. LA VITA IN RUSSIA

FRA IL 1908 E IL 1914

La vita russa fra il 1908 e il 1914, a prima vista, pareva veramente giustificare le idee e i giudizi, che correvano su di essa. A chi poi veniva fresco fresco dallTtalia di quel tempo, casalinga, ritirata, modesta di risorse e di mezzi; dalle nostre città del silenzio (solo Napoli aveva fama di città rumorosa), la vita russa dava le vertigini. E Pietroburgo valeva Mosca; e Mosca Kharkov, Odessa; poiché le città, e non le grandi soltanto, erano davvero la Russia, specie d’in-verno. Teatri, ricevimenti, balli, concerti; fiere di beneficenza, esposizioni di ogni genere; feste ad ogni occasione e ricorrenza, per viventi e defunti, che finivano in pranzi straordinari; ritrovi popolari sempre pieni di gente; sfarzo, viva animazione, senso di benessere generale, sciupìo dovunque. Un gran festino insomma, che non poteva non colpire. E le descrizioni non manca¬no in corrispondenze, articoli di giornali, libri del tempo; e non solamente di osservatori di passaggio o superficiali.

Veniva poi l’ospitalità russa, la proverbiale ospitalità dei russi. Il russo riceveva assai meno e più di rado nella « gostìnnaja », la sala di ricevimento, assai più nella « stolóvaja »: la accogliente sala da pranzo, liberamente aperta all’amico, all’ospite, allo straniero. Tè e pane non si negano a nessuno, si ripeteva dovunque in Russia; ed il pane poi, a differenza di tutti gli altri paesi, neppur si pagava nei ristoranti.

     E, con l’ospitalità, la donna russa, la quale colpiva per l’intelligenza, lo spirito, la padronanza di sè, il tratto disinvolto, anche fra estranei, o con l’ospite nuovo arrivato. Su di che non era poi difficile ricamare di fantasia, specie se venivano in aiuto tante eroine della letteratura russa.

     E poi le grandi feste religiose, del Natale e dell’Epifania all’inizio, e della Pasqua alla fine dell’anno mondano, non limitate alle funzioni liturgiche, fossero pur solenni; ma caratterizzate dalla parte, che ad esse prendeva tutto il popolo, con usi e consuetudini a noi sconosciuti. Ed infine, come colore di contrasto, il contadino russo: il solito «mugik » mezzo uomo e mezzo bestia da soma, quasi sempre abbrutito dalla vodka, ultimo ingrediente del colore locale. Ed il quadro della vita russa era completo. E veramente, che si poteva pretendere dall’osservatore straniero, se vi erano, a confermarlo nella giustezza delle sue osservazioni, le testimonianze di tanti scrittori russi, che gli davano ragione?

     Era dunque la vita delle città russe, allegra vita di piaceri e frivolezze in alto, ed in basso di infingardaggine ed abbrutimento?

     Sì, vi era anche questo; ma non questo solo, né da per tutto.

     Ferveva in quegli anni in Russia una intensa attività di lavoro, dalle opere manuali al lavoro intellettuale, quale non si sarebbe immaginata. Bisogna solo saper vedere.

     Alla «sciròkaja màsleniza», il carnevale dei «bliny» e del caviale, con cui si chiudeva la grande vita invernale dei teatri e delle feste, seguivano ogni anno esposizioni di ogni specie. Più di tutte, mi attraevano le mostre dell’artigianato, dei «kustary»; e vi tornavo sempre con cresciuto interesse. L’industriosità e il senso d’arte del tanto vilipeso contadino russo, si maifestavano in mille lavori, che avevano ogni anno qualche cosa di nuovo. Era una ricca produzione, che andava dagli oggetti casalinghi di prima necessità, agli attrezzi di lavoro; talvolta erano macchine costruite con mezzi primitivi, ma con una ingegnosità sorpren-dente in gente, che vive in villaggi lontani dai centri, da scuole o da officine. Ma gli oggetti di ornamento delle case, e delle persone, erano quelli in cui si sbizzarrivano lo spirito e la tradizione locale. Per me, queste esposizioni, avevano un’importanza etnografica di gran lunga superiori alle ragioni contingenti delle mostre e della vendita dei prodotti. Quei lavori di legno, di cuoio, di metallo; quei tessuti di cotone e di seta; quei merletti; quegli oggetti minuti di pietra, richiamavano alla mente, attraverso, e al di là delle distanze e delle età, identici prodotti di quel vasto oriente, che confluiva, per tanti tenuissimi rivoli insospettati ed ignorati, verso la civiltà occidentale in quell’immenso crogiolo che era la Russia.

     Sì, lavorava il povero « paesano » russo nelle veglie delle lunghe notti invernali nei sobborghi, nei villaggi, nelle lontane « isby » delle campagne, nelle « hàty » ucraine; e si abbrutiva assai meno di vodka, di quel che non apparisse da romanzi o racconti di scrittori russi, che di vodka ne sapevano forse non meno dei loro eroi. Ed era anche pulito, perché il sabato e la vigilia delle feste andava immancabilmente al bagno: il sano bagno russo, dove lasciava ogni sozzura, per presentarsi più degnamente il giorno dopo al tempio del Signore.

     E ferveva il lavoro negli istituti superiori, nei centri scientifici, nelle accademie: lavoro produttivo, condotto con una probità esemplare. Le riunioni scientifiche, frequenti e frequentatissime, benché si tenessero sempre di sera e durassero fino a notte tarda, non erano vacue accademie; ma focolai di discussioni feconde, di dibattiti, da cui scattava sovente la scintilla della nuova scoperta. Niente apriorismi, niente cattedratiche degnazioni dei più vecchi pei più giovani; ma incoraggiamento, sostegno, vero spirito di collegialità verso i giovani, uomini e donne, che accorrevano alle riunioni veramente assetati di sapere. Le idee scambiate, o spuntate, nelle discussioni, diventavano senza gelosie, pregiudizi o scrupoli di priorità, oggetto di studio, sovente di collaborazione scientifica nelle ricerche, da cui venivan fuori lavori completi, rimasti fondamentali nei più diversi campi del sapere. Basterebbe scorrere gli atti della Accademia delle Scienze di quegli anni per convincersene.

Non vi era un paese che mandasse ogni anno tanti giovani all’estero, per corsi di perfezionamento nei più diversi rami dello scibile, sia nel campo teorico che nel campo pratico e delle scienze applicate, come la Russia.

   Ma non bastava ciò. Accanto a quelli che partivano per l’occidente, vi erano quelli che partivano per l’oriente. L’Accademia delle Scienze, l’Istituto delle Miniere, per non ricordare che i maggiori, inviavano ogni estate al di là degli Urali spedizioni, che si spingevano, di anno in anno, sempre più ad oriente e settentrione della Siberia, per ricerche e studi di geografia, geologia, etnografia, linguistica, riportandone ogni volta materiali e dati importantissimi. Furono questi i pionieri delle più tarde spedizioni artiche; ed in ogni modo della messa in valore della Siberia, che, gli anni ai quali si riferiscono queste note, passava ancora, per i più, per un sepolcro di vivi.

   Lungo la Transiberiana, la grande linea magistrale dell’Asia del nord fra gli Urali ed il Pacifico, che univa l’Europa con l’Estremo Oriente, costruita proprio in regime zarista, e sia pure per ragioni commerciali o peggio, sorgevano non caserme soltanto; ma centri agricoli, industriali, culturali. Da essa si staccavano ogni anno, si può dire, sempre nuove branche che si spingevano a nord verso l’Artide, e a sud verso l’Asia centrale, allargandone il bacino, la sfera economica. Occorre ricordare le materie prime e i prodotti agricoli e industriali della Siberia, che sempre più vari e abbondanti affluivano sui mercati della Russia, o andavano all’estero? E le università di Omsk e Tomsk; gli istituti superiori di Irkutsk, Celjàbinsk, Vladivostok e di tutte le altre città della Siberia, ognuno specializzato nelle materie, che avevano immediata attinenza con le industrie, o i bisogni agricoli della zona in cui si trovavano? E le scuole, gli ospedali, le filiali della Croce Rossa in continuo aumento?

     Lavoro, anche questo, i cui frutti si veggono ora e sembrano cosa di oggi e tanto naturale!

     Con la Pasqua, il lavoro più intenso del periodo invernale cessava. Bisogno di riposo, e di aria libera, che tutti sentivano, o invito del tumultuoso risveglio della primavera del nord, non saprei dire. Ma appena passate le feste pasquali, tra l’aprile e il maggio, cominciava l’esodo della città pei luoghi di villeggiatura, vicini o lontani. Il litorale del golfo di Finlandia, del Baltico, della Crimea; le ville del suburbio che si prendevano a fitto per l’estate; le cittadine dell’interno affondate nel verde; i villaggi, le tenute, i latifondi, don¬de spesso le famiglie traevano il nome, si popolavano; e lì, fra il maggio e l’agosto, si svolgeva la vita d’estate, la vita della campagna dei russi.

Si potrebbero scrivere pagine sull’incanto del paesaggio nordico d’estate; sulla Finlandia; sulla bellezza e la pace solenne delle immense distese di boschi, interrotte solo dal lento e tortuoso corso di fiumi che avevano dovunque un nome solo: rìekà, il fiume; sulla vita dei contadini russi, finlandesi, estoni; sul lavoro dei campi; e soprattutto sulla donna russa. Perché veramente l’estate era il regno di lei, oserei dire assai più dell’inverno; la cornice della campagna le si confaceva meglio delle ristrette luci delle sale o dei teatri. Non senza ragione le eroine di tanti romanzi russi so¬no collocate sullo sfondo della campagna russa: ri¬sonanza o assonanza psicologica non saprei. Lì, nel vecchio palazzo, il dvoréz, di quello stile adattato alle esigenze del clima, essa riceveva gli ospiti che arrivavano di lontano nelle troiki sonanti; lì veramente appariva cuore e testa della casa, hosiaika nel vero senso: padrona e massaia insieme. Con tale nome, infatti, la si poteva sentir chiamare in campagna l’estate, assai più che in città l’inverno, nella intimità della fami-glia, o nel circolo degli ospiti; e non solo nel ceto della borghesia o del commercio, dove la cosa era abituale; ma anche nelle classi alte, specialmente in quella bonaria nobiltà campagnola così ricca di tradizioni. Lì la donna russa, che nella città, sentendosi spesso oggetto di mal celata curiosità da parte degli occidentali, esagerava alcune delle sue caratteristiche; o fìngeva, in buona fede talvolta, e tal’altra per ischerzo o affettazione, fino ad apparire diversa da quale era nel fondo, riprendeva la fisionomia vera : quella innata semplicità, mal compresa poi e battezzata di eccentricità e peggio. Lì si poteva veramente vedere di quanto essa, per intelligenza, carattere ed animo, superasse decisamente gli uomini non solo; ma, non di rado, la donna occidentale, per lo meno le nostre donne, fra il 1902 e il 1912.

     Ma tralascio tutto questo, e quanto mi torna alla mente sulla economia rurale, sulle industrie agricole in continuo progresso, sull’impulso che ai vari rami delle industrie dei kustary davano i signori del posto (la principessa Teniscev aveva ad Orel una rinomata scuola di ricamo) per dir solo qualche cosa del latifondo. E non per ripetere che il latifondo era e sarà una necessità economica della Russia, tanto vero che i bolscevichi si sono dati di tutta lena a ricostruirlo di su le rovine e coi ruderi del passato; ma per dire quale esso era, in molti casi, a differenza di tutte le leggende che vi si crearono sopra. Il latifondo? Uno dei più grandi malanni della Russia: una delle cause anzi della sua rovina. Una distesa sterminata di terra, in gran parte abbandonata o incolta, grande come la pianura padana o una provincia dellItalia; contadini rozzi, tenuti come servi o schiavi, sfruttati, affamati, in uno stato di assoluta ignoranza. Nei palazzi, bagordi di padroni oziosi e viziosi, scialacquatori e indolenti; nel migliore dei casi, degli Oblòmov e nulla più. E, fra i padroni e i contadini, l’amministratore senza scrupoli, ebreo o tedesco, speculatore, ladro. Ecco suppergiù il quadro del latifondo, nelle corrispondenze di quel tempo della Russia. Ebbene, il contadino del latifondo forse si sarebbe meravigliato a sentir di sé quel che se ne diceva, o vedersi rappresentato a quel modo. Il signore, piccolo e grande proprietario che fosse, non era più dissoluto e scioperato, quando lo era, di quel che non fossero i signori o signorotti di tutti i paesi. L’amministratore fedele o infedele, faceva quel suo mestiere, di cui si parla anche nel Vangelo a proposito di Mammona. È, che il latifondo, fosse la piccola tenuta, piccola in Russia, si intende, del proprietario terriero, o la grande tenuta delle antiche famiglie dell’aristocrazia, che si estendeva per centinaia di verste, a meno che non fosse proprio arena arida, palude o torbiera, era il più delle volte ben diverso da come se ne scriveva da noi. Ne vidi io stesso nella Russia del centro; di molti altri, di più grande estensione, ebbi notizie  e dati sicuri da persone del posto e da colleghi dell’istituto che vi avevano mansioni sanitarie. Amministrazione saggia di signori avveduti; cultura intensa, e razionale sfruttamento del terreno per aumentarne il rendimento, o migliorare sempre più la produzione; impianti modello e macchine perfezionate per la lavorazione delle materie prime o dei raccolti; prodotti della lavorazione perfetti, da far, di anno in anno, concorrenza sempre maggiore, per qualità e prezzo, ai congeneri stranieri; esportazione all’estero in continuo aumento. Questo lavoro, dalla coltivazione della terra, agli ultimi più fini prodotti, era affidato a centinaia di contadini ed operai che vivevano nel latifondo, non abbandonati a se stessi, ma circondati da quelle opere di assistenza e quelle cure

presentate oggi quale frutto attuale della previdenza e dei provvedimenti sociali. Nel latifondo vi erano chiese, scuole e sale di lettura con biblioteche circolanti per i grandi; ospedali con medici, infermiere, posti di pronto soccorso, bagni; nidi per i piccini e i lattanti durante il tempo che le madri erano al lavoro, specie nel periodo del raccolto; veterinari per le cure al bestiame. Senza dire che ogni contadino od operaio aveva non solo la sua casetta; ma un pezzo di terra intorno, che coltivava per sé ad orto o giardino. Così era a Kàrlovka in Ucraina dai Meklenburg-Strelitz; così era dagli Orlòv-Davydov a Voskresénsk in Siberia; dagli Oldenburg a Vorónez; dai Teniscev ad Orel; dai Polóvzev a Kaluga…

     Ed i minori proprietari non erano da meno, e gareggiavano con i maggiori. Ed i contadini e gli operai del latifondo, non sempre nutrivano pel signore il sordo rancore e l’odio degli oppressi o degli schiavi. Prima che il socialismo umanitario, per redimerli, non li avesse ricondotti allo stato belluino, sentirono pure la gratitudine e l’attaccamento, se non l’amore, pel signore, più sovente padre e mecenate che padrone. Quanti figli di contadini ed operai, grazie al mecenatismo dei signori, non fecero poi lunga strada nelle libere professioni, nelle scienze, nelle armi! Il fisiologo Pav- lov, il generale Alexeiev e quanti altri ancora…

     Ma sul latifondo, come su tante altre cose russe, si stendeva l’ombra fosca del regime zarista, che non trovò grazia in vita, né trova ancora giustizia, dopo morto, nella pubblica opinione, e nella storia. Tutto cattivo allora; anche quel non poco buono, che avrebbe fatto onore a qualsiasi governo, ieri ed oggi.

     Eppure, la Russia di quegli anni, chi l’avesse os-

servata senza passione e preconcetti; ma così quale era, avrebbe dovuto riconoscere che progrediva a grandi passi. Non tutto quel che allora vi si faceva era cattivo. Lo era sol per l’odio che si aveva per il regime e la dinastia; odio, che, deformando, svisando, tacendo fatti e cose, creò e mantenne sulla Russia errori e leggende che forse non si sfateranno mai.

     La polizia russa, ad esempio, quali ricordi di orrore al solo nominarla? Ebbene, si è mai detto, che ad ogni commissariato di polizia della città erano annesse delle opere assistenziali come quei rodìlnye priuty. semplici, ma puliti ricoveri per partorienti, dove queste, con la spesa di cinque rubli, tredici lire di nostra moneta di allora, erano ricoverate per una settimana, ed avevano completa assistenza ostetrica, ed un corredino per neonato per giunta? La rivoluzione li bruciò tutti. I bolscevichi li hanno riedificati. E, come queste, tante e tante cose di quegli anni che, risorte o riesumate, passano per opera degli uomini di oggi.

7. GLI ITALIANI DI PIETROBURGO.

LA COLONIA. GLI ALTRI

     Il 1908, cedendo a rinnovare esortazioni dell’Ambasciatore e del Console di partecipare alla vita della colo¬nia, entrai nella Società italiana di beneficenza. Dal 1910 fino alla guerra, vi tenni la carica di presidente. Ciò mi dette occasione di conoscer tutta la colonia, di cui la società di beneficenza era cuore e centro; e, spinto dalla curiosità, di risalire alla storia di essa; sì che, per l’Esposizione di Torino del 1911, potei scriverne delle brevi note, che ottennero perfino un premio.

     Le origini della colonia italiana di Pietroburgo, si può dire rimontino all’epoca della fondazione della città nel 1703. Il primo nucleo di essa infatti fu il gruppo di artisti, che, sotto Pietro il Grande, ed in maggior numero sotto Caterina II, contribuirono con l’ingegno e l’opera loro alla edificazione della nuova città. Erano la più parte architetti come il Trezzini, il Rastrelli, il Quarenghi, il Rossi, il Rusca, il Gilardi, il Rinaldi; scultori come il Bianchi, il Baratta, il Vitali; decoratori come il Martelli, il Gonzaga; pittori co¬me il Lampi, il de Rotari, il Grassi ed il Torelli, per non citare che i più noti. Ma intorno ad essi vi era una folla di minori artisti ed operai. L’Algarotti, che fu a Pietro-burgo nel 1739, scrive nelle sue lettere di avervi trovato un vecchio fabbricante di galere che Pietro il Grande aveva fatto venire apposta da Venezia.

     Il palazzo Ménscikov a Vasil’evskij Ostrov, che fu poi il I Corpo di Cadetti, fu il primo costruito in muratura a Pietroburgo nel 1710 per opera di architetti ed operai italiani; e, nonostante i successivi rimaneggiamenti, conservava ancora dopo due secoli il carattere delle costruzioni italiane dell’epoca.

     Un palazzo di stile italiano fu fatto costruire da Pietro il Grande nel 1711 per la figlia Anna sulla Fontànka; e dal Palazzo all’Italiana trassero il nome due vie delle adiacenze: la Màlaja e la Bolsciàja Italijanskaja ùliza, che si chiamarono così fino alla rivoluzione.

     E vennero poi il convento, la Laura di S. Alessandro Nevskij, la cattedrale dei Ss. Pietro e Paolo, quella di S. Isacco, il Palazzo d’inverno a Pietroburgo e quel¬lo d’Estate di Zàrskoie Selò; opere d’arte decorativa come l’ingresso, le erme, le statue del giardino d’Estate a Pietroburgo; le fontane e i giuochi d’acqua a Peterhof; le piazze, i parchi, i teatri. Tutto fu opera di architetti ed operai italiani. Ai quali, sotto Caterina II, fra il 1762 e il 1784, un nuovo, se non più forte contingente, venne ad aggiungersi coi maestri compositori, i direttori d’orchestra e gli artisti di teatro, am¬mirati, ricercati, accolti a corte.

     Fu quello il periodo d’oro della musica e del teatro italiano che da soli tenevano il campo in Russia. Furono direttori d’orchestra del teatro imperiale dell’Eremitaggio il Sarti, il Galuppi, il Paisiello, Cimarosa. Nelle feste per l’incoronazione di Elisabetta Petróvna era stata data ”La Clemenza di Tito” nel rifacimento russo, dovuto in parte al Lomonósov, dal titolo ”La Russia afflitta e riconsolata”; per l’incoronazione di Caterina II fu dato ”Il Mondo della Luna” del Goldoni musicato dal Paisiello.

     Gli artisti di canto, i ballerini, le ballerine, i deco¬ratori furono tutti italiani. Dalle scene dell’Eremitaggio e del piccolo Teatro di Corte, compositori, direttori di orchestra ed artisti passarono poi alle scene dei teatri pubblici; e da allora ebbe origine l’Opera Italiana che, con alterna fortuna, visse ancora fin verso gli ultimi decenni del secolo scorso, come teatro di corte.

     Non senza sorpresa ed emozione, nelle cronache del tempo di Pietro il Grande e Caterina II, si leggono tanti nomi di Italiani. Dai piani della città, alle decorazioni dei palazzi privati ed ai monumenti; dalla fondazione di istituti d’arte e quella d’istituti industriali, l’ingegno e l’opera degli italiani lasciarono orme indelebili in quella ”finestra sull’Europa” sognata da Pietro il Grande. E non in essa soltanto.

     Degli artisti dell’epoca di Pietro il Grande e Caterina, molti tornarono in Italia, dopo aver raccolto fortuna ed onori, di che la madre patria era stata sovente loro avara. Moltissimi altri però rimasero ad accrescere la accogliticcia popolazione della nuova metropoli. In nessun’altra città della Russia, difatti, è dato incontrare così gran numero di famiglie russe con cognomi italiani. Ma di queste, poche, col nome con¬servarono la lingua o il retaggio delle memorie patrie. La più parte assorbita dall’eterogeneo miscuglio della popolazione di Pietroburgo, in incessante aumento, d’italiano non ebbero più che il nome. Altre si estrusero. Così l’elemento italiano veniva a poco a poco ad esser sopraffatto; anche perché nuovi nuclei di altre nazionalità andavano sorgendo ed affermandosi nella nuova capitale. È vero che architetti come il Rossi ed il Cavos fin quasi alla prima metà del secolo XIX conservarono le pure tradizioni d’arte del secolo precedente; che ad acquarellisti come il Premazzi anche i critici russi riconoscevano una notevole influenza sulla scuola degli acquarellisti russi; ma erano questi ormai artisti isolati. Solo più tardi, mutate le condizioni po¬litiche dell’Italia, e sull’esempio di quanto si veniva facendo anche da altri gruppi di stranieri, si delineò una colonia italiana a Pietroburgo. L’Ambasciata, ormai italiana, ed il Consolato, ridestarono i sentimenti patri in quelli che, per la lunga dimora fuori i confini della patria, li avevano in oblio; la Società di beneficenza, fondata nel 1865, quando altri meriti non avesse avuto, ebbe quello grandissimo di coadiuvare Ambasciata e Consolato in tale opera, richiamando intor¬no a sé non solo gli italiani residenti a Pietroburgo, ma anche quanti vi erano di passaggio.                                                                                                                                                                                             

      La colonia italiana di Pietroburgo, negli anni di questi ricordi, non era numerosa; esigua anzi in confronto delle consorelle straniere; era però assai varia. Predominava l’elemento artistico; e, siccome gli artisti sono quelli che, come è facile intendere, finiscono per essere maggiormente conosciuti dal pubblico, sembrava che di essi soltanto fosse formata la colonia, come si soleva pure ripetere. Ma vi erano, con gli artisti, commercianti; e poi industriali, imprenditori di lavori, operai, impiegati, professionisti. E non mancavano i sonatori ambulanti ed i figurinai. Tutta l’Italia insomma, dalle terre allora irredente alla Sicilia. Vi era però fra tutti affiatamento, desiderio di aiuto scambievole, non spirito di regionalismo o campanilismi; non partiti; non troppe maldicenze infine, né cattive lingue,

benché non mancassero, come è naturale, occasioni, o materia per darvi alimento. Alla tradizionale e larga ospitalità russa, poi, di cui gli italiani fruivano senza abusare, essi rispondevano con sentimenti di rispetto, ma senza servilismo. Mettere in valore le proprie energie per mezzo del lavoro intelligente ed onesto, senza urtare la suscettibilità di chicchessia, si può affermare sia stata la linea di condotta costante degli italiani. Ed è questa non ultima ragione per cui la colonia italiana raccoglieva simpatie in tutte le classi sociali.

Inoltre, le prove quotidiane che i russi avevano della bontà del lavoro degli italiani, cominciavano a sfatare la leggenda che l’Italia non fosse che terra d’artisti; e che ogni italiano non avesse al proprio attivo che la musicalità della patria favella, e un innato senso d’arte. Nella capitale, meglio che altrove, accanto al sonatore girovago ed all’artista, talora pseudo o sedicente, il russo vedeva italiani che sapevano quel che volevano e che, con mire ben determinate, perse¬guivano uno scopo. Si andava così convincendo della somma di energie che, anche fuori il campo dell’arte, l’Italia poteva mettere in atto, e riconosceva pure che il prodotto italiano non era inferiore ad altri che vantavano il primato. A rafforzare tale convinzione, a raggiungere tal fine, bisogna dirlo, convergevano gli sforzi continui della colonia, ed in particolare dei trentini, gli irredenti, che tenevano ad affermare, in tutti i modi e con tutte le manifestazioni, i loro sentimenti italiani. Uniti intorno al giovine Daziaro, erede e continuatore del vecchio, un trentino venuto in Russia il 1827 a vendere e diffondere le sue stampe artistiche, in quel magazzino di quadri e oggetti d’arte all’angolo dell’Ammiragliato e della Prospettiva di Nevskij, che richiamava l’attenzione per la sua bellezza, avevano fatto di esso il cuore pulsante della colonia. Lì, fra le stampe e i quadri, nonostante le minacce e le rappresaglie dell’ambasciata e del consolato d’Austria si organizzavano le feste della colonia; lì si conservava gelosamente la bandiera d’Italia: simbolo, richiamo, ammonimento.

     Dopo il riposo estivo, e qui la colonia seguiva le consuetudini russe: chi andava in Italia, chi fuori Pietroburgo in villa; al principio dell’autunno, con la ripresa del lavoro, tutti gli italiani erano di ritorno; e la colonia ripigliava la sua vita, col banchetto del 20 settembre.

     La festa non aveva nulla di settario: era piuttosto una data opportuna per ricominciare l’anno coloniale, con una riunione; come la festa dello statuto, in giugno, serviva, in certo modo, a chiuderlo. Erano allegri conviti, dove i vecchi facevano da padrini ai nuo¬vi arrivati; si facevano nuove conoscenze, o si rinfrescavano le vecchie; e non mancava mai una certa tradizionale eloquenza convivale a.tinta patriottica, un po’ fanfarona; ma in fondo bonaria ed innocua. Perché il banchetto era, per più d’uno, occasione per evocare ricordi di geste o atti di valore, forse assai più visti che compiuti, con Garibaldi o a Porta Pia; ma che nessuno ardiva contraddire o porre in dubbio. Erano anzi questi ricordi uno dei numeri più attraenti del programma della serata, talora presentati in versi, altra volta in prosa, nei quali l’oratore figurava quasi sempre in prima persona.

Durante l’anno poi, non mancavano ricevimenti all’Ambasciata, nelle varie ricorrenze nazionali. E lì i parlatori ostinati davano sfogo alla loro vena, od alle loro iniziative, con risultati talora sorprendenti, co¬me accadde alla festa dello statuto del 1916. L’Ambasciatore, scapolo, aveva una governante tedesca, che nei ricevimenti la faceva quasi da padrona di casa. Un impenitente oratore, nella chiusa lirica del suo discorso di occasione, presentò i ringraziamenti della colonia non solo a Sua Eccellenza, ma alla gentile signora… Invece delle attese acclamazioni, vi fu nella sala un momento di silenzio glaciale, indice del disagio di tutti, perché non erano ignote le maldicenze che correvano sulla giovane governante. Qualcuno pensò financo ad uno scherzo che volesse ammantare la verità, pro¬vocato da un certo vino un po’ traditore, servito; ma l’oratore non era uomo da sottili scherzi, fosse pure nel vino, e poi con l’ambasciatore! Questi tolse tutti d’imbarazzo, dicendo col suo solito sorriso, tra ironico e mellifluo, che non era ammogliato. Il buon umore tornò; molti non mancarono di fare auguri alla serva padrona, che, da allora forse, si sentì più padrona che mai.

     Tanto padrona, che un giorno fece perfino benedire l’ambasciata. Ed ecco come. Il palazzo Liewen, che fu acquistato il 1911 come nuova sede dell’ambasciata, passava per essere una casa di malaugurio, di spiriti. Depositaria di tutte le storie che correvano su di esso, era la moglie del portiere, una lituana molto sciocca e con la testa piena di favole. A sentir lei, nelle ore in cui l’ambasciata era vuota, era un salire e scendere per lo scalone di giovani in abito nero, che si dileguavano per i corridoi, dove facevano i più strani rumori; non erano i domestici dell’ambasciata, né pote¬vano essere degli estranei che volessero farle degli scherzi, perché l’ambasciata non aveva che un solo ingresso. Fosse stata giovane, bella o meno sciocca, si sarebbe potuto pensare all’incursione del demone meridiano; ma non lo era. Intanto dàgli oggi, dagli domani, aggiungi la malattia mortale della ambasciatrice Melegari, manifestatasi appena si era passati alla nuova sede; la morte quasi fulminea del cancelliere del consolato accaduta poco dopo; ed, in passato, l’assassinio nel cortile di un uomo il cui fantasma la notte gridava vendetta come assicurava il portiere Ivan; e finì che anche la serva-padrona cominciò ad aver pau-ra. Si seppe pure che la casa, quando vi passò l’ambasciata il 1911, non era stata benedetta; ed allora governante e portiera, d’accordo, pensarono di farla benedire, se non esorcizzare. E venne un padre domenicano, dalla chiesa di Santa Caterina a dar l’acqua lustrale al cortile, alle scale, alle stanze, anche a quelle dell’Ambasciatore, che era un trentatrè e tuonava contro il Vaticano in ogni suo discorso. Le apparizioni cessarono. O, forse, nessuno vi pensò più; perché partirono non molto tempo dopo, l’Ambasciatore e la governante; e la rivoluzione e la minaccia della fame ricacciarono la portiera in Lituania.

     Ma torniamo agli italiani. Non mancavano dei tipi singolari: il vanitoso, che portava in giro le decorazioni; il mordace, che non la mandava buona a nessuno; l’eccentrico, che aveva risolto il problema del moto perpetuo. E c’era pure un presidente di un club dei cani randagi. Era un romano di multiforme atti¬vità: imprenditore di lavori, impresario dell’Opera Italiana; ma soprattutto anfitrione del club dei cani randagi. I cani randagi erano gli italiani, e anche i russi, che, a mezzogiorno, per qualsiasi ragione, non avendo dove, o di che mangiare, trovavano nell’ospitale circolo l’abituale minestra russa di cavoli con la kàscia di grano saraceno, un pezzo di carne lessa, pane nero e tè. È vero che l’anfitrione soleva trattare a tavola i suoi molteplici affari, né tutti gli ospiti erano dei cani vaganti. Ma, non era per questo meno simpatico quel suo tratto di buon cuore, per cui egli, che si era prodotto da sé in Russia, ed aveva conosciuto le ore tristi, si ricordava, nel tempo buono, delle necessità degli altri, e dava liberalmente da mangiare a chi aveva fame. Ma, egli era pure impresario dell’Opera Italiana; e qui le cose andavano meno bene. Già fin da quando io arrivai a Pietroburgo il 1902, l’Opera Italiana al “Conservatorio” viveva più delle glorie passate, che del presente; consule Guidi ebbe gli ultimi sprazzi e finì. Il pubblico, le studentesse, e le signore specialmente, andavano ancora in visibilio per Masini e Battistini. Ma il tenore Masini, vecchio e sfiatato, che tentava ancora sul palcoscenico le esperienze di Wilhelm Meister con Mignon, la bionda e giovine svedese Arnoldson, era l’ombra di se stesso; ed il Battistini, che pur conservava nei tardi anni la sua bella voce baritonale, dovè sostenere, da solo, una sera tutto il Rigoletto, i cui quattro atti durarono esattamente tre quarti d’ora (2). I tagli che subivano al Conservatorio le recite italiane, sotto la direzione di Guidi, rimasero proverbiali.  

Ma parlando della colonia, non posso non ricordare il domenicano padre Lagrange, vero benefattore degli Italiani, che non ricorrevano mai indarno a lui, nelle più diverse circostanze e necessità. Fu fra gli ultimi a lasciar la Russia nel 1919 quasi settantenne. Lo rividi poi a Roma fra il 1925-26 a Santa Sabina, dove morì. Sentiva la nostalgia della Russia, dove aveva passato tutta la sua vita in un apostolato non senza rischi, che aveva dato frutti copiosi di conversioni, proprio all’ombra del Santo Sinodo, tra la più vecchia aristo¬crazia russa dei più nobili quartieri della città.

     E, col padre Lagrange, mi ricordo pure delle suore Francescane Missionarie che furono per quattro anni a Pietroburgo. Cacciate dalla Francia, con le altre congregazioni religiose, il 1905; peregrinando di paese in paese, avevano ottenuto dal ministro Stolypin che un piccolo gruppo si potesse fermare a Pietroburgo, dove si stabilì nel 1910. Vi erano, tra le altre, due suore italiane, una di Orvieto, l’altra appartenente ad una delle più antiche famiglie dell’aristocrazia romana.

     Per desiderio del loro cappellano, un prelato polacco mio amico, io ero il medico del piccolo internato, che avevano aperto, con un laboratorio di biancheria, dove accoglievano ed istruivano giovanette, senza distinzione di nazionalità e confessione religiosa. Vi erano polacche, lituane, russe, ebree e qualche italiana. Ma l’opera delle suore benché umanitaria e disinteressata, destò sospetti di propaganda cattolica. Il solo fatto di aver conservato l’abito, nella Russia ortodossa, se era motivo di curiosità pel pubblico le rare volte che si poteva vederle per via, era mal visto dalle autorità e considerato quasi indiretto mezzo di propaganda. Poi vennero le denunzie anonime, a cui seguirono le prime misure del ministero dell’interno che, dalla via dove abitavano, le relegò in un vicolo malfa¬mato, alla periferia della città. Ed esse passarono in mezzo al fango, irradiandovi il loro candore. Ma anche questo forse era pericoloso, e nel giugno del 1914 furono sfrattate e fatte partire da un giorno all’altro sotto la sorveglianza della polizia. Il padre Amoudru, domenicano della chiesa francese, ed io le accompagnammo al treno, sotto gli sguardi scrutatori dei gendarmi. Erano lietissime della persecuzione patita le bianche suore; e, partendo, mi parevano una nidiata di allodole che se ne andasse in terra più propizia, o sotto un cielo più clemente, a portarvi gaiezza di canti, e letizia di esistenze votate al bene.

     Oltre l’elemento fin qui ricordato; vi era poi nella colonia un elemento italiano o italianizzante fluttuante: gli altri, ora più, ora meno numeroso; e che costituiva a sua volta un curioso mosaico.

     Erano « gli altri », ad esempio, alcuni uccelli di pas¬saggio dalle qualifiche mal definite; ma che quasi sem¬pre si davano grandi arie: o di ricchi in viaggio di piace¬re, o di rappresentanti di grandi case di commercio, o di incaricati di missioni importanti, segrete, segretissime… e lo dicevano in piazza. In realtà si trattava quasi sempre di gente che aveva bisogno di cambiar aria, per lo meno allontanarsi per qualche tempo dai centri della propria attività. Apparivano come meteore e sparivano all’improvviso. È vero che accadde talvolta che, con disinvoltura e parlantina lunga, finissero per mettere nel sacco, tanto per non perder l’abitudine, quelli che meno si sarebbe immaginato. Ma la cosa tornava al riso e le tracce sparivano presto.

     « Gli altri » erano certi mercanti di stoffe, dell’Aversano o dei dintorni di Napoli, che venivano ogni anno in buon numero per l’estate a Pietroburgo ad esercitarvi la vendita di « stoffe inglesi » in un modo originale. Acquistavano nei grandi depositi di stoffe di Pietroburgo tutti i resti dell’anno precedente, se li dividevano fra loro; li tagliavano in modo da ricavarne la maggior quantità di tagli di abiti che si potesse, e si davano alla vendita dei vestiti di stoffe inglesi, che erano viceversa tessuti di Lodz, usciti dai fon¬dachi di Gostinnyj Dvór. Percorrevano la città, i dintorni, le campagne; si spingevano nell’interno. Io ne incontrai perfino a Pskov, Narva. La scarsa conoscenza del russo li aiutava nell’imbrogliare la gente, circa la provenienza della stoffa; erano stranieri, dunque anche le stoffe erano estere, pensavano i più. Lo credetti anche io, prima che essi stessi non mi avessero rivelata la provenienza reale della mercanzia. Guadagnavano tanto da rifarsi del viaggio, delle spese, e metter da parte qualche cosa. E nulla di male fin qui. Il peggio era che portavano spesso, con loro, vecchi rancori di famiglia o di campanile; più spesso se ne accendevano nuovi, per disaccordi nella spartizione della merce o nei guadagni, rivalità, gelosie; ed allora venivano alle mani. Una volta uno di essi dette ad un suo compagno un colpo di rasoio alla parte destra del collo che gli tagliò netto lo sterno-cleido- mastoideo; per qual miracolo non gli tagliò le vene e arterie non so. Il ferito fu all’ospedale a lungo, ne uscì con una paralisi della faccia ed una cicatrice deforme in fondo alla quale si vedevano pulsare i vasi del collo, che pareva scoppiassero, specie quando si agitava parlando. La polizia e le autorità giudiziarie russe si lavarono le mani del fatto, limitandosi solo ad informare il consolato, il quale poteva far ancor meno. Il ferito disse che la giustizia se la sarebbe fatta da sé ad Aversa.

     Gli « altri » erano i giornalisti, i corrispondenti, gli inviati speciali. Questi ultimi arrivavano sempre con qualche missione o incarico speciale, qualche volta anche con lo scopo di informare i lettori del giornale.

     Raramente conoscevano la lingua, qualcuno neppure il francese in modo da non sfigurare tra i russi. Pochi, coloro che si mettevano a studiare uomini e fatti prima di scrivere; i più giungevano in Russia col piano e il programma del libro da scrivere già tracciato: « impressioni », « ricordi di viaggio », « cronache » o che so io. E allora venivano fuori quei prodotti della solita paccotiglia: libri di nessun valore, che ser¬vivano solo a ingarbugliare ancora più ropinione pubblica sulla Russia…

     Gli « altri » erano quel piccolo mondo, che girava, e si agitava intorno agli italiani ed all’Italia privata od ufficiale di Pietroburgo: colonia, Consolato, Ambasciata; e verso il quale assunsi e conservai in seguito, forse per la mia particolare mentalità, formatasi alla indagine scientifica, l’attitudine e la curiosità dello studioso dinanzi ad un nuovo campo di osservazioni.

     Erano quelle « intellettuali » frenetiche per Masini e Battistini; « informatrici » discrete o indiscrete, affette più o meno da « italite » acuta o cronica, le quali tra Ambasciata, Consolato, Società di beneficenza, della quale tenevano essere patronesse, protettrici, amiche, avevano bisogno di aggirarsi intorno agli italiani. Donne qualche volta dal nome grosso, tra russo e tedesco, quasi sempre con una corona o un blasone, mogli o amiche di funzionari od ufficiali, spesso divor¬ziate una o più volte; ma religiose, praticanti, tanto da accreditare, presso quelli che non andavano al di là delle apparenze, la leggenda della psicologia complessa o complicata dell’anima femminile russa. Spie a tempo perso, giocatrici, non di rado economicamente rovinate; conservavano ancora prestigio sufficiente a gettar fumo negli occhi; darsi arie di incomprese, atteggiarsi a Ninfe Egerie, o discrete iniziatrici di malaccorti gio¬vani, che, con la testa piena di eroine dei romanzi russi, volevano trovarne a tutti i costi, e vederle in quell’una o quelle une che avvicinavano, e ci cascavano.

     Gli «altri» erano certi nobili polacchi, alquanto in ribasso o spiantati, che avevano sempre qualche goccia di sangue italiano nelle vene, epperò amavano l’Italia; e che coltivavano in modo particolare, allora, l’alchimia politica, di cui avevano sempre qualche distillato del proprio laboratorio, da servire come ultrasegreta informazione.

     E gli « altri », infine, erano pure diplomatici. Ottime persone; ma spesso intossicate dalla nicotina, dall’alcool, dalle cattive digestioni; e poi in preda ad una fobia crescente della responsabilità, e quasi sempre a quella autolatria progressiva, che mena alla cristallizzazione dell’io; causa non ultima, forse, per cui qualche volta il vecchio diplomatico, a differenza del vecchio uomo di scienza, finisce per passare più spesso alle storie che alla storia.

     ra gli sfarzosi ricevimenti ufficiali, i circoli intimi

degli «uomini politici», o delle «discrete informatrici», i pranzi animati delle gaie sale degli alberghi in voga; la mentalità di coloro che arrivavano con le etichette già pronte per tutti i fenomeni russi, e quella degli agnostici o dei più vecchi che, tra il sì ed il no, pur dopo lunghi anni di dimora nel paese, rimanevano di contrario parere; l’entusiasmo dei lodatori senza criterio, e l’acredine dei denigratori ad ogni costo; io rimanevo sempre l’osservatore silenzioso, l’ascoltatore paziente. E le conclusioni? Spesso pessimiste; ma me le tenevo per me. E tornavo, con rinnovato amore, ai miei studi, di gran lunga superiori alle alchimie dell’ora; all’aria libera dell’Istituto, tanto più salubre dopo quella confinata e guasta delle sale illuminate, dei gabinetti, degli uffici. E ridiventavo allora ottimista, ed indulgente per le debolezze, le grandi miserie e le meschine miseriole della umanità ammantata di fasto, cui la folla invidia o porge l’omaggio del momento.

8. GLI AVVENIMENTI DI RUSSIA NEL DECEN-

NIO 1902-1912. LA GUERRA RUSSO-GIAPPONE-

SE (1902-1905). IL PROLOGO O PRELUDIO: I

MOTI DEL 1905-1907. IL PERIODO DI BO-

NACCIA (1908-1913)

     Si è scritto, e si suol ripetere, che la rivoluzione russa non sia cominciata il 1917; ma assai prima, e propriamente dopo la guerra russo-giapponese del 1904, che ne sarebbe stata lontano preludio, se non proprio una delle maggiori cause. Nonostante le riserve che questa affermazione comporta, è innegabile che un nesso esista fra la rivoluzione del 1917 e gli avvenimenti del 1905-1907. Molte vicende, che nella rivoluzione ebbero il loro sviluppo, si trovano in germe in quel periodo. I partiti politici, quali si videro in giuoco nella prima fase della rivoluzione del 1917, allora si delinearono. Le più gravi questioni economiche e sociali della vita del paese, divenute in seguito programmi politici e bandiere di combattimento, cominciarono allora ad essere dibattute. Le persone stesse, che più tardi emersero nella rivoluzione, come capi o rappresentanti di tendenze, cominciarono allora a cimentarsi nella vita politica. Ma anche i fatti del 1905-1907, per chi li avesse considerati, non nelle sole apparenze, erano da riconnettere ad altri precedenti: per me ad esempio, per non andare oltre i miei ricordi, a quelli del 1902; ché, a rifarsi alla storia, si sarebbe potuto risalire molto più in là.

     Poco dopo il mio arrivo a Pietroburgo nel 1902, il Ministro delPlnterno, Sipjàghin, fu ucciso da uno studente; l’anno prima, un altro studente aveva ucciso il Ministro dell’Istruzione, Bogoliépov. I giornali scrissero che si trattava di fatti indipendenti, compiuti da esaltati solitari. Uno studente universitario invece, che mi dava lezioni di russo, e fu espulso da Pietroburgo con molti altri dopo l’assassinio di Sipjàghin, mi disse che i due delitti rientravano nella ripresa di atti terroristici, con cui si rispondeva alla più intensa reazione del governo. La quale si attribuiva in primo luogo a Pobiedonószev (3) , procuratore del Santo Sinodo, difensore risoluto della autocrazia di diritto divino, avversario di qualsiasi riforma, o tentativo di riforma, influentissimo su Nicola II; e poi al ministro Pléhwe, ed al granduca Sergio. Mi parlò del partito socialista rivoluzionario, che aveva largamente pervaso le masse operaie di Pietroburgo e Mosca; mi parlò pure di una boevàja organisàzija, organizzazione di combattimento, a cui erano affidati gli attentati terroristici, che, a Pietroburgo, metteva capo ad un tal Ghersciunin; mi disse ancora che le sommosse operaie, che si facevano passare per fatti sporadici, o scoppi di malcontento da cause economiche, procedevano da un movimento politico, non privo di consensi ed appoggi nelle classi colte, dagli studenti agli aristocratici.

     In tutto questo vi era del vero, come potei io stes¬so appurare più tardi. Il Ghersciunin, un ebreo; la Brésckò-Bresckóvskaja, una polacca, glorificata nel 1917 come « la nonna della rivoluzione »; ed altri, ed altre, già prima del 1902, facevano un’attiva propaganda clandestina, predicando, fra l’altro, che il terrore non solo era mezzo di intimidimento pel governo, ma anche atto di grande valore civile e rivoluzionario. Il Ghersciùnin, che fu poi arrestato nel 1903, aveva preparato l’assassinio del ministro Sipjàghin, compiuto da uno studente, Balmascév, travestito da ufficiale. Ad un «circolo di ammiratori di Balmascév» apparteneva l’individuo che assassinò Pléhwe qualche anno dopo.  Elementi su cui l’organizzazione di combattimento potesse far presa col mistero che la circondava e le idee esaltate, ve ne erano, e non pochi. Quel che però non mi pareva rispondesse a ciò che il mio maestro di russo mi aveva detto, era l’ambiente russo; per lo meno quale a me sembrò quello di Pietroburgo fra il 1902 e il 1908. La cosiddetta « massa operaia » evoluta e cosciente, era ancora massa informe, vera rudes indigestaque moles. Gli studenti universitari, frondisti, privi la più parte di solida cultura, spesso privi di qualsiasi cultura, erano animati soltanto da vaghe, e mal definite aspirazioni; assertori, talora incoscienti, di fantastiche utopie, senza idee concrete su quel migliore avvenire di cui tanto parlavano, si mostravano solo disposti a gettarsi nelle più pazze imprese. Gli aristocratici che dicevano di volerla rompere con le tradizioni di casta, mi parvero la più parte mossi da dilettantismo frondista; e, salvo eccezioni, privi di vera e sicura conoscenza di quei problemi filosofici, economici o sociali che siano, che costituiscono il sostrato dei fenomeni storici. Gli intellettuali, uomini e donne: quasi sempre dialettici teorici, dottrinari, aprioristici senza un concreto programma pratico, o meglio ognuno con un suo proprio; ma agli antipodi di quello degli altri (4) .

     Ma, ciò che maggiormente mi colpiva, era la mentalità, di questa gente, di un semplicismo quasi infantile; era la mancanza di quel senso critico, che, in noi latini, è il fondo della nostra natura. Non so se questo fatto sia da riconnettere all’altro non meno saliente, della mancanza cioè nella cultura russa di correnti proprie, intese come studio, speculazione originale dei problemi superiori della vita o dello spirito; ma, quali che ne fossero le cause, o le ragioni, l’assenza di un giusto, equilibrato spirito critico mi parve una delle note salienti della psicologia russa, in più forte con¬trasto con l’occidente. Quel contrasto su cui tanto si è detto, e tanto vi sarebbe da dire.

     Il Mereschkóvskij, in un articolo pubblicato su giornale «Riec’» il 1908, scriveva fra l’altro: «Non basta viaggiare, vivere bisogna, in Europa, per comprendere la differenza che passa fra noi russi e gli occidentali: differenza non solo di idee, di sentimenti; ma perfino delle primordiali sensazioni, di quella fisica che sta a fondamento di ogni metafisica. Noi possiamo avvicinarci ad essi, essere più o meno d’accordo con loro; ma presto o tardi viene un momento in cui essi cessano di comprenderci, e ci considerano come abitanti di un altro pianeta. Dico questo senza orgoglio, al contrario, con compunzione, perché molto dobbiamo apprendere da loro; in molte cose domandar loro aiuto, mentre dubito forte che noi, a nostra volta, potessimo essere loro utili in qualche cosa. In ogni modo in questo momento essi non sentono il bisogno di noi; coscientemente od incoscientemente le sorti avvenire dell’Europa non le ritengono punto legate alla nostra: se la Russia scompare essi rimangono vivi, ma se scompare l’Europa noi siamo finiti. È difficile, quasi impossibile, istituire con formule precise un raffronto tra l’anima russa e l’anima occidentale; ma ecco quel che salta all’occhio. Essi si sono individualizzati; noi siamo ancora una informe massa collettiva. È innegabile che le masse in Europa sono più civilizzate delle masse russe; li esse si sono già fuse e cristallizzate in alcune solide forme statali, mentre le nostre masse sono minerali non ancora purificati o metallo ancora in fusione, che può solidificarsi in qualunque forma, dalla più bella alla più mostruosa. Esse sono un fiume già nel proprio letto; noi un fiume ancora in piena. Le inondazioni dei fiumi somigliano ad un mare, questo si potebbe dire delle masse russe. Forse anche noi troveremo un giorno il nostro letto; ma per ora non l’abbiamo trovato ancora, epperò presso di noi possono verificarsi le migliori e le peggiori eventualità. La nostra forza, ed in ciò sta pure la nostra debolezza, è che noi crediamo ancora nel cataclisma universale, nella fulminea rivoluzione apocalittica del nuovo cielo e della nuova terra, quale si scatenò già una volta sull’Europa. Ma lì ormai a questa nuova esplosione non ci credono più; anzi presso di essi lentamente si sviluppa¬no non solo le leggi esterne della vita; ma anche le leggi interne di essa. Essi sono la evoluzione, noi la rivoluzione. Essi, per quanto si agitino, sono sottomessi; noi, per quanto sottomessi, siamo in continua agitazione. Ma la nota più forte del nostro disaccordo coll’Europa, e più difficile a definire, è la caratteristica religiosa. Dire semplicemente: noi abbiamo una religione ed essi no, è immodesto e forse anche falso. Noi tutti, credenti o no, possiamo dire di ognuno di noi più o meno quello che diceva di sé un decadente russo: desidero quel che nel mondo non esiste. Gli Europei questo non  lo diranno; per lo meno vorranno ciò che nel mondo esiste. Essi sono in contatto col mondo come è, noi con un mondo di là. Essi, se credono, in ogni modo conoscono; noi, anche quando sappiamo o conosciamo, in ogni modo crediamo. Ecco perché, fin nelle estreme forme della negazione, noi sembriamo loro dei mistici; essi, fin nelle estreme forme della credenza, ci sembrano degli scettici. Pure, noi e loro, non siamo forse due metà di un intero, due poli di una medesima forza? Se noi abbiamo su di essi una qualche prerogativa, è solo in ciò che forse, prima di loro, pensammo a questo problema. Noi comprendemmo che essi ci sono necessari; essi al contrario non possono immaginare che noi potessimo essere loro utili quando che sia… » (5).

     Torna alla mente quel che già aveva scritto il Dostoiévskij: « Il russo ha sempre bisogno di passare la misura, di arrivare al precipizio e spesso di buttarvisi

dentro come un folle… Sotto l’influenza del furore, dell’alcool, dell’amore, dell’erotismo, dell’orgoglio, dell’invidia si mostra pronto a romper tutto, a ripudiare tutto, famiglia, tradizioni, credenze. Il migliore degli uomini diviene uno scellerato… Il nichilismo si è prodotto da noi, perché… noi siamo tutti nichilisti… ».

     Quante volte Mereschkóvskij, Dostoiévskij. Kliu- cévskij mi tornarono alla mente durante gli anni passati in Russia, quando nuovi fatti venivano a ribadire in me impressioni o giudizi del tempo che io stesso co¬minciai a darmi ragione del mondo che mi circondava.

     La tregua estiva della vita della capitale fu interrotta fra il maggio e il luglio del 1902 dalle visite alla Corte Russa del Presidente della Repubblica Francese e del Re d’Italia. Loubet fu accolto con tutti gli onori dovuti al capo della nazione alleata; archi di trionfo, trofei di bandiere russe e francesi, parate, pranzi di gala. La polizia però colpì rigorosamente tutti quelli che pretesero’ di manifestare sentimenti all’alleato, al di là di quanto essa aveva disposto; la marsigliese rimase in gola a molti studenti; i tentativi di cantarla in russo poi, furono energicamente repressi con la espulsione dalla capitale, o la prigionia dei francofili.

     Più intimo fu il ricevimento fatto a Vittorio Emanuele III. Si ricordò in questa occasione che la regina Elena era stata, da principessa, educata nell’istituto Smolnyj, e che il Re l’aveva conosciuta alla incoronazione di Nicola II. Le uniformi militari italiane, assai più numerose — perfino l’Ambasciatore era allora un generale: il conte Morra di Lavriano — si intonavano, assai più degli abiti neri dei francesi, al vestire ordinario della corte Russa. Il tricolore sulla Neva fece andare in visibilio la colonia italiana di Pietroburgo.

     Nel febbraio del 1904 scoppiava la guerra fra la Russia e il Giappone. Se ne era parlato per più di un anno, dapprima nella stretta cerchia dei bene informati; poi più apertamente, a misura che sulla stampa aumentavano gli attacchi al Giappone, sul quale la stampa faceva ricadere la colpa di quanto poteva accadere. La maggioranza del pubblico però non la pensava così; o, più che al Giappone, attribuivano alla Russia la causa o le cause della guerra, benché con discordi pareri. Vi era chi accusava, senz’altro, il Witte di quanto accadeva in Estremo Oriente, per aver fatto, da Ministro delle Finanze, una politica inconsiderata, per non dirla affaristica e peggio, in Manciùria. Politica dannosa alla Russia, perché l’impresa di creare verso i punti terminali della transiberiana interessi economici era fallita; l’importanza della città di Dalnyj, costruita di pianta per dare un centro a questi interessi, appariva ora assai più discutibile, non tale in ogni modo da giustificare le speranze in essa riposte in principio; il denaro gettato a piene mani in Manciuria, aveva solo servito ad arricchire una compagnia di avventurieri, fra cui non pochi parenti dello stesso Witte. Questo dicevano gli uomini politici di destra: i fedeli sudditi dello Zar, gli aristocratici dai vecchi nomi russi o dai nomi tedeschi, i dignitari del clero.

     I fautori di Witte invece, i liberaleggianti, gli studenti, molti professori universitari, lo scagionavano da ogni accusa. Non lui con la sua politica aveva scatenato la guerra col Giappone; ma la corte, l’Imperatore, i granduchi con le speculazioni e gli affari non del tutto leciti che si andavano compiendo nel Yalù, mediante uomini, di fiducia o di affari, di assai dubbia moralità: uomini ed affari che il Witte aveva cercato di coprire fino ad esserne la vittima. E si ricordava il famoso articolo: «I signori Obmànov», pubblicato il 1902 da Anfiteàtrov sul giornale «Rossija», che gli aveva fruttato la deportazione in Siberia. I «signori Obmànov» erano i signori Romànov, cioè la famiglia imperiale; ma che, con lieve bisticcio del cognome, erano diventati i signori imbroglioni (obman = inganno). Nell’articolo, tra lo scherzo e l’ironia, ma con fin troppo trasparenti allusioni, erano raccolte tutte le maldicenze che correvano sulla casa Romànov, e non erano risparmiati sarcasmi sulla moralità e le speculazioni dei granduchi (6). Una corte siffatta, si diceva, può ben lanciare la Russia nell’avventura di una guerra. Esagerazione senza dubbio; ma di cui purtroppo i fatti sembravano dar ragione.

     Verso la fine del 1903 vi era stata a Pietroburgo una fortissima inondazione, tale che non si ricordava a memoria d’uomo. In una notte due terzi della città furono sommersi. A Vasilievskij Ostrov, dove io abitavo e che era una delle zone più basse della città, verso la foce della Neva, l’acqua salì all’altezza di parecchi metri. Con le vie trasformate in canali, e le case emergenti dalle acque sotto il cielo plumbeo, l’aspetto della città mutò come d’incanto. Si poteva credere di essere in Olanda, se non vi fosse stata la Neva straripata ed agitata da alti marosi, quasi mare in tempesta, a ricordare la vera causa dell’inatteso spettacolo. Un violentissimo vento di mare soffiava spingendo sempre più in basso la nuvolaglia nera e sempre più in alto le acque del fiume. Per molte ore vi fu il finimondo. Poi il vento si calmò, e le acque decrebbero, lasciando per le vie e le piazze tutto quello che nella violenza della piena vi avevano portato. Sulla piazza di Sant’Isacco rimase a lungo incastrata nella melma una nave a tre alberi che si teneva dritta come fosse sull’acqua.

L’inondazione sbrigliò la fantasia della gente. Castigo di Dio; il primo di nuovi flagelli; avremo epidemie; avremo la guerra, dicevano tutti: ogni inondazione della Neva ha portato la guerra, ripetevano i vecchi. Castigo di Dio? Certo. Nuovi flagelli, epidemie? Sempre facile parlarne, come di cosa possibile, in Russia. Ma la guerra? E la guerra scoppiò pochi mesi dopo, seguita dalla peste e dal colera; fin dall’inizio sfavorevole ai russi, fra l’assedio di PortArthur e le disfatte per terra che si seguivano ininterrotte; e, di più: fra la maggiore indifferenza del popolo per una guerra lontana, contro gente di cui non pochi soldati, specie fra le nuove reclute delle campagne, ignoravano perfino l’esistenza.

     Nel giugno del 1904 fu assassinato il generale Bóbrikov, governatore della Finlandia, fautore dei « sistemi di forza ».

     Si era ancora sotto l’impressione di questo nuovo delitto politico, quando, verso la fine di luglio, sull’Ismàilovskij Prospèkt a Pietroburgo, era ucciso il Ministro dell’Interno Pléhwe, che si riteneva responsabile dei massacri degli ebrei Kiscinev e Kremenciùg, e degli armeni nel Caucaso. Vera o no l’accusa; o fosse stato pure l’assassinio provocato da una più bassa, e meno nobile vendetta, come fu affermato; Pléhwe era troppo odiato, perché la gente si attardasse a discutere, più che a rallegrarsi della fine di lui. Tanto più che un altro avvenimento venne in quel tempo ad occupare, e ben altrimenti, l’opinione pubblica.

     Ai primi di agosto del 1904, nacque l’atteso erede al trono. Vi furono manifestazioni generali di giubilo; ma fu anche un dilagare di maldicenze e satire. Nelle quali nulla fu risparmiato (da Philippe (7),  al pellegrinaggio dell’anno avanti della famiglia imperiale alla tomba dell’anacoreta Serafino a Sàrov, per impetrare la grazia di un figlio), pur di dare sfogo ai sentimenti di poca simpatia che si avevano per la « tedesca », come era chiamata l’imperatrice Alessandra.

A Pléhwe successe il principe Sviatopólsk-Mirskij. La sua nomina al Ministero dell’Interno fu da molti detta la primavera della Russia: « vesnà Rossii ». Egli, difatti, di idee liberali, quanto era permesso averne allora da un ministro dell’Autocrazia, senza passare per un nemico dello Zar, riconobbe unica salvezza del regime essere un accordo dei governanti col popolo, e non esitò di consigliare allo Zar di permettere il congresso degli Zemstvo (le amministrazioni provinciali), fino allora proibito dal governo, e prenderne in considerazione i voti. Dopo lungo tergiversare, fu permessa una «riunione privata» degli Zemstvo a Pietroburgo il 1921 novembre 1904.

     I voti della riunione, formulati in un memorandum, si riassumevano in modeste richieste di maggiori garanzie dei diritti dei cittadini, e delle pubbliche libertà; di maggiore controllo amministrativo. Richiesta folle.

Il principe Sviatopólsk dovette dimettersi; e il governo fece vaghe promesse di riforme. Intanto il 1904 si chiudeva con la caduta di Port-Arthur, ed il 1905 si apriva colla disfatta di Mukden.

     Fra gli operai di Pietroburgo, numerosi, per essere la città ricca di fabbriche e stabilimenti industriali, e etnicamente più vari che quelli di Mosca, erano sempre serpeggiate idee antizariste ed antigovernative, specie fra gli elementi non russi. Fra il 1904-1905, la propaganda rivoluzionaria si fece più intensa; il giornale di Lenin: « Iskra », la Scintilla, che prima circolava clandestinamente in foglietti litografati, cominciò a comparire stampato; gli operai si organizzarono, ebbero i loro consigli di fabbrica (i soviety), i loro circoli, ed i loro oratori ed agitatori. Uno di questi fu il prete Gapón, il quale il 22 gennaio 1905, con la croce in mano, guidava dalle fabbriche dei sobborghi verso il Palazzo Imperiale una folla di molte migliaia di operai, desiderosi di rimettere allo Zar Nicola II, come altre folle ai suoi lontani predecessori, una supplica, perché fosse concesso al popolo russo quel poco di maggior libertà alla quale si sentiva maturo. Questa fiumana di gente, si componeva di uomini, quasi tutti operai, o studenti e donne: operaie, studentesse, che procedevano cantando l’inno « Bóze, Zarià hranì »: « Signore, custodisci lo Zar ». La gendarmeria, che non aveva voluto o potuto impedire che questa gente dai quartieri lontani affluisse al centro della città, era riuscita ad accerchiarla a misura che avanzava verso la Piazza del Palazzo, ed a stringervela, impedendo, a chiunque se ne fosse voluto staccare, di retrocedere.

     Alla Piazza del Palazzo, non il benigno ed indulgente sorriso del « padre-zar » la accolse; ma la intimazione della gendarmeria di sciogliersi subito, seguita poco dopo da una nutrita scarica di fucileria, che uccise e ferì moltissime persone: si parlò di migliaia. Si disse che la carica contro la folla inerme, fosse stata ordinata dal granduca Vladimiro, comandante militare di Pietroburgo. È possibile; i Granduchi erano assai più reazionari dello Zar. Ma si ricordava pure l’attentato allo Zar, durante le funzioni dell’Epifania di quell’anno; quando, durante la benedizione delle acque del fiume, a cui egli assisteva dinanzi al Palazzo d’inverno, dalla fortezza dei Santi Pietro e Paolo, fra le salve dell’artiglieria, era partito un colpo a mitraglia, che per poco non aveva colpito in pieno il padiglione dove erano lo Zar e il clero.

     Fu quella del 22 gennaio « la domenica rossa di Pietroburgo »: sinistro bagliore di sangue, che, a breve distanza, seguiva alla primavera di speranze del principe Sviatopólsk-Mirskij.

     Il prete Gapón scomparve. Si seppe poi che il 28 marzo 1906 fu impiccato: chi disse dai rivoluzionari, per sospetto di essere stato agente provocatore della polizia, ed aver condotto perciò gli operai al macello; chi dalla polizia, per aver agito presso gli operai con vero spirito rivoluzionario contrariamente alle intelli-genze con la polizia stessa.

     Il governo corse ai ripari; sciolte le associazioni operaie delle fabbriche e le corporazioni professionali, chiamò da Mosca Trépov come prefetto di polizia, e Bulyghin ministro dell’Interno, noti per le loro idee reazionarie, a metter l’ordine a Pietroburgo ed in Russia. Si costituirono la centuria dei neri la « cèrnaia sòtnia » ed altre associazioni di « veri russi », specie di sanfedisti circondati da avanzi di galera, che si impegnavano di difendere il trono e l’altare, rispondendo con la violenza controrivoluzionaria alla violenza rivoluzionaria dei terroristi: occhio per occhio, dente per dente!

     Le aggressioni agli studenti di Pietroburgo, Mosca, Kasàn, furono in parte atti di provocazione, in parte atti di vendetta di queste bande; così i massacri degli armeni a Batum e a Bakù. D’altra parte i rivoluzionari non se ne stavano inoperosi, fomentavano sollevazioni, come quelle dei montanari, i « gorzì », del Caucaso; e, nel febbraio 1905, preparavano l’assassinio del granduca Sergio a Mosca. È vero che il Granduca era odiato, per i suoi sentimenti più che reazionari, e per la sua condotta. Nondimeno il delitto fece impressione, per l’audacia dei cospiratori, che colpivano sempre più in alto; e parve scuotere le sfere dirigenti, anche perché nella stampa, accanto a coloro che parlavano della necessità di più dure repressioni, si levavano pure voci a favore della tesi contraria. In risultato però, non vi furono che rinnovate promesse a voce, e aumentate repressioni di fatto. Permise il governo che si tenessero tuttavia i congressi degli ingegneri, dei medici e, più tardi, degli avvocati: congressi cosiddetti scientifici, che viceversa, si occupavano assai meno di questioni tecniche, assai più di questioni economiche; e formulavano voti politici a tinta sempre più radicale. Ma il governo non seguiva una condotta ferma; anche nella via reazionaria, per la quale si era messo, tentennava; e, nonostante si dicesse forte, non osava affrontare la marea che montava.

     Nel maggio-giugno 1905, sotto l’impressione delle disfatte in Oriente, si riunirono a Mosca gli Zemstvo, ed il principe Trubezkój presentò a Nicola II i voti del congresso, coi quali si chiedeva la istituzione di una rap presentarla nazionale, come sola via di uscita dalle difficili condizioni interne ed esterne della Russia. Le assicurazioni, che i desideri sarebbero stati esauditi, non trovarono credito; e, mentre la campagna giapponese volgeva sempre più disastrosa, dalla disfatta di Mukden alla battaglia di Zuscima, in cui la Russia perdette i residui della sua flotta, la lotta fra rivoluzionari e governo si faceva più serrata.

     Il fermento dei marinai del Baltico a Libau, Riga e Kronstadt; quello dei marinai del Mar Nero che scoppiò nella rivolta aperta delle corazzate Potemkin e Gheórghij Pobedonósez (giugno-luglio 1905), le quali, uscite dal porto di Odessa, cominciarono a tirare sulla città per incitarla a sollevarsi, e tennero a lungo il mare, senza poter essere catturate; la insurrezione dei contadini lungo il Volga, che minacciò di affamare il paese; gli scioperi dei ferrovieri a Varsavia, che continuavano più o meno dal febbraio; le feroci repres¬sioni in Ucraina e nelle Province Baltiche; lo stato di assedio a Varsavia fra l’estate e l’autunno; l’attività delle bande dei neri; gli assassinii politici, resero la condizione interna così grave ed intricata, che fu di¬menticata perfino la guerra col Giappone. E la pace firmata il 5 settembre a Portsmuth, passò quasi inosservata; volto ormai il pensiero di tutti alla convocazione della Duma, di cui era già stato pubblicato il decreto che la costituiva. Alla fine di settembre si tenne a Mosca un nuovo congresso degli Zemstvo, e per la prima volta vi parteciparono rappresentanti non russi dell’impero: polacchi, caucasiani, siberiani. Vi si trattarono questioni anche più gravi che non le questioni economiche interne, come quella della lingua natale interdetta agli allogeni non solo in Russia, ma perfino nei propri paesi di cui si reclamava l’uso; vi si parlò financo della autonomia della Polonia. Disgraziatamente, i congressisti, nelle loro riunioni, che avrebbero dovuto servire soltanto a preparare i lavori della Duma, si lasciarono andare a questioni minute, a particolari nei quali non solo si frammentarono le discussioni, ma si perde l’accordo generale, che avrebbe dovuto invece tenere uniti tutti in quei difficilissimi momenti. Ne vennero fuori, sulle diverse questioni, altrettanti partiti; non senza compiaci¬mento dei reazionari, che vedevano delinearsi profonde scissioni nel campo avverso, prima che fosse, per così dire, costituito.

     Il 30 ottobre del 1905, 17 ottobre stile russo, Nicola II pubblicava il famoso manifesto della libertà, che egli largiva al popolo russo, e delle riforme concrete, che si sarebbero attuate nella amministrazione interna, e nella economia agraria. Contemporaneamente era indetta la convocazione della Duma: una assemblea generale consultiva, che in epoche precedenti era stata convocata in Russia, ed alle cui tradizioni si voleva riconnettere la eligenda rappresentanza nazionale. Non questo invece volevano e speravano i maggiori uomini politici, specie i professori di Diritto di Mosca e di Pietroburgo, pei quali la rappresentanza doveva essere qualcosa di più affine ai parlamenti occidentali. Se l’Imperatore, però, dava questi ordini; tutti coloro a cui lo stato di cose che si voleva instaurare avrebbe tolto privilegi e benessere, i conservatori, l’alto clero, l’aristocrazia russo-tedesca, tutti i fautori convinti del regime autocratico, si trovarono uniti nell’opporsi passivamente alla esecuzione degli ordini imperiali, nel provocare o favorire rivolte, sedizioni, insubordinazioni, per mostrare che il popolo russo intendeva la libertà sotto la specie della licenza; o che, sentendo i freni allentati, volgeva all’anarchia; che era insom¬ma tutt’altro che maturo per le libertà che gli si voleva concedere. Si seppe della esistenza di una tipografia clandestina nei locali della prefettura di polizia di Pietroburgo, che stampava proclami destinati alla provincia, per eccitarvi massacri di ebrei, polacchi, armeni. Anima di questa diabolica opera era il Trépov. Egli aveva a sua disposizione larghi fondi; agiva indipendentemente, ed a completa insaputa del Ministro dell’Interno; e, servendosi anche della « cérnaia sótnia », dell’unione del popolo russo, e di elementi del clero, aveva sparso agenti per tutta la Russia che avevano il compito di provocare, o fomentare disordini, agitazioni, atti rivoluzionari da potersi poi reprimere, colpendo individui o gruppi etnici già precedentemente designati.

     È un fatto che massacri di ebrei nel sud, proclamazioni di repubbliche indipendenti nel Caucaso, rivolte sanguinose e saccheggi nelle Province Baltiche, sommosse a Mosca e a Pietroburgo, repressioni violente nelle quali si resero tristamente famosi uomini sui quali si eserciteranno poi le vendette dei rivoluzionari; assassinii politici di generali e di uomini di governo, stati d’assedio da per tutto, seguirono al manifesto dello Zar.

     I ministri, dopo il manifesto dello Zar, si erano dimessi; ed il conte Witte (8), veniva nominato presidente del Consiglio dei Ministri con l’incarico di formare un nuovo ministero, che avrebbe dovuto attuare le riforme annunziate dal manifesto dello Zar. Ma si rifiutarono di partecipare al ministero i rappresentanti dei vari gruppi politici delineatisi nel congresso degli Zemstvo; e ne venne fuori un ministero poliziesco-burocratico, che si mise su una via di repressioni anche più severe, se ciò era possibile.

     Al principio del 1906, il governo annunziava che l’ordine era quasi ristabilito. Sangue però ne era corso: repressioni senza pietà erano state compiute. In tutti era il convincimento che l’autocrazia, nonostante le promesse, e forse anche la buona volontà dello Zar, non avrebbe ceduto.

Witte stesso, abbandonato dai ministri più reazionari, che si volevano lasciar libero l’adito al futuro governo, cedeva il posto, nell’aprile del 1906, a Goremykin. Questi, fedele servitore dell’autocrazia, tornava sempre alla presidenza del Consiglio dei ministri, quando spirava vento di reazione, e la reazione aveva bisogno di un paravento; il Witte, invece, con la sua ambigua politica liberale e conservatrice, ricompariva sempre quando vaghe promesse di libertà si affacciavano di nuovo. Ed ecco, come un reazionario, negatore di ogni diritto del popolo, Goremykin, si trovava a dover incontrare l’assemblea degli eletti del popolo. Circondato da ministri e funzionari, non meno di lui ferventi difensori dell’autocrazia, diede opera a pubblicare nuove leggi tendenti a limitare quelle che dovevano essere le attribuzioni della Duma. Questo povero organismo, non era ancora nato, che già si pensava a soffocarlo in fasce, o preparargli una morte per anemia: per ben tre volte, prima di convocarla se ne mutarono le attribuzioni, restringendole sempre più.

     Le elezioni tuttavia procedevano animate: reazione alla reazione. Il 10 maggio del 1906 si apriva solennemente la Duma dell’Impero. Erano in essa rappresentati: l’estrema destra, che era per la conservazione integra del regime autocratico; i monarchici nazionalisti, partito alquanto germanofobo, slavofilo, conservatore, ortodosso che differiva dal precedente per la politica agraria e le concessioni economiche, che, riconosceva, doversi fare ai contadini; i costituzionali moderati, fra cui gli ottobristi, che erano per l’applicazione integrale del programma di riforme tracciate dallo Zar nel manifesto: disposti alle riforme agrarie a favore dei contadini, erano contrari alle autonomie degli allogeni; i costituzionali democratici designati pure con la sigla K.D (9) , o il nome «cadetti»: partito costituzionale di nome, di fatto radicale, che voleva un parlamento eletto dalla volontà del popolo, i ministri scelti fra i membri di esso, e responsabili dinanzi alla assemblea, larghe riforme agrarie, ed autonomie per gli allogeni; infine i socialisti di diverse tendenze, ma scarsi e per allora non ancora nettamente divisi.

     Nella risposta della Duma al discorso di apertura dell’Imperatore, si ebbero già i segni delle sue tendere, assai più battagliere che conciliative, manifestate fin dalle prime sedute con vivaci attacchi al governo. Si cominciò per accusarlo di tener mano alla rete di agenti provocatori: si protestò contro la pe-na di morte, e le leggi eccezionali, alle quali Stolypin, ministro dell’Interno, aveva detto doversi attenere in attesa di nuove. La Duma iniziava un vero processo contro il governo: cosa spiegabile, data la esacerbazione degli animi per ciò che fino allora era successo, e succedeva; ma assolutamente impolitica, esiziale anzi, in quei momenti di primi germogli di libertà. Nei quali la Duma, contrariamente a quello che credevano gli eletti, era ancora pei ministri una pura concessione, una misura di politica interna: una assemblea, sì; ma eletta per volere dello Zar, non una rappresentanza emanante dalla volontà di cittadini. In Russia, anche dopo il manifesto del 17 ottobre, non vi erano cittadini, ma sempre sudditi, anzi sudditi fedeli « verno-póddanye ».

     Il 21 luglio la Duma, troppo rivoluzionaria, né rispondente ai fini per cui era stata convocata, fu sciolta. Contemporaneamente furono indette le elezioni per una seconda Duma, che si sarebbe dovuta riunire il 5 marzo del 1907. Gorémykin si ritirava, e Stolypin diventava presidente del Consiglio, rimanendo ministro dell’Interno. Pietroburgo fu messa in stato di aumentata difesa, il primo passo verso lo stato di assedio; Kiev, dove insurrezioni e massacri si succedevano con impressionante alternativa, in stato di assedio.

Appena sciolta la Duma, i costituzionali democratici, i cadetti, indissero una riunione del partito a Vyborg in Finlandia; e pubblicarono alla fine di luglio del 1906, il «proclama di Vyborg» con cui si incitava il popolo russo a non pagare le imposte, a rifiutarsi agli obblighi militari, a non riconoscere i prestiti contratti all’estero dal governo, se la prima Duma non fosse stata reintegrata. Il proclama, nel tempo stesso sfida al governo ed incitamento alla rivolta, fece grande impressione; parve a tutti la squilla della guerra civile. Stolypin soppresse giornali, tipografie; fece ar resti in massa; terrorizzò a sua volta, pur cercando di comporre, ma inutilmente, un ministero con membri del partito dei Cadetti.

     Gli studenti si agitavano. Le associazioni scientifiche esprimevano voti di simpatia ed adesioni al proclama di Vyborg. L’Istituto di Medicina Sperimentale, senza arrivare a tanto, non volle essere da meno. Ma, i sentimenti patriottici espressi solennemente in una memorabile «seduta scientifica», ed il voto formulato dal Consiglio, che « le libertà largite dallo Zar dovessero considerarsi sacre, e tali da non potersi sopprimere con manovre poliziesche », provocarono lo sdegno del principe di Oldenburgo. Minacciò di chiudere l’Istituto, per l’atto grave di «indisciplina » commesso; e non impedì le perquisizioni della polizia, che non aveva l’Istituto in troppo buon odore ed andava sempre alla caccia della «letteratura illegale», specie di quella «Iskra» di Lenin, che studenti e studentesse diffondevano con grande abilità. Seguirono giornate difficili. Tra fughe, arresti, scomparsi, in pochi giorni l’Istituto si vuotò.

Poco dopo il proclama di Vyborg, i reazionari uccisero l’avvocato Herzenstein, membro della Duma, fra i più influenti del partito dei Cadetti. I rivoluzionari risposero con l’assassinio del generale Minn, che aveva sedato nel sangue le sommosse di Mosca; e con l’attentato a Stolypin, nella villa del Ministero dell’Interno all’Aptékarskij Ostrov a Pietroburgo, nel quale trovarono la morte molte persone, gli stessi autori dell’attentato, mentre Stolypin rimaneva illeso. Questi rispose con le corti marziali, la persecuzione dei partiti e dei membri della prima Duma, specie dei socialisti e di quelli che avevano firmato il proclama di Vyborg. Non furono risparmiati gli allogeni. Anche il clero secondò Stolypin nella lotta con la rivoluzione. Gli Zemstvo furono colpiti in molte loro istituzioni, chiuse; ed in molti eminenti rappresentanti, perseguitati. Le prigioni presto non furono più bastevoli pel numero degli arrestati; le vie della Siberia cominciarono a ripopolarsi di esiliati.

     In tali condizioni si preparavano da Stolypin le elezioni per la seconda Duma; mentre il ministro delle Finanze Kokóvzev faceva una esposizione quanto mai pessimista della economia russa, rovinata dalla guerra col Giappone, dallo stato di quasi anarchia interna sopravvenuta, dalla agricoltura abbandonata.

     I processi intanto, che le corti marziali imbastiva¬no, con l’ordine preventivo della condanna degli indiziati, misero in luce che l’attentato contro Stolypin era stato commesso da una nuova associazione, i cui membri si chiamavano «massimalisti», i «bolscevichi» (allora si cominciò a parlare di essi), il cui programma mirava alla attuazione dei massimi postulati del socialismo. La maggior parte delle « espropriazioni », così si chiamarono i furti clamorosi avvenuti in quel tempo, risalivano ad essa; ed erano commessi con lo scopo di costituire un fondo rivoluzionario, che nel novembre del 1906 raggiungeva, a quel che si diceva, milioni di rubli. Una di queste «espropriazioni» che fece maggiore impressione, fu perpetrata verso la fine di ottobre del 1906, in pieno giorno nel Fonàrnyj pereulok, una delle principali vie del centro di Pietroburgo; quasi mezzo milione di rubli, che dalla Banca di Stato erano recati alla ferrovia, furono portati via in un momento da audacissimi affiliati alla squadra degli « espropriatori ».

     L’«organizzazione di combattimento» dei socialisti rivoluzionari si sciolse; ma fu sostituita da «colonne volanti», che coadiuvavano i massimalisti nelle espropriazioni, e continuavano gli attentati terroristici. Caperà loro fu, verso la fine del 1906, l’assassinio del conte Ignàtiev, comandante del Palazzo Imperiale; e, più tardi, quello del prefetto di polizia di Pietroburgo, il generale von der Launitz, avvenuto proprio all’Istituto di Medicina Sperimentale, il 3 gennaio del 1907 alla inaugurazione di un nuovo reparto per le malattie infettive. La cerimonia si annunziava lieta. Pochi gli estranei: rappresentanti del governo, o, autorità cittadine; il resto tutti conoscenti: persone dell’Istituto, professori della Facoltà di Medicina, accademici. A renderla più solenne, vi erano il principe d’Oldenburgo e la principessa consorte Eugenia Maximiliànovna. Il principe, riconciliato con l’Istituto, dopo la collera e le minacce dell’estate precedente, tornava benevolo alla sua creatura che prediligeva. La principessa, coltissima donna, membro della Accademia delle Scienze, «collaboratrice onoraria» dell’Istituto, vi tornava dopo lunga assenza dovuta alla malferma salute. Tra gli auguri che le si facevano, aspettando che cominciassero le funzioni in chiesa, teneva affabilmente circolo.

Le fui presentato, e per risposta, lei mi dice: «Italien? Ah! mais nous sommes un peu parents». Rimasi lì lì a bocca aperta. Ma lei, ridendo della mia sorpresa: «Mais oui, mais oui, donc — continuò — parents avec l’Italie; je suis quelque peu Saxe et Wittelsbach moi mème, comme votre charmante Marguerite. A présent vous avez compris? ». Certo, capii e non senza orgoglio di italiano. Charmante? Veramente lo era Margherita di Savoia, come in quel momento, mi parve rivederla, quando scendeva in carrozza dalla reggia di Capodimonte per la passeggiata lungo il mare, e rispondeva con quel suo indimenticabile sorriso al saluto dei napoletani, lungo via Toledo, o di noi altri studenti a via Caracciolo.

     Ma cominciarono le funzioni di rito. La conversazione fu interrotta e con essa le fantasticherie napoletane. Andammo tutti in chiesa. Dopo la cerimonia religiosa e la benedizione dei nuovi locali, scendevamo dal terzo piano del fabbricato, dove era la cappella, al secondo, dove era preparato il tè d’onore. Il Launitz dominava tutti con la persona alta e la taglia robusta; aveva fatto pochi gradini, quando si udirono tre colpi secchi; ed in un attimo si vide quel colosso abbattersi e cadere pesantemente, ostruendo la scala non larga col suo corpo. Nello stesso tempo un ufficiale di gendarmeria del seguito, con un gesto fulmineo, calò un fendente sulla testa di colui che aveva tirato i colpi, e che seguiva di qualche passo il Launitz, e gli spaccò il cranio. Una scena di orrore: da una parte il corpo enorme del Launitz, che rantolava anche più affannosamente, chiuso nella stretta uniforme militare; dall’altra l’uccisore caduto, come sedendo, due scalini più in su, irrigidito per la tremenda contrazione spastica di tutti i muscoli, in conseguenza del colpo alla testa, il capo fra le mani in un ultimo istintivo atto di difesa. E sangue che colava e imbrattava le bianchis¬sime pareti e le scale di marmo. Si seppe poi che l’uccisore era un socialista-rivoluzionario di nome Kudrjàvzev, legato ad un personaggio quasi mitico in quegli anni per la sua ubiquità, il famoso Azev, che era succeduto a Ghersciunin, ed aveva nelle mani le file del terrorismo russo.

     La seconda Duma era rieletta e, nonostante gli sforzi di Stolypin, con una gran maggioranza di socialisti. Fu aperta senza solennità il 5 marzo del 1907; e subito si accese la lotta fra essa ed il governo sulla questione agraria; nella quale, mentre i socialisti e Cadetti proponevano l’espropriazione dei latifondi della corona, del demanio e dei ricchi proprietari, il governo si opponeva. Seguirono interpellanze sugli abusi di autorità all’interno; sui maltrattamenti e le barbarie subiti nelle carceri dai prigionieri. E le discussioni finirono con un voto di sfiducia al governo. In questo si parlò di un attentato allo Zar. Fu vero; fu forse voce messa in giro dai reazionari per attaccare l’opposizione nella Duma, e far presa sui contadini, non si seppe. Nella presunta preparazione dell’attentato si coinvolsero due deputati lettoni social-democratici; contro di loro e la loro frazione, fu formultato un atto di accusa; e dall’autorità giudiziaria ne fu chiesta la consegna. La Duma, pur non osando recisamente rifiutare, ten¬tennò. Il 16 giugno 1907 era sciolta.

     Lo stesso giorno veniva pubblicata una nuova legge elettorale per eliminare il più possibile gli elementi non desiderati dal governo. L’autunno del 1907 fu convocata la terza Duma; che fu assai più arrendevole. Ma pure questa arrendevolezza, che poteva essere anche indice di sincero desiderio di collaborare coi ministri all’attuazione del programma del 17 ottobre, era fiaccata dal fatto che, nei circoli di corte e nelle sfere dirigenti, prevalevano le influenze contrarie ad ogni rinnovamento della vita politica della Russia. Lì non si aveva alcun desiderio che fossero rispettate le promesse «strappate» all’Imperatore da «fanatici esaltati» sotto la «minaccia della violenza». Lì si considerava il regime autocratico intangibile; «ut est, aut non sit» si ripeteva; non si credeva alla necessità di una rappresentanza nazionale; le riforme democra¬tiche sarebbero state una resa di quel potere di diritto divino che la vecchia devota nobiltà ed i privilegiati avevano il dovere di difendere contro tutti, anche contro le «eccessive tenerezze», o i «sentimentalismi» del «padre-Zar». D’altra parte le ferite della guerra russo-giapponese si andavano come rimarginando; per lo meno il dolore si andava attuendo. Era vero che le condizioni economiche del paese peggioravano; ma non era la Russia fornita a dovizia di ricchezze naturali? Niente adunque riforme ed ancor meno democratiche, tanto più che l’idra della rivoluzione appariva doma.

     La reazione aveva trionfato. Sopravvenne la bonaccia.

     Degli avvenimenti del 1905-1907 si parlò sempre meno; come di un incubo, che si volesse ad ogni costo dimenticare; se non fosse venuto a ricordarli l’assassinio di Stolypin nel settembre del 1911: tarda, ma meditata vendetta dei rivoluzionari. Con essa il sipario si abbassava sul prologo tragico. La immane tragedia, con le stesse « dramatis personae », venne più tardi.

IlI

1914-1916

9.         LA GUERRA

     Il 1° agosto del 1914, lo Zar pubblicava il « proclama al popolo russo », in cui esponeva le ragioni che inducevano la Russia ad accettare la dichiarazione di guerra della Germania, alleata dell’Austria, la quale già combatteva con la Serbia, in seguito all’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, avvenuto a Sarajevo il 28 giugno.

     A Pietroburgo si ebbe un senso di sollievo, come allo scoppio dell’uragano, dopo lunghe giornate di afa opprimente. E l’afa opprimente era stata lunga; e la tensione degli animi portata ad un grado altissimo, in quella memoranda estate del 1914, tanto la guerra con la Germania appariva inevitabile, fatale.

     Da tempo i giornali, che dipendevano, più o meno, tutti dal governo, avevano cominciato una campagna contro la Germania. Non si lasciava passare occasione, senza che si diffondessero o rinfocolassero sentimenti antitedeschi, o si discutesse della probabilità di una guerra con la Germania. Nel 1914 poi, l’ossessione antitedesca era giunta al colmo; da per tutto si vedeva, a torto o a ragione, la mano della Germania, pronta a nuocere alla Russia; perfino i frequenti scioperi delle fabbriche si dicevano promossi e mantenuti da agenti tedeschi. Vi era in ciò, forse, non poca esagerazione. Ma è fuor di dubbio, che la campagna dei giornali moveva da un complesso di cose, che si aggravavano di anno in anno.

     La guerra, a cui la Russia sembrava partecipare per motivi ideali, era invece per i nazionalisti russi la lotta per la riscossa del più grande dei popoli slavi, dell’egemonia teutonica; e per la quale l’appellativo di seconda guerra nazionale: «Vtoràja otécestvennaja voinà » sorse spontaneo; e fu ben più che patriottica iattanza, o esaltazione del mondo.

     La preponderanza tedesca in Russia però, non era recente; ma rimontava lontano nel passato, e si riconnetteva a quegli influssi occidentali nelle arti, nelle scienze, nella letteratura, nella cultura, nel pensiero russo che, iniziatisi nel secolo decimosesto e, già notevoli al tempo dei primi Romànov, crebbero immen-samente sotto Pietro il Grande. Le sue ardite «riforme», con le quali credette di portare d’un colpo il popolo russo all’altezza della civiltà occidentale, aprirono largamente le porte della Russia moscovita agli stranieri « civilizzatori » che in gran numero arrivarono in Russia dall’occidente. Ma la famosa «finestra», più che sull’Europa, si aprì sulla Germania; la cui fortuna crescente, e le peculiari qualità dei tedeschi, resero i « Kulturtràger » assai più e sempre più invadenti. La lunga serie di principesse tedesche andate spose alla corte di Russia, ne affermò poi ed assicurò la preminenza sugli altri stranieri; i privilegi infine che dalla corte ebbero a larga mano, finirono per farli assidere da padroni in Russia, vera terra di conquista. Forse incivilirono pure; ma la loro civiltà, non fu germe capace di pervadere il popolo russo, e, dargli l’impulso al progresso. Troppe differenze vi erano fra la natura del lievito e la massa da far fermentare. La civiltà non fu che una incrostazione, una vernice; e dove andò un po’ più in là della superficie, non fece evolvere il russo, ma germanizzò lo slavo. Ai primi tedeschi seguirono altri, chiamati, o spontaneamente venuti; ed il fenomeno continuò, fino alla vigilia della guerra, determinando quel predominio tedesco in tutte le attività della nazione russa, che saltava agli occhi, insieme all’altro dalla gran quantità di cognomi tedeschi in Russia.

     Cognomi tedeschi si incontravano fin nel medio ceto, fin nei villaggi; ma in numero grandissimo nell’aristocrazia; tedeschi nelle alte dignità dello stato, nell’esercito, nella marina; tedesca la corte; tedesca la dinastia, nonostante il cognome russo; tedeschi nelle in-dustrie e nei commerci. È vero, che molti di questi tedeschi, specie nell’alto ceto, si consideravano russi, specie se avevano abbracciato l’ortodossia. Ma in fondo non si sentivano meno tedeschi degli altri che erano la grande maggioranza: tedeschi di nome e di fatto della grande Germania, cementati tutti, come in una casta, dall’innato convincimento della propria superiorità, per cui guardavano il russo con tal quale pietosa degnazione. E sotto il loro influsso, tutto era ricalcato alla tedesca: il campo e l’officina; il laboratorio e la scuola: specie questa, negli insegnanti, nelle dot¬trine, nei programmi, nell’insegnamento tecnico. Alla Germania, come ad unico faro di scienza e di cultu¬ra, si appuntarono per anni gli sguardi della gioventù russa uscita da tali fucine, ed ancora desiderosa di apprendere. Qual meraviglia se questi russi divenissero, a loro volta, i coadiutori naturali dei tedeschi nell’irretimento germanico della Russia? Fu questa la lenta conquista morale.

     Che dire poi della sistematica conquista materiale, di gran lunga maggiore? Se la prima rimaneva in un campo più elevato, la seconda prendeva sovente le forme del sistematico sfruttamento. Chi non conosceva la rete di interessi commerciali, economici, individuali, collettivi, gettata dalla Germania sulla Russia, non di rado benevolmente annuente il Governo? Mi domandavo talora come, dopo decenni e decenni di lavorio tedesco, la Russia non fosse stata ancora assorbita dalla Germania (10).

     Altri e più gravi motivi si aggiungevano a questi per una guerra di liberazione; ed erano gli obiettivi della politica tedesca, incompatibili con gli scopi e le aspirazioni della politica russa. E, per ricordarne qualcuno, non aveva cercato la Germania, da Bismark in poi, di spingere sempre la Russia verso l’Estremo Oriente per tenerla lontana, vincitrice o vinta, dall’Europa, dalla Turchia, dall’Asia Minore; verso cui, viceversa, la Russia non poteva non tendere, per le sue aspirazioni ad un libero accesso al mare, cresciuto dopo la infausta guerra giapponese? E mediante quale lenta e complessa opera essa cercava di arrivarci e tenervisi! La difesa dei fratelli slavi del sud, i « bràtuschki», liberati dal giogo della Turchia a prezzo di sangue; i Luoghi Santi da rivendicare alla ortodossia; il groviglio dell’Asia Minore con tutte le questioni etniche ed economiche connesse: erano stati altrettanti scacchieri su cui aveva condotto il suo gioco pazien¬te, ostacolato volta a volta, dalla Francia, dall’Inghilterra, ma soprattutto dalla Germania: la Germania sempre più aggressiva, della Weltpolitik. Era tempo, dunque, di finirla; per non esser soffocati.

     Correvano poi sulla guerra tante altre e bizzarre voci; e venivano ripetute con tale insistenza ed asseveranza da chiedersi se non vi fosse pure in esse qualche grano di vero.

     Si diceva che alla guerra con la Germania, non fossero estranei intrighi di corte: che il partito delle principesse slave, Anastasia e Miliza del Montenegro ed Elèna di Serbia, mogli dei granduchi Nicola Nicolaevic’, Pietro Nicolaevic’, e Joàn Konstantinovic’, l’avesse vinta sul partito tedesco, che metteva capo alla imperatrice Alessandra, ed avesse spinto la Russia alla guerra. Di che si voleva vedere una prova nella nomina del granduca Nicola a capo supremo dell’esercito russo.

     Si parlava poi della « francofilia » di altri granduchi ed uomini di stato: francofilia, invero, proveniente assai più da odio per l’imperatrice Alessandra, come era il caso della famiglia del granduca Vladimiro, zio dello Zar, che da sentimento vero. Comunque, questi granduchi avrebbero forzato la mano, si diceva, all’Imperatore, mentre tentava ancora coi suoi telegrammi a Guglielmo II di scongiurare la catastrofe.

     Vi era pure la « corrente anglofila » della parte migliore del ceto delle industrie e del commercio, lontana ugualmente dai tedeschi e dagli ebrei, grandi detentori del commercio; corrente che, verso il 1914, pareva affermarsi come una reazione contro la germano- filia delle alte classi, e si trovò unita col popolo nel  l’odio antitedesco. Queste, ed altre bizzarrie correvano sulla guerra l’agosto del 1914; ed è probabile che non fossero tutte, o in tutto, dovute alla fantasia sfrenata.

     Ma, fino a che punto la Russia, venendo in aiuto dei «fratelli minori » serbi, come in passato aveva fatto pei bulgari, fosse nel 1914 militarmente pronta alla guerra con la Germania, che i suoi uomini di stato ritenevano inevitabile; questo nessuno osava neppur domandarselo. La «grandezza del paese» le «sue immense risorse», le «grandi riserve di uomini», erano argomenti da far velo non pure al giudizio dei più, ma anche a quello di menti avvisate. Il fatto dei telegrammi che lo Zar e l’imperatore di Germania continuavano ad inviarsi, mentre già si combatteva, non fu rilevato se non per vedervi la prova, o il documento storico del carattere debole, indeciso, titubante di Nicola II. Chi saprà mai se le sue « indecisioni » e «titubanze » dinanzi al cataclisma che stava per scatenarsi, non fossero indizio, o riflesso, di più tragica realtà: del contrasto cioè fra le circostanze politiche, che facevano balenare alla Russia la possibilità del raggiungimento delle sue secolari aspirazioni, e la situazione militare, impari alla preparazione po¬litica della guerra?

     A Pietroburgo, partite le Ambasciate di Austria e di Germania, cominciò l’espulsione dei maggiorenti delle rispettive colonie, l’internamento degli altri, la confisca dei beni dei più ricchi, di cui non pochi tedeschi della Germania. Fu espulso, fra gli altri, il Console d’Italia, che era un assai noto commerciante tedesco.

     Non che il governo russo avesse potuto con ciò colpire, o mirato a colpire in qualche modo l’Italia; ma dal fatto si cominciò a parlare, a discutere in pubblico ed in privato dell’Italia.

     Che farà l’Italia? fu la domanda che si ripeteva dovunque. Quale il suo atteggiamento? fu il problema intorno a cui cominciò a sbizzarrirsi la fantasia di tutti nelle conversazioni private, nei circoli, sui giornali. In una caricatura pubblicata da un giornale umoristico ai primi del 1915, l’Italia dormiva. Chi scriveva: troverà « qualche combinazione »; oppure: « è il paese di Machiavelli »; quando non erano contumelie pel « tradimento agli alleati ».

     I giornali più solidi, il «Nóvoe Vrémja» e le «Birgevye Védomosti, furono del coro, pur passando per varie fasi. Quando l’Italia dichiarò la neutralità, levarono lodi alla sapienza politica del nostro paese. Quando la neutralità cominciò a parer lunga, furono i consigli, le blandizie, le promesse di una partecipazione dell’Italia alla spartizione della pelle dell’orso, specie al momento della avanzata russa in Galizia e della presa di Leopoli. Ma, siccome l’Italia non si muoveva, seguiroo, in un terzo tempo, le insolenze e le minacce all’Italia che voleva trarre le «castagne dal fuoco con le mani altrui», e che « non avrà nulla »; o che «ce la pagherà». Si attribuiva a Sasónov la frase che «l’Italia sarebbe andata in aiuto del vincitore». È vero, che anche della Francia si diceva che «avrebbe combattuto fino all’ultima goccia di sangue… russo»; e della Russia, che era la « vache à traire » della Francia. Comunque, gli alti e bassi della stampa verso di noi, erano un riflesso dei giudizi e discorsi, che, su di noi correvano nelle alte sfere. Discorsi vaghi e lusinghieri dapprima; non senza tinta di minacce dopo l’avanzata dei russi in Galizia. Giudizi che portavano sempre l’impronta di un mal celato convincimento della po¬ca importanza politica dell’Italia, dello scarso valore del soldato italiano. E non poteva essere diversamen¬te. Allo stesso modo che si avevano in Italia idee ina¬deguate ed esagerate della grandezza e della potenza russa, fatte in buona parte di ignoranza, e pel resto di leggenda; così in Russia, l’Italia era ancora per i più associata al nome di Suvórov « il principe d’Italia », anziché a quello di Lamarmora della guerra di Crimea, di cui si parlava ancora come di audacia di pigmei contro il colosso slavo. Era l’Italia di Adua; della poveraglia emigrante; l’Italia, insomma, verso cui era permesso il doppio gioco delle promesse e delle riserve mentali di Sasónov; nel suo intimo, sempre ostile e maldisposto verso di noi, checché si affermasse in contrario.

     Fra alternative di tregua e preoccupazioni (la guerra era arrivata fino alla mia famiglia, come a tanti altri), passò l’inverno del 1914-1915. Le disfatte ai laghi Masuri degli eserciti russi, dopo Tannenberg e Soldau, non si poterono più tener nascoste. In Galizia invece, dopo la grandiosa avanzata, la posizione si continuava a dipingerla fortissima; tanto che il 24 aprile del 1915 Nicola II entrava trionfalmente a Leopoli ribattezzata in Lvov. Ma fu nulla più di un colpo di scena, perché i russi già abbandonavano le posizioni occupate fino allora sui Carpazi. L’imperatore dovè subito partire da Lvov; e sotto l’impeto dell’avanzata della Germania in Polonia, si iniziava la ritirata dalla Galizia che divenne poi una rotta. La Russia fu allora e per sempre sconfitta; e per la Galizia cominciava il martirio.

     Quando i russi, affermando sulla Galizia diritti storici, l’ebbero presa all’Austria, si levò un inno di gioia per la liberazione dei fratelli d’oltre confine dalla triplice schiavitù austriaca, polacca e cattolica. I nazionalisti esultarono, poiché il sogno dell’unione degli slavi d’oltre confine alla grande Russia della Moscovia si andava realizzando. Gli imperialisti parlavano già di confini della Russia dal Pacifico all’Adriatico e della Galizia conquistata, come di un primo passo verso questo nuovo sogno di Carlo V. È vero, che i soldati del granduca Nicola, entrando a Leopoli, avevano distrutto e saccheggiato, come in terra nemica; che contro la distruzione barbara di biblioteche ed archivi di grande importanza storica si levarono perfino voci di protesta nell’Accademia delle Scienze di Pietrogrado (così era stata ribattezzata con Ukas del 1° settembre 1914 la capitale, per restituirle, nel nome stesso, il carattere slavo, offuscato fino allora da quel « burgo » tedesco). È vero pure che il saccheggio della città dovette essere inaudito, se a Pietrogrado, in moltissime famiglie di ufficiali combattenti in Galizia, arrivarono oggetti di ogni specie: quadri, porcellane, argenterie, merletti, abiti di seta, perfino biancheria femminile, che non si aveva ritegno di mostrare, quasi trofei di guerra. È vero anche che i «ritorni in massa» degli «uniati» (gli ortodossi uniti a Roma) galiziani alla chiesa ortodossa erano largamente preparati dall’oro sui cedevoli, e dalle misure forti verso i riluttanti. Certo è che, impadronitisi i russi della Galizia, i giornali non si stancarono di ripetere la gioia dei ruteni nel sentirsi alfine liberi…; il desiderio vivissimo degli «uniati» di romperla con l’odiata Roma e l’eresia latina, e tornare in grembo della Chiesa Ortodossa, la madre antica; ed in conseguenza il ritorno di interi villaggi di uniati alla Ortodossia. L’età dell’oro insomma era schiusa dalla Russia alla Galizia. Ma al momento in cui i ruteni, in occasione delle feste del Natale e dell’Epifania, così solenni nella chiesa orientale, avrebbero potuto manifestare la loro gioia di sentirsi doppiamente redenti in politica ed in religione; e le chiese, sottratte al compromesso di Roma, avrebbero dovuto echeggiare di inni di ringraziamento al Dio delle vittorie russe, i giornali facevano invece sapere che Leopoli, la capitale della Galizia redenta, era come in lutto, senza se¬gni di festa, le chiese deserte. «Tristi furono il Natale e l’Epifania a Leopoli, e solo in una modesta cappella cattolica le funzioni religiose della notte di Natale su-scitarono l’emozione dei fedeli» scriveva il «Vecérnoe Vrémja» del 9 gennaio 1915 in un articolo sul «Natale a Lvov». Amara costatazione, e quasi triste presagio. L’imperialismo degli ultra nazionalisti volle a tutti i costi che lo Zar andasse a Lvov, e Nicola II vi andò; ma il cannone tedesco già tuonava più forte e sempre più vicino; e venne la rotta. Un ufficiale medico della III armata russa, durante la ritirata dalla Galizia, scriveva: «Occorrerebbero Dante e Geremia per poter rendere sia pur pallidamente le sofferenze, il tremendo calvario di questa ritirata. Un’unica e stretta via statale per la quale si movevano le truppe, e quasi un milione di profughi: gente che da un pezzo aveva lasciato le case, nascondendosi nei boschi per sfuggire all’ira e alle vendette dei vecchi e dei nuovi padroni. La via che non finiva mai. Il po’ di cibo che si poteva avere né buono, né caldo. I riposi notturni malsicuri, perché gli aviatori nemici gettavano bombe sui fuggiaschi, ed in mezzo a tutto questo il colera… »

*

     La ritirata dalla Galizia durava ancora, quando il 24 maggio 1915 l’Italia entrava in guerra.

     A Pietrogrado si indisse la mobilitazione degli Italiani; ed io manifestai all’Ambasciatore il desiderio di tornare in Italia. Mi rispose che a partire vi sarebbe stato tempo, e che intanto io potevo essere più utile in Russia; egli pensava anzi a me per la carica di Console che mi offrì. Rifiutai, adducendo l’assoluta impreparazione a funzioni così diverse e lontane dal mio lavoro abituale, e più difficili ancora nelle circostanze del momento. Non ne volle sapere; mi disse che non era tempo di discutere; che il Console « avrei imparato a farlo », ed alla metà di luglio mi affidò la reggenza del Consolato. Sei mesi dopo, il 1° gennaio del 1916, ebbi la nomina consolare. Fui così Console d’Italia a Pietrogrado nel periodo più grigio della guerra, ed in quello peggiore della rivoluzione, che segnò la scomparsa del regime zarista.

     L’entrata in guerra dell’Italia accanto alle nazioni dell’Intesa (11)  suscitò l’entusiasmo a Pietrogrado. Cortei numerosi andarono a far dimostrazioni dinanzi all’am¬basciata, fra sventolar di bandiere ed inni patriottici. Cominciarono i peana all’Italia; si stamparono libri dedicati ad essa; ogni italiano divenne l’amico di tutta la Russia. Fu molto popolare una cartolina col ritratto di Vittorio Emanuele III nell’uniforme del 16° reggimento degli Ulani, di cui era colonnello ono¬rario, in contrapposto di una caricatura di Guglielmo II.

      E vennero per me le giornate di lavoro intenso, che si seguirono, senza tregua sino alla fine.

     Vi erano gli italiani profughi dall’interno della Russia, che cercavano di guadagnare l’Italia. Vi erano gli «irredenti», la cui posizione era delle più tragiche: considerati austriaci dalla Russia, epperò perseguitati come nemici, e d’altra parte non ancora cittadini del regno, tuttavia senza protezione ufficiale nostra, si tro-vavano quasi fuori legge. Per essi presi la iniziativa, e mi assunsi la responsabilità, che non rimpiangerò mai, di fornirli di un documento di protezione. Ricordo le lagrime di molti vecchi trentini quando l’ebbero. Eppoi, vi era la Società di Beneficenza che continuava a far capo a me, nonostante ne fossi uscito in seguito alla nomina consolare; ed infine il lavoro quotidiano d’ufficio, e il desiderio di compierlo col massi¬mo scrupolo. A questo si aggiungevano le occupazioni all’Istituto aumentate a causa della guerra; perché oltre il Servizio Antirabbico avevo del lavoro pure alla sezione di Anatomia Patologica. Eppure, alla sopravveniente stanchezza serotina, ero contento della mia giornata; e, nella speranza di un domani che apportasse il riposo, i giorni volavano.

     La ritirata dalla Galizia segnò la sconfitta della Russia, benché a molti non paresse. La Russia si ritirò dalla Galizia per mancanza di rifornimenti di guerra, e d’allora non ne ebbe più, per lo meno da poter tentare forti offensive contro gli austro-germanici; i soldati cominciarono ad avvilirsi sul fronte, mentre alle loro spalle si tessevano intrighi e tradimenti, che, attraverso ministri e generali, arrivavano alla corte, all’Imperatrice, alla Germania. I giornali passarono dagli accenni velati alle accuse aperte; e, mentre della disfatta della Galizia si faceva cadere la colpa sul generale Sukhomlinov, ministro della guerra, e su coloro che gli stavano intorno; della disfatta ad Augustovo, specialmente della caduta di Kóvno, nell’agosto 1915, abbandonata ai tedeschi quasi senza difesa, si fece colpa al colonnello Mjasoédov, accusato di tradimento. Sukhomlinov fu revocato, Mjasoédov condan nato a morte. Ma non ne era ancora spento il ricordo, che, l’autunno del 1915, i giornali cominciarono di nuovo a parlare di tradimenti che si tramavano in alto; si facevano allusioni ai circoli intimi di corte, specie a quello della zarina Alessandra, si denunziava apertamente Rasputin, di cui fino allora si era appena sussurrato il nome, come persona assai vicina all’Imperatrice, sulla quale aveva un nefasto potere. A lui si attribuivano cambiamenti di ministri liberali e nazionalisti con altri notoriamente germanofili; a lui l’allontanamento del granduca Nicola dalle armate dell’ovest, e il passaggio al comando di quelle del sud. Ogni giorno erano nuove rivelazioni su di lui, ed ogni volta si colpiva ora una ora l’altra dama di corte, o della aristocrazia, o dell’alta società impigliata nella vita corrotta di quest’uomo.

     E tutti si domandavano come mai un semianalfabeta venuto dal fondo della Siberia, il cui solo cognome (Rasputin da rasput: dissolutezza) ne diceva abbastanza delle sue qualità morali; uno «strànnik», un girovago come tanti ladri e furfanti, e lui lo era stato, ma, come pochi, depravato e vizioso, fosse potuto arrivare così in alto. E la cosa appariva un enigma, nonostante quel che si arzigogolava sul «misticismo russo» e sulle aberrazioni a cui poteva menare.

      Enigma, certo, apparve e ed appare il fenomeno Rasputin a chi lo considera isolatamente, come da molti si fece ed ancora si fa; ma non più tale, ove sia ricollocato nel quadro delle sètte dell’Ortodossia, e, fra tutte, di quella « khlystóvscina»: la setta dei flagellanti, in cui aberrazioni dei sensi ed esaltazioni dello spirito, pratiche di sensualismo brutale e precetti evangelici, profetismo messianico e volgare furfanteria erano stranamente mescolati, da far dubitare della saldezza della mente umana.

     La Chiesa Ortodossa, vissuta lontano dall’anima del popolo, aveva non poco contribuito a che questo si lasciasse trasportare dai fanatismi delle sue aberrazioni, nella istintiva ricerca del Divino, nello sforzo della elevazione; non era scesa con la parola ad illuminare, o con la forza di argomenti a sorreggere, sostenere, ricondurre gli erranti. Si unì solo alla polizia nel reprimere. E aberrazioni furono tutte le sètte oscuramente pullulate in margine alla Ortodossia, dalle più puritane alle più oscene, che trovarono, nella mentalità primitiva di rozzi cervelli del popolo, e di menti ignoranti di contadini della lontana Siberia, degli Urali, del Volga, pronti adepti, e seguaci fervidi. Purtroppo, le sètte non rimasero fra il popolo e i con¬tadini. Non poche, dal fondo delle oscure terre dove erano germinate, raggiunsero le luci delle due capitali, e spinsero i loro rami fino alle vette dell’alta società di Pietroburgo e Mosca. Vi trovarono quelle « intellettuali » ed aristocratiche sazie di piaceri, alla ricerca continua di nuove e rinnovantisi sensazioni, nelle quali facilmente i bassi istinti si ammantavano di «misticismo», e le vane ricerche di comunicazioni col Divino fuori chiesa finivano in morbose e torbide superstizioni. Non occorreva di più, perché queste divenissero le ammiratrici, le adoratoci degli «strànniki», degli «starzi», dei «khlysty» e dei loro culti, che assicuravano, nello stesso tempo, soddisfacimenti allo spirito ed alla carne. E fu il caso di Rasputin. Ma non per queste ragioni egli dominava la Zarina, che neppure i peggiori nemici poterono mai accusare di immoralità; bensì, pel fascino col quale, agli occhi di una madre non sana di mente, sembrò il salvatore del povero figlio malato. E chi non perdonerebbe all’amore strapotente di una madre pel figlio, a cui non è riuscita a dare la salute? Sol che questo     non era l’affare di una famiglia privata; ma si rifletteva su una corte e su di uno stato nel momento più critico della sua esistenza.

     Nella torbida atmosfera di intrighi e perfidie della politica e della guerra, a molta gente interessata Rasputin apparve utilissimo strumento da mettere in gioco. Lo intuì subito la Germania e ne profittò; e, tramando attraverso Rasputin che dominava l’imperatrice Alessandra, unica capace di dominare il marito, cercava di riavere in suo potere Nicola II. La rete di intrighi si allargava, il fango saliva sempre più in alto, minacciando di sommergere tutti, la potenza di Rasputin si faceva sempre più esiziale per la Russia. Allora fu che non solo nella stampa; ma nella Duma si levarono voci contro di lui. Alla fine di novembre del 1916 il Miliukóv, capo del partito dei costituzionali democratici, pronunziò un discorso che fu una vera requisitoria al governo. Denunziava la disorganizzazione crescente del paese, le mene del ministro Stùrmer che fomentava gli scioperi nelle officine Putilov, per creare imbarazzi nell’interno ed avviare la Russia ad una pace separata con la Germania; parlò di Rasputin, e del suo influsso sulla nomina di ministri sempre più ligi alla Germania. Ma la sua rimase voce nel deserto; il potere di Raspùtin cresceva ed il ministro dell’Interno, Protopópov, che, si diceva, dovesse la nomina proprio a lui, diventava anche più tracotante. La situazione del paese si aggravava di giorno in giorno, fra le rinnovate accuse della stampa, e di uomini politici, al governo, ed il crescente spirito reazionario dei governanti e delle camarille di corte, che si sentivano ancora potenti. E le sorti della guerra volgevano sempre più sfavorevoli, nonostante lo slancio di reparti, che si battevano ancora con valore sul fronte austriaco. Qualcosa di grave, di tragico, si senti¬va nell’aria sul finire del 1916.

     Il 29 dicembre (16 dello stile russo), Raspùtin fu ucciso; e si seppe subito dove, come e da chi. Il cadavere, ritrovato alle foci della Neva, fu seppellito a Zàrskoe Selò in un angolo del giardino del Palazzo Imperiale. Dopo l’assassinio, si parlò di una lettera scritta nel novembre da una dama di corte, la principessa Sofia Vasilcikova, alla Zarina, nella quale la scongiurava di tener conto dei sentimenti del paese e di allontanare dalla corte Resputin, che tanto fango gettava sul trono e sulla famiglia imperiale. Vera o no la lettera; la principessa Vasilcikova fu inviata in un monastero di Cernigov, per ordine dell’imperatore, «per essersi prestata a far da intermediaria a proposte di pace separata con la Germania»: al che nessuno credette.

     Il culto superstite pel «martire» da parte dell’imperatrice Alessandra, se fu nuovo argomento in mano dei nemici di lei per diffamarla ancora; mostrava però, anche ai meno appassionati, fino a che punto la Corte nei tragici momenti della guerra, non tenesse conto dei sentimenti del popolo. Ma, purtroppo, da tutti apertamente si parlava di Nicola II, come di uomo non privo di volontà, ma tentennante sempre; non all’altezza del momento e degli avvenimenti che si svolgevano con fulminea rapidità intorno a lui; amante del suo popolo, ma dominato in tutto dalla Zarina. Di costei, come di una malata di mente, chiusa sempre più in se stessa, in preda a idee oscillanti fra la mania di persecuzione, la mistico-religiosa e l’amor materno, che assumeva in lei forme straordinarie. Delle figlie, come di esseri abbandonati a sé, fondamentalmente buone; ma guaste, forse, dall’ambiente, in cui vivevano isolate. Di tutti, non come di dominanti, ma di dominati, stretti nella rete di intrighi, ordita dal gruppo dei governanti reazionali e germanofili, o venduti alla Germania; ma perfidamente rappresentata al popolo come proveniente dalla Corte. Ed invero, questa Corte, a chi l’avesse considerata fuori della suggestione e del fascino della regalità, sarebbe apparsa una miserevole unione di povere deboli vittime di quella potenza, che tutti attribuivano o riconoscevano loro. Creature impari al peso e alla forza di questa stessa potenza; incapaci, certo, di servirsene per fare deliberatamente il male; ma ugualmente incapaci di servirsene per fare il bene; meschini es¬seri, con quel che di più miserevole e fragile ha l’umanità, mentre occorreva fossero giganti od eroi nell’ora in cui vissero.

APPENDICE – « Sulla attività economica della Germania in Russia prima della guerra ».

      La Russia trovava il principale sbocco dei suoi prodotti nella Germania; questa, per converso, era riuscita a monopolizzare quasi l’importazione in Russia. La Russia non solamente era inondata di prodotti tedeschi, ma riceveva per il tramite della Germania la massima parte dei prdotti esteri. Nel periodo 1904-1913 più di 1/3 dell’amento totale della esporazione russa ed 1/2 della importazione furono a carico della Germania.

Le cause di questo asservimento commerciale della Russia alla Germania, molteplici, né tutte recenti, né tutte di carat¬tere economico, si potevano riassumere così:

1.         La vicinanza dei due paesi, confinanti per lungo tratto di frontiera di agevolissimo transito;

2.         Lo sviluppo delle reti ferroviarie tedesche retrostanti a queste frontiere, e le tariffe ferroviarie, tali da mettere in ra-pida e facile comunicazione la Russia coi porti di Danzica, Stettino, Amburgo;

3.         Le larghe sovvenzioni del governo e delle banche tedesche alle imprese commerciali dei sudditi germanici in Russia, e conseguentemente;

4.         Il più lungo credito accordato ai compratori russi in Germania;

5.         Il regime doganale privilegiato fatto alla Germania col trattato del 1904;

 6.        Il predominio del naviglio mercantile germanico nel Baltico;

7.         La conoscenza profonda acquistata dalla Germania del mercato russo nel campo commerciale ed industriale, sia per mezzo di missioni speciali inviate negli ultimi anni in numero sempre maggiore, sia per mezzo di attivi e numerosi agenti commerciali sparsi per tutto il paese. I quali tenevano sistematicamente al corrente il governo germanico della situazione economica, commerciale ed industriale della Russia non solo; ma raccoglievano e vagliavano con cura anche i dati che a prima vista potevano parere insignificanti. In grazia di che si venne formando quella ricca bibliografia tedesca sulla Russia agricola, forestale, commerciale ed industriale, la quale solo più tardi, ed in minima parte, passava in dominio del pubblico europeo, come unica fonte di notizie sulla Russia;

8.         La duttilità del produttore tedesco, che non imponeva il suo tipo di prodotto; ma si adattava a fornire quello che l’acquirente desiderava, contrariamente agli altri produttori.

9.         Tutte le altre cause infine di più vecchia data, che si po¬trebbero riconnettere a quelle influenze politico-intellettuali che la Germania da lunga èra esercitò sulla vita interna della Russia.

     Il porto di Pietrogrado-Krostadt era dominato dalle bandiere estere e fra queste la prima era bla tedesca.  Se si tiene presente che la frontiera baltica e la russo-prussiana erano quelle in cui il traffico russo con l’estero presentava i valori più alti,  si comprenderà quale importanza dovesse avere il naviglio mercantile germanico nel movimento commerciale della Russia, a preferenza di quello degli altri paesi.

     Banche esclusivamente tedesche non esistevano in Russia; tuttavia parecchie di quelle esistenti, e non erano delle minori, facevano capo a Berlino. Sorsero quando il Ministero russo delle Finanze compiva  quasi tutte le sue operazioni finanziarie all’estero per mezzo dei banchieri tedeschi, ed il mercato del rublo all’estero era regolato esclusivamente da Berlino.

     Ma non a questo solo si limitava l’influenza della Germa¬nia nella vita economica della Russia. Negli ultimi decenni la Germania pose una cura particolare nell’accaparrarsi la proprietà fondiaria rurale, incamminandovi ed accompagnandovi forti correnti colonizzatrici tedesche. Da vecchia data le pro¬prietà fondiarie dei russo-tedeschi erano amministrate e lavo¬rate da personale fatto venire dalla Germania e dall’Austria. Ma quel che è meno noto, è il fatto che numerose proprietà fondiarie furono acquistate negli ultimi anni, nelle migliori regioni russe o nelle zone prossime alle frontiere, da tedeschi, ed immediatamente colonizzate da lavoratori venuti di fuori, si che in breve erano divenute vere colonie agricole germaniche. Spesso questi acquisti erano fatti da persone di nota fortuna che agivano per conto poprio; ma sovente gli acquirenti erano prestanome di banche o imprese tedesche che avevano fornito i capitali ed avevano a questo modo le loro vedette avanzate nei posti più importanti commercialmente (regioni lungo il Volga), o politicamente (governatori occidentali) della Russia. Infine in molte imprese industriali sotto la bandiera di altri stati, era il capitale ed il controllo tedesco che penetravano in Russia. La maggior parte, ad esempio, delle società belghe di imprese elettriche che avevano gettato una larghissima rete di affari su tutta la Russia, erano solamente in apparenza belghe, in realtà erano compagnie tedesche costituitesi nel Belgio. Non vi era insomma ramo o manifestazione della vita economica russa degli ultimi anni, dove non avesse finito per metter piede l’elemento tedesco e con vantaggio non solo individuale, ma della Germania intera.

     E vi era poi, a rincalzo, l’influenza politica della Germania in Russia, assai grande in passato ed ancor tale negli ultimi tempi che teneva a quelle molteplici e specialissime condizioni in cui vennero a trovarsi negli ultimi due secoli i due stati fi¬nitimi, e che vanno dalle influenze dinastiche alle correnti di cultura, alla eterogenea costituzione della Russia.

     Basterà ricordare: 1. La lunga serie di matrimoni contratti dalla Corte russa in Germania sin dalla prima metà del secolo XVIII, che contribuirono in buona parte alla formazione di quei circoli di corte in tutti i tempi potentissimi all’interno e favorevoli alla Germania all’estero, da cui fino al 1905 ed oltre provennero gli elementi di governo della Russia; 2. Le correnti intellettuali tedesche che traevano sussidio ed appoggio materiale dalle influenze dinastiche, e che andavano dalla scuo¬la primaria all’università; dai libri, ai maestri; 3. L’elemento tedesco e semitedesco così diffuso nelle classi russe superiori e medie e dotato di tutte le qualità ed attitudini della razza, contro le quali la massa del popolo russo era meno di ogni altra capace di resistere. Massa eterogenea, perchè risultante di elementi etnici vari e a diverso livello di civiltà. I più evo¬luti (Polacchi, Baiti, Finni) presi già nell’orbita della cultura occidentale. Gli altri, quelli che, si potrebbero chiamare all’ingrosso la Russia ortodossa, tra russi di Moscovia, bianco¬russi, allogeni del Caucaso, ucraini, privi di una coscienza na-zionale, privi del retaggio di passate eredità da custodire. Massa perciò, quanto mai adatta a subire od accettare infiltrazioni dal di fuori.

IV

1917-1919

10.       LA RIVOLUZIONE

     Il 1917 sorgeva fra lo stupore per l’assassinio di Rasputin, ed una grande esaltazione di spiriti. I nazio¬nalisti anelavano alla vittoria; ma comprendevano che non si poteva ottenerla con un governo, parte di tra-ditori al servizio della Germania, parte di incoscienti, che vedevano tendenze rivoluzionarie fin nelle aspira¬zioni patriottiche del paese. I soldati disertavano su larga scala. La Germania, che traeva partito da tutto per spingere la Russia ad una pace separata, non ristava dal tramare, servendosi nello stesso tempo dei reazionari e dei rivoluzionari.

     Il fatto è che la Russia cominciava a piegare, apparentemente sotto il peso della guerra, in realtà, per le condizioni interne del paese. Il quale non aveva più governo; come l’esercito non aveva più comando, da quando, nel settembre del 1915, l’Imperatore, congedato il granduca Nicola, lo aveva assunto lui, traspor-tando al quartier generale gli intrighi di corte, già manifesti nel governo dello stato, e che si facevano risa¬lire all’Imperatrice, alle sue poche intime e, dietro di loro, all’ombra superstite di Rasputin.

      L’atteggiamento reazionario e germanofilo del Pro- topópov accreditava il nome di traditore, con cui lo designavano i soldati e gli operai. Ricordo che al ri¬cevimento all’Ambasciata, in occasione dell’arrivo a Pietrogrado della missione italiana per la conferenza militare interalleata del febbraio del 1917, nessuno degli uomini politici che erano fra gli invitati lo avvi-cinò; rimase solo tutta la sera.

     Viceversa, in un ricevimento dato alla missione commerciale che seguì di poco la precedente, il Mifiukóv fu molto festeggiato. Queste manifestazioni erano oltremodo significative; vi si sentiva la tempesta.

     Un nostro ufficiale, pochi giorni dopo l’arrivo delle missioni, mi diceva: « Sarebbe bene che partissero subito, se no assisteranno alla rivoluzione ».

     Se ne parlava già nel gennaio del 1917; come si sussurrava pure di un attentato, chi diceva allo Zar, chi alla Zarina, il cui autore, un ufficiale, sarebbe stato giustiziato quasi sul posto. Si parlava pure di una specie di complotto nella famiglia imperiale, che metteva a capo alla granduchessa Maria Pavlovna, diretto non si sapeva se contro l’Imperatore o l’Imperatrice; ma da cui promanò il «passo» fatto presso l’Imperatore in quel tempo, per rappresentargli le gravi condizioni del paese: passo, che non sortì l’effetto sperato. Protopópov, da parte sua, assicurava che avrebbe tenuto fronte alla posizione interna, che si acuiva sem¬pre più; e pretendeva combatterla (insana sfida, o cecità incosciente, non saprei dire) colla repressione violenta, a cui dava appiglio con atti di provocazione, che andava compiendo fra gli operai delle fabbriche per mezzo dei suoi agenti.

     Assunse il comando della difesa di Pietrogrado, prendendo in sottordine il generale Habàlov. Miliukóv, che andava sempre più emergendo, ed appariva agli occhi di tutti uno dei maggiori uomini di quel momento, ed anche di un atteso nuovo governo, avvisò tramite i giornali, gli operai di non cadere nell’agguato delle provocazioni. Rodziànko, presidente della Duma, alla riapertura di questa, invitava nel suo discorso il popolo ad evitare sommosse e movimenti inconsulti. E Habàlov aggiungeva un manifesto, minacciando severe punizioni agli operai che si fossero ammutinati, o avessero sospeso il lavoro. Fu l’ultimo del vecchio regime.

     Era ancora affisso alle cantonate, quando la rivolta, appena scoppiata il 12 marzo (27 febbraio, stile russo) apparentemente per le difficoltà degli approvvigionamenti, trionfava.

     Molto si è scritto sulla rivoluzione russa; ma non ancora la storia. Perché, quella che finora si vorrebbe far passare per tale, non è che opera di denigratori o di apologeti, mossi da passione di parte; se pur non si tratta di narratori estranei e lontani, che non videro mai la Russia, e che spesso ridussero il quadro di uno dei più grandi avvenimenti della vita di un popolo solo ai fatti più salienti uniti col criterio dell’« hoc post hoc ».

     Le cmente nei fattori economici e sociali; altri nello sfacelo della società russa prima della guerra, o nella stanchezza prodotta dalla guerra; altri in fattori politici, intellettuali, culturali; e perfino nella carestia di viveri, gravissima certo, ma non estrema, né ugualmente risentita nelle città e nelle campagne.

     Ma chi pensi al corso degli avvenimenti; al loro rapido dilagare; al loro precipitare verso un fine immediato, che parve raggiunto con l’abdicazione di Nicola II, comprenderà come, anche senza le difficoltà di vettovagliamento dell’ultima ora, la rivoluzione sarebbe scoppiata lo stesso.

     È che le cause di ciò che accadde in Russia nel 1917 risalgono assai lontano; ed, a volerle mettere in luce,  bisognerebbe cominciare da un esame di tutta la Russia di allora: dallo stato al regime; dalla psicologia del popolo alla chiesa; dalla cultura e dalle condizioni sociali del paese alla economia, e risalire nei secoli.

     Lo stato e il regime, nonostante le libertà largi-te il 1905, e le quattro Dume convocate fra il 1906 e il 1914, erano, al secolo XX anacronistici. L’autocrazia di Nicola II era, certamente, diversa, ed, in realtà, lontana dalla concezione che ne avevano Giovanni il Terribile, Pietro il Grande e Caterina; ma il concetto della dignità umana, del valore morale del¬l’elemento uomo, non era, sotto Nicola II, molto più avanzato di quel che non fosse in tempi più remoti. Il mugik-cosa non era ancora eliminato dalla mentalità di molti uomini di governo, di molti aristocratici, anche se parlavano di uguaglianza e riforme.

     Vi era poi lo stato nello stato, costituito dalle camarille e dai circoli di Corte, che in Russia ebbero sempre grande influenza sulla politica estera ed interna del paese. All’estero pel tramite e col favore delle Imperatrici da due secoli straniere e per lo più tedesche; all’interno per mezzo della polizia ed anche del clero: purtroppo, non sempre strumento di elevazione morale del popolo, non di rado organo a disposizione della polizia.

     Dopo lo stato e il regime, il paese ed il popolo. La Russia era un vestito d’arlecchino, più che non lo fosse la Dualista Monarchia Danubiana; con questo in peggio che, mentre l’Austria, fra i suoi diversi elementi etnici, era riuscita a creare legami economici, che, se non cementavano, riuscivano a tenere insieme le diverse parti dell’impero; la Russia non aveva fatto che perseguitare tutte le nazionalità dello stato; non era riuscita, neppure, in due secoli, a fondere i due elementi etnici più affini per origine e religione: gli ucraini e i grandi russi. Nessuna meraviglia quindi che gli allogeni avessero agito sempre come forze disgreganti. Ma, anche a parte gli allogeni, e limitandosi ai « grandi russi della Moscovia », che dello stato formavano il nucleo centrale e più omogeneo dal punto di vista etnico-religioso, bisogna tener presente come neppur essi fossero cittadini; ma sudditi, dominati da una classe di privilegiati, punto disposti a rinunziare per sé e pei discendenti ai privilegi di cui godevano. E bisogna ricordare ancora come, per ragioni etniche, storiche, geografiche, questo nucleo russo nel suo insieme, nonostante innegabili progressi, fosse lontano dalla civiltà di altri gruppi etnici più evoluti, come i polacchi ed i finni; e come, infine, la cultura che pareva aver raggiunto fosse sovente null’altro che vernice.

La Chiesa, immobile nella magnificenza del culto, che colpiva la fantasia del popolo, non arrivava al cuore e alla intelligenza del popolo stesso. Il precetto: «Docete omnes gentes», la missione evangelica non mi parve che avesse trovato una larga attuazione nella Chiesa Russa. La conservazione e la diffusione della Ortodossia non erano confidate all’apostolato missionario della Chiesa Ortodossa; ma alla forza unificatrice della legge civile, che voleva ortodossi i figli di orto¬dossi. La religione si chiudeva più e più nella rocca dei santuario, nella maestà del tempio, ed il popolo se ne allontanava, correndo dietro a superstizioni o scismi. 

     Chi non sa delle innumerevoli sette religiose della Russia, che, nell’ambito stesso dell’ortodossia, andavano dall’ultra conservatorismo dei staroviéry alle forme anarcoidi degli stranniki nomadi? E dei riflessi che una religione scarsamente e malamente compresa, aveva sulla moralità del popolo? E della società più guasta che sana? Guasta, non per decrepitezza; ma per precoce corruzione di un organismo non ancora maturo? E con questo e su questo, un fatto non misconosciuto neppure dai russi studiosi dei fenomeni sociali del loro paese: la mancanza sia nel popolo, che nelle classi superiori, di un vero, forte, profondo senti¬mento nazionale; sentimento, dico, e non orgoglio, che orgoglio ne avevano e quale e quanto, i russi della Moscovia!

     Su questa Russia passò l’ala distruggitrice della guer¬ra; e fu la rivoluzione.

     Allora, le condizioni economiche del paese preci¬pitate durante la guerra; gli scandali di corte; Rasputin; la questione agraria, non avrebbero avuto impor¬tanza nello scoppio della rivoluzione?

     Non dico ciò. Ma, la questione agraria, una delle più vecchie della Russia, fu assai più discussa dai teorici dalla cattedra, anziché invocata, fin dai più profondi conoscitori di essa, come rivendicazione tale da produrre una «rivoluzione politica» in un paese come la Russia zarista. Gli scandali di corte furono di tutti i tempi, anche di quelli della gloriosa Caterina; e di tutti i luoghi, non soltanto della Russia: assai più indici, che determinanti di avvenimenti storici. Le condizioni economiche erano gravi, è vero; ma

la Russia  stessa ne aveva visti peggiori.

*

     La rivolta, appena scoppiata, trionfava, divenuta rivoluzione. Fu un incendio che divampò in un attimo,  poiché da lungo tempo covava. In tre giorni la guarnigione di Pietrogrado era dalla parte dei rivoltosi, anche i reggimenti della Guardia imperiale. La debole resistenza dei Cadetti di marina, a Vasil’evskij Ostrov e di qualche altro collegio militare fu presto vinta. Il 14 marzo io incontravo per la via Morskàja i marinai della Guardia col loro comandante, il granduca Cirillo, che si recavano a prestar giuramento alla Duma. La quale fu nei primi giorni della rivoluzione l’organo supremo di governo. Dalla Duma, sotto la presidenza dello stesso Rodziànko, uscì il «Governo Provvisorio», formato quasi tutto di uomini del partito democratico costituzionale. E, nella prima seduta, non mancò di mettere in rilievo come nessuna rivoluzione si fosse compiuta così pacificamente, e con così poco spargimento di sangue, come la russa. Qualcuno osservava, che la rivoluzione incominciava appena; e che soltanto più tardi si sarebbe potuto dire se fu pacifica o no. È vero pure che vi furono saccheggi e distruzioni (erano stati incendiati il tribunale, gli archivi giudiziari, la sede della polizia segreta, la prigione politica); che molte vendette private nei primi giorni della rivoluzione avevano trovato sfogo facilmente ed impunito; che man bassa aveva fatto la plebe, la quale aveva mostrato istinti assai lontani dai più puri ideali. Ma la esalta¬zione della gente in quei giorni era tale, che tutti cre¬devano esser la rivoluzione null’altro che quel che era stato fatto: la deposizione di Nicola II, che seguì a pochi giorni dalla rivolta, e che valeva bene, si ripeteva, qualche sacrifizio di vite e di cose, inevitabili in ogni mutamento nella storia dei popoli. Tutti vedevano nella rivoluzione l’avvenimento che avrebbe appagato i voti di ognuno, fossero pure i più diversi, ed opposti, e discordanti. Per i reazionari germanofili, era la favorevole occasione per una pace separata con la Germania, che assicurasse, col ritorno alla vecchia amicizia, la conservazione e la restaurazione, su più rigide basi, dell’idea imperiale nei due paesi. Per i nazionalisti, la rivoluzione era l’arra della vittoria, eliminati il debole Nicola II, la germanofila Alessandra, gli intrighi di corte, il superstite fango di Rasputin, il peculato nelle amministrazioni dello stato; e della risurrezione della Russia, assisa al posto che le spettava nel consorzio delle nazioni. I socialisti speravano da essa tutte le rivendicazioni sociali, a vantaggio della massa di servi, che era il popolo russo; e l’attuazione, fosse pure in via di esperimento, di tutti i postulati della loro dottrina. E dovunque, si parlava, e si discuteva. Questo popolo rimasto in soggezione per secoli; e, per secoli, condannato al silenzio, si abbandonò all’ubriacatura del parlare: per giorni, per mesi non vi furono che comizi, logomachie in basso ed in alto, principalmente in alto.

     Nel Governo Provvisorio, con la guerra da menare innanzi, come impegno di onore verso gli alleati, invece di energici sforzi per riparare il passato con raddop¬piata energia, si facevano parole e parole. Non si preparava il paese alla Assemblea Costituente, promessa ed aspettata; ma si governava all’occidentale in mezzo ad una parlamentarismo vuoto e sfatto. I partiti politici si spezzarono in mille frazioni, ed i giornali li seguirono; sicché ogni giorno ne appariva uno nuovo. Quanti non ne sorsero in Russia fra il marzo e l’ottobre del 1917 e di quanti diversi colori: la libertà non si era conquistata per ischerzo! E si scriveva, si polemizzava, si dissentiva fra i diversi gruppi, o aggruppa¬menti politici; più spesso nello stesso gruppo.

      Dissensi scoppiarono in seno al governo, Miliukóv e Gucikóv, ne uscirono; e, verso la fine di maggio, dal primo governo più o meno omogeneo, si passò ad un governo di coalizione di cui Kerénskij ed altri socialisti erano magna pars. Gli operai, che da tempo avevano i loro consigli di fabbrica, i « soviety », attivi centri di propaganda socialista, all’indomani della rivoluzione comparvero alla luce del sole; allargarono i consigli estendendoli ai soldati e ai contadini, e ne vennero i « consigli dei rappresentanti dei contadini, degli operai e dei soldati », che si installarono nel Corpo dei Cadetti di Marina a Vasil’evskij Ostrov. Proclamatisi custodi difensori delle conquistate libertà, per prevenire o sventare qualsiasi attentato ad esse da parte della borghesia o del vecchio regime, furono governo nel governo; e, sempre più audaci, finirono col sovrapporsi al governo provvisorio. Ma dissensi scoppiarono nei soviety e, dai socialisti riformisti, che per poco poterono tenere in freno gli operai e ne godettero le simpatie, si passò, nelle successive elezioni dei direttori o presidenze dei gruppi, ad elementi sempre più accesi. Comizi dovunque; e grande agitarsi di bandiere e stendardi non più rossi, come all’inizio della rivoluzione, ma neri. L’avvento di Kerénskij al potere, come Ministro della Guerra e della Marina, parve arginare per poco la marea che saliva; ma fu un attimo sorpassato dagli avvenimenti, che incalzavano; le giornate di luglio lo provarono, e non avrebbero dovuto lasciare più illusioni sul corso della «rivoluzione pacifica».

     Tornati in Russia, in seguito all’amnistia concessa dal governo provvisorio, e col favore e l’aiuto dello Stato Maggiore tedesco, i fuorusciti politici del regime zarista, con Lénin e Trózkij a capo, si dettero ad una attiva propaganda nei maggiori centri; a Pietrogrado ad un lavoro anche più intenso, per staccare il popolo dal governo; e, nel governo, i socialisti dai «borghesi». Si impadronirono del palazzo della ballerina Kscesinskaja, e ne fecero il loro quartiere generale. Da una loggia del primo piano Lénin arringava la folla sempre più numerosa di soldati e di operai, mentre Trózkij dal vicino Circo Moderno cercava, e faceva, adepti fra la gioventù studiosa maschile e femminile, e gli stessi socialisti. Trózkij, teorico e dialettico, spiegava Marx e la logica della rivoluzione; Lénin, più pratico, in quei primi momenti, prometteva ai soldati la pace a breve scadenza, e li incitava alla diserzione come mezzo per ottenerla più presto; assicurava a tutti la spartizione delle terre. Entrambi con violentissi¬mi discorsi facevano una propaganda di odio e vendet¬te. Il numero dei seguaci cresceva a vista d’occhio; elementi della peggiore risma, gente uscita dalle galere, soldati disertori, trovarono il loro ambiente, divennero i più ardenti accoliti, i più violenti caporioni del popolo in sommossa, i pretoriani dei nuovi evangelizzatori, dai quali con orgoglio si sentivano chiamare compagni. Ma, se è vero che i comunisti, con la loro propa¬ganda, facevano il gioco della Germania, dalla quale si diceva fossero pagati; non è men vero che, appena Lénin e gli altri furono certi di aver presa sulle masse, non dissimularono più il fine a cui tendevano, e al quale fecero convergere i loro sforzi: la conquista del potere per proprio conto, e per la attuazione dei principi del comuniSmo puro. E, quando parve loro di essere padroni di un nucleo abbastanza forte di seguaci, passarono ai fatti; e si ebbe il primo tentativo di assalto al potere, che fu anche il primo spiegamento delle forze comuniste specialmente a Pietrogrado, nelle giornate del 16-18 luglio. Operai, marinai, soldati, a Pietrogrado ed a Mosca, uscirono per le vie in cortei armati, e, seguiti da donne armate pure, recavano stendardi con scritte chiedenti la pace immediata con la Germania. Le truppe fedeli al governo, in un primo momento smarrite, tennero tuttavia fronte ai rivoltosi; ma la bat¬taglia durò per le vie tre giorni, durante i quali la città fu in dominio della plebaglia. Ricordo che, la sera del 18 luglio, tornando dal consolato a casa, capitai, sul Lungoneva, in piena battaglia. Marinai armati ed ubriachi, la maggior parte a piedi, altri su automobili, o dietro barricate improvvisate, sparavano all’impazzata in tutte le direzioni. I ponti Nikolàievskij e Dvorzóvyj erano occupati da marinai che si scambiavano tra loro nutrite scariche di fucileria, prendendosi forse, ubriachi com’erano, per nemici. Il 20, l’ordine era ristabilito. Lénin fuggì in Finlandia; si disse, con la connivenza del governo.

     Cortei al grido di: «morte a Lénin», percorsero la città, portando in trionfo qualche bandiera nera e qualche mitragliatrice tolta ai rivoltosi. Ma erano quasi tutti formati da giovani delle scuole militari, ufficiali, studentesse della borghesia intelligente insomma. I soldati e i marinai invece, specie quelli di Kronstadt, il palladio della rossa Pietrogrado, diffusero un manifesto, annunziante una più intensa ripresa di moti a breve scadenza per impadronirsi del potere.

     Del resto, a giudicare dalla guarnigione di Pietrogrado, si doveva concludere che l’esercito era ormai nel più completo disfacimento. E, se spettacolo tristissimo erano le frotte sbandate, che ingombravano la città, ed insozzavano una divisa, che pure era stata portata non senza gloria fuori i confini della patria, più triste spettacolo offrivano i soldati cantonati nei dintorni a Zàrskoe Selò, Gàtcino, Peterhóff, i quali passavano le giornate fra i comizi e l’ozio; e le notti tra bagordi, rapine, assassinii.

     Sedata la sollevazione comunista, per lo meno in ap¬parenza, si pensò a costituire un ministero di salute pubblica, o di salvezza della rivoluzione, impersonato in Kerénskij. Il quale sembrava potesse in quel momen¬to contentare le esigenze sempre maggiori dei soviety e dare ancora affidanza ai costituzionali democratici; i quali, pur scomparendo uno alla volta dal governo, rimanevano sempre i dirigenti, per quanto era possibile esserlo in quei momenti, della pubblica opinione, sia per mezzo della stampa, che con la loro personale autorità.

     Ai primi di settembre del 1917, mentre all’interno la propaganda dei compagni di Lénin era ripresa con maggiore intensità, all’esterno i tedeschi si impadronivano di Riga, aprendosi in tal modo la via di Pietrogrado. Allora si indisse un congresso di tutti i partiti nel quale Kerénskij parlò della situazione interna disastrosa e della necessità di urgenti rimedi. Si discusse e… si proclamò la Russia « Stato Repubblicano », creando un nuovo organo provvisorio: il Consiglio della Repubblica. Il quale non era più un governo

 provvisorio, e neppure un ministero repubblicano che affrettasse la convocazione della Costituente; ma al tempo stesso estremo presidio di salvezza dello stato e supremo organo della nuova repubblica. Fu il periodo della dittatura di Kerénskij; o, come si disse allora, il regno di Alessandro IV! Kerénskij si chiamava Alessandro; durante il suo effimero potere si stabilì nel palazzo imperiale, occupando l’appartamento di Alessandro III. Da ciò il sarcastico soprannome. Ma, sarcasmi a parte, qualunque sia stata la sua intelligenza, e quali le sue attitudini politiche; al governo si rivelò più ambizioso che avveduto; neppur mediocre; incapace di dominare la posizione e le circostanze che lo avevano portato in alto, e dalle quali fu travolto. Con lui la rivoluzione precipitò verso il caos. Il governo, fosse pure ridotto a direttorio, si staccò da tutti, iso¬landosi dalla popolazione, sempre più disorientata. L’ascendente dei comunisti aumentò grandemente; l’audacia dei loro capi crebbe a dismisura. Non solo comizi; ma spiegamento di forze, sempre crescenti, avvenivano quasi ogni giorno a Pietrogrado. I quartieri operai, fra l’agosto ed il settembre, erano quasi tutti nelle loro mani; da tutti si ripeteva che in ottobre i bolscevichi avrebbero dato di nuovo battaglia ai relitti del passato, dai monarchici ai socialisti alla Kerénskij, e si sarebbero impadroniti del potere. E Kerénskij faceva il tribuno; o, vestito da generale, arringava i soldati, incitandoli ad un ultimo sforzo, per tener fede agli alleati. Ed i soldati, che dapprima stettero qualche volta ad ascoltarlo, poi non lo fecero più; e disertarono sotto i suoi occhi, dicendo che a combattere ci andasse lui, se voleva. Di tutto questo non si ebbe conoscenza esatta fuori della Russia. Del resto non l’ebbero nemmeno molti di quelli che allora si trovavano in Russia; e credevano sempre la rivoluzione un fatto puramente economico, che presto avrebbe prodotto i «capaci uomini di governo», i quali l’avrebbero dominata e guidata, con vantaggio dell’Intesa, verso la vittoria finale.

     Il «magnifico esperimento storico» anzi divenne oggetto di studio; e nell’estate del 1917 assistemmo alla commedia delle delegazioni socialiste: francese, in¬glese e italiana, venute in Russia a «studiare» in «anima vili » l’esperimento di una rivoluzione socialista durante la guerra del mondo. Ma è più verosimile che le missioni, composte come erano quasi tutte di deputati o di persone ufficiali dei vari paesi, avessero lo scopo, attraverso la comunanza delle idee di partito, di tenere ancora la Russia nell’orbita dell’Intesa; trattenerla per lo meno da una pace separata, di cui si parlava e si temeva tanto, ove non fosse stato più possibile indurla a partecipare attivamente alla guerra. La missione francese aveva proprio questo scopo. È da ritenere che una simile l’avesse pure la nostra.

     Ma dovettero subito convincersi della inutilità di ogni tentativo. Uno dei nostri anzi, parlando con me, dopo aver visto quasi tutti i maggiori uomini del movimento rivoluzionario, mi disse che se fosse rimasto ancora in Russia sarebbe « diventato più forcaiolo di Sonnino ». Eppure, tornato in Italia, non fece che esaltare la « grandezza dell’esperimento russo ». Ed io in una lettera del 14 agosto a mio fratello scrivevo: …« Qui assistiamo al rapido sfacelo di questa infor¬me massa… E quando leggo sui giornali le interviste dei nostri socialisti tornati dalla Russia e ripenso a ciò che mi diceva uno di essi, vorrei ripeter loro… ». E qui, delle parole molto dure.

11.       IL COLPO DI MANO DEI BOLSCEVICHI

In autunno le note dell’ultimo atto della rivolu¬zione di marzo risuonavano sinistre per le vie di Pietrogrado. Di giorno, cortei della più sfrenata plebaglia; interruzione dei servizi pubblici; molestie; difficoltà di ogni specie. Di notte, fucilate, grida sediziose di soldati e marinai, saccheggi. A misura che cresceva l’audacia e la violenza della piazza, il governo s’impiccioliva sempre più, si eclissava, fino a dare l’impressione che fosse scomparso. In ottobre si era in balia degli eventi; e la angosciosa domanda di tutti era ormai: dove andremo?

     Ai primi di novembre scoppiarono più forti i disordini per tutta la città. Bande armate, penetrate in molte case private nei punti principali del centro le occuparono dopo averle saccheggiate. Altre bande fermavano le automobili per le strade periferiche, specie della Vyborgskaja Storonà che menavano verso la Finlandia, ne facevano scendere i passeggeri, e, con finti ordini, li perquisivano, rubavano loro tutto quel che avevano, di gioielli, denaro, documenti; poi si impa¬dronivano delle vetture e scomparivano. Il panico crescente di quei giorni aveva spinto moltissimi a fuggire per la frontiera della Finlandia, che si poteva facilmente raggiungere, ed in poco tempo. Molti riusciro¬no a salvarsi coi loro averi; moltissimi però furono presi, depredati di quel che avevano ed uccisi.

     Il pomeriggio del 7 novembre ero al Consolato, allorché mi fu telefonato di urgenza da un mio conoscente di rientrare a casa, perché presto i ponti sarebbero stati chiusi, il transito per le vie proibito, la circolazione dei tranvai sospesa. Non potei saper di più, la comunicazione fu interrotta. Uscii subito. I tranvai erano scomparsi; i passanti si affrettavano tenendosi lungo le case, sicché le vie larghe apparivano anche più deserte; agli angoli del ponte Nicola un po’ di folla tenuta d’occhio da pattuglie di marinai delle navi da guerra ancorate in mezzo alla Neva; su tutti i volti una preoccupazione, una tristezza, resa anche più cu¬pa da un cielo scuro, e da un vento di tempesta, che urlava come solo sulla Neva suol fare. E la tempesta si scatenò: verso le 8 di sera cominciarono i primi colpi di fucile, che si fecero sempre più fitti; finché, verso le 10, si intramezzarono con fuochi di mitraglia nutriti, e colpi di cannone sempre più frequenti, tirati da vari punti, ma specialmente dalle navi. Noi potevamo perfino vedere i tiri, perché l’incrociatore Aurora si trovava proprio dirimpetto alla nostra casa. Né fu difficile capire che si tirava sul Palazzo Imperiale, la cittadella della resistenza, guardato dalle uniche truppe fedeli al governo provvisorio: i cadetti delle scuole militari.

Verso le 4 del mattino l’uragano scemò, i colpi si diradarono e si ebbero le prime notizie. Forti nuclei di bolscevichi dalle caserme, dalle navi, armati come per un vero e proprio assalto, avanzando dalla periferia verso il centro della città, si erano impadroniti dei punti nodali di essa, poi avevano fatto convergere i loro sforzi sul Palazzo Imperiale, la cui difesa aveva dovuto cedere. Gli assalitori, durante l’attacco, non avevano dimenticato le cantine del palazzo e, nell’ubriachezza, si erano perfino uccisi tra loro; ed infine si erano abbattuti sui difensori e ne avevano fatto scempio in un’orgia di sangue, di cui molti più tardi menarono vanto.

     La mattina dell’8, da per tutto i segni della lotta e della violenza. Gli edifizi pubblici, il Palazzo Imperiale in particolar modo, avevano i vetri infranti, le facciate crivellate di colpi; per le strade, sui marciapiedi, lungo le case, macchie e grumi di sangue congelato. Dei manifesti sulle cantonate annunziavano la costituzione di un nuovo governo, che si disse dei commissari del popolo, con Lénin a capo, e sede a Smolnyj (12) . La città pareva morta; chiusi i magazzini, le vie deserte; s’incontravano solo gruppi, o pattuglie di marinai armati, qualcuno ancora ubriaco o ferito, i quali sui ponti, o ai crocicchi delle strade principali, fermava¬no i passanti, per domandar loro i documenti, perquisirli, arrestare i sospetti. Grande fu lo stupore di tutti per l’audacia dei bolscevichi, e pel loro successo. Ma presto subentrò la speranza di una sollecita « liquidazione » di quella che molti chiamavano « una nuova avventura di Lénin »; tanto più che Kerénskij era andato a Pskóv a raccogliere forze per riprendere la città; e con esse si avvicinava a Pietrogrado. Ma lo sforzo si infranse alle porte della città, mentre all’interno le ultime resistenze erano vinte col ferro e col fuoco. L’assalto alla scuola dei Cadetti alla Peterbùrgskaja, ultima ridotta delle forze del governo provvisorio, l’11 novembre 1917, fu diretto da Trózkij stesso, che non risparmiò nessuno di quelli che vi si trovavano, neppure i giovani della scuola, ed erano la più parte. Kerénskij fuggì, i suoi ministri furono arrestati; in Russia si instaurava il comunismo. Tuttavia i facili profeti dichiaravano sempre che il governo di Lénin non avrebbe avuto durata; che presto le difficoltà economiche sarebbero divenute insormontabili, ed i comunisti avrebbero dovuto capitolare. Fatale illusione, nella quale caddero tutti: i russi per la loro leggerezza; ma, ciò che è peggio, anche gli stranieri. Nessuno seppe valutare l’entità del rivolgimento avvenuto nella rivoluzione russa, né gli individui che ne erano a capo. Nessuno seppe vedere che quei pochi uomini, i quali si erano violentemente impadroniti del potere, erano, in mezzo al disfacimento e alla rovina universale, gli unici che sapessero quel che volevano; l’unico gruppo di gente mossa da un ideale concreto da raggiungere, al quale erano riusciti a far aderire quanti si poteva della pesante, inerte massa dei soldati e dei contadini: di quella forza materiale, cioè, attiva o passiva, che è condizione necessaria di ogni rivolgimento politico. Vi fu chi altezzosamente manifestava per essi il disprezzo che i russi sentono per gli ebrei, ed ebrei erano quasi tutti i capi del colpo bolscevico; chi si contentava di chiamarli folli e peggio. E non si pensava che questi ebrei erano audacissimi; che da circa un anno lavoravano per impadronirsi del potere; che, presolo, mostrarono immediatamente una volontà ferrea, ed una ener¬gia di cui da tempo non si aveva esempio in Russia; che si erano mostrati abilissimi nello sfruttare ogni circostanza, donde avessero potuto trarre vantaggio; e che nulla infine lasciava intravedere se fossero disposti a pat teggiare, o cedere il potere. Ma erano tutti ciechi allora nel «non voler vedere».

     I rappresentanti diplomatici, sia dei paesi neutrali, che delle potenze dell’Intesa, che avevano dimostrato la più viva sollecitudine per la rivoluzione di febbraio, presero verso i bolscevichi un atteggiamento, se non ostile, per lo meno di non voler trattare. Non riconobbero il fatto compiuto, e cercarono di evitare qualsiasi relazione o contatto con « quel manipolo di giudei fanatici ed esaltati », che si erano insediati a Smolnyj con la violenza e vi rimanevano guardati da una «selva di baionette». Fu provocato questo atteggiamento dal disprezzo manifestato sempre dai comunisti per i paesi dell’Intesa che, nelle loro concioni, non mancavano di coprire con i più insultanti epiteti; ciò dipese dalla convinzione che, una volta al potere, i bolscevichi, che non senza qualche fondamento si ritenevano emissari della Germania, avrebbero concluso con questa la pace separata; o dall’altra, ugualmente diffusa, per cui si riteneva non essere i bolscevichi capaci di tenere il potere; o, infine, venne tale atteggiamento veramente dettato dalla ripugnanza a trattare con sanguinari avventurieri, rappresentanti per allora di « null’altro che di se stessi », non saprei dire. Certo è che le rappresentanze estere a Pietrogrado si dettero nel novembre del 1917 la parola d’ordine di «ignorare» il mutamento avvenuto nel governo russo nel corso della rivoluzione. Tattica, o aspettativa, che, se parve prudente lì per lì, fu poi l’inizio di quella politica indeterminata, dell’Intesa verso la Russia; politica del volere e non volere, dell’essere e non essere, che non giovò alla causa dell’Intesa, non scongiurò la pace separata; contribuì, invece, ad asservire la Russia ai bolsceviche a spingere più tardi costoro sulla via del terrore.

Impadronitisi del potere; mentre cercavano di raccoglierne rapidamente le fila nelle loro mani, i bolscevici enunciavano già i primi punti del loro programma: la terra ai confini e la pace separata; ed in questo senso cominciarono a svolgere la loro azione di governo. Con un primo decreto proclamarono la espropriazione, o, come si disse, la nazionalizzazione delle terre padronali; con un secondo la cessione di esse ai contadini, guardandosi bene tuttavia dall’indicare come sarebbe stata regolata la cessione, la spartizione e il possesso; con un terzo decreto infine proclamarono la cessazione delle ostilità su tutto il fronte. Veramente, di quest’ultimo decreto non vi sarebbe stato bisogno, perché appena i soldati seppero della confisca delle terre, abbandonarono il fronte, quelli che ancora vi erano; si sbandarono, e corsero al saccheggio, alla guerra civile, alla lotta per il miglior pezzo di terra, la migliore casa o azienda, e nel furore di impossessarsene, finirono per distruggere quel che ancora era rimasto in piedi.

     Nello stesso tempo i bolscevichi, benché ostentas¬sero indifferenza fu il disinteresse che i rappresentanti esteri mostravano verso di loro, facevano di tutto per avvicinarli, od essere avvicinati. Disposero agenti loro, alle stazioni ferroviarie, nei punti di maggior traffico nelle città, ed alle frontiere, con l’incarico speciale della sorveglianza degli stranieri. Era questo un mezzo per provocare incidenti, con consecutivi arresti, e neccessario intervento delle autorità straniere in difesa dei propri cittadini, come difatti avvenne. Moltissimi stranieri, fermati per le vie di Pietrogrado da marinai o soldati bolscevichi, e richiesti dei documenti personali, rifiutatisi di sottostare all’arbitrio di gente, a cui per intanto non riconoscevano alcun diritto, furono arrestati, e liberati solo dopo l’intervento dei rispettivi consoli. La stessa cosa successe alle frontiere e alle stazioni di Pietrogrado; dove, alla ferrovia del sud, uno dei primi ad essere fermato fu il corriere militare italiano diretto in Romania.

     Dovetti perciò recarmi a Smolnyj per ottenerne la liberazione. Com’era cambiato Smolnyj! Nell’ampio e solitario cortile non più l’aria di pace e tranquillità dei giorni antichi; ma cannoni e mitragliatrici. Nel porticato, qualche cosa fra la caserma ed il bivacco, un’aria greve e triste; marinai e soldati armati, la più parte facce di criminali; un vociare, un trambusto; un andirivieni di gente dal viso truce, contratto, che guardava accigliata e sospettosa chiunque non fosse dei loro; un trasmettersi imperioso di ordini che arrivavano dall’alto. In un angolo, un tavolino; seduta ad esso una ebrea, tra un gruppo più fitto di marinai che non so se le stessero vicino per difenderla o sorvegliarla, verificava i documenti di coloro che avevano bisogno di penetrare in quella bolgia; interrogava rapidamente; e mandava oltre, o respingeva insospettita. Tutti si davano del tu e del « compagno ». Lo dettero anche a me i marinai e l’ebrea, domandandomi che cosa volessi. Esposi il motivo della mia andata colà, mostrai i documenti, ed ebbi un lasciapassare, per il compagno Trózkij, che era al terzo piano. Ad ogni piano ero fermato da gruppi di marinai, che staccavano ogni volta un lembo del mio lasciapassare, sì che arrivai al terzo piano con un brandello di carta. Qui, marinai e soldati armati, erano intenti ad attaccare qua e là cartellini, portanti lettere e numeri grossolanamente tracciati con l’inchiostro, alle porte delle stanze, dove si andavano costituendo i primi nuclei della burocrazia comunista. Mentre, aspettando di essere introdotto, seguivo questo inizio di ricostruzione, fosse pure del tutto formale, in mezzo al caos che mi circondava, perché Smólnyj in quel momento era veramente il caos, mi dissero che non mi avrebbe ricevuto il compagno Trózkij, ma il suo aiutante, il compagno Urizkij; e mi condussero in uno stanzone, che mi sembrò una bolgia nella bolgia. Più forte il trambusto; più intenso il vocio dominato da ordini secchi dati da un capo all’altro della sala da qualcuno che dapprima non riuscii a vedere: pattuglie armate arrivavano, parlavano concitate con qualcuno, e ripartivano subito seguite da altre; oppure conducevano degli arrestati, che vedevo scomparire per certe porte laterali. Urizkij, che era colui che dava gli ordini, era ad un tavolino circondato da marinai armati: i soliti marinai di Kronstadt, i pretoriani della rivoluzione. Piccolo, deforme, lo sguardo duro e maligno, i linea-menti e il parlare tipico degli ebrei di bassa provenienza, con un’aria tra sprezzante ed ironica; quando ebbe udita la ragione della mia visita, mi disse che i bolsce- vichi non riconoscevano i consoli; consentivano a trat¬tare solo con le autorità superiori; perciò occorreva che il capo stesso della rappresentanza italiana fosse andato da lui. La cosa detta col gesto teatrale, che sanno assumere soltanto gli ebrei quando possono recitare una parte, e da quella faccia, mi mosse a riso. E, senza aspettare che finisse, lo interruppi con un: «neugéli»?! (davvero), tra interrogativo ed ammira¬tivo, e continuai: ma forse neanche i rappresentanti vi bastano, volete qualcuno anche più alto, lo stesso rappresentato?… A questa uscita, Urizkij scese dalle primitive altezze; mi disse che per quella volta condiscendeva a trattare di cosa tanto grave con un console; e mi dette il permesso per la partenza del corriere. Lo ringraziai e fuggii. Sulla piazza provai un senso di sol¬lievo dall’incubo che mi aveva preso; trovandomi in quel luogo e fra quella gente: non perché avessi temuto per me; ma per lo sgomento che ogni essere civile prova dinanzi allo spettacolo od alle forme della violenza e della brutalità. Avevo parlato con colui, che di lì a poco sarebbe stato il capo della «Commissione straordinaria per la lotta contro la reazione e la speculazione», la tremenda Ve. Ce. Ka, o Ceka, come si chiamò poi, che in quel torbido stanzone di Smólnyj, in quella sera di fine novembre era in embrione.

Arrivati al potere, i bolscevichi non smisero la loro opera demagogica e la loro propaganda: quella per tener sempre desto lo spirito di ribellione e di violenza nei seguaci, questa per far nuovi proseliti; le intensificarono, anzi, perché ai comizi si aggiunse la stampa. Erano interi giornali, che ogni giorno, violentemente eccitavano all’odio contro il passato; contro chiunque non fosse del partito; alla lotta viva per tenere il potere conquistato. Ad uomini incolti, passati per le sofferenze della guerra, e i rigori della disciplina, donde uscivano con l’animo pieno di rancore, si parlava di libertà sconfinata; si rappresentava la loro volontà come legge imperativa per tutti; si parlava non di doveri, ma di diritti secolari da rivendicare; si parlava di vendetta come di cosa santa. Occorreva di più per scatenare gli istinti di rapina, di violenza, di ferocia, di cieco arbitrio? La plebaglia aizzata, i miserabili avidi di vendetta, gli scellerati liberi di ogni freno, si abbandonarono alla violenza ed alla crudeltà di ogni sorta.

     Cominciarono i saccheggi, prima dei palazzi maggiori, poi dei minori; delle case, dei depositi di merci, delle ville, di tutto. Lino dei primi ad essere saccheggiato, dopo la devastazione del Palazzo Imperiale, fu quello del granduca Nicola Mikàilovic’, che da anni viveva fuori della politica, occupato negli studi e nelle pubblicazioni di storia; e che nel suo palazzo, più che ricchezze, aveva importanti collezioni storiche, le quali furono tutte distrutte. La confisca del vino, in base al decreto che proibiva l’uso delle bevande alcooliche, era sempre il pretesto legale del saccheggio. Si cominciava per cercare il vino, e si finiva per rubare, distruggere tutto all’impazzata, uccidere, spesso uccidersi scambievolmente nel furore dell’ubriachezza.

     I marinai di Kronstadt si resero celebri per le loro gesta. E, mentre per essi ogni notte era una nuova orgia di più raffinata violenza, di nuove infamie; pel rimanente della popolazione cominciarono quelle notti di veglie trepidanti, di attesa dell’inaspettato, che divennero poi l’incubo di tutti. Quel che rubarono o di¬strussero fra il novembre e il dicembre del 1917 i marinai ed i soldati della rivoluzione comunista a Pietrogrado è incredibile. Lo stesso Lunaciàrskij, commissario per l’Istruzione Pubblica, ne fu spaventato, e si levò contro lo scempio inutile ed inumano dalle colonne del giornale «Le Isvéstìia». Di che Gor’kij lo irrideva; e, quantunque pure lui avesse contribuito non poco a soffiare nel fuoco col suo giornale «Nóvaja Gisn», chiamava quelle di Lunaciàrskij «lagrime di coccodrillo»; e commentava ironicamente il decreto della libertà, l’altisonante decreto dei commissari del popolo, dicendo che quel decreto significava pel russo: « Distruggi il più che puoi, ruba il meglio e quanto più ti riesce».

*

      Per difenderci in qualche modo dagli eccessi dei marinai, e delle bande di ladri che, in costume di mari¬nai e soldati, con finti ordini di perquisizioni, infesta¬vano la città, si costituirono a Pietrogrado dei comitati di difesa delle case; uomini e donne, a gruppi di due o tre, facevano per turno ogni notte la guardia alle abitazioni. Anche io vi presi parte, e passai più di una notte nel cortile di casa con gli altri inquilini a fare la scolta. Lo schiamazzo dei marinai, che tornavano ubriachi dalle orge e dai saccheggi, si intramezzava col fuoco di fucileria che ogni notte risonava da un capo all’altro della città. Non erano infrequenti le scara¬mucce fra concorrenti al saccheggio di uno stesso depo-sito, o di uno stesso palazzo; ed allora era un vero fuoco di battaglia. Uno spettacolo veramente fantastico poi si aveva nelle notti senza luna. I soldati di una ca¬serma confinante col nostro cortile, profittando dell’oscurità, chi scavalcando le finestre dei piani più bassi, chi calandosi con corde dai piani superiori, o lasciandosi scivolare lungo le grondaie, uscivano per gettarsi al saccheggio. Quelle ombre nere, che si agitavano in¬distinte, formicolando sulle mura, le quali nella semi- oscurità parevano smisurate, mentre il vento della Neva urlava violento e portava l’eco delle lontane scariche di fucile, sembravano non cosa reale; ma sogno di fantasmi.

     Una notte fummo svegliati di soprassalto da uno schiamazzo proprio sotto casa nostra. La prima idea fu che si venisse a fare una perquisizione da noi, ciò che parve confermato dal numero dei marinai armati che si agitavano e guardavano verso le nostre finestre. Aspettavamo che da un momento all’altro quegli energumeni invadessero la casa; ci chiedevamo il perché del ritardo; quando li raggiunse una raffica di colpi, che mandò in frantumi con gran fracasso le vetrate del pianterreno della casa. Si udirono imprecazioni, grida, urli di feriti; poi una fuga a gambe levate; e seguì un silenzio di morte. Ecco quel che era successo. I soldati della caserma, ed i marinai delle navi ancorate sulla Neva dirimpetto a noi, avevano dato l’assalto ad un gran deposito di vini sul vicino lungoneva. I primi arrivati, avevano più facilmente fatto bottino e, dopo essersi ubriacati, avevano cominciato a portar via quante bottiglie potevano ed erano venuti a nasconderle nell’angolo di un vicolo sul quale dava la nostra casa; poi, lasciatovi a custodia un nucleo dei loro, erano tornati al saccheggio. Quelli, invece, che erano arrivati dopo, accolsero a fucilate i marinai che tornavano, non solo; ma li inseguirono nella speranza di impadronirsi del bottino. Nella mischia fracassarono tutto. Il giorno dopo, orme di sangue per lungo tratto della via, centinaia di bottiglie spezzate, rivi di vino congelato, un profumo di etere e di vino nell’aria testimo¬niavano della battaglia e del saccheggio.

     Qualche settimana più tardi un saccheggio identico compiuto nel palazzo dove abitava uno dei segretari dell’Ambasciata mi obbligò a tornare a Smólnyj a far proteste e riserve pei danni. Era verso la fine di dicembre. A Smólnyj vi era meno disordine e più rigore. Fui introdotto da Trózkij, che era gelosamente guardato da due sentinelle messe alla porta della stanza, e da un compagno non meno armato di loro, che si teneva in piedi poco lontano dal tavolino del tribuno. Egli si alzò, mi accolse con certa garbatezza, pur conservando una fisionomia tra accigliata e contratta, che met teva in maggior rilievo i tratti della stirpe. Urizkij, con la sua improntitudine, aveva finito per mettermi di buon umore; Trózkij mi ispirò una istantanea ripugnanza, che non valsero a vincere né il suo corretto francese, né le « sincere » espressioni di rammarico per l’offesa recata ad un «alleato», né le assicurazioni di severe misure contro i colpevoli. I suoi occhi neri, piccoli, mobili, che non fissavano, sfuggivano anzi il mio sguardo; l’accenno di sorriso tra ironico e maligno, che errava sulle sue labbra, quando parlava ed accentuava la durezza della sua fisionomia, mi parvero in tale contraddizione con quel che diceva, che mi affrettai a porre termine alla visita.

     Eppure, uscendo, Trózkij mi era già passato di mente. Ripensavo invece a quel che pareva mi avesse meno colpito: le sentinelle armate, che avevano assistito, tra ammirate ed incuriosite, al mio colloquio in francese col loro compagno di ieri, al quale davano ancora del tu; ma che intanto già difendevano come cosa sacra: verso cui già si trovavano in quello stato di rispettosa ammirazione che, se non è ancora prona soggezione, le è assai vicina. E mi domandavo dove fosse la dittatura del proletariato; l’uguaglianza così altamente proclamata; se già in quei primissimi momenti del comuniSmo in atto, la società automaticamente si scindeva nei due vecchi strati dei dominati, che costituivano il fondo e dei dominatori, che affioravano alla superficie? Che importava si chiamassero compagni; si dessero del « tu » e non « eccellenza » o « altezza »; fossero straccioni e non servi in livrea; e proclamassero la più assoluta uguaglianza fra loro? Il fatto tornava fatalmente lo stesso.

     Il 20 dicembre i bolscevichi occupavano le banche e confiscavano i depositi di denaro sia dei russi che degli stranieri. Fra questi vi erano molti italiani. Dovetti allora andare da un terzo ebreo, un dottor Sàlkind che non s’era installato a Smólnyj, ma nell’ex-Ministero degli Esteri dello Zar, e vi si sentiva già egli stesso un piccolo zar: tale e quale come nell’odiato vecchio regime gli alti papaveri della amministrazione dello stato. Sàlkind, al quale si arrivava non più attraverso sentinelle armate, ma uscieri, che aiutavano ancora chi entrava a togliersi pastrano e calosce, e paravano ancora la mano per la mancia di rito a chi usciva, mi accolse con l’impudenza aggressiva, che era la nota comune di tutti gli ebrei di secondo ordine della rivoluzione russa. Mi disse che prevedeva la ragione della mia visita, per essersi già altri consoli rivolti a lui per ottenere pei loro concittadini il ritiro dei depositi dalle banche, ma che, come agli altri, anche a me doveva rispondere negativamente e per ragioni politiche:

«Riconosceteci» disse, « ed avrete tutto quel che volete ». Il riconoscimento, ecco l’ossessione dei bolscevichi. Quella muta di ebrei, venuta da ogni parte, uniti dal¬l’odio comune per la vecchia Russia, avevano la febbre di essere presi in considerazione, di poter trattare alla pari con gente che rappresentava un passato; avrebbero dato tutto pur di entrare in trattative con la didiplomazia occidentale; avrebbero preferito l’attacco di fronte alla finzione di ignoranza che di essi mostrava il corpo diplomatico. E, siccome questo atteggiamento non accennava a mutare, passarono alle minacce. I giornali del partito, con aumentata insolenza, cominciarono a scrivere che i bolscevichi avrebbero obbligato i neutri e gli alleati a riconoscerli con la forza, con la rappresaglia e col terrore, se fosse stato necessario. Le stesse cose mi ripeteva Sàlkind, movendosi ed agi¬tandosi sulla sedia e gesticolando, come in pieno co¬mizio; mentre eravamo in due soltanto; ed io paziente-

mente ascoltavo la sua retorica e le sue escandescenze contro i borghesi, il passato, il militarismo, Crispi, Morra di Lavriano, le repressioni in Sicilia del 1894. Sì, anche questo. Egli si trovava in Italia in quel tempo, e « ricordava con orrore l’opera di Morra ». Avrei potuto dirgli che Crispi, Morra, la Sicilia non erano aflar suo; ma lo lasciai parlare; a che interromperlo, se egli si compiaceva tanto a sentirsi declamare? Pensavo invece, uscendo, che alla violenza c’eravamo, alle rappresaglie pure, e che il terrore, per quei fanatici, poteva essere tutt’altro che una semplice minaccia. Ma in ciò nessun pensiero per me, di tanto mi pareva che gli avvenimenti superassero l’individuo. E risalivo alle origini. E trovavo le medesime cause, che da secoli la storia va inutilmente registrando per tutte le rivoluzioni di tutti i secoli e di tutti i popoli. Vecchie forme di governo non più rispondenti a nuove aspirazioni di popoli; sorpassate concezioni di diritti da parte dei governanti; inadeguate concezioni di doveri da parte dei governati; fattori e condizioni econo¬miche mutate; malgoverno, concussioni; intrighi di corte; figure losche pullulanti nelle vita pubblica, o intorno ai troni; uccisioni rappresentate come vendette della storia, o eroismi di amor patrio; ma che son sempre sangue versato. E poi la guerra della Russia, sfortunata dal primo all’ultimo momento; la sfiducia e l’abbattimento da essa provocati, tanto maggiori quanto più forte era stata la delusione della mancata vittoria; e, col malcontento, l’assenteismo, l’incoscienza, l’apatia politica della immensa maggioranza del popolo; l’assenza di amor patrio, quale sentimento collettivo, aggravato dall’azione disgregante di tutti i non russi del vasto impero; la psicologia del popolo capace di concepire la libertà solo sotto la specie della licenza sfrenata, salvo poi a cadere indifferente sotto altra forma di schiavitù. E, finalmente, l’audacia di una minoranza: gli uomini della rivoluzione. I dottrinari girondini della prima ora, le mezze figure dei clubs e dei sanculotti poi; ed infine il più violento manipolo di ebrei, lettoni, polacchi, finni, russi ebreizzati pregni di odio contro la Russia, che fu matrignia purtroppo ad essi per secoli, che nel novembre del 1917 avevano ricondotto il popolo sotto il giogo assai più pesante e feroce della oligarchia comunista.

     Il 1917, l’anno della rivoluzione, cominciato fra le speranze di quello che si poteva perfino chiamare l’idillio di febbraio, si chiudeva con la fosca tragedia di novembre, tra i saccheggi, la distruzione, le vendette private, i giudizi statali, le esecuzioni in massa, le uccisioni senza pietà nelle tenebre della fortezza di Pietrogrado. Le prigioni aperte in febbraio, e vuotate nei primi giorni della rivoluzione, si erano di nuovo riem¬pite come negli anni peggiori del vecchio regime. Il partito dei costituzionali-democratici proscritto; i capi arrestati. L’assemblea costituente soffocata sul nascere. Il regime della violenza instaurato in nome della libertà. Non mancava che sopprimere la dignità umana, ridurre l’uomo allo stato di miserevole troglodita. Si giunse anche a questo.

     «… Mentre prima ci si salutava fra amici riveden¬doci, col dirci: buon giorno! Ora ci si rivede dicendo: ancora vivo?! tra scherzevole e meravigliato. Qui si giuoca stupidamente con la vita — scrivevo a mia sorel¬la l’8 dicembre del 1917, — come un vecchio straccio che questa gente può togliere agli altri come nulla, pel solo guasto di uccidere…. ».

     Ed il 18 gennaio del 1918: «… Isolato, anzi isolati completamente dal resto del mondo, ché in questi ultimi giorni sono state perfino interrotte le comunicazioni telegrafiche cogli altri paesi, viviamo una vita d’incubi che non avrei neppur sognato. Voi mancate di molto, e dovete sottoporvi a privazioni quotidiane, forse crescenti ogni giorno di più. Noi manchiamo di tut¬to, con questo in peggio, che mentre voi avete il so¬stegno della legge e delle istituzioni, noi viviamo fuori ogni legge, in balia dell’arbitrio di tutti, trattati da veri nemici, mentre figuriamo ancora come alleati… Oggi i tranvieri trovano che «hanno servito abbastanza i signori», quindi abbandonano i tranvai per via e se ne vanno, lasciandoci senza l’unico mezzo di trasporto al quale si possa ricorrere. Un’altra volta, anzi per lo meno quattro volte la settimana, sono le officine elettriche che non dànno la corrente, quindi oscurità completa, poiché non vi è petrolio, e sono rarissimi quegli estremamente preveggenti che si erano provveduti, quando ce ne erano, di steariche. E così via. Aggiungete il caro della vita, che supera ormai i limiti del credibile; la riduzione dei viveri a proporzioni di affamamento cronico; il lurido squallore della città, di cui la maggior parte dei negozi sono chiusi; il freddo nelle case per la mancanza di legna, ed avrete una pallida idea dell’atmosfera in cui viviamo. Io non so se usciremo vivi da questo inferno; ma quel che mi pare cerìto è che, se arriveremo a resistere, i nostri nervi ne usciranno spezzati per tutta la vita… ».

     Ma gli avvenimenti incalzavano. In poche righe scritte il 2 febbraio alla lesta per mezzo dell’ultimo cor¬riere francese, non potevo fare a meno di scrivere: « Delle condizioni politiche non vi parlo; è un disastro. Noi stessi non sappiamo se rimarremo, andremo via, o saremo costretti ad andarcene. Quel che è grave intanto, e lo diventa ogni giorno più, è la man¬canza di viveri. Cominciamo a soffrire in modo pungente la fame… ».

     La condizione delle rappresentanze diplomatiche degli ex-alleati in Russia, diventava sempre più diffìcile. Fin dai primi del 1918, sotto la minaccia dei te¬deschi che da Pskov e Riga pareva volessero tentare un colpo su Pietrogrado, e, si disse, col beneplacito dei bolscevichi, che avrebbero avuto così il loro alibi dinanzi alle potenze dell’Intesa per una pace separata; i giornali dei bolscevichi avevano cominciato una campagna per l’armistizio con la Germania. Alla fine di gennaio parlavano già della necessità della pace se-parata. Il tribuno delle grandi circostanze, Trózkij, scese di nuovo in piazza a difendere lo specioso sofisma della sua formula: « né pace, né guerra ». Il 3 marzo (18 febbraio stile russo del 1918) la pace sepa¬rata tra la Russia e la Germania era segnata a Brest-Litóvsk: la Germania riconquistava la Russia. Per ra-tificare il trattato, il Consiglio dei commissari si trasferì a Mosca, dove era stato convocato per tale circostanza il congresso dei soviety. Da allora, la sede stessa del governo fu portata a Mosca, che da allora tornò la capitale delle terre russe. Quali le ragioni vere, se pur ve ne furono, è difficile dire. Si parlò di un tentativo coperto dei bolscevichi, per aver modo di condurre più all’interno ed avere sottomano le rappresentanze estere; e tenerle poi agevolmente in ostaggio, se la pace di Brest-Litóvsk avesse spinto gli ex-alleati ad im¬prese contro la Russia. Si disse pure che in questo tentativo si doveva vedere un suggerimento della Germania, per creare imbarazzi agli ex-alleati della Russia. Si disse ancora che la ragione del trasferimento poteva essere quella di una maggiore sicurezza pei commissari, dato che a Pietroburgo i giornali di opposizione, che ancora si pubblicavano, specialmente quelli dei socialisti rivoluzionari e dei socialisti in minoranza, erano pieni di ingiurie contro i bolscevichi, e non ristavano dall’incitare gli operai alla riscossa. Comunque sia di ciò, i commissari non furono seguiti, nella loro partenza per Mosca, dai rappresentanti esteri. Dei quali, quelli degli stati neutri rimasero a Pietrogrado; quelli dell’Intesa, ex-alleati della Russia, decisero di partire. Sarebbero rimasti i Consoli, sia per la difesa degli interessi delle colonie, sia per far notare che la partenza dei rappresentanti diplomatici non si¬gnificava rottura completa coi bolscevichi. I Consolati sarebbero passati sotto la protezione delle Legazioni dei paesi neutrali, ciò che ne avrebbe garantita l’immunità in caso di arrivo dei tedeschi a Pietrogrado.

     Un ultimo fatto accaduto verso la metà di febbraio: la grassazione subita in una delle vie maggiori della città dal nostro Incaricato d’Affari, derubato in pieno giorno della pelliccia e di oggetti di valore, e per cui ero dovuto andare di nuovo a Smólnyj da Trózkij, a protestare, aveva maggiormente indignato gli stranieri. Non perché il furto’ fosse una prova di più della mancanza di ogni sicurezza personale; ma perché vi si intuiva la connivenza delle autorità con gli esecutori: la rappresaglia. Del resto, non ripetevano i bolscevichi in tutti i toni che, non pure del diritto, ma delle norme internazionali di civiltà essi si ridevano? e non rispon¬deva la loro condotta a tali idee? A che dunque le parole dettemi da Trózkij che « gli era ugualmente cara la vita degli alleati e quella degli amici!».

     Decisa la partenza pel pomeriggio del 13 marzo, la mattina mi dovetti recare dalle autorità bolsceviche per la vidimazione dei passaporti dell’Ambasciata e della Missione Militare. A causa della subitanea partenza dalla Russia di tutte le Rappresentanze ex-alleate, i bolscevichi avevano prese più severe misure pei visti ai passaporti; temendo che con le Rappresentanze non partissero pure persone estranee o sospette, avevano disposto che i passaporti diplomatici dovessero esser presentati in un ufficio di controllo personal-mente dai Consoli, i quali dovevano attestare delle reali funzioni ufficiali e della identità dei partenti. Andai di buon’ora all’ufficio di controllo, al quale era addetto un tal Luzkij, ebreo anche lui, altezzoso, teatrale, che mi fece più l’impressione di un commesso di negozio che di un funzionario. Ma, dalle prime parole, intuii che vi doveva essere qualche cosa contro di noi. Cominciò con sussiego ad esaminare i passapori, chiedendo informazioni, fermandosi su cose che con la vidimazione non avevano nulla da vedere; quando, all’improvviso dette un pugno sul tavolino, si alzò di scatto e gridò: Ah, eccolo finalmente questo signore, lo cercavamo da un pezzo! ed agitava un passaporto. Fra i passaporti consegnatimi dall’Incaricato d’Affari, vi era pure quello del conte Frasso, Deputato al Parlamento, che si trovava in Russia per affari, così mi era stato detto; ma che, volendo partire, desiderava unirsi al personale dell’Ambasciata, mentre… viceversa era ricercato dalla Ceka sotto l’accusa di incetta d’oro e traffico di valuta estera, come affermava il Luzkij, speculazioni duramente colpite dai bolscevichi O Frasso fra mezz’ora qui, o l’Ambasciata non parte, gridò il Luzkij in modo perentorio, e trattenne tutti i passaporti. Gli dissi, con una calma, superiore ai miei nervi, che poteva trattenere il passaporto del deputato Frasso e vidimare gli altri, e che infine il suo era un ricatto. Non se ne offese. Frasso fu arrestato. L’intervento dello stesso Incaricato presso i superiori del Luzkij per avere i passaporti non menò a nulla. «Occorre prima completare l’istruttoria contro Frasso» fu la risposta, approvata e confermata da Trózkij, al quale si era ricorso in ultima istanza per telefono.

L’Ambasciata partì tre giorni dopo. In questo frattempo Luzkij era stato arrestato per sospetti politi ci o concussione, non so. Me lo disse il suo successore, ebreo pure lui, un Lévin (13) , dal quale ebbi poi i passaporti.

     Un mese più tardi fu liberato il conte Frasso; e partì furibondo contro l’Incaricato d’Affari che lo aveva « mollato », e con propositi di vendetta in patria.

     Partita l’Ambasciata, il Consolato passò sotto la protezione della Legazione Svizzera.

     Le ambasciate dell’Intesa, dopo aver cercato inutilmente di passare per la Finlandia, occupata dai tedeschi chiamati dal generale Mannerheim, per far fronte alla sommossa comunista; e dopo aver errato qua e là, per sfuggire la linea di combattimento fra i bianchi (i tedesco-finlandesi) e i rossi (comunisti russo-finlandesi), avevano finito per tornare in Russia a Vólogda, donde in agosto partirono definitivamente per la via di Arcangelo.

     Si concludeva, con questa partenza, quella che non saprei chiamare altrimenti che la « farsa » della diplomazia dell’Intesa nella Russia fra il 1917 e il 1918.

     L’«opera» della diplomazia, quella per lo meno da potersi chiamare tale, era finita da tempo. Era finita fin da quando Buchanin, immischiandosi nella politica interna della Russia, fosse pur costrettovi dalle necessità della guerra, non seppe distaccarsi dalle tradizionali concezioni politiche del suo paese. Ed, in una Russia sconvolta dalla guerra, credette bastasse coltivarvi il liberalismo conservatore inglese, con l’aiuto dei professori universitari anglofili e della classe intellettuale anglicizzante, perché il paese si mantenesse nelle alleanze contratte, o risorgesse.      Era finita con Paléologue, più destro del collega inglese, ed assai più scettico e freddo realista di quel che non mostrassero le sue parate umanistiche, le sue reminiscenze classiche, e le sue amicizie granducali. Egli era riuscito ad ottenere dalla Russia tutto quel che aveva saputo o potuto, con la magggiore abilità, ed aveva adempiuto in tal modo egregiamente la sua missione.

     Era finita col nostro ambasciatore richiamato in I- talia, quando si illudeva ancora sulle forze russe; e, mentre lo sfacelo dell’esercito saltava agli occhi di tutti, e la rivoluzione correva verso il bolscevismo, riteneva, che sol migliorando gli approvvigionamenti dei centri maggiori, si sarebbe potuto dominarla.

     Era finita persino per i giovarti della diplomazia, allorché, disoccupati ormai, si erano dati, chi più chi meno, al diporto dello « studio della rivoluzione », a volerla « vedere da vicino », negli uomini e nelle cose. E credettero di averla « conosciuta » in qualche oscuro sotterraneo, in qualche recondito vicolo, o casa di dubbia reputazione; attirati spesso da facili avventu¬re o volgari appetiti, non ultimo quello del ventre.

     Quel che si fece dopo, da incaricati d’affari, esperti, inviati speciali, ecc., non fu più gioco diplomatico; ma ridicola burletta, tra la vuota diplomazia e le vane alchimie commerciali di alcuni; l’agnosticismo o la senilità di altri; le discordie, i dissensi, le gelosie di tutti i neodiplomatici sopravvenuti.

      Ciò che poteva essere anche un puro affar loro; se disgraziatamente non avessero iniziato, e proprio coi bolscevichi, che di giochi erano maestri, quel pericoloso gioco dell’ostentata ignoranza esteriore, delle invocazioni agli intangibili principi del diritto, e delle trattative sotto mano per « manovrarli ». Ben altri ci sarebbero voluti! E tanto meno quelle missioni militari, entrate in scena all’ultima ora e tutte comprese dell’importanza del « lavoro politico » che si poteva compiere. Lavoro politico; in altri termini, larvato spionaggio fra i bolscevichi nella Russia in rivoluzione! Ci voleva anche quello, perché continuasse da parte degli ex-alleati della Russia l’ostinata incomprensione di ciò che accadeva, e se ne aggravassero ancora più le già tragiche conseguenze!

12.       IL TERRORE

     Era fatale che, dalla violenza cieca della rivoluzione, si passasse alla violenza cinica e meditata del terrore. Non perché la rivoluzione russa dovesse ricalcare le orme della francese, come i giornali comunisti ripetevano fra il 1918 e il 1919, quasi ineluttante necessità storica di tutte le rivoluzioni; ma perché i medesimi fattori, gli stessi elementi primigeni di ogni fenomeno storico, e con la medesima psicologia, si ritrovavano di fronte nella rivoluzione russa, al momento in cui i comunisti se ne impadronirono; e ristabilirono, usurpandolo, quel «potere» che, violentemente tolto allo Zar, era scivolato di mano a tutti. Alla violenza degli usurpatori, pochi, audaci; ma fortissimi e rotti a tutto, che ricominciavano a dominare in nuova veste con vecchie forme oligarchiche, seguì la inevitabile reazione dei più, non meno violenta; ma inadeguata contro cui si scatenò, raddoppiata, la violenza dei dominanti.

     Si attribuì, secondo un giudizio molto corrente, lo scoppio del terrore, all’odio degli ebrei per la Russia, da cui non avevano avuto che ingiustizie ed oppressione; e se ne adduceva a fondamento il fatto che gli auto¬ri del colpo di mano di ottobre erano quasi tutti ebrei, proscritti o perseguitati dal regime zarista. È pos-sibile che in ciò vi sia del vero. Io mi sono però spesso domandato se il terrore in Russia avrebbe preso le forme, o raggiunto le proporzioni a cui giunse, qualora fosse stato diverso il comportamento delle potenze verso i bolscevicbi. Se, invece dell’atteggiamento  agnostico prima, della partenza poi dalla Russia, avvenuta fra i soliti tentennamenti di una rottura voluta e non voluta, i rappresentanti dei governi occidentali avessero avuto una nozione più rispondente alla realtà della Russia del 1918; e, più che l’ormai inutile ricerca del diritto, avessero esaminato il fatto dinanzi a cui si trovavano dell’avvento al potere dei comunisti; valutandolo nella sua pur tragica, ma innegabile realtà e non alla finalità della « guerra vittoriosa », o della « guerra fino alla fine »; se, invece della solita politica del fare e non fare, i governi occidentali, l’avesse¬ro davvero rotta con la Russia, ma di un colpo, e seguendo una linea concorde; e se, infine, invece di tentare di uccidere il mostro con irritanti ferite, avessero pensato veramente al colpo mortale, forse il terro¬re non sarebbe stato quello che fu: lo scatenamento della più cieca e cinica barbarie. Io che ho assistito a strazi, dolori, rovine inenarrabili, ritengo che migliaia di vittime sarebbero state risparmiate, molte rovine evitate, se dal 1918 i bolscevichi non fossero rimasti senza controllo, assoluti padroni di una terra immensa: essi, che si erano appena impadroniti dei centri maggiori.

     E non questo solo; ma fermamente credo che all’as- servimento della Russia ai comunisti contribuì non poco la ambigua politica, l’incoscienza dell’occidente, del la Intesa in particolare, per la Russia di quel tempo. Quale scopo ebbe, per esempio, l’occupazione di Arcangelo e della Murmania nel 1918, e, la costituzione di quel governo di fantocci con un socialista a capo, battezzato pomposamente governo del nord? Sapeva¬no i capi militari di Arcangelo della esistenza fra il Ladoga e l’Onega di migliaia di soldati, i quali aspettavano le forze che scendevano da Arcangelo, per collegarsi con esse, cooperare alla liberazione di Pietro- grado, e spingersi poi verso l’est, dove era Kolciàk? Sapevano della vita di stenti di questa massa di uomini costretta a nascondersi, vagando pei boschi di giorno, bivaccando la notte, e che finì per essere massacrata dai bolscevichi, quando l’avanzata degli alleati dal nord si esaurì a Povenéz? Ed ai cecoslovacchi, exprigionieri austriaci, spinti verso la Siberia, per non esser consegnati all’Austria ed organizzati invece dalla Francia lungo il Volga e gli Urali contro i bolscevichi, fu assegnato mai un piano determinato di azione? E non bastava il caos della Siberia, ci voleva ancora lo sbarco dei giapponesi a Vladivostok?

     Possibile che la squadra inglese, la primavera del 1919 non potè superare, nel golfo di Finlandia, la resistenza delle navi da guerra russe ancorate a Kronstadt: navi che mancavano di tutto, dal comando al carbone, da non potersi quasi muovere dall’ancoraggio; e non riuscì che a provocare i massacri di Kaporie compiuti dai marinai di Kronstadt? Gli ideatori di tali imprese, più avventurose che avventurate, benché rappresentate sempre a Pietrogrado come opere di imminente salvazione, finirono per fare il gioco dei bolscevichi, dando loro occasione di scatenare più violenta la repressione delle sommosse, più cinica la soppressione dei nemici. Né seppero essi, probabilmente, del numero inaudito di vittime, che ogni mossa esterna diretta contro i bolscevichi provocava all’interno; o delle inutili speranze destate, seguite, da tanto maggiori disillusioni, e da vere ecatombi di gente che andava al macello senza colpa, per la sola vendetta di quello che si faceva al di fuori, a cui spesso era estranea, o che più sovente ignorava.

     I primi segni del terrore si ebbero mentre si trovavano ancora a Pietrogrado i rappresentanti dell’Intesa. Uccisioni ve ne erano state e molte per odio, o vendetta; ma il primo assassinio politico premeditato e freddamente compiuto dai marinai di Kronstadt fu quello degli ex-ministri Scingarév e Kokósckin. Questi due vecchi, che avevano sofferto per le loro idee sotto il regime zarista, ed avevano consacrato la loro vita alla elevazione del popolo (lo Scingarév era un vec-chio medico condotto, ed i medici condotti furono sempre in regime zarista pionieri di cultura e libertà), già arrestati dai bolscevichi, erano stati ricoverati, come malati, nell’ospedale Maria. Lì, inerti, nel sonno, furono trucidati il 18 gennaio 1918, sotto gli occhi dei malati, da una banda di marinai. La città fu sgomentata; da ogni parte si gridò alla necessità di punire i colpevoli. Ma i giornali bolscevichi, pur mostrando rimpianto per le vittime, giustificarono l’atto terrori¬stico, e ne minacciarono altri se la reazione continuasse. I marinai rimasero impuniti.

     Non era ancora passata l’impressione di questo primo delitto, che cominciarono i massacri della borghesia e degli ufficiali in Finlandia, in Crimea, in Ucraina e nella grande Russia, fra il febbraio e il marzo; e furo¬no sempre i marinai di Kronstadt gli esecutori dei peggiori scempi, dei più cinici massacri. A Pietrogrado, tra l’aprile e il maggio, si ebbe una relativa tregua, pur continuando gli arresti e le perquisizioni. Si festeggiò finanche la Pasqua. Le navi ancorate sulla Neva innalzarono il pavese di gala come in passato; sol che le bandiere erano rosse; ed i marinai per giornate intere non fecero che ubriacarsi insieme con tutte le donne pub¬bliche che poterono condurre a bordo. Dalle finestre di casa noi assistevamo a questo triste spettacolo di dissolutezza. Le chiese ortodosse rimasero deserte nello squal-lore dell’abbandono della decadenza; mentre le chiese cattoliche, come prima, rigurgitavano di gente durante le funzioni della settimana santa.

     Scoppiata la rivoluzione, anche la Chiesa Ortodossa, intimamente legata al regime zarista come religione di stato, tornò libera, cessando di essere strumento di dominio nelle mani del potere civile; e ne profittò. Fu convocato nel 1917 un concilio generale a Mosca per provvedere alla disciplina del clero, alla sua assistenza materiale ed alPordinamento della gerarchia. Fu eletto il Patriarca, richiamando in vita una istituzione che Pietro il Grande aveva abolita; furono stabilite norme per la elezione dei successori; fu ricostituito il Sinodo; e si cominciarono ad attuare le riforme interne necessarie alla nuova esistenza della chiesa. Ma vennero i bolscevichi, e l’effimera libertà di cui aveva goduto la chiesa cessò; non solo, ma lo stesso edifizio della gerarchia ecclesiastica, tra persecuzioni, confische e soppressioni, fu distrutto. Non rimasero riconosciute che le chiese parrocchiali, nazionalizzate anch’esse; ma affidate ai fedeli, come associazioni culturali. Il clero perdette ogni privilegio, fu messo quasi fuori legge; considerato nemico del popolo « di cui non aveva fatto che sfruttare per secoli la credulità ». La religione stessa fu attaccata, e divenne sui giornali e nei comizi, oggetto di scherno, di empie caricature, di satire in-degnissime. Si soppressero le immagini, le icòni e le cappelle degli edifici pubblici; si scacciò Dio dalle scuole, dagli ospedali, dalle prigioni. I maestri comunisti, soprattutto, si distinsero per una irreligiosità aggressiva, che doveva, con la distruzione di ogni idea religiosa nella gioventù, contribuire a formare in essa una coscienza comunistta. Ritenendo in tal modo avere dalla loro la gioventù, i bolscevichi poterono anche tollerare che le chiese rimanessero aperte, a beneficio esclusivo di quei miserevoli avanzi di un regime tramontato; di quella cosiddetta borghesia, per altro verso perseguitata. Della quale, se alcuni si irrigidirono nelle loro credenze e, divenuti coraggiosi nella persecuzione, dettero inattese prove di eroismo; la più parte, dopo un primo periodo di cresciuto fervore, quan¬do si aspettava da tutti il miracolo della distruzione delle forze rivoluzionarie con l’intervento del soprannaturale, si ridussero in uno stato di incredulità, prendendo quell’attitudine di vinti, di colpiti dal destino, di impotenti a reagire. Le chiese finirono per rimanere vuote, per la mancanza di clero, e la deficienza di mezzi. Spesso i ministri del culto, impoveriti, si ridussero ai più umili mestieri, per sopperire ai bisogni delle loro famiglie. Qualcuno finì scrivano negli uffici comunisti; altri, specie in provincia, divennero agenti della Cekà, e gettarono la tonaca. Movente di queste defezioni fu sempre la fame, non disgiunta però dalla ignoranza, specie nei preti delle campagne.

Contadini fra contadini, molti preti dei villaggi accolsero con gioia l’avvento del regime comunista, che prometteva il paradiso in terra ai diseredati. E chi più di loro menava una esistenza sovente durissima? E fecero festa al nuovo verbo, passando anche sulle prediche degli emissari bolscevichi, i quali, in presenza del prete, arringando i contadini nei villaggi proclamavano spesso che, con lo Zar, era morto anche Dio; che Gesù non era mai esistito; ma era un mito spazzato dalla rivoluzione. Come opporsi ad una propaganda simile, se i popi erano spesso digiuni, non solo di sapere teologico, ma di qualsiasi cultura generale; come non subirla, o farsi trascinare alla defezione, sotto l’aculeo della fame? Poi venne il terrore, e mietè vittime dovunque in alto ed in basso. Vescovi e preti, monaci e fedeli, morirono sotto i colpi degli assassini; furono torturati, presi come ostaggi e fucilati senza alcun processo, o relegati a Solovkì o in Siberia. Distrutta la gerarchia; ridotta a gruppi di associazioni cultuali in basso, ed al patriarca in alto, senza legami intermedi, spezzata nella sua integrità, con un clero, tra le de¬ezioni e i martiri, ridotto al nulla; la Chiesa Ortodossa, incapace più di offrire nelle tremende ore di quel tempo l’estremo rifugio al dolore, lo sperato sollievo ad anime oppresse dall’angoscia, bisognosa essa stessa di sostegno, appariva un miserevole rottame nel tragico incalzare degli avvenimenti.

     Piccola oasi in questo quasi deserto, la chiesa di p. Leonida Fedorov, troppo cara alla mia memoria, per non ricordarla qui.

     Nato nell’Ortodossia e spinto’ da vocazione allo stato ecclesiastico, p. Fedorov era entrato all’Accademia Teologica Ortodossa di Pietroburgo, per prepararsi al sacerdozio. La lettura degli scritti di Vladimir Solov’év lo avvinse all’idea dell’unione delle chiese, mentre lo studio spassionato della storia ecclesiastica lo spinse verso Roma. Lasciò l’Accademia e partì per l’estero. Fu a Friburgo e a Roma, e tornò in Russia sacerdote di rito slavo unito, ed apostolo della grande idea di Solov’év, alla quale fece convergere tutte le sue forze. Furono dapprima scritti, conversazioni, lettere che non uscivano da una ristretta cerchia di studiosi delle questioni religiose; ma avevano eco nella classe intellettuale. Le autorità ortodosse di Pietroburgo scagliarono i loro fulmini; la polizia intervenne, Fédorov fu confinato in Siberia per tre anni dal 1914 al 1917.

     Liberato allo scoppio della rivoluzione, quando pareva che un’era di libertà religiosa si aprisse veramente pei cattolici in Russia, p. Fédorov riprese la sua opera. Erano le grigie giornate di aprile-maggio 1917, quando l’orizzonte della rivoluzione cominciava a diventar fosco e le difficoltà della vita, sensibili pel resto della popolazione, erano già gravi, gravissime qua e là pel popolo minuto.

     In mezzo a questo popolo scendeva la parola di p. Fédorov. Bisognava vedere la folla di umili che riempiva la domenica la cappella alla Peterburgskaia Storonà, si accalcava per le scale, faceva ressa alla porta, seguiva dalla strada lo svolgimento della liturgia. A queste anime, nell’ora tremenda che si attraversava, p. Fédorov diceva parole di elevazione, di conforto; ricordava la patria, la grandezza della Russia; ma parlava pure della grandezza della Roma cristiana, del primato della terra dei martiri, dell’unione sotto l’unico pastore vagheggiata dal grande spirito di Vladimir Solov’év. E la gente lo seguiva; ed agli umili si univano, sempre più numerosi, studenti, persone delle clas¬si superiori, attratti dalle parole, che, per la prima volta in Russia, esponevano verità, fino allora travisate dalla passione politica, o taciute.

     L’avvento dei bolscevichi travolse nello stesso odio contro ogni religione, anzi contro Dio, ortodossi e cattolici. P. Fédorov fu di nuovo arrestato, tenuto in prigione per due anni e nel 1923 condannato a dieci anni di deportazione alle isole Solovkì, e di là, già fiaccato dai patimenti, fu relegato a Viàtka, dove morì nel 1935.

     La stampa non poteva sfuggire all’occhio sospettoso della Cekà; e, nel 1918, soppressi tutti i giornali di destra e quelli dei cadetti, erano rimasti solo i giornali dei socialisti di sinistra, oltre quelli dei bolscevichi; e il giornale di Gorkij, la « Novaia Gisn » che, stando fra gli uni e gli altri, si sforzava inutilmente di essere o parere libero; e riuscì soltanto a contraddirsi, a fare sterile opera di critica talvolta, tal altra di arrischiata provocazione, e finì per essere soppressore da uno degli ultimi articoli del giugno 1918, quel che Gorkij diceva dei bolscevichi. «Sono uomini come noi, scriveva, come noi figli di donne e non punto più feroci di noi. I loro atti sono criticati talora oltre misura. Io non li difendo e lotto contro di essi con tutte le mie forze.

     Essi vogliono compiere sul corpo della Russia un cinico esperimento scientifico. Certo, questi uomini hanno commesso errori gravi e funesti. Io ignoro dove ci condurrà il loro sistema politico; ma avranno reso psicologicamente un gran servizio al popolo russo, forzando questa massa inerte ad uscire dal suo punto morto o passare ad un’attività senza la quale la nostra pa¬tria perirà. Ora essa vivrà, perché il popolo si sveglia, vi maturano forze che non temono la follia di fanta¬stici novatori politici, né l’avidità di stranieri che vo¬gliono fare a pezzi la Russia… ».

      Ai primi di luglio del 1918 scoppiò a Pietrogrado la rivolta armata dei socialisti-rivoluzionari contro i bolscevichi, ad imitazione della sommossa dell’anno innanzi dei bolscevichi stessi contro il governo provvisorio. I socialisti-rivoluzionari si asseragliarono nell’edilìzio del Corpo dei Paggi alla Sadóvaja, nel centro della città, facendone il loro quartiere generale; e di là diramarono le squadre dei loro affiliati a sollevare il popolo. Ma la sollevazione non sgomentò, né trovò impreparati i bolscevichi, che distrussero le squadre dei sobillatori ad una ad una; e, contro il Corpo dei Paggi collocarono dall’opposto edilìzio di Gostìnnyj Dvór, ad una distanza di qualche centinaio di metri, mitragliatrici e cannoni, ed in qualche ora ebbero ragione dell’edificio e dei rivoltosi. Si disse che la sollevazione a Pietrogrado era da collegarsi a quella scoppiata quasi contemporaneamente a Iaroslavl, organizzata dal Sà- vinkov, e della quale la stampa bolscevica non esitò ad accusare le Ambasciate dell’Intesa che si trovavano, come ho detto, a Vólogda, poco lontano da Iaroslavl.

Qualche tempo prima della sommossa dei socialisti-rivoluzionari, il 20 giugno fu ucciso a Pietrogrago il giornalista Volodarskij, un ebreo il cui cogno¬me vero era Goldstein: giovane speranza del comunismo; un fanatico violento che, colla stampa e nei comizi, eccitava il popolo alle più spietate vendette contro i compagni di ieri: i socialisti-rivoluzionari che i bolscevichi non rifinivano di gratificare a tutto spiano del titolo di traditori, e perseguitavano con singolare accanimento. Si parlò di vendetta privata; ma ai bolscevichi giovò di parlare di vendetta politica, che attribuirono, come sempre, ai socialisti-rivoluzionari; e ne trassero motivo per più feroci persecuzioni. Poteri illimitati ebbero, o si assunsero, il dittatore di Pietrogrado, Zinóviev, altro ebreo, di cognome Apfelbaum, ed il capo della Ceka, Urlzkij. Potentissima e tremenda divenne questa, e da allora tristamente famosa. In-coraggiati, sussidiati e favoriti furono la delazione e lo spionaggio, che si esercitavano non solo contro nemici politici e privati; ma contro amici, parenti, congiunti. Fu il periodo terribile dell’estate-autunno 1918: una sequela di delitti impressionanti, di violenze, di vendette.

      Il 18 luglio fu assassinata ad Ekaterinburg; dove era stata deportata dopo l’arresto a Zàrskoe Seló, la famiglia imperiale. L’eccidio si disse compiuto dal comitato locale dei soviety; ma nessuno dubitò invece che fosse opera di Mosca. Massacro inutile di esseri già travolti e di innocenti giovani vite, più infelici che colpevoli, assai meno colpevoli in ogni modo dei loro assassini.

     Poco dopo, si parlò dell’assassinio a Perm del granduca Michele, fratello di Nicola II, e dell’uccisione ad Alapàievsk del principe Jan Konstantinovic’.

     A Pietrogrado furono arrestati, dopo il saccheggio dei loro palazzi, i granduchi Paolo Alexàndrovic’, Nicola e Sergio Michailovic’, zii di Nicola II, unici rimasti in Russia, ed uccisi poi nella fortezza di S. Pietro e Paolo.

     Il 19 luglio, non senza partecipazione del Kremlino, era ucciso a Mosca il conte Mirbach, primo ambasciatore di Germania in Russia dopo Brest-Litovsk.

     Ma il 30 agosto fu anche ucciso a Pietrogrado Urizkij, la personificazione del terrore, della cinica vendetta. Ed a Mosca il 10 settembre fu compiuto un pri¬mo attentato a Lénin che rimase gravemente ferito.

     Ebreo, l’uccisore di Urfzkij, il giovane Kannegiesser; ebrea colei che attentò alla vita di Lénin, Dora Kaplan: entrambi socialisti-rivoluzionari.

      La violenza vendicativa dei bolscevichi allora non ebbe più limiti. Non arresti isolati o a gruppi; ma retate di gente, alla cieca, erano fatte dalle guardie rosse per le vie, le piazze, i crocicchi più frequentati; migliaia di vittime cristiane furono sacrificate ai mani di Urìzkij ebreo; barconi interi di arrestati furono affondati allo sbocco della Neva fra Pietrogrado e Kronstadt; centinaia di inermi, ammassati sulla spiaggia di Oranienbaum e massacrati con le mitragliatrici. In una di queste retate, fui arrestato anch’io, tornando a casa; ma dopo poche ore rilasciato. Quella stessa sera però, il 31 agosto, il capitano Cromie della marina britannica fu ucciso sulla porta dell’Ambasciata inglese, in uno scontro con una pattuglia di guardie rosse, che vo-levano entrare a forza, e farvi una perquisizione dopo l’assassinio di Urfzkij. Il 6 settembre accompagnam¬mo la salma al cimitero. Vi furono i Rappresentanti degli stati neutri, che erano ancora a Pietrogrado, e tutti i Consoli, meno l’inglese, che era stato arrestato.

     Da quel giorno tutti i Consoli cominciarono ad essere pedinati.

   In settembre del 1918, sorsero nei dintorni di Pietrogrado i primi campi di concentramento, dove i bolscevichi inviavano gli arrestati per semplice sospetto o colpe meno gravi, che non trovavano posto nelle pri¬gioni, le quali rigurgitavano di gente, nonostante le esecuzioni giornaliere, le decimazioni, le condanne cosiddette ordinarie

     Ma la città stessa, stretta nella morsa dei comunisti, andava diventando una prigione.

     Pietrogrado, che durante la guerra aveva visto pul¬sare più intensa la sua vita; che durante la rivoluzione parve presa in un turbine di follia, col terrore cominciò a morire: decadde, si spopolò, tra gli arresti e l’esodo della popolazione, cambiò aspetto, divenne tetra, soffocante. Non parlo delle distruzioni che sistemati¬camente vi si compivano: il Palazzo Imperiale ed il palazzo Anickov, i palazzi dei Granduchi e quelli della aristocrazia messi a ferro e fuoco; l’artistica balaustrata di ferro del giardino del Palazzo Imperiale barbaramente distrutta; la piazza del campo di Marte trasformata in cimitero pei morti della rivoluzione; il magnifico giardino botanico, celebre per le sue rare collezioni, ridotto ad orto e poi abbandonato; il bellissimo monumento di bronzo al granduca Nicola della guerra russo-turca, una delle più belle opere del Canonica, distrutto a colpi di ascia. Non parlo della soppressione della stampa; dei decreti di confisca o statizzazione dei beni, delle case, dei prodotti dell’ingegno, del commer¬cio, delle industrie. A tutto questo non si badava più, dinanzi allo spettacolo tragico della vita, che si andava estinguendo: la vita degli uomini, delle cose, della città, se pur vita si poteva più chiamare la nostra di allora.

     In balia del cieco arbitrio dei potenti dell’ora, a cui non pareva vero di poter dare sfogo all’odio verso i signori di ieri, e alla vendetta per offese, che affermavano aver subito; in balia dei peggiori istinti degli esecutori di ordini di perversi padroni, sulla vita di tutti si andò addensando tale cumulo di violenze, che la sicurezza personale divenne parola vuota di senso; la vita stessa apparve priva di qualsiasi valore.

     Si arrestava spessissimo la gente per solo sospetto, senza che si formulassero accuse; ma all’arresto seguiva più spesso la morte per rappresaglia verso la classe borghese, o per liberarsi di « bocche soverchie ». Nel numero di coloro che in tal modo morirono, checché andassero dicendo i bolscevichi di complotti e congiure, furono una esigua minoranza quelli ai quali se ne poteva fondatamente far colpa; tutti gli altri perirono, senza essere talora neppure interrogati, pel solo fatto di appartenere, o aver appartenuto’ alla classe borghese.

     Eppure, se in Russia qualche cosa non esistette mai, fu una «classe borghese». Fra i privilegiati, aristocratici o funzionari che fossero, e la gran massa dei contadini, non sempre né dovunque sfruttati dai padroni, vi era il vuoto. Lì trovò posto la rivoluzione nella quale caddero fatalmente quelli che stavano in alto, spezzato il sostegno della autocrazia, e finirono coloro che stavano in basso a misura che le ondate sempre più profonde li portavano a galla dai bassifondi. Questa borghesia, che i bolscevichi stessi, interrogati, male avrebbero saputo dire di che cosa fosse fatta; ma che in fondo era designazione sprezzante dei padroni di ieri, fu vista subire la violenza, le angherie, gli scoppi di odio, adattarsi a subire il comando con as¬sai maggiore remissività dei proletari. I contadini e gli operai sovente si rifiutavano di andare ai duri lavori obbligatori, i « burgiui » vi andavano invece docili, fino ad essere talvolta derisi da coloro stessi che ve li obbligavano.

     Posti in ambienti signorili, in contatto di persone che potevano fornir loro esempi di elevazione, i proletari non si elevarono, né mostrarono di volersi o sapersi evolvere; ma si imbestialirono ancor più. Messi ad abitare nelle case dei cosiddetti signori, che, secondo le emanate disposizioni, avrebbero dovuto avere soltanto in uso collettivo, i comunisti non sentirono il rispetto della cosa comune; ma furono presi dai più bassi istinti di rapina, per cui, dopo averle ridotte in stalle o macerie, se ne andavano, portando via tutto quel che potevano, per ricominciare altrove. Fu questa la sorte di tutte le case, e dei palazzi di Pietrogrado, per dove passò l’orda proletaria imperante dopo il decreto di statizzazione delle case, e fu la distruzione della città. Talora essi stessi, i proletari comunisti, sentivano l’onta dei loro saccheggi, e delle rovine che semi-navano. Ricordo di una ex-operaia passata col marito, agente della Cekà, ad abitare in un bell’appartamen¬to di un palazzo aristocratico, i cui proprietari erano fuggiti allo scoppio del terrore, e lo avevano affidato all’amministratore, che lo consegnò ai bolscevichi. L’appartamento, che io conoscevo, era pieno di oggetti d’arte, mobili, porcellane, sete, damaschi, tappeti; i padroni vi avevano lasciato fin la biancheria finissima, le stoviglie. Dopo due settimane non vi era più nulla. Non solo; ma la casa era così selvaggiamente distrutta, che l’operaia stessa non potè trattenersi in presenza mia dal dire: « Che disgusto proverebbero i padroni se tornassero qua!».

     Lunaciàrskij si affannava a creare, coi rottami, musei per la cultura dei proletari, la « proletcult », forse per dimostrare ancora una volta che la vita, individuale o sociale, è veramente un insieme o un alternarsi di distruzioni e ricostruzioni, attraverso cui si torna al punto di prima. Ma chi assicura che questo è sem¬pre secondo una linea ascendente?

     Il « tempo che il vivere parve un’eccezione » noi lo vivemmo così, per settimane e mesi. Il terrore che pesava su tutti; gli animi perplessi per la nessuna sicurezza propria e dei cari; l’ansia del domani oscuro e peggiore dell’oggi, resero la vita un incubo, mentre la città si spegneva nella miseria morale, nella fame, nella sporcizia, nelle infezioni. Negozi e botteghe si chiudevano a centinaia da un giorno all’altro, per la chiusura dei mercati e l’abolizione del libero commercio. Le strade diventavano ogni giorno più deserte per gli arresti, o il timore dei non arrestati di mostrarsi in pubblico. Sulla prospettiva di Névskij, sui Lungoneva, le più belle vie del passato, ora quasi deserte, si accumulavano le immondizie; cadevano morti per fame i cavalli delle vetture, sempre più rare, e le carogne abbandonate, furono dapprima preda dei cani, più tardi degli uomini, che le contesero, dove agli animali, dove e più ferocemente, ad altri uomini. Spesso, con gli animali, cadevano per fame gli uomini; ma a questi si badava meno. I rari passanti, se della vecchia società, si ricono-scevano al portamento signorile, nonostante gli abiti a brandelli, all’aspetto abbattuto, al volto sofferente; se della nuova borghesia dei soviety: la «sovbur », spiccavano per lo sguardo sfacciato ed insolente, ed, assai più, pei lineamenti tipici della razza ebraica, pel viso completamente raso e quegli occhiali a stanghetta, che non so se fossero moda o camuffamento di tutti gli ebrei del partito comunista.

     Saccheggiati i palazzi, i proletari si dettero alla distruzione delle case di legno, per ricavarne il legname, che vendevano poi a prezzi favolosi, e sempre più alti, con 1’incalzare del freddo. L’inverno del 1918-1919! Un inverno senza luce: mancava l’elettricità per mancanza di combustibile; mancava il petrolio; le candele steariche, una rarità, perché non ve ne erano, o perché si mangiavano invece del grasso. Un inverno senza legna, con temperatura nelle case al di sotto dello zero; famiglie intere si riducevano a vivere nelle cucine, aggrappandosi, mezzo intirizzite, ai fornelli semispenti, che si riscaldavano, e non sempre, con la carta, coi mobili di casa, coi residui di tutto. Chi potrà dirne le sofferenze? E la fame, acuta, straziante; e lo spavento della morte lenta per inanizione? Che non si mangiò allora! La putrida carne di cavallo era una ghiottoneria. L’olio di ricino rancido, che una cooperativa straniera, unica superstite di altre consimili, vendeva a prezzo d’oro, era un grasso ricercatissimo. Cereali non ve ne erano. Il pane, un tritume di paglia, segatura di legno e crusca, non si aveva tutti i giorni. Le patate fradicie andavano a ruba. Prima della guerra Pietrogrado contava 2 milioni e mezzo di abitanti, ai primi del 1919 ne contava non più di seicentomila. Ripensando a quel tempo, che mi sembra lontano, mi pare impossibile che si sia arrivato a tanto.

*

     Partite le Ambasciate da Vólogda, partirono, poco dopo, gli ultimi ufficiali italiani della Missione Militare, ed un ultimo scaglione di internati di Kirsànov, che tornavano in Italia per la via di Murman.

     In novembre poterono partire, dopo infinite difficol¬tà, gli italiani di Pietrogrado. Pur desiderando che gli stranieri lasciassero la Russia, i bolscevichi non ristavano dal rendere la partenza difficoltosa; tanto che, in molti casi, il permesso di lasciar la Russia, di cui gli stranie¬ri avrebbero dovuto fruire, secondo le promesse ripetute, si riduceva ad una burla. Dapprima trattennero gli uomini atti alle armi fra i 18 e 48 anni, dando il permesso di partire solamente alle donne, ai vecchi ed ai fanciulli, e così fecero anche per gli italiani; poi ricorsero al sistema degli ostaggi. Comunque, un buon gruppo di italiani partì. Ma quando, dopo la partenza, nel dicembre del 1918, feci chiedere anche per me, dalla Legazione Svizzera, il permesso di partire, mi fu risposto che io ormai ero ostaggio sia per gli italiani partiti, sia per gli atti di ostilità che l’Italia compiva verso la Russia con la occupazione insieme agli ex-alleati, di Arcangelo, e la partecipazione dei nostri soldati, partiti per la Siberia, alle mosse di Kolciàk. Eravamo alla fine di dicembre del 1918. Due consoli stranieri, che si trovavano nelle stesse condizioni mie, mi dissero che sarebbero fuggiti per la Finlandia; come fecero, profittando delle notti invernali. Ma essi erano soli, io avevo i figli dei quali ero l’unico sostegno, dopo la morte della madre, spenta da oscuro morbo nell’infierire del terrore.

     Soli ed isolati eravamo al sorgere del 1919, partiti ormai tutti: intimi, amici, conoscenti; privi di notizie dei lontani. Intorno, lo spettacolo tragico dell’annientamento della vita.

Gli italiani di Pietrogrado erano ridotti a quei po¬chi che non avevano potuto, o voluto muoversi dalla Russia. Alcuni vi erano da lunghi anni, o vi erano na¬ti, o non avevano più parenti in Italia. Altri tentavano di trarre profitto dallo stato delle cose, col commercio, specie degli oggetti antichi, di cui si andavano vuotando le case dei borghesi e dell’aristocrazia; e che, nell’inverno fra il 1918 e il 1919, coi libri e le vecchie cianfrusaglie, furono le sole cose che si potessero ancora liberamente vendere o comprare in Russia. Speranze ed illusioni scontate dopo amaramente; e che davano non poco da fare al Consolato per difendere gli

 uni dai rigori del fisco bolscevico; gli altri, ciò che era più grave, dalla accusa di speculazione e favoreggia¬mento dei reazionari fatta loro dalla Cekà.

     Arrivavano però di continuo italiani dall’interno, talora da regioni lontanissime, cacciati dalla fame e dalla rivoluzione dagli angoli più sperduti, dove erano fino allora vissuti, ignoranti ed anche noncuranti, poiché la più parte o non aveva alcun documento, o ne avevano di vecchissimi, da decine di anni non più validi. Erano tutti in estrema indigenza, sfiniti dalle privazioni e dalle sofferenze. Spesso erano soldati dispersi che, dopo lunghe peripezie, e con grande loro meraviglia, finivano per trovarsi a Pietrogrado, dove neppur pensavano di arrivare. Uno di questi, un abruzzese, lo presi come inserviente nel mio laboratorio all’Istituto.

     Feci quanto era possibile in quelle difficilissime cir¬costanze per aiutarli, e soprattutto sottrarli agli adescamenti dei bolscevichi, che con tutti i mezzi cercavano di attrarli.

*

     Nel febbraio del 1919 partirono dalla Russia anche le Rappresentanze dei paesi neutrali; venuta meno or¬mai ogni ragione della loro permanenza in Russia, e, per giunta, esposte ai sospetti ed alle villanie dei bolscevichi.

     Partì, con le altre, la Legazione Svizzera, dopo aver provveduto, per quanto possibile, alla custodia e difesa della Legazione. I Consoli, o piuttosto una finzione di Corpo Consolare, rimasero ormai il tenue filo che legava ufficiosamente i bolscevichi all’Europa.

Fomiti di carte d’immunità; ma non riconosciuti; am¬messi al beneficio dell’acquisto dei pochi viveri nelle cooperative statali; ma trattati con sospetto; ci trovam¬mo nella più strana condizione, sia come persone, sia nella difesa, che pur dovevamo fare, dei Consolati e dei connazionali. Non poche volte io dovetti difendere, oltre gli italiani dalle minacce continue, il Consolato e il palazzo dell’Ambasciata dalle incursioni dei marinai e dei soldati, che con mille pretesti cercavano di impadronirsene.

     Per questo, ed anche perché, fra tanto agitarsi di bandiere rosse e nere, vi fosse qualcosa che parlasse agli italiani rimasti, o a quelli che arrivavano a Pietrogrado, pur fra le sofferenze materiali e morali, un linguaggio che non fosse quello dell’odio o della vendetta, dopo la partenza della Legazione Svizzera, innalzai sul Consolato la bandiera italiana, come simbolo, richiamo, ricordo. Gli italiani me ne furono grati; ai bolscevichi la cosa suonò come un’offesa. Qualche giorno dopo vennero al Consolato degli agenti della Ceka a far rimostranze, dicendo che la Russia del 1919 non era «paese di capitolazioni». Risposi che per me lo era, fin che agli italiani non fossero assicurate almeno le più elementari garanzie, riconosciute dovunque agli stra¬nieri, e che la bandiera non l’avrei tolta. Ricorsi al rappresentante a Pietrogrado del Commissariato per gli Affari Esteri; e ne ebbi nuove carte di immunità pel Consolato, e per me. Dal Commissariato per gli Approvvigionamenti ottenni che anche gli italiani potessero acquistare mensilmente dei viveri nelle cooperative sovietiche, dopo di che consentii a ritirare la bandiera.

      Tra il marzo e l’aprile del 1919 cominciai a sen¬tirmi male; i nervi non reggevano più. Mi ammalai ed ebbi, non so, il presentimento di una fine prossima, o il desiderio della fine. Ricordo che accessi di cupa malin¬conia attraversavano le mie giornate, e che i figli e qualche persona rimasta ancora a noi affezionata ne risentivano il contraccolpo. Anche l’Istituto decadeva ed il freddo che faceva nei laboratori, nei quali l’acqua gelava, non permetteva di rimanervi a lungo.

     Ebbi una retinite all’occhio sinistro che mi tenne a letto ed all’oscuro tutto gennaio; in febbraio ebbi un attacco di appendicite con ricadute in marzo, aprile e maggio sempre più forti. Mi fu consigliato fin dal primo attacco l’operazione; ma non ne volli sapere. Solo dopo l’ultimo, quando i miei sofismi non illudevano più nessuno — io avevo sempre voluto far credere che non si trattasse di appendicite — neppure i miei figli, cedetti e decisi di farmi operare. Ne parlai ad un mio collega dell’Istituto, il chirurgo Goldberg, ed attesi che mi potesse accogliere nella Clinica dove operava, appena vi fosse stato un posto libero.

    Dopo ciò mi sentii più calmo, e, per qualche giorno, perfino di umore meno cattivo; di che tutti si rallegravano, come di buoni indizi per una ripresa del lavoro scientifico. Ed erano ben lungi dal pensare che, pro¬prio nell’ora delle rinascenti speranze, il destino allungava la sua mano su di me, e non su di me soltanto.

V

1919-1920

13.       L’ARRESTO E LA PRIGIONIA

A PIETROGRADO – Giugno 1919

     Il pomeriggio del 2 giugno tornavo a casa dall’Istituto, dove avevo lavorato dalla mattina, e facevo, secondo l’abitudine, il bilancio della giornata. Ero contento di essa, perché il lavoro, che, un po’ per scarsezza di materiale adatto, un po’ per mancanza di tempo, ma più, pei miei frequenti malanni, procedeva frammentario e lento, quel giorno aveva avuto una buona spinta. Avevo anche riveduto conoscenti ed amici, venuti a felicitarmi pel più recente attacco di appendicite superato. Tutti avevano trovato un miglioramento pure nel mio morale e se ne erano rallegrati, come di un buon presagio per la ripresa del lavoro comune.

Ed io veramente sentivo quel giorno una insolita tranquillità di spirito ripensando all’operazione; mi sarei liberato da un fastidio, e mi sarei potuto dedicare con maggior lena al lavoro scientifico nell’attesa dell’estate, che, chissà? avrebbe potuto portare inattese congiunture o insperati avvenimenti, e sarei forse potuto tornare in Italia coi figli. Fra questi pensieri giunsi a casa, e bussai, aspettando di vedermi aprire da Michele e Mara che mi attendevano sempre con impazienza; mi leggevano in viso, quando rientravo; e mi mostravano, con feste e moine, la loro gioia, se mi vedevano meno triste, o meno preoccupato. Anche essi, poveri bambini, come soffrivano delle mie sofferenze; e come sopportavano la mia irritabilità e i miei scatti.

Mi aprì invece la domestica, e mi disse, senza nep- pur salutarmi, che la casa era piena di ospiti. Mentre pensavo chi potessero essere, dalle stanze mi venne incontro un giovane, che si sarebbe potuto prendere per un operaio, se la rivoltella che portava al fianco, la coccarda comunista e l’aria tra dimessa ed ironica, propria di tal sorta di persone, non me lo avesse fatto riconoscere per una «guardia rossa». Mi ricordai subito di averne incontrato per le scale due, le quali, vedendomi, si erano scambiate un cenno che non mi era sfuggito, ma al quale non avevo fatto molta atten¬zione, assorto nei mie pensieri. Mi disse che si trovava nella mia abitazione, per ordine della Ceka, e che un commissario sarebbe venuto a fare una perquisizione. Mara mi disse che, poco dopo che io ero uscito, mentre era sola in casa, erano venuti un uomo e una donna, i quali avevano domandato di me e, nonostante essa avesse risposto che ero fuori, erano entrati ed avevano cominciato a rivolgerle domande su di me, le mie occupazioni, le ore di ufficio, i parenti, gli ami ci, coloro che frequentavano la casa. Dapprima Mara aveva risposto, poi insospettita ed indispettita per la loro insistenza ed arroganza, aveva domandato chi fossero e che volessero; ed essendole stato risposto che questo non era affar suo, non aveva risposto più ad alcuna domanda. Allora i due erano andati via, lasciando a casa e per le scale le guardie che vi avevo trovato. Mentre si aspettava il commissario, venne a vedermi un italiano, il signor Bastucchi; aveva saputo della mia ricaduta d’appendicite e veniva ad informarsi della mia salute. Quando volle andar via, gli fu intimato di non muoversi prima dell’arrivo degli agenti. Io protestai contro questa violenza; il Bastucchi presentò i suoi documenti, da cui risultava che lavorava come tecnico in una fabbrica di Pietrogrado; tutto inutile, fu trattenuto e più tardi arrestato.

In questo, gli agenti arrivarono, e, con essi, l’uo¬mo e la donna del mattino. Ebrei entrambi; faccia e portamento degli ebrei di bassa provenienza: lui era il commissario, lei era la segretaria, interprete, non so. Senza togliersi il cappello, senza salutarmi, l’uomo mi mostrò prima un documento a comprova delle sue funzioni, poi un secondo che era l’ordine di « perquisire l’abitazione del console d’Italia ed, ove ne fosse stato il caso, arrestarlo ». Cominciò col domandarmi se avessi armi, valori, o «documenti diplomatici » a casa. Alla mia risposta negativa, passò alla perquisizione: inutile parodia da servire, però, a giustificare il mio arresto, e, più tardi, la perquisizione al Consolato. A- vevo sullo scrittoio le fotografie dei fratelli in tenuta militare. Le osserva, e mi domanda di chi fossero, su quale fronte avessero combattuto e come era che io avessi tanti (!) parenti militari. Non risposi. Apre la libreria, rovista, fruga, trova un pacco di manoscritti: i manoscritti di tutte le mie pubblicazioni scientifiche; li tira fuori con aria di trionfo, comincia a sfogliarli attentamente; ve ne erano italiani, francesi, tedeschi ed anche russi; mi domanda perché scrivessi in tante lingue oltre il russo; e poi, perché avessi tanti libri stranieri, e tante vedute, e carte geografiche di vari paesi. Era la curiosità dell’inquisitore, o quella dell’ebreo vissuto fino allora in qualche oscuro fondaco di rigattiere, e portato di botto alla luce del giorno dai confratelli della rivoluzione bolscevica? Tacqui, né gli risposi nel giro minuzioso che fece di tutto l’appartamento, che egli non ristava dal qualificare ammirativamente come una « casa troppo borghese ». Mi presero la corrispondenza privata, i manoscritti, il diploma di laurea e tutti i miei documenti, le medaglie di bronzo e quella d’oro della licenza liceale, distintivi, decorazioni. Frugarono nel cestino e nei camini, per raccogliervi brandelli di carte stracciate, e residui semibruciati di libri e manoscritti, con cui cercavamo talvolta di riscaldarci. Mentre della perquisizione si compilava un verbale, nel quale era detto che era stata da me volontariamente permessa, quasi avessi potuto oppormi; vedo arrivare, sotto buona scorta di guardie rosse, il vice-console Fratini, mio vicino di casa. Anche il suo appartamento era stato perquisito, e lui stesso arrestato e condotto in casa mia, con lo scopo evidente di menarci insieme in carcere. Difatti il commissario mi disse di prendere con me della biancheria e seguirlo. Scattai sdegnato; gli dissi che non aveva diritto di arrestarmi senza dirmene le ragioni, che era stata già una violenza quella di entrare nella mia casa, per commetterne ancora una seconda.

     Egli prese un tono dimesso; ebbe la bontà di dirmi che non mi si voleva far alcun male; telefonò ai suoi superiori, e mi lasciò a casa, sorvegliato da un piantone. Verso le nove di sera l’orda uscì; una guardia, che mi aveva colpito per una tal quale urbanità, cercò di uscire l’ultima; e passandomi vicino mi disse sottovoce, che anche gli altri consoli erano stati arrestati, e le loro abitazioni perquisite.

Rimasti soli, caddi in una specie di incoscienza stupita; guardavo i figli, inebetito, senza poter dire parola; quel che era successo, era così lontano da ciò che mi aspettavo, tornando a casa, che mi pareva non la realtà, ma un sogno angoscioso. Eppure tornato in me, la prima sensazione fu come di sollievo. Era scoppiata la tempesta che poteva distruggermi; ma era pure cessata l’oscura minaccia che da tempo mi circondava, e mi pesava come incubo. Perché, se ero lontano dall’imma- ginare che proprio il 2 giugno sarebbe stato il mio turno; di perquisizioni e peggio temevo da tempo. Ho detto che, fin dall’autunno del 1918, gli altri Consoli ed io cominciammo ad essere sorvegliati più strettamente; ma anche prima mi ero accorto di essere tenuto d’occhio dalla Cekà. Mi vedevo talvolta al Consolato facce sospette di ebrei, che venivano a domandarmi le cose più insignificanti; altra volta mi accorgevo per via di essere pedinato. Non vi era notte senza perqui-sizioni, arresti di conoscenti o amici, con interrogazioni dirette o indirette sulle relazioni con me. Fra l’aprile ed il maggio del 1919 corse voce di un arresto di tutti i consoli e rappresentanti consolari dell’Intesa per rappresaglia contro di essa, che «bloccava la Russia dei Soviety». I giornali non ristavano dall’aizzare la plebaglia contro noi stranieri, « spie dei nostri governi». Era da aspettarsi tutto, né io me lo dissimulavo. Ricordo che, uscendo un giorno dal Consolato con Fratini, e discorrendo delle voci che correvano sulla presenza nel golfo di Finlandia della squadra inglese; e della speranza di una prossima liberazione dai bolscevichi, io fui anche più pessimista. Ed a lui, che mi rimproverava di esserlo proprio quando c’era più da sperare, dissi che non speravo nulla; e che i colpi di spillo di tutti i vascelli fantasmi di questo mondo erano punture che irritavano, non colpi che potessero uccidere il mostro della rivoluzione.

Qualche settimana dopo eravamo arrestati.

Era molto tardi quando andammo a coricarci quella sera memoranda; ma nessuno dormì, eccetto il piantone che, appena buttatosi su una panca in cucina, coìminciò a russare. Io poi ebbi dei dolori più forti al fianco destro. Passarono due giorni, durante i quali sep¬pi di altri arresti; del saccheggio di vari consolati ed anche del nostro. La sera del terzo, aspettammo invano la dottoressa Nakonétschnaja dell’Istituto che, dopo la morte di mia moglie, era rimasta molto attaccata a noi e veniva a vederci ogni giorno; l’avevano arrestata proprio mentre veniva da noi (14) . La casa continuava ad essere piantonata e con maggior rigore. La guardia non si contentò più di rimanere nell’anticamera; ma, col fucile e la rivoltella al fianco, venne a sedersi accanto al mio letto; mi proibì di parlare italiano coi figli; sottopose ogni mio atto alla più rigida sorveglianza. Dinanzi a questa crescente tortura, chiesi alla Cekà di essere trasportato all’ospedale. Mi si permise di far venire il chirurgo Goldberg. Nonostante il pericolo di essere arrestato, come era successo ad altro medico in un caso simile, egli venne e trovò che non si poteva più rinviare l’operazione. Dopo nuove pratiche, la domenica 8 giugno fui trasportato all’ospedale Maximiliànovskij. Il dottore Goldberg, però, si era dovuto render garante per me presso la Ceka, altrimenti sarei stato piantonato anche all’ospedale.

     Le accoglienze e le premure dei medici; la cameretta linda; gli alberi del cortile su cui dava la finestra, mi rinfrancarono. Tutto mi parve fresco, bello, nel distacco dal recente passato. Ma la sera quando ri¬masi solo, dopo la visita medica, e se ne furono andati Michele e Mara, mi ripresero i pensieri tristi. L’operazione non era grave; ma neppur tale da doversi considerare di poca importanza. Dell’abilità del chirurgo non dubitavo; della assistenza avevo già le prove; ma una operazione ha sempre delle incognite. E, nelle condizioni in cui ero costretto ad essere operato, queste aumentavano, tanto che lo stesso chirurgo non sapeva decidersi se operarmi subito, nonostante il mio forte scadimento fisico, o aspettare che mi fossi ripreso, anche a rischio di destare sospetti sul ritardo dell’operazione. Comunque, sarei stato operato; ma dopo? Non vi era da sperare su una pronta liberazione; era da ritenere invece che sarei stato coinvolto nella sorte comune degli altri consoli. Ed allora: carcere, accuse, processo, deportazione in campo di concentra¬mento, e forse peggio. Ed i figli? A rendere più tristi i miei pensieri, sopraggiunsero due fatti. La terza notte che ero all’ospedale, vennero degli agenti ad assicurarsi che io vi fossi; alla richiesta però di entrare nella mia stanza, erano le 2 di notte, il dottor Goldberg si oppose; ciò che non fece buona impressione, e costituì più tardi capo di accusa contro di lui. Questo il primo. Il secondo, fu un articolo del giornale ufficiale di Pietrogrado, sull’arresto dei consoli stranieri, nel qua¬le la somma autorità della «comune» di Pietrogrado, l’ebreo Apfelbaum (Zinóviev), parlava di un complotto contro i bolscevichi, le cui fila mettevano capo ai consolati esteri; e diceva che le perquisizioni fatte negli uffici consolari avevano fornito materiale di «eccezionale gravità», da giustificare non solo i sospetti che da tempo si avevano sulla loro subdola attività; ma anche l’arresto e «le più esemplari condanne». Dubito che nel saccheggio delle ambasciate e dei consolati dell’Intesa si fosse trovato alcunché di compromettente. Quel che veramente si trovò, furono valori di ogni sorta, in alcune ambasciate, ingenti; che costituirono più pingue e ghiotto bottino delle carte bruciacchiate nelle stufe. Di una nuova perquisizione fatta di notte nell’appartamento da dodici marinai, non seppi allora; la cosa mi fu pietosamente taciuta dai figli per non darmi altre pene prima della operazione; la quale mi fu fatta il 16 giugno. Mi feci io stesso l’iniezione preventiva di morfina; e sulla tavola d’operazione cercai di seguire il più che potei l’azione del cloroformio, che temevo molto pel cuore. Ma non ricordo che di un sapore dolciastro e caldo che quasi mi soffocava; e poi di una sensazione come di sprofondamento in qualche cosa di soffice, che mi avvolgeva tutto. Cominciavo appena ad uscire dalla narcosi, quando udii la voce del chirurgo che domandava le grappette per chiudere la ferita esterna; mi fasciarono e mi riportarono nel mio letto. Nessun postumo della narcosi; riacquistai subito la piena lucidità mentale; tanto che potei, poche ore dopo, mostrare io stesso al chirurgo le alterazioni della appendice toltami. In questo vennero Michele e Mara, ai quali era stato taciuto il giorno dell’operazione per non metterli in agitazione; e furono sorpresi di vedermi operato, e trovarmi, dopo l’operazione, meglio di quel che si immaginavano, ciò che li rincuorò molto. Ma fin dal giorno appresso tornò assillante il pensiero del dopo, e non in me solamente. Il chirurgo, prevedendo che i miei persecutori non mi avrebbero dato tregua, affrettò il trattamento postoperatorio; al quarto giorno cominciarono a darmi da mangiare. Una zuppa di ortiche o di cavoli acidi, un po’ di polenta di grano saraceno, una fetta di pane di segala con crusca e paglia, era questa la razione giornaliera stabilita per gli ospedali dalle autorità, e identica per i medici e gli infermi; di rado si aggiungeva qualche pezzetto di salatissima aringa fritta; bevanda: un infuso di erbe con poco zucchero. Una alimentazione da far venire l’appendicite a chi non la avesse avuta. Michele e Mara mi portavano delle uova, del burro, quando era possibile trovarne e comprarne. Una suora dell’ospedale mi dava di tanto in tanto un po’ di latte, quando essa stessa ne aveva; un mio vicino di stanza mi mandò qualche volta del miele per mezzo delle figliuole. Queste tornarono spesso a vedermi, portandomi notizie di fuori, trattenendosi talora per distrarmi. Con la più giovane di esse, che mi trovò un giorno a leggere Ylmitazione, ebbi una conversazione sulla religione. Era una israelita, e, come molti correligionari, lontana dalla sinagoga; ma lontana pure dal tempio di Cristo.

     Sentiva però l’aridità del suo spirito ed il bisogno di sollevarsi; e non nascondeva la sua poca simpatia per le idee del padre: un rigido sionista, ed osservante al punto di imporre al figlio, fidanzatosi con una ortodossa, che questa passasse all’ebraismo per essere degna di entrare nella casa loro. Parlammo dell’Italia, di Roma, dove lei sognava di andare per vedere soprattutto San Pietro, i musei Vaticani ed il Papa, specialmente questi. Chissà, forse perché il padre affermava che i papi erano stati assai più remissivi verso gli ebrei di molti liberalissimi principi?

     Per mezzo di questa signorina seppi che l’Istituto, l’Accademia delle Scienze e l’Associazione dei Medici russi avevano, tramite il segretariato delle Associazioni Scientifiche di Pietrogrado, fatto pratiche per la mia liberazione. Il dottor Goldberg però non aveva molta fiducia nel risultato di esse; mi cominciò anzi a parlare della possibilità di un mio invio a Mosca, dove erano stati mandati gli altri consoli, forse per un processo comune, forse per essere rinchiuso, senza processo, in qualche campo di concentramento. La stessa voce raccolsi da altri infermi della clinica, informatis¬simi, quasi più di me, delle cose mie e di quel che accadeva fuori. Quasi tutti residui del regime zarista, e- rano all’ospedale più che per i loro malanni, veri o finti, per sfuggire, finché fosse stato possibile alla Ceka. Vi era, fra gli altri, quel principe Andronikov, della centuria dei neri e della compagnia Rasputin, Mescérskij, Protopópov, che fu poi fucilato dai bolscevichi. Io non lo conoscevo; ma il suo nome, prima della rivoluzione, tornava ogni qual volta si parlava di alto e segreto spionaggio, di pace separata con la Germania, di cose losche. A sentirlo parlare invece, pochi, come lui, sentivano più forte ribrezzo per le aberrazioni della corte, o maggiore sdegno per le colpe e le debolezze di Nicola II; tanto che si sarebbe perfino levato contro tali abominazioni, parlando in alto, dell’ignominia della presenza a corte di Rasputin. E chissà se nelle sue parole non vi fosse pure un fondo di sincerità.

     Da colleghi che, sfidando il pericolo di essere notati, mi vennero a vedere, seppi che la dottoressa Nakonétschnaja era stata mandata a Mosca; ma non si sapeva se in carcere o in campo di concentramento; e che vi erano stati altri arresti fra persone di mia conocenza.

     Il 28 giugno a sera ero a letto, e parlavo con Michele e Mara che mi stavano vicino. Mi avevano portato dei panini freschi ed un po’ di burro; e, mangiando insieme, io dicevo, scherzando, che era bene acquistare forze per ogni caso. Mi tornava sempre alla mente l’idea che dalla gente che mi aveva arrestato era da aspettarsi tutto; specie poi se l’avanzata di Kolciàk dalla Siberia, e il timore di un colpo di mano su Pietrogrado avesse spinto quei fanatici ad atti di vendetta.

     Erano successi tanto tragici fatti, dopo quelli di Scingarev e Kokóschkin, ed anche a persone straniere, che ogni arrestato doveva considerarsi ormai alla mercè del caso. Ma debbo pur dire che, ogni volta che ripensavo alle peggiori possibilità, uscivo dai miei intimi esami sempre più irrobustito, sereno e disposto a tutto. Quel giorno più che mai mi sentivo forte, forse per una recente lettura dei Salmi e dell ‘Imitazione; e parlavo con Mara del distacco, al quale dovevamo esser sempre pronti, come se non si trattasse di me; e Mara e Michele, un po’ rispondendo allo scherzo, un po’ pigliandomi sul serio, mi parlavano di un avvenire di gioie che mi avrebbero dato in compenso delle pene che soffrivamo; e mi dicevano della loro fiducia nella Provvidenza se fossero rimasti soli.

     In questo entrò nella stanza il chirurgo di guardia, tutto sconvolto, e mi disse che erano venuti due commissari, per accertarsi delle mie condizioni di salute. Gli domandai se non fossero piuttosto venuti a prendermi, al che egli rispose con un lieve cenno della testa, quasi per nasconderlo ai figli. Ebbi appena il tempo di dirgli che eravamo apparecchiati alla separa-zione, quando comparvero gli agenti. Mi fu rifatta in fretta la fasciatura; mi vestii, e, benché non mi tenessi ancora bene in piedi, uscii dalla stanza risoluto. Tutti fecero a gara per mostrarmi la loro pietà con incoraggiamenti, auguri, doni; un infermiere mi dette fasce ed ovatta; la suora direttrice un grosso pezzo di pane e delle uova; un’altra un po’ di zucchero e del burro. Ricorderò sempre lo sguardo di una suora che mi strinse la mano per ultima; mostrava tale spavento e tanto dolore, che mi balenò il pensiero che davvero s’avvicinasse per me l’estremo momento. Strinsi al petto i figli e li benedissi; Michele eroicamente dominandosi, ebbe la forza di dirmi parole di rassegnazione e di aver fede nella giustizia divina; Mara, irrigidita nel dolore, non faceva che tenermi per mano e guardarmi con quei suoi grandi occhi amorosi ed angosciati, non una lacrima però. Povera figlia mia non la vidi più! Il dottore Goldberg mi accompagnò fino alla porta dell’ospedale; mi promise che avrebbe avuto cura dei figli; mi abbracciò ed assai commosso si congedò da me. Per un istante anche io non mi potei sottrarre all’emozione di quel distacco; ma subito ripigliai il dominio di me, e salii coi commissari e le guardie nella automobile che partì per il carcere della Spalérnaja.

     Alla porta il capoguardia verificò i documenti e ci fece entrare. Scendemmo in un cortiletto stretto, che portava i segni della rivoluzione nelle porte, nelle finestre, nei muri, crivellati di colpi. Aspettammo che ci aprissero e, di porta in porta, giungemmo alla segreteria. Lì fui perquisito, interrogato, iscritto nei registri; divenni un numero, e fui consegnato ad un secondino che mi condusse al terzo piano alla cella assegnatami. Ricordo che lo seguivo passivamente, come un automa, quasi non si trattasse di me. Solo quando la massiccia porta della cella si richiuse pesantemente, ed il secondino l’ebbe assicurata con parecchi giri di chiave, e fui solo, e mi guardai intorno, allora allora soltanto ebbi coscienza della realtà. Un nodo mi serrò la gola, ebbi una violenta stretta al cuore, e dubitai delle mie forze che fino allora mi avevano tanto sostenuto. La cella bassa, le pareti muffite, sozze; un telaio di ferro fissato al muro con su un lurido sacco era il giaciglio; uno sgabello di ferro pure attaccato al muro; in un angolo del pavimento una buca aperta da cui esalava un fetore pestilenziale; in alto una finestra con doppia inferriata. Guardai il sacco prima di buttarmi- ci su, formicolava di insetti; ebbi tale ribrezzo, che mi sentii salire le vampe alla faccia, lo gettai via; e, siccome mi pareva di soffocare, mi arrampicai alla finestra in cerca d’aria. Spinsi lo sguardo fin dove potei; in alto, uno scacco di cielo; di fronte, tre piani d’in-ferriate; giù, un angolo del cortile dove passeggiava una sentinella.

     Scesi, e per lo sforzo fatto ebbi dei dolori fortissi¬mi al fianco operato, per cui dovetti stendermi sul telaio di ferro. In questo si aprì lo sportello dell’uscio, ed un marinaio mi passò una scodella di acqua tiepida; lo ringraziai e gli domandai se avessi potuto avere l’infermiere del carcere, mi rispose che lo avrebbe mandato. Uscendo dall’ospedale, il dottor Goldberg aveva detto agli agenti della Cekà che io avevo ancora bisogno di cure dopo l’operazione, ed i commissari, in presenza mia, lo avevano assicurato che in carcere sarei stato trattato con riguardo, che vi era una infermeria; e in caso di necessità mi sarei potuto rivolgere al medico ed all’infermiere. Io vi credetti. L’infermiere venne, un ebreo; guardò attorno nella cella, e mi domandò, prima di tutto, perché avessi gettato via il pagliericcio; gli feci vedere che era pieno di insetti; egli scattò vio¬lento e mi disse che ero in carcere, e non in un sito di villeggiatura, dove mi sarei potuto far passare i miei capricci borghesi. Gli risposi che lo sapevo, e che non l’avevo fatto chiamare per questo; ma ero medico, da poco operato di appendicite, fasciato ancora, e lo pregavo almeno di rifarmi la fasciatura, se non fosse stato possibile mettermi all’infermeria, o stendere qualche cosa come una coperta sul telaio di ferro, affinché ne risentissi meno la durezza. Mi disse che non poteva fare né l’una cosa né l’altra; l’indomani avrebbe parlato al medico, e se ne andò. Non mi sdegnai più; non ero oramai un numero?  Mi stesi vestito sul telaio di ferro, e mi assopii; ma mi assalirono le zanzare. Un vocio confuso nel cortile mi destò. Mi feci alla finestra e vidi della gente che passeggiava percorrendolo in giro: borghesi, studenti, militari, preti ortodossi e cattolici; fra questi riconobbi padre Vasilévskij della chiesa cattolica di Santa Caterina, arrestato a Pasqua con l’arcivescovo Roop. Poco dopo il vocìo cessò, e intesi un rumore di celle che si aprivano sempre più vicino; fu aperta anche la mia e i reclusi del «terzo corridoio» furono condotti a prendere aria. Passando pel primo piano, vidi quasi tutte le celle aperte; mi dissero che era il piano dei condannati a morte, i quali spesso rimanevano nelle celle soltanto poche ore; e mi fecero notare sulle pareti di qualcuna di esse scritte come queste: « addio vita », « mi portano via », « per l’ultima volta vedo il sole, vengono già », « Dio mio, abbi pietà dell’anima mia, perdona i miei peccati »… Qualche recluso si segnò dinanzi alle celle vuote, io mi sentii agghiacciare. Avevo pensato, sì, alla morte in quei giorni; ma come a qualche cosa di repentino, fulmineo che potesse abbattersi su di me. Ora l’angoscia di quegli esseri strappati alla vita, alla quale ancora si attaccavano, con un ultimo grido disperato, evocava la realtà spaventevole della morte: il supplizio, lo strazio dello spirito e del corpo, le raffinate torture morali e materiali nelle quali i bolscevichi erano maestri. Avevo appena fatto qualche passo nel cortile, che mi viene incontro un ufficiale di marina, il quale, senza neppur salutarmi, mi dice: « Io sono stato arrestato e sono qua per causa vostra. Mi accusano di avervi informato dei movimenti della squadra russa nel golfo di Finlandia, di cui per mezzo di mia sorella vi avrei fornito uno schizzo». Era il fratello di una conoscente, la signorina Nósikova, e da lei lo avevo incontrato qualche volta al tè; ma da molto tempo non lo avevo più visto.

      La meraviglia per l’incontro inaspettato; lo stupore per quel che udivo; un senso di rivolta per la menzogna dell’accusa, pur tanto grave, però, da far temere le peggiori conseguenze; la pena che mi faceva quell’uomo che, parlandomi, si mostrava così abbattuto, e ricordava le sue creature, quasi non sperasse di rivederle più; ma che non aveva con ciò rimproveri o rimpianti, mi turbarono profondamente, mi sentii umiliato e quasi colpevole.

     Cercai di rassicurarlo. Schizzi non ne avevo mai avuto dalla sorella; gli ricordai che nei nostri rari incontri avevo evitato sempre non solo di parlare di quanto potesse riguardare il suo servizio, ma financo di quel che potesse toccar lui da vicino; gli promisi che, interrogato, lo avrei difeso con tutte le forze, e non riuscii ad aggiungere altro, ché la mezz’ora era già passata. Lo spionaggio, l’ossessione del bolscevichi! Ma anche quando si fosse voluto esercitarlo, come lo si sarebbe potuto in quel carcere, che era Pietrogrado nel 1919? Capivo, però, che ai bolscevichi poteva tornare conto formulare una accusa, che, in tempi di sospetti e di vendette, non avrebbero dovuto neppure giustificare; e compresi che ormai intorno a quell’accusa dovevo concentrare la mente, raccogliere i ricordi, e tenermi pronto a sostenere gli attacchi di inquisitori capaci dei più perfidi raggiri. Ma che cosa aveva potuto provocare l’accusa e l’arresto mio e di altri, che con me nulla avevano da vedere? Qualche denunzia? Qualche scritto mio o altrui interpretato ad arbitrio? Ed allora perché l’arresto degli altri consoli, anche di quelli dei paesi neutrali? In questi pensieri, non mi ero accorto di essere già da un pezzo rinchiuso in cella, allorché un carceriere venne a prendermi per condurmi dal medico. Non vi pensavo più. Il medico trovò che dovevo essere subito messo nell’infermeria; ma non prima di sera l’infermiere ebreo mi ci fece pas¬sare. Così non lo avesse fatto; perché il più doloroso ricordo, di quei tristissimi giorni, è quello della settimana passata neH’infermeria della Spalérnaja.

     Nell’oscuro corridoio d’ingresso, un lezzo di latri¬na, di putridume, di medicine che stordiva; nella stanza dove fui messo, la prima delle tre che formavano l’infermeria, separata dal corridoio da due inferriate, la stessa mancanza di luce, la stessa aria fetida, con un calore soffocante, in più. Occupai l’unico letto disponibile; ed era tale la stanchezza, aumentata dal fatto che da ventiquattro ore non avevo preso cibo, che mi ci buttai sopra, vestito; e chiusi gli occhi, per non vedere, nella speranza di non pensare. Ma che! Gli occhi non potevo tenerli chiusi. Mi guardai attorno. Sul letto accanto al mio giaceva un vecchio mezzo assopito, la faccia gonfia e lucente come una vescica piena d’acqua, in cui gli occhi si vedevano appena; le mani gonfie e lucide: il quadro tipico di quelli che morivano per inanizione. Mi disse che non tollerava la brodaglia de’ carcere, che da un pezzo si nutriva solo del po’ di pane nero che costituiva la razione quotidiana dei carcerati, e di un poco d’acqua. Mi domandò delle sigarette, il tabacco gli attutiva la fame; ma io non ne avevo. Gli diedi un panino bianco ed un uovo, e gliene detti ancora, finché la mia magra provvista non terminò, ed io stesso, sotto lo stimolo della fame, non cominciai ad inghiottire la zuppa ripugnante, le uova fradicie che il medico a stento aveva ottenuto per i reclusi dell’infer- meria, e il tozzo di pane nero. Quando questo mio vici¬no seppe chi ero, mi disse qualche parola in buon italiano per ringraziarmi. Era stato, da giovane, addetto all’ambasciata di Russia a Roma, ed ora, ridotto un miserevole residuo di uomo, era stato arrestato come temibile reazionario. Vicino a lui ve ne erano due altri non meno temibili. Uno, un giovane ufficiale, appena mi vide, dette in uno scoppio di pianto, gridando: « Ecco un altro infelice! ». Non faceva che pregare e farsi segni di croce dal mattino alla sera, alternando le preghiere con la lettura del Vangelo. Ferito gravemente alla testa in guerra, era rimasto istupidito; ma con una emotività esagerata e quasi infantile. L’altro, un ingegnere che aveva fatto gli studi in Svizzera, era incolpato di non so che mene reazionarie; ma pel momento era in tale stato di debolezza che, appena prova-va ad alzarsi dal letto, cadeva. Vi era poi un vecchio proprietario di Kòvno rattrappito dal reumatismo cronico, che aveva passato 30 anni a Londra nel commercio, donde l’accusa di speculazione con intesa del nemico. Condannato a morte, dopo due giorni di agonia, durante i quali ogni volta che aprivano la porta della sua cella credeva venissero a prenderlo per condurlo al supplizio, la pena era stata mutata nella reclusione a vita; aveva passato 11 mesi alla Spalérnaja in una cella umi¬da e fredda; ed era da poco aìl’infermeria, perché i reumatismi l’avevano ridotto curvo come un uncino. Era il più anziano dell’infermeria: lo « stàrosta »; doveva badare all’ordine, mettere i nuovi al corrente delle consuetudini della prigione ed, all’occorrenza, essere l’intermediario fra i superiori e noi. Venne difatti da me, mi disse parole di esortazione, e mi consigliò di far sapere subito ai figli dove mi trovavo, sia per tranquillizzarli almeno in ciò, sia perché mi portassero da mangiare, poiché il pericolo più grave, dato lo scarso e malsano cibo della prigione, era quello di cadere rapidamente come era spesso accaduto, in uno stato di irreparabile inanizione. Mi dette egli stesso della carta, mi dettò le pochi frasi permesse, e si incaricò dell’invio della lettera; ma i figli non li vidi.

      Gli altri ricoverati erano un vecchio funzionario del regime zarista; il quale, forse, male potè averne fatto a coloro che il regime giudicava, o sospettava, di idee sovversive; ma che allora si trovava all’orlo della fossa per una angina di petto che non gli dava tregua. Vicino a lui c’erano un rinomato chirurgo di Pietrogrado e professore della Facoltà di Medicina, accusato, per vendetta, dai subalterni di peculato; un professore dell’Istituto Elettrotecnico, vittima di un suo ex-alunno ebreo, diventato uno dei più duri commissari della Cekà. Vi era infine un inglese magro, lungo, squallido, gli occhi iniettati e lucenti per la febbre che lo divorava e la tosse che gli lacerava il petto. Era lettore d’inglese all’università; arrestato, come me, ai primi di giugno, non aveva più notizie della moglie e di una figlioletta, e piangeva parlandomene; e fumava senza tregua per stordirsi, benché riconoscesse egli stesso che il fumo lo rovinava.

     Dopo qualche giorno, lo spettacolo di quei corpi in sfacelo che, la sera, all’accentuarsi delle sofferenze,

aveva un aspetto anche più disfatto; e la notte parevano non più uomini, ma larve brulicanti in un sepolcro, divenne per me quanto di più spaventoso avessi potuto immaginare. La tosse lacerante dell’inglese tubercolotico che, non potendone più, si sollevava in mezzo al letto e ricominciava a fumare; i rantoli angosciosi del vecchio funzionario, che, avendo bisogno d’aria, gridava si aprisse la finestra; il pianto desolato dell’ufficiale; l’agitazione del chirurgo che si metteva a percorrere la stanza a grandi passi dimenando le braccia; e poi le grida forsennate del comandante del¬la prigione e dei secondini se, nella visita notturna, trovavano qualche lampada accesa o udivano rumori, mi scossero al punto che finii per non chiudere occhio. Caddi in una specie di coma lucido, tanto più che, a tutto questo, si aggiunse l’attesa del commissario che, si diceva, dovesse venire ad interrogarmi. Per più raffinata sevizia, gli interrogatori degli arrestati si facevano sempre di notte, da commissari ebrei o lettoni scelti fra i più duri e fanatici agenti della Cekà.

Nel silenzio della notte si sentiva arrivare un’automobile, che tutti riconoscevano. L’ansia diventava febbre. Chi sarebbe stato chiamato? Chi assolto? Chi condotto via per l’estremo viaggio in quella seconda automobile dal rumore più sordo, che arrivava più tardi della prima ed era destinata al funebre trasporto? Poi si sentivano i passi affrettati nel corridoio e le grida dei secondini, che chiamavano a numero e co¬gnome i detenuti da interrogare. Poi tutto tornava nel silenzio; e, chi si sentiva da tanto, poteva anche chiudere gli occhi per una notte ancora.

Nell’infermeria i secondini erano donne, perché era¬no nel tempo stesso infermiere. Ve ne era una dalle forme virili, dallo sguardo sempre irritato e severo, che gridava più di tutte e per un nonnulla: una furia. Un giorno, che era anche più violenta ed inveiva proprio contro di me, trovai la forza di dirle: «Ma perché gridate tanto, non siamo forse abbastanza infelici da meritare che si sia meno disumani con noi?». Si fermò di botto, non so se colpita dalla mia audacia, o dalla calma con cui le parlai; poi si chinò un poco e, fissandomi negli occhi, con una voce bassa, rotta, ma non meno veemente, disse: « Per l’odio che mi porto, per il mio infame mestiere, capisci? ». Ai reclusi si dava da tutti del tu. Capii, e mi pentii di averla giudicata male.

     Unica concessione ai reclusi dell’infermeria era una seconda uscita giornaliera nel cortile. Ma vi rinunziai. Quei corpi disfatti, che alla luce del giorno lo apparivano anche più; quegli sguardi ogni giorno più spenti, o più lucenti per la malattia o la febbre che rodevano dentro; lo spettacolo di così inutile martirio, della sevizia di tanti poveri esseri, incapaci di più reagire perfino alle sofferenze, o ai dolori fisici; quel mucchio di cadaveri viventi mi facevano tale orrore, che preferivo rimanere nell’aria attossicata dell’infermeria. Ed erano quelli i pochi minuti in cui mi assopivo ad occhi aperti. Ma, a durarla così, sentivo che sarei impazzito; e, siccome all’infermeria, per mancanza di fasce, non aveva¬no potuto rinnovarmi neppure una volta la fasciatura, volevo chiedere di essere rimandato nella cella, dove almeno sarei rimasto solo. In questo mi annunziarono che da un giorno all’altro sarei stato inviato a Mosca, dove si sarebbe istruito il « processo contro i consoli ». Mi parve questo un segno della Provvidenza per la mia salvazione. A Mosca, comunque, ogni nuovo orrore non avrebbe mai uguagliato quello che mi circondava.

Perfino l’idea che forse non avrei riveduto i figli prima della partenza, mi parve sopportabile, pur di fuggir gli orrori della Spalérnaja.

14. NEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO

DI MOSCA. I PRIMI DUE

Luglio-Agosto 1919

     Il pomeriggio del 6 luglio sul tardi, ci radunarono

in un cortile della Spalérnaja, su cui dava l’ala della pri¬gione destinata alle donne; ed in attesa degli ordini di partenza, fummo sottoposti ad interminabili formalità di appelli, verifiche, controlli. Il movimento, il vocìo richiamarono le recluse alle inferriate, ed in un attimo tutte le finestre ne furono piene. Dalle più basse alle più alte era un agitarsi di braccia, erano segni di addio, di croce a cui rispondevano i partenti; congiunti, conoscenti, amici. Vi furono genitori, fratelli, mariti, fidanzati che, guardando a caso alle finestre, riconobbero fra le recluse persone care che credevano in libertà, e lasciavano invece in quel luogo di dolore nella ignoranza della sorte scambievole. Altri, che non avevano potuto mai avere notizie di persone care arrestate, le rivedevano inaspettatamente lì per distaccarsene. Altri incontravano fra le partenti le loro donne, di cui fino allora nulla avevano saputo. Ed erano abbracci, grida di meraviglia, di gioia soffocata dal dolore, o scoppi di pianto, singhiozzi, grida disperate.

     Dinanzi a tante pene, dimenticai me stesso, e i miei dolori.seppi poi che una mano si era levata per benedire anche me. Fra le prigioniere vi era la signorina Nósikova, sorella dell’ufficiale che avevo incontrato nel cortile; mi aveva riconosciuto e fatto di tutto per attirare la mia attenzione; ma io non la vidi.

     Finalmente l’ordine della partenza venne. Fummo inquadrati in un doppio cordone di guardie rosse; e, verso la mezzanotte, la lunga colonna si avviò alla stazione. Nonostante l’ora tarda, le vie del percorso si riempirono di gente; molte finestre si aprirono; ed una folla di congiunti che, forse avvertiti, aspettavano ai crocicchi, cominciò a seguirci. Ricordo una giovane disfatta dal dolore, ma dall’aspetto distinto, che corrispondeva a segni con un ufficiale della fila innanzi a me; fu notata e fatta allontanare da una guardia; continuò ad accompagnarci, tentò anzi di avvicinarsi a noi in un punto più stretto della via; il capodrappello la vide, l’afferrò pei capelli e la gettò sul marciapiede; essa si rialzò e ci seguì correndo, finché fu arrestata appena arrivati alla stazione. Io ero sfinito per il tragitto, nonostante avessi trovato due anime buone, che mi avevano portato a turno la valigia, non grande né pesante; ma che io non riuscivo a trascinare. Sulla banchina ebbi un sudore freddo, e fui per venir meno. Mi tornarono alla mente i figli, come li avevo lasciati all’ospedale. Se non li rivedessi più?… Ma le guardie ci spinsero nei carri. Montai nel primo che mi capitò; qualche panca messavi era già stata presa d’assalto; mi buttai in un angolo, feci della valigia un appoggio per le spalle, e mi disponevo a passare così il resto della notte. Ma mi vide uno dei miei due cirenei, e mi costrinse a stendermi accanto a lui sul suo cappotto: l’assito dello sgangherato carro bestiame non fu con ciò meno duro; ma io era tanto stanco che mi addormentai.

 Quando mi svegliai, eravamo lontani da Pietrogrado. Il treno traversava una radura smaltata di fiori; un’aria di foresta, fresca e profumata, inondava il carro. Ebbi un senso di sollievo, benché il corpo mi dolesse tutto; e respirai a pieni polmoni quell’aria, che da anni non avevo più respirata. Il sole alto e tiepido, il cielo limpidissimo, l’aria profumata, forse anche quel po’ di riposo, avevo dormito un paio d’ore, mi ristora¬rono. Mi sentii più calmo, benché le guardie rosse e il modo come viaggiavamo mi richiamassero alla realtà; e perfino questa mi parve meno triste.

     Mentre dormivo, le guardie del carro erano state cambiate; invece dei due vecchi soldati della sera, vi erano due giovani d’aspetto assai civile, dei quali uno, proprio ragazzo, parlava animatamente con un detenuto. Mi avvicinai, egli diceva tutto il male possibile dei bolscevichi; ma parlava bene, come persona colta. Colpito, lo interruppi, e gli domandai se non fosse uno studente; mi rispose, turbato, di sì. Era figlio di modesti proprietari di campagna al di là degli Urali; uno zio lo teneva con sé a Pietrogrado e lo aveva portato fino alla quarta ginnasiale. Indetta dai bolscevichi, ai primi del 1919, la mobilitazione generale, non fu mandato al fronte per la sua età; ma incorporato nella Cekà. Sicché, ripigliai io, se foste obbligato ad eseguire qualcuna di quelle infamie, volevo dire assassi nii, di cui solo i bolscevichi sono capaci, lo fareste? Non mi rispose più. Rabbrividii, pensando al povero figlio mio, che era ormai solo, aveva sedici anni, e frequentava una scuola cattolica polacca, perciò doppiamente odiata e perseguitata dai bolscevichi. E se anche lui fosse preso?… Mi venne un nodo alla gola. Giungevamo in quel mentre ad una stazione dove il treno si fermò. Chiesi un po’ d’acqua; non ve n’era; c’era del latte; ma i commissari, che accompagnavano il treno, non permisero a noi di comprarne; lo presero con violenza alle venditrici, senza pagarlo e, per dileg¬gio, lo tracannavano sotto i nostri occhi. E fecero così per tutto il viaggio, nel quale soffrii la fame e la sete. Ci davano la mattina un pezzo di pane nero muffito ed una aringa salata e poi più nulla, neppure un sorso d’acqua.

     Il viaggio da Pietrogrado a Mosca, durò più di due giorni, e non fu senza incidenti. Verso la fine del primo giorno eravamo quasi a mezza via, il treno correva su un terrapieno, da cui si dominava la distesa dei bo¬schi circostanti, quando si sentì una scarica di fucili. Qualcuno credette che fossimo giunti nella zona dei « verdi », ed intravide una inattesa liberazione. In Russia in quel tempo vi erano i soldati rossi dei bolscevichi; i bianchi degli eserciti di Kolciàk, Denìkin, Iudénic’ ed i verdi, bande di disertori che si aggiravano nei boschi fra Pietrogrado e Mosca, e compivano sanguinose rappresaglie contro i rossi. Il fuoco durò nutrito per parecchi minuti; finalmente il convoglio si fermò, e si potè capire di che si trattava. Le guardie che si trovavano in uno degli ultimi carri del treno, avevano visto dei globi di fumo sollevarsi da un carro vicino alla locomotiva; sospettando un incendio, avevano pensato di avvisare del pericolo il macchinista, sparando; le guardie degli altri carri, credendo chi ad un assalto al treno, chi ad una fuga di detenuti, avevano a loro volta cominciato a sparare all’impazzata, provocando il panico del macchinista che, all’idea di un assalto al treno, aveva aumentata la velocità, fra lo spavento di tutti per la corsa e lo scricchiolio dei carri che pareva si sfasciassero. L’incendio c’era veramente; ed, appena il treno si fermò, si videro uscire fiamme dal primo carro pieno di carta e libri. Si dovette staccarlo ed aspettare che il fuoco compisse la sua opera, prima che il treno potesse proseguire. Si era da poco rimesso in moto, che un carro uscì dalle rotaie; altra lunga fermata; ma era già notte e molti si misero a dormire, ed io, fra gli altri, sul cappotto del mio cireneo. Il giorno dopo eravamo a Mosca; credevamo di essere giunti; ma i commissari che ci accompagnavano non sapevano in quale campo di concentramento dovessimo essere condotti. A Mosca, tra quelli dell’interno e quelli della periferia della città, ce ne erano sei. Rimanemmo nell’attesa un giorno intiero, rinviati da una stazione all’altra, finché la mattina del 9 luglio la merce umana non fu scaricata, temporaneamente al campo deposito di Novopeskóvskij, nel suburbio, di là della Moscova.

     Il «campo deposito» era un fabbricato mezzo di¬ruto che, durante la guerra, era stato un lazzaretto per disinfezioni; e conservava della primitiva destinazione una stufa a vapore, un bagno a doccia e la conduttura d’acqua. Il dormitorio era un’unica sala, malridotta, che avrebbe potuto contenere forse duecento persone; ma dovette accoglierne più di quattrocento quando arrivammo noi. Vi era pure una piccola infermeria, nella quale il medico mi permise di passare due giorni.

     Appena arrivati, il «comandante fece l’appello, ci tolse il po’ di denaro che avevamo, prendendolo in consegna»; e ci ricordò di « osservare strettamente la disciplina, se non volevamo incorrere nei suoi rigori ».Mentre parlava, io l’osservavo: una vera scimmia. Lo sguardo mobile, la testa piccola e rientrante nelle spalle grosse, il torso tozzo, le gambe arcuate, le braccia che gli arrivavano al ginocchio; camminava dondolandosi e dinoccolato; parlava bleso e con un linguaggio da semianalfabeta. Gli era vicino il « comandante in seconda », suo degno compagno nella scala zoologica.

     Anche il comandante della Spalérnaja mi aveva colpito per il suo fisico animalesco. Era dunque vero quel che si diceva, che gli esecutori degli ordini della Cekà fossero reclutati fra i peggiori elementi della specie umana? Io ne incontrai di omicidi, violenti, ladri, che spesso si gloriavano apertamente delle loro gesta. Qual fine abbia fatto il comandante della Spalérnaja non so. Il gorilla di Novopeskóvskij e il suo aiutante seppi che furono arrestati per furto e condannati a morte; e la condanna fu eseguita immediatamente, secondo la spiccia procedura bolscevica. Intanto, io lo vidi in azione, questo comandante, quando, un giorno, col calcio della rivoltella, ruppe la faccia di una reclusa (ve ne erano al campo, provenienti dai bassi fondi e dedite al vizio) che parlava con una guardia, ed accompagnò l’atto con bestemmie, parole turpi, e grida da ossesso. Lo vidi anche quando, avendogli chiesto un po’ del mio denaro per comprarmi del latte, mi sentii rispondere che di latte non dovevo aver bisogno; e che il medico gliele avrebbe pagate care le tenerezze per noialtri borghesi.

     Rimasi a Novopeskóvskij pochi giorni. Dopo i primi due passati all’infermeria, tornai alla sala comune, ed avrei dormito in terra, se di nuovo il mio buon cireneo del treno non mi avesse fatto un posto vicino al suo, e non mi avesse aiutato ad aggiustare una scon nessa branda, sulla quale potei stendermi la notte. Ma dove non potè aiutarmi fu al rancio. Lo si faceva in comune ed in piedi, divisi per squadre di dieci persone. Il caposquadra riceveva dalla cucina dieci porzioni di «zuppa», un liquido nerastro con tritume di foglie, in un bacile sudicio e arrugginito. Chi aveva una scodel¬la, un recipiente qualsiasi, vi si faceva versare le po¬che cucchiaiate che gli spettavano e mangiava a parte; ma gli altri, ed erano i più, che non avevano avuto le previdenze o la possibilità di prendere con loro qualche cosa che facesse le veci di un piatto dovevano attin¬gere a turno dal bacile. Io non avevo neppure il cuc¬chiaio; ma anche se lo avessi avuto, non avrei potuto vincere la repugnanza di tanta sozzura, e non mangiavo che il pane nero, nonostante la fame mi travagliasse. Il professore Iankóvskij della Scuola degli Ingegneri che avevo incontrato alla Spalérnaja, un ebreo ca¬ritatevole, di cognome Ghittis, che avevo conosciuto in viaggio, spezzarono con me il loro scarso pane, e cercarono di aiutarmi a vincere le mie repugnanze fisiche e morali. Erano quelle le condizioni di tutti, dicevano; l’avvenire non sarebbe stato migliore, e l’esaurimento per fame, se non mi fossi adattato, diveniva una seria minaccia; pensassi a me, a conservarmi pei figli. Tutto giusto; ma l’avvilimento nel quale mi sen¬tivo; il degradamento fisico e morale verso cui mi pa¬reva precipitare, erano così forti, da superare lo stimolo della fame ed ogni altro sentimento.

     Ero in questo stato, quando inaspettatamente rividi la dottoressa Nakonétschnaja. Al vederla, senza provare la minima meraviglia per la sua inattesa comparsa, e neppur domandarle donde fosse potuta venire, l’amarezza che da un mese mi pesava nel cuore si sciolse in una crisi di pianto. Lei mi lasciò piangere, indulgendo alla mia debolezza; ma dopo che le ebbi parlato della abiezione in cui mi sembrava di essere già caduto, mi disse che era vero; ma che non dimenticassi che anche lì accanto poteva esservi gente assai

più infelice di me, o potevano esservi tragedie più grandi della mia.

     Avrebbe potuto parlare di sé, arrestata per causa mia; non lo fece. Le sue parole semplici, ragionevoli mi richiamarono a ciò che avrei dovuto pensare io stesso. Ebbi onta di me; i pregiudizi, gli inutili rispetti umani, le repugnanze da quel momento cessarono. Ma, più che questo, le parole giunte nel « tempo opportuno », l’improvviso aiuto venuto allor che ero tanto lontano dallo sperarlo, mi parvero un nuovo segno del¬la Provvidenza che, nell’ora difficile e per vie inattese, arrivava a me. Una volta ancora, come in altre tristi ore della mia vita, quando mi pareva di brancolare nel buio, mi era porto il tenue filo che mi riconduceva dal labirinto dell’egoismo sulla via maestra del senso obiettivo delle cose.

     Arrestata al portone di casa nostra il giorno che non la vedemmo più, la signorina Nakonétschnaja era stata condotta prima alla Goróchovaja, la sede della Ceka, dove assistè ai primi orrori di quel tristissimo luogo; poi alla Spalérnaja. Qui, una suora dell’ospedale Maximilianovskij, arrestata pei soliti sospetti di spionaggio, proprio il giorno che io ero entrato nella eli nica, le aveva dato notizie mie, le aveva detto della operazione che mi avrebbero fatta. Alla Spalérnaja aveva subito un primo interrogatorio, con molte do¬mande su di me. Si voleva imbastire contro di me un processo di spionaggio, ed immischiarmi, o coinvolgere, lei e la Nósikova come accusatrici, testimoni, e complici. Ma l’istruzione iniziata in questo senso, non avendo menato a nulla, era stata sospesa; e, mentre la Nósikova rimaneva a Pietrogrado, lei era stata mandata a Mosca in un campo di concentramento, insieme alla suora dell’ospedale Maximilianovskij, e ad una signora, il cui marito si trovava nel campo dove ero io. Costui, senza neppur conoscermi, parlando un giorno con sua moglie del nuovo arrivo di detenuti da Pietrogrado, aveva fatto fra gli altri, il mio nome; e la moglie, a caso, lo aveva ripetuto alla signorina, la quale fece allora di tutto per vedermi. Un giorno finalmente, potè uscire dal campo, adducendo il bisogno di consultare un medico; a mezza via, rimandò, con un po’ di denaro, la guardia che l’accompagnava; e, col rischio di una forte punizione se fosse stata scoperta sola, venne al campo a vedermi; e vi giunse proprio quando io avevo bisogno di una parola di conforto. Ho detto del sollievo che ne ebbi. Tornò ancora; mi mise in relazione con gli italiani di Mosca; mantenne la cor¬rispondenza con l’Istituto a Pietrogrado e coi figli, ciò che a me non era permesso, perché sotto la più stretta sorveglianza. Da allora non fui più solo.

     Il 14 luglio fui inviato con altri cento detenuti dal «deposito» al campo di « lavori forzati » dell’Andrónievskij Monastyr. Traversammo Mosca da un estremo all’altro; passammo dinanzi ai maggiori monumenti: il Kremlino, la chiesa del Salvatore, fra due ali di guardie rosse, come volgari malfattori. La gente che incontravamo, credendoci degli speculatori, arrestati in flagrante delitto, ci lanciava invettive e parole di scherno. Il tragitto fu lunghissimo; camminammo più di tre ore. Io, indebolito ancor più, perché allo scarso cibo quotidiano, si era aggiunta, gli ultimi due giorni, la mancanza del pane, arrivai stanchissimo al nuovo campo.

     Speravo di trovare finalmente un giaciglio qualsiasi; nulla, neppure della paglia. Passai ancora due notti, quasi senza dormire, sul nudo suolo; e, soltanto il terzo giorno ebbi una panca nella erigenda infermeria, dove fui destinato come secondo medico. In Russia vi era al tempo in cui fui arrestato tale mancanza di medici che chiunque avesse solo detto di esserlo, russo o straniero, era subito assunto nei servizi della Sanità, spesso con incarichi delicati o di responsabilità. Numerosissimi furono i casi di non medici messi alla direzione di ospedali militari, e rimastivi, fin che non furono scoperti, cacciati e puniti gravemente. Nei campi di concentramento poi, dove erano in aumento continuo i reclusi, il bisogno di medici ed infermieri era anche più urgente, tanto più che le condizioni, igieniche erano quanto mai precarie; perciò i recIusi medici, farmacisti o infermieri erano immediatamente addetti ai cosiddetti servizi sanitari. E così, io che ero stato arrestato quale console d’Italia, dovetti sottostare alla legge comune, disimpegnare le mansioni non ambite di medico del campo; e percepire sempre in nome della legge persino un nominale salario da quel governo che, in nome della stessa legge, mi aveva privato della libertà e depredato di tutto. Le mie funzioni mi davano però il vantaggio immenso di una vita appartata dai detenuti, ed il beneficio immediato di qualche cosa come un letto: ciò che, dopo le notti insonni e le giornate senza riposo, fu una vera fortuna.

Il monastero del «Salvatore e Sant’Andronico», dove si trovava questo secondo campo era uno dei più antichi di Mosca. Situato su una altura verso la periferia della città; convento e camposanto insieme, come tutti i monasteri russi; cinto da mura merlate, con torrioni agli angoli, comprendeva la cattedrale, il cui alto campanile bianco dalla cupola dorata spiccava su gli altri edifici, il palazzo dell’archimandrita, quattro chiese minori e molte belle cappelle nel cimitero, un cortile alberato con una fontana nel mezzo, un orto, e tre grandi fabbricati; dei quali uno era propriamente il convento con le celle dei monaci, un altro la fo-resteria, il terzo era destinato alle «masterskìe» (laboratori ed officine) della comunità. Scoppiata la rivoluzione, i monaci erano stati scacciati; ed il monastero, sotto i bolsceviche divenne una caserma temporanea. I guasti alle chiese, ai fabbricati, alle tombe; le brecce alle mura, ai torrioni, al campanile, erano i segni ancor freschi del passaggio della rivoluzione e dei soldati. Andati via i soldati, fu adibito a campo di concentramento. L’infermeria trovò posto nella foresteria, di cui occupò il refettorio: una spaziosa sala rettangolare con ampie finestre, una saletta accanto, ed una stanza a pianterreno per l’ambulatorio. Dieci tavolacci, dei venti che l’infermeria avrebbe dovuto avere con pochi pagliericci costituivano l’arredamento; pel resto, mancanza di tutto.

     Alle sei del mattino suonava la sveglia, ed era distribuita dell’acqua calda con la quale, quelli che ne avevano, potevano prepararsi il tè.

     Alle otto i reclusi, uomini e donne, dai 18 ai 52 anni andavano ai lavori, chi nell’interno del campo, chi fuori, a meno che non ne fossero dispensati dal medico. Veramente questa dei lavori fu dapprima una commedia; poiché nell’interno del campo non era facile trovar lavori per tutti quelli che vi erano obbligati. Ed allora era un lavoro ad es., quello di tener puliti i viali del cimitero, in cui si erano specializzati i vecchi aristocratici; lavoro, quello di andare in città a comprare o cercare le più diverse cose per l’ammini¬strazione del campo, specialità dei reclusi ebrei, che sapevano far sorgere ogni giorno nuove necessità per tentare di uscire; lavoro, i rilievi topografici del campo per tracciar nuovi viali. Di gente che veramente lavo¬rasse non vi erano che i cuochi, quattro validi ex-com-missari di polizia; gli addetti all’amministrazione in qualità di scrivani; ed il personale sanitario: una suora, un infermiere ed io. Vi erano poi i detenuti che andavano a lavorare fuori del campo, a gruppi di dieci o più e in vari posti, secondo la richiesta della mano d’opera, ed i lavori nei quali potevano essere impiegati (scaricanti alla ferrovia, ortolani, spazzini). Ma presto il lavoro esterno fu abolito, perchè con esso veniva meno l’isolamento dei detenuti. A mezzodì, sospensione del lavoro per la distribuzione del pane e della minestra. Il pane, la solita mescolanza di crusca, segatura di legno, paglia e farina di segala, e, col pane, ma non ogni giorno, un pizzico di tè e zucchero; la minestra: una poltiglia indefinibile, qualche volta però fatta di legumi con un po’ di pesce secco, ed allora era una vera ghiottoneria. Il pomeriggio, dopo un breve riposo, ripresa del lavoro fino all’appello serotino; al quale seguiva una nuova distribuzione, ma in proporzioni più ridotte, della zuppa del mattino. Alle dieci suonava il silenzio… E cominciava tra mille sotterfugi la brutta vita notturna del campo, che durava fino a tarda notte.

     Alle otto ero all’ambulatorio per le consultazioni. E fin che si trattava di malattie mediche poco male, ci ingegnavamo alla meglio anche perché era permes¬so far venire le medicine da una farmacia vicina. I guai cominciavano quando si trattava di casi chirurgici, che erano poi i più. I primi giorni dovetti incidere un grosso ascesso con un rasoio, e non disponendo che di qualche fascia e di un po’ di tintura di iodio. In seguito le cose migliorarono un poco; ma aumentò tanto il numero dei malati che quel che avevamo era empre insufficiente.

     Il lavoro dell’ambulatorio però mi fece bene, mi assorbì, mi distrasse; tanto che dopo qualche settimana, mi sentii riposato nel fìsico e nel morale. Cominciai a prendere interesse a quel poco che facevo, a riordinare le impressioni del passato, a prendere qualche appunto, a meditare, ciò che da tempo non facevo. Il pomeriggio e la sera, quando nell’infermeria gli altri dormivano, io me ne andavo ad una finestra che s’apriva su un vasto orizzonte, e mi concedeva un po’ d’intimo riposo. Il monastero, ho detto, si trovava su una altura dalla quale si dominava la valle tutta verde del Jaùsa, piccolo corso d’acqua, affluente della Moskóva; al di là, sulla collina, gli storici edifizi della città: il Kremlino, la cattedrale del Salvatore con le cupole dorate, la torre di Ivàn Velikij, le guglie policrome della chiesa di Vasilij Blagénnyj: un panorama bellissimo, specie al tramonto, che destava in me ricordi di orizzonti lontani, quando non accendeva la fantasia fino alle allucinazioni.

     Ricordo una sera della fine di luglio, calda, bella, luminosa; il sole era ancora alto, ed io dalla finestra della infermeria guardavo lontano verso la collinapola del Kremlino. Fra la collina e il muro di cinta del monastero, una distesa di verde: il verde esuberante della vegetazione nordica che, pare, voglia supplire con una maggior vigoria alla più corta durata della sua vita: una distesa seminata di case, camini di fabbriche, edifizi color mattone che stagliavano sul verde fitto. Un fabbricato mi colpì per l’aspetto di palazo signorile, un edilìzio quadrato di color rosso con le finestre verdi. E guardavo… le linee si perdettero e mi parve di essere sulla collina del Vomero, a Napoli, verso Antignano fra i giardini d’arancio e le ville rosse con le persiane verdi; ed avrei continuato a sognare se non mi avessero chiamato.

     Feci presto conoscenza di tutti i compagni di pena. Chi non aveva bisogno del medico? Io poi ero sempre fra loro, mentre l’altro veniva solo la mattina per l’ambulatorio; né mi rifiutavo di ascoltare, col racconto delle sofferenze fisiche, quello dei dolori morali, spesso assai più gravi. Vi era il fior fiore della aristocrazia russa: un principe Dolgorukov, un Gorciakóv, un Volkónskij, un Gagàrin, un Scerinskij-Sciachmàtov, belissimo giovane ufficiale che portava ancora la blusa di seta amaranto degli strielzì delle guardie; il figlio del prefetto di polizia von der Launitz, al quale dovei raccontare la fine miseranda del padre. Vi erano quattro governatori di provincia, generali, ammiragli, fra cui uno zio di Kolciàk e dello stesso cognome, magistrati, senatori, professori, gentiluomini di campagna, grandi industriali di Mosca. Malridotti dalle privazioni, dalle sofferenze, dalla miseria, su tutti si erano abbattuti vendette ed odii; e tutti, attori o spettatori di drammi delle loro famiglie e delle loro esistenze, svoltisi nelle città, o nelle lontane campagne, fra i marinai sulle navi, i soldati nelle caserme, o gli operai nelle officine, avevano da raccontare fatti tragici. E tutti dimostravano tanta tolleranza nei disagi più duri, tale dominio di sé, tale altezza d’animo nelle continue vessazioni che il comandante del campo non rifiniva di far loro, più che agli altri reclusi, che erano veramente ammirevoli. Col principe Volkónskij parlavo spesso dell’Italia, dove era stato a lungo come diplomatico,

e parlavamo in italiano, che egli conosceva benissimo. Spesso i ricordi cornimi, si fondevano o nella nostalgia dei tramonti romani, quando più grave incombeva la plumbea cappa del precoce autunno nordico; o nel¬la rievocazione del cielo di Napoli, se un tiepido sole veniva ancora a riscaldarci. Ma erano anche ricordi d’arte; corse rapide attraverso la storia e la letteratura russa ed italiana, che rivelavano la sua grande cultura. Un giorno a conclusione di una lunga conversa¬zione di storia, mi tracciò uno schizzo di storia della Russia, dall’epoca di Kiev ai Romanov, così bello che lo conservo fra le cose più care.

     Alla fine di luglio si ebbero i primi malati gravi. Furono prima casi di dissenteria aggravati dalla alimentazione del campo; poi forme di tifo ricorrente importate da ostaggi che venivano dal sud, da Voronez, Rursk, Orél, dove avanzava il generale Denikin. Fra i dissenterici il più grave fu un armeno. I dolori violenti gli strappavano grida fortissime, invocava con urli disperati aiuti che nessuno poteva dargli, privi come eravamo di ogni cosa perfino di qualche straccio che facesse da lenzuolo, e si rivoltava nelle sue deiezioni su cui si posavano sciami di mosche che avrebbero diffusa l’infezione. Due giorni quell’infelice durò in questo stato, prima che il comandante, convintosi infine della gravità del caso e del pericolo per tutti, non lo avesse fatto trasportare all’ospedale per le malat¬tie infettive, dove morì il giorno dopo.

     Non era ancora cessata l’impressione di questo primo malato, che vi furono dei casi di tifo ricorrente. In una giovinetta di 14 anni la malattia si presentò con gravi sintomi psichici. Durante il giorno era più o meno tranquilla; ma verso sera diventava sem¬pre più inquieta, fin che cadeva in delirio. Allora, o gridava spaventata che mandassero via le guardie rosse che volevano arrestarla, o si metteva a cantare, e per ore e ore ripeteva il ritornello di una romanza russa: «sfiorirono da per tutto i crisantemi nel giardino». La notte si alzava; e, dalla stanza dove l’avevo messa, una specie di stanza di isolamento accanto alla sala grande comune dove ero io fra gli altri ammalati, a passi lenti, con un’andatura di sonnambula, veniva presso il mio letto a domandarmi se i gendarmi fossero andati via, o altro che potesse riferirsi alle sue allucinazioni. Pareva una apparizione spettrale questa ra gazza coi capelli scinti, il cammino incerto, che andava per la sala pronunziando frasi sconnesse. Spesso mi svegliavo di soprassalto vedendomela vicino e la riaccompagnavo nella sua stanza. Per molte notti l’in- fermeria echeggiò dei vaneggiamenti di questa infelice, arrestata, con la madre e le sorelle, per sospetto di spionaggio, e separata da loro, che erano state gettate chi in un carcere chi in un altro. Guarita, e molto tardi, mi rimase assai affezionata, benché la chiamassi, celiando, il mio incubo notturno.

Con l’avanzata di Denikin dal sud, crebbero gli arresti ed in conseguenza anche il numero dei reclusi del campo. Oltre i nuovi arrestati, ne arrivarono moltissimi altri che, presi da tempo, erano già passati per le prigioni di Mosca, o dei propri paesi. Tutti erano stati testimoni di strazi, di uccisioni, di orrori, e le loro condizioni fisiche e morali ne facevano fede; ma i più avevano anche subito sevizie inaudite.

Venne un giorno all’ambulatorio un ex-ufficiale. Aveva in mezzo alla fronte, dai capelli alla radice del naso, una ferita perpendicolare, profonda fino all’osso frontale che si vedeva nel fondo. Interrogato sulla causa di quella ferita, rispose che, avendo saputo di essere stato condannato a morte, per sottrarsi alla fucilazione, aveva tentato di uccidersi, sbattendo la fronte contro lo spigolo di una pietra nella prigione; caduto esanime, era rimasto privo di sensi, non ricordava più quanto; svegliatosi, gli avevano detto che la condanna di morte gli era stata commutata nella reclusione fino alla fine della guerra civile, e lo avevano inviato a Mosca, per essere internato in un campo. Il caso era grave, perché era da temere una distruzione dell’osso, noi non avevamo mezzi per curare convenientemente neppure la ferita esterna. Il medico del campo voleva inviare il paziente alla infermeria della prigione Butyrki che, si diceva, fosse arredata bene. Ma egli si rifiutò nel .modo più assoluto, dicendo che, se avessimo insistito, avrebbe di nuovo tentato di uccidersi. Il medico allora se ne lavò le mani, e lo lasciò a me. Io mi industriai, con l’aiuto della suora di carità, di rinnovargli ogni giorno, e spesso con la stessa fascia, una fasciatura che tenesse ravvicinati i margini della ferita.

     Con mia somma meraviglia, questa ricominciò a rimarginarsi, dopo un mese era chiusa. Durante questo tempo acquistai la confidenza dell’ex-ufficiale e conobbi la sua vera storia, che mi fu confermata da altri. Non lui aveva cercato di suicidarsi, dopo la condanna a morte; ma gli agenti della Ceka del suo paese, Voronez, avevano cercato di finirlo in altro modo, che con l’ordinario colpo di rivoltella alla nuca (15). Per ben dodici volte, dopo avergli legate le mani, gli avevano sbattuta la testa contro uno spigolo di marmo, finché, non reggendo alla tortura egli aveva implorato che lo uccidessero. Poi aveva perduto i sensi. Il giorno dopo seppe di essere stato graziato.

     Mi raccontò pure un altro terribile fatto, purtroppo non unico nel genere. A Voronez si doveva dare esecuzione alla condanna capitale di un tal Michailov detenuto nelle carceri della città. Ma nella prigione vi erano quattro persone di questo cognome, molto comune in Russia, e dello stesso nome. Ne fu giustiziato uno; ma i commissari si accorsero che avevano sbagliato; fucilarono il secondo, nemmeno lui era il condannato; fucilarono allora il terzo e il quarto, per non sbagliare più.

     Nuovi ospiti del campo arrivarono, come ho detto, dalle prigioni di Mosca. Quasi tutti giovani ed ex-ufficiali dell’esercito zarista, di Mosca e dintorni, avevano già passato un anno in prigione, per aver preso parte, secondo l’accusa della Cekà, al complotto ordito da Lockhart l’anno precedente. Il Lockhart che si diceva mandato in Russia dall’Inghilterra, ai primi del 1918, per avviare relazioni ufficiose coi bolscevichi, alle spalle dell’ambasciata inglese, in realtà era un a- gente del servizio segreto britannico: un temerario, in fondo, come altri di quel tempo, il cui spirito di avventura, nel torbido della rivoluzione, non servì che ad aumentare il numero delle vittime inutili. Arrestato alla fine di agosto del 1918, sotto l’accusa di averorganizzato una cospirazione per assassinare Lénin, la scampò proprio per l’intervento delle autorità del suo paese. Ma quelli che pagarono per lui, e pel suo complotto, vero o falso che fosse, furono una quantità di giovani che i bolscevichi implicarono nell’«affare», e dei quali molti furono giustiziati, il resto, nell’agosto del 1919, fu mandato all’Andrónievskij.

     Avevano quasi tutti il corpo ricoperto di ulcere, specie alle gambe e alle braccia. Infestati dai pidocchi, di cui le prigioni rigurgitavano, questi infelici si grattavano, ed ogni più piccola scalfittura sui loro corpi esausti provocava ulcerazioni che non guarivano più. Uno di costoro fu proprio quello al quale dovei aprire un ascesso al ginocchio con un rasoio. Si chiamava Rasorenov ed apparteneva ad una ricca famiglia di commercianti moscoviti, « staroviéry » del Samoskvoriecie, il quartiere di Mosca, di là del fiume, abitato a preferenza dai vecchi credenti, i «staroviéry». Aveva da qualche anno compiuto gli studi universitari, dopo i quali pensava di andare in Italia a completarvi la cultura storica; chiamato invece alle armi alla prima mobilitazione dei bolscevichi, era stato poi arrestato, e dopo esser passato per il carcere Butyrki era stato mandato al campo.

    Pazientissimo, buono, di sentimenti elevatissimi parlando dell’Italia, della quale molto sapeva, pur non essendovi stato, aveva sorrisi infantili che illuminavano e trasformavano il suo volto un po’ rude, grosso, di moscovita e vecchio credente. Aveva con sé molti libri di storia e d’arte, ed altri ne riceveva ogni settimana. Un giorno lo trovai che leggeva il bellissimo libro « Obrasy Itali) » del Muràtov, uno degli ultimi che avevo letto a Pietrogrado prima dell’arresto, e che mi aveva colpito per l’entusiasmo dell’autore per l’Italia. Glielo dissi, ed allora egli volle che leggessi alcune righe scritte sulla prima pagina del libro; erano della fidanzata, e dicevano: «A te, affinché impari ad amar l’Italia, come l’amo io». L’amore per l’Italia, conforto di un povero russo amante della patria e recluso. Non era commovente questo, e motivo di orgoglio per un italiano? Chiamava la fidanzata « fanciulla mia » strisciando la « i » come fanno spesso i russi nella pronuncia dei dittonghi italiani; e le dedicava versi che leggeva talvolta a Volkónskij ed a me: versi un po’ alla maniera del Blok, ma pieni di lirismo; e la cui nota predominante erano le sofferenze sue, i dolori che lo circondavano, la speranza della risurrezione della Russia. Un giorno che l’armeno malato gridava di più, e noi eravamo tutti stanchi ed eccitati, ed io un po’ scoraggiato, ritrasse la scena in un « quadro di dolore », e mi donò i, versi che io conservai, ma non ritrovai più, fra le mie cose dopo la malattia al campo. Conservo di lui il cucchiaio di legno che avemmo al campo, sul quale egli scolpì, con un temperino, la veduta del Kremlino. Guarì e tornò fra i reclusi comuni. Dopo qualche tempo scomparve con tutti i suoi compagni venuti dalla Butyrki. Chi disse che era stata riaperta l’istruttoria contro di essi; chi disse che erano stati mandati verso il Volga, in un altro campo di concentramento; altri, che forse avevano avuto una sorte anche peggiore.

     Ebbi dal Rasorénov vari libri, sull’Italia. La loro lettura contribuì non poco a farmi dimenticare dove ero. Ma l’Imitazione e i Salmi furono quelli che mi aiutarono a riacquistare il pieno dominio di me; sì che i giorni divennero meno tristi; gli abbandoni meno desolati e più rari.

     E mi attaccai di più al mio quotidiano lavoro, cercando di essere pei malati tutto quello che potei nelle condizioni doppiamente difficili di detenuto, che doveva difendere spesso i compagni di pena contro i rigori delle autorità del campo, e di medico a corto di rimedi e medicine.

     Qualche volta, dopo l’ambulatorio, facevamo col medico un po’ di clinica spicciola su i casi più difficili; e ve ne erano. Altra volta si faceva un po’ di scienza alla buona con la suora di carità: la signora Hólmskaja, una giovane ventenne, che la tempesta della rivoluzione aveva reso già un rottame. Sposata, essendo ancora studentessa di medicina, si era visto strappare il marito, condannato a morte dai bolscevici anche lui pel complotto Lockhart; lei stessa, mandata prima alla prigione di Butyrki, era stata poi messa nel campo con la condanna della reclusione a vita. Era infaticabile all’infermeria, pronta ad aiutare tutti, e nello stesso tempo piena di interesse scientifico per ogni malato. Nelle tregue del lavoro, o nelle ore pomeridiane, mi chiedeva che le illustrassi i casi osservati, le chiarissi dei dubbi; ed io cercavo di accontentarla, con rapide corse nel campo della fisiologia o della patologia. Alle quali sovente assisteva pure il medico del campo. Questi era un povero ebreo del sud, di nome e cognome tipicamente ebraici: Israil Haikin; veniva dalla zona di confino degli ebrei; ed era proprio uno di quei paria della sua razza, di cui vi erano in Russia più di quanto non si credesse. Conosceva gli orrori dei «pogrómy»; ed era fuggito, con la moglie e i figliuoletti, dinanzi al saccheggio della sua terra da parte dei russi, che gli avevano tolto ogni cosa, e gli avevano ucciso perfino il vecchio padre. A Mosca, dove aveva trovato rifugio, aveva accettato, come altri medici, il posto che gli si offriva nei servizi sanitari dei campi di concentramento per avere, con un magro stipendio, almeno garantito il non meno magro pasto quotidiano per sé e per i suoi.

Il pomeriggio della domenica i parenti dei detenuti potevano venire a visitarli. Era una festa, a cui i reclusi si preparavano durante la settimana con una aspettativa quasi infantile. Si improvvisavano nel cortile del monastero tavolini, sedili, panche, e, dalle due alle quattro, specie se tempo era bello, pareva di essere in qualche giardino, d’estate, di Pietrogrado o Mosca del tempo passato. Si beveva un infuso di erbe, a cui si dava il nome pomposo di tè, ma senza zucchero; invece delle torte e dei pasticcini di altri tempi, si rosicchiava qualche tozzo di pane risparmiatonella settimana; si parlava con animazione in diverse lingue,perché al campo c’erano molti stranieri. Di lontano si l’impressione di una gaia accolta di gente.

     Le prime domeniche, le autorità dettero una certa libertà, e permisero che, oltre i parenti, entrassero pure conoscenti o amici dei detenuti, per ignoranza del mestiere o raffinatezza di sistemi polizieschi per far nuovi arresti, non saprei dire. Ma si « scoprì » che file di agitazioni della città avevano radici nel campo, dove si trovavano, fra vecchi dignitari zaristi e cadetti, molti socialisti rivoluzionari; i freni si strinsero, e i tè finirono. Per entrare nel campo ci vollero permessi speciali della Ceka. Perfino la Croce Rossa «politica » di Mosca, ultima trasformazione della Croce  Rossa dell’antico regime, la quale soccorreva, come poteva, tutti i detenuti od internati per ragioni politiche; e la Croce Rossa danese, ultimo residuo delle missioni delle Croci Rosse straniere in Russia del tempo della guerra, che aveva cura specialmente degli stranieri, trovarono grandi difficoltà per continuare la loro opera. Per mezzo della prima seppi che l’Istituto e le Associazioni mediche e scientifiche di Pietrogrado non ristavano dal fare tentativi per la mia liberazio¬ne; per mezzo della seconda, il cui presidente si pre¬parava a partire per l’estero, cercai di far arrivare in Italia notizie mie e dei figli. Ma anche le visite delle Croci Rosse si diradarono: la Croce Rossa politica perché sospettata d’« intelligenza » coi social democratici e i social rivoluzionari; la danese per esaurimento di viveri. Questa non la si vide più. In agosto partì per l’estero; ma i membri di essa furono fermati per via a Minsk, e, solo dopo un mese, poterono proseguire il viaggio. Questa notizia, come in molti altri casi, il campo fu tra i primi ad averla.

Al campo, nonostante l’isolamento e la sorveglian¬za sempre più rigida, si finiva per conoscere sempre con esattezza tutto quello che accadeva fuori, anche ciò che i bolscevichi cercavano di tener celato. Fra i reclusi vi erano tanti ebrei, dalle molteplici relazioni, che le notizie non potevano sfuggire alle loro reti. Non solo; ma il campo stesso era un indice sensibile delle condizioni esterne.

     Ho detto che i primi campi di concentramento sorsero in Russia tra la primavera e l’estate del 1919, affidati per la gestione economica e il mantenimento della disciplina alla iniziativa ed al criterio dei comandanti. Ed ognuno può immaginare quali criteri e quali iniziative potessero avere dei fanatici ignoranti la cui ideologia nel miglior caso si compendiava nell’assioma: più partigiani del vecchio regime muoiono, tanto meglio per la causa comunista. Non cucine, non letti, ed ancora meno medici, medicine o aiuti sani- tari. Molti campi per tutta l’estate del 1919 non furono che branchi di uomini che si spostavano qua e là, a beneplacito o giudizio dei capi, meno umani dei pastori verso le bestie. E, finché durò l’estate, si potè dormire anche sulla terra nuda, in attendamenti improvvisati, in fienili cadenti; ma quando vennero le piogge, e gli arresti crebbero, al punto che le città si spopolavano, allora si cominciò a pensare alla sorte degli internati, ed ai campi.

Questi che dapprima dipendevano dal commissa¬riato per l’Interno, passarono alla Cekà. Furono date norme disciplinari, direttive uniformi, anche norme igieniche; rimaste la più parte lettera morta. In pri¬mo luogo, il campo doveva « bastare a se stesso », usufruendo, al massimo grado, della capacità, attitudine o della professione dei reclusi. Poi, il campo non doveva essere una accolta di persone in ozio; bensì un luogo dove « il lavoro redimesse i borghesi dalla passata vita di parassiti e sfruttatori »; dove « l’individuo non sentisse l’avvilimento della pena, ma si avviasse alla redenzione, attraverso la scuola del lavoro che solo poteva dar diritto alla esistenza quotidiana »(16). « Chi non lavora non mangia », era scritto a grandi lettere in tutti gli angoli del campo, con sotto la firma di Lénin; quasi non lo avesse detto venti secoli prima San Paolo parafrasando più Alte Parole. Non solo; ma, venendo considerato dai bolscevichi, a norma del vangelo positivista, il delinquente non un essere liberamente agente, ma una vittima di nefaste influenze ereditarie e di ambiente; ne venne che non la prigione doveva accoglierlo, ma il campo di concentramento, il quale doveva redimerlo, rialzarlo e restituirlo mondo e rifatto alla società. Il lavoro obbligatorio in comune e l’esempio mutuo, avrebbero corretto il borghese sfruttatore, e il proletario criminale, infelice e sfruttato. E per tradurre in atto tali magnifiche idee, si stabilì in ogni campo una amministrazione con comandanti, ispettori, sorveglianti, i quali, quando non erano provocatori, o delatori dei detenuti, come i loro predecessori nelle carceri zariste, davano comunque l’esempio del più puro parassitismo burocratico, del vizio, della più sfacciata immoralità e peggio.

     In ogni modo, l’estate del 1919, il campo di S. Andronico a Mosca, e come esso forse gli altri, era qualche cosa fra la casa di pena, il domicilio coatto, i lavori forzati, la casa di correzione, il deposito tem¬poraneo di giudicabili; nel quale si trovavano insieme ed in promiscua comunanza: rei politici e delinquenti comuni, ostaggi civili e prigionieri di guerra, galantuomini e omicidi e ladri, gentildonne e prostitute. Tra l’affluire incessante dei nuovi provenienti dalle prigioni, e l’uscita di coloro che la Cekà prendeva dai campi, per metterli sotto più stretta sorveglianza, se nuovi « fatti si scoprivano » contro di loro; qualche volta per inviarli verso quella tale stanza della Lubjànka, donde non si usciva più; i campi di concentramento erano in movimento continuo, in cui, solo per i sentimenti innati della maggioranza dei detenuti, regnava un barlume di disciplina, ed era tutto. Il resto: le teorie, i principi morali, erano una farsa di cui ridevano perfino quegli stessi che avrebbero dovuto attuarli o diffonderli. Al campo di S. Andronico, ad esempio, comandante, aiutante e scrivani ogni sera facevano festa, e nelle ore tarde erano tutti ubriachi. Con un po’ di alcool si poteva ottener da loro tutto. E lo sapevano bene i reclusi, quelli di Mosca in particolare, che uscivano ogni notte, né tornavano sempre il giorno appresso. L’economo poi, che era stato inserviente in un’osteria di Mosca, rubava senza ritegno; in pochi mesi di adesione al comuniSmo era già arricchito, e pensava di andarsene lontano in provincia a godersi il meritato riposo.

     Oltre i borghesi sfruttatori, vi erano dunque nel campo numerosi proletari da redimere: tutta una banda di delinquenti del Caucaso, capitanati da un cosacco, vero tipo di brigante, che aveva al suo attivo omicidi, furti ed altro. Costoro si unirono in un « fascio comunista »; rifiutarono di lavorare e obbedire alle autorità; e si dettero a commetter furti, ricatti, soperchierie a danno dei «signori». Questi per un po’ tollerarono; poi, continuando le violenze dei proletari, ricorsero alla legge del taglione, e risposero ai proletari occhio per occhio, non senza intervento di urgenza del chirurgo. Allora il «fascio comunista» fu sciolto, e i componenti, rigenerati, furono rinviati alla Butyrki, donde non sarebbero dovuti mai uscire.

     Ma tutte queste erano inezie: il disordine nella amministrazione; l’indisciplina dei proletari; le fughe frequenti dei detenuti, lasciavano indifferenti le autorità da cui dipendevano i campi di concentramento. I rigori estremi e straordinari venivano, o quando vi erano ammutinamenti e sedÌ2Ìoni in città, o quando vi erano più serie minacce per l’avanzata di Denikin, e, più tardi, di Judénic’. Allora il campo diventava l’indice della situazione: guardie aumentate, agenti della Cekà in permanenza al campo, uscite proibite, le scarse razioni ancor più ridotte. Quali speranze di liberazione non destarono quei rigori, e quante volte! Più a lungo duravano, e più le speranze crescevano fino al parossismo, come fu durante l’impresa di Judénic’. Poi le misure allentavano, nonostante i giornali continuassero a gettare l’allarme, segno che la tempesta era passata, e tutto tornava alla vita ordinaria: Volkónskij a spazzare i viali fra le tombe, io a cercar medicine, o a far qualcosa di meno elevato, ma forse più utile, come quella di lavarmi i miei stracci, o rammendarmeli.

     Verso la metà di agosto uscii per la prima volta dal campo; e, contrariamente alle disposizioni, secondo le quali i detenuti non potevano uscire se non accompagnati da guardie, uscii solo. Il comandante del campo mi usò questo non chiesto riguardo.

     L’estate del 1919 fu quanto mai bella: un seguito di giornate di sole calde, chiare, senza vento, quali da tempo non vedevo. Mosca affondava nel verde delle larghe vie alberate, dei parchi, dei giardini; centinaia di cupole multicolori spiccavano sul verde o rilucevano d’oro sotto i raggi del sole. L’aspetto stesso della città contribuiva ad allietare lo spirito. Le vie non erano così deserte come a Pietrogrado; vi erano ancora delle botteghe aperte; sui mercati vi erano ancora erbaggi e frutta; in molti punti lungo le vie più larghe, venditrici di polenta calda, uova sode, burro, ricotta, latte cagliato, pane bianco offrivano ancora di che sfamarsi e ad un prezzo non ancora favoloso. E, di riflesso, fin la vita del campo appariva meno triste, nel lento adattamento ad essa. Ma verso la fine di agosto si cominciò a parlare di un trasferimento in un campo più grande, con altri reclusi che si aspettavano. Chi diceva che saremmo stati mandati verso il Volga: chi verso l’interno, dove sarebbe stato più facile trovare vettovaglie; chi, infine, che saremmo rimasti a Mosca. La triste realtà della nostra esistenza, che non ci apparteneva più, per qualche istante dimenticata, riapparve a tutti ingrandita dalle peggiori prospettive e l’idea di un crudo inverno al campo tra il freddo, la fame e possibili epidemie mise tutti in agitazione. Poi sembrò che del cambiamento non si parlasse più. All’improvviso una mattina fu annunziato che nel po¬meriggio i reclusi sarebbero passati nel monastero di S. Giovanni Battista, l’Ivànovskij Monastyr, dal quale erano state cacciate le monache che vi erano rimaste fino allora.

Il 22 agosto, a sera tarda, caricati su un carro i malati che potevano esser trasportati e la poca suppellettile dell’infermeria, la suora di carità ed io lasciammo, ultimi, il campo di sant’Andronico.

15. NEL TERZO CAMPO DI CONCEN-

TRAMENTO – Agosto 1919-Febbraio 1920

     Il passaggio da un campo all’altro lo feci questa volta senza angeli custodi. Il comandante ci mandò soli, la suora e me; disse che aveva fiducia in noi; tanto che affidava a me il preziosissimo carico di due litri di alcool, ad entrambi il carretto delle masserizie ed i ma-lati. Poco pratici di Mosca, sbagliammo strada più volte, e giungemmo verso mezzanotte all’Ivànovskij, non senza meraviglia del comandante, nel vederci arrivare così tardi e soli.

     Il monastero di S. Giovanni Battista, era uno dei più bei monasteri femminili di Mosca, e assai più ricco di memorie storiche di sant’Andronico. Fondato nel secolo XV da Ivan III o, secondo altri, da Giovanni il Terribile, accolse nelle sue mura non poche donne di alto lignaggio, condannate, il più sovente per ragioni politiche, alla « tonsura »: quella monacazione forzata che era la forma più comune del carcere perpetuo per le donne di corte all’« Epoca dei Torbidi », ed anche più tardi. La zarina Maria Petròvna, moglie di Vasilij Sciuiskij, lo zar della «Crisi Rivoluzionaria »; e Marta « Iurodivaja », la veggente stolta, che forse nascondeva sotto un titolo di spregio la sua alta stirpe; la monaca Dosidéa, al mondo, principessa Augusta Tarakànova, figlia dell’imperatrice Elisabetta Petróvna e di Alessio Rasumóvskij, relegata nel monastero da Caterina II; e la terribile boiarina Daria Saltykóva, la « Saltycika », che per le atroci sevizie ai servi fu chiusa in catene in una cella murata, e vi morì esecrata da tutti; sono le più note ma non tutte.

     Molte memorie del monastero andarono distrutte nell’incendio di Mosca del 1812. Le poche superstiti, libri specialmente e ritratti, furono raccolte nel riedificato monastero e conservate nella biblioteca, finché non si abbatté su di esse l’odio bolscevico. Con la biblioteca, vandalicamente manomessa il 1919, scomparvero le ultime cose e gli ultimi ricordi del vecchio monastero.

     Gli edifici di cui si componeva erano per lo più raggruppati intorno alla chiesa, la quale li dominava con le sue alte cupole, e dava all’insieme del luogo, recinto da mura merlate, un aspetto più raccolto ed armonico che non quello di sant’Andronico. La chiesa era rimasta aperta al pubblico, che vi poteva accedere dalla via, per una porticina laterale, mentre la porta principale che dava all’interno, e quindi sul campo, era stata chiusa.

     L’abside ed un fianco della chiesa sporgevano nel chiostro grande del monastero, del quale formavano il quarto1 lato; gli altri tre lati del chiostro erano costituiti dagli altri edifizi del monastero: la clausura delle monache, l’appartamento della superiora, e la foresteria con la lavanderia, i bagni, i forni e i laboratori. In mezzo al chiostro un cedro di Siberia ergeva maestoso i suoi rami su un gruppo di tigli e betulle nane che chiudevano lo spazio quadrato, dove spirava ancora una pace religiosa, quando vi arrivammo. Le condizioni igieniche dei fabbricati erano ottime: da per tutto condutture di acqua, ciò che mancava a sauri Andronico; in ogni stanza camini olandesi, che si sarebbero potuti accendere se vi fosse stata la legna; la cu¬cina isolata, con acqua, forni e camini; un ampio bagno russo con spogliatoio, due sale grandi e il tepidario, provvisto di tutti gli utensili.

     Sembrava che i reclusi non potessero star meglio, e così forse sarebbe stato, se vi fossero stati messi solo quelli del campo di sant’Andronico; ma il numero aumentò fortemente per le donne ed un nuovo contingente di detenuti inviati dalle prigioni di Pietro-grado e Mosca. E siccome il comando del campo si era installato nel migliore fabbricato, e le donne erano state concentrate nella foresteria, per tenerle, almeno in apparenza, separate dagli uomini, questi erano stati messi tutti nell’antica clausura, che non bastò più. Era un formicaio di gente alla rinfusa, sani e malati, curanti della pulizia e sporchi, detenuti politici e criminali; celle che avrebbero potuto contenere non più di tre persone, ne contenevano otto, dieci. Il comando del campo non aveva provveduto, né provvide in seguito, ad avere, in mancanza di altro, almeno delle tavole su cui i detenuti si fossero potuti stendere la notte; cosicché quasi tutti dormivano per terra, la più parte sul nudo suolo, l’uno sull’altro, tra cenci ed insetti, in un sudiciume impressionante, mentre il colera serpeggiava in città, ed il tifo esantematico batteva alle porte. Questo per gli uomini, le donne non stava¬no meglio. La foresteria era umida, le finestre ampie e mal connesse, sicché, quando pioveva, l’acqua penetrava nelle stanze e le povere donne finivano per dormire nell’acqua. In breve s’ammalarono tutte. E si andava avanti così. Ma appena, i primi freddi si fecero sentire, un giorno, come d’intesa, gli uomini svelsero tutte le porte, schiantarono gli impianti dei corridoi, cercarono ogni più piccolo asse di legno; degli alberi furono furiosamente abbattuti, e si improvvisarono tavole, trespoli, pancacci, sedili. Il comandante, colto alla sprovvista, impotente a reprimere ed a provvedere, si limitò solo a punire qualcuno. I detenuti continuarono con aumentata barbarie, non furono risparmiati neppure gli arbusti, tutto fu distrutto con atti di vandalismo violento anche da parte di persone civili: il monastero da un giorno all’altro divenne una lurida rovina.

     Eppure, che tranquillità vi spirava i primi gior-ni che vi fummo, quando le giornate della fine dell’estate, erano ancora belle, le serate chiare non ancora fredde nelle aiuole, linde ed ordinate e si vedevano le cure di quelle che fino allora le avevano coltivate.

     All’alba, nel silenzio dell’infermeria, che dava su un cortiletto interno, appartato, mi giungeva il suono di campane vicine e lontane; era il mattutino, che annunziava il nuovo giorno, e mi ricordava le chiese di Roma, che all’alba annunziano ai fedeli il sorgere del giorno. A Mosca, a differenza di Pietrogrado, le chiese l’autunno del 1919 erano aperte, ed il culto non così ostentatamente ostacolato; quantunque accanto ad una delle più venerate immagini della Vergine nel centro di Mosca, non lontano dal Kremlino, i governanti avessero scritto le insultanti parole

« relighija opium dljà naroda »: la religione è l’oppio per il popolo. Verso le dieci, specie nei giorni di festa, era un incrociarsi di mille suoni di campane che richiamavano i fedeli alla messa. La sera erano i rintocchi della chiusa del giorno, che corrrevano per l’aria più lunghi, malinconici, insistenti e talora più allegri dopo i vespri del sabato.

     Ricordo una delle prime sere passate in questo terzo campo, una magnifica sera di luna; il cielo purissimo era di quell’azzurro tenue del nord, che fa tanto contrasto col nostro; l’aria così tranquilla che non si sentiva stormire di foglia. L’appello serotino dei reclusi era finito; i numeri erano tornati uomini; e questi, aspettando il segnale del sonno, passeggiavano nel chiostro o sedevano a gruppi su gli scalini della chiesa. Illuminata in pieno, l’abside aveva riflessi di marmo vecchio; le croci delle cupole, i mosaici, i medaglioni del fastigio mandavano lampi d’oro, e facevano spiccare anche più la chiesa sulle piante del chiostro. Il cedro di Siberia stendeva la sua ombra su una piccola fontana di marmo, nel cui bacino un’Ebe con lene fruscio, versava un filo d’acqua. Appoggiato all’orlo della fontana, non riuscivo a sottrarmi all’incanto di quell’angolo di pace. La fantasia mi prese la mano ancora ima volta e mi parve di vedere non so che vie campestri dell’Irpinia; che chiese dei nostri villaggi nelle sere di luna, quando il sacrato comincia a farsi deserto dopo l’avemaria e le facciate splendono bian¬che sotto i raggi lunari; che reconditi angoli di ville tra il Vesuvio ed il mare con certe piccole fontane tra ciuffi di oleandri ed acacie: sogni di bellezze lontane verso cui vagavo. Ed ecco di lontano i rintocchi delle campane del Kremlino che per l’aria tranquilla giungevano fino a noi. Un incanto!

     Ma, per contrasto, tornò più assillante l’interrogativo: Ma dove sono, e perché? Ed un altro recluso di cui non mi ero accorto, e mi era seduto vicino, fece eco alle mie parole: « Perché siamo qui? ». Era un belga; aveva fantasticato egli pure, aveva ripensato al suo paese, alla vecchia madre che aveva mandato ad Helsingfors prima dell’arresto, e vi era rimasta priva di mezzi. Perché? perché? ed un groppo amaro mi salì alla gola, rientrando fra i miei malati.

Alcune sere dopo, ci incontrammo di nuovo nel cortiletto dell’infermeria che doveva essere stato un bel giardino, con aiuole ad iridi e ribes, un gruppo di lilla nel mezzo e intorno azalee e viole. Vi avevo colto anzi una viola tricolore, piccolo fiore superstite della passata bellezza, un po’ per ricordo, ma più per pietà, perché avevano messa a pascolare in quel cortile la rozza del comandante che distruggeva tutto: erbe, arbusti, fiori. Parlavamo di questa e di altre inutili devastazioni che si perpetravano per incuria, vendetta, spirito settario, quando ci colpirono le note di un canto religioso. Era un sabato e, credo, la vigilia dell’otto settembre, secondo il calendario ortodosso. Le monache, pur essendo state scacciate dal monastero, avevano ancora cura della chiesa; e quella sera cantavano i vesperi. Era un canto ora lento e melodico, ora affrettato ed insistente, come di chi grida al soccorso, ora rassegnato, quasi desolato che lì, a quell’ora, mentre giungevano di lontano gli ultimi rintocchi delle campane, e apparivano di nuovo le prime stelle dopo le notti bianche dell’estate, metteva un’indicibile tristezza nell’anima. Accorsero reclusi e recluse, affollandosi alle porte sbarrate del tempio, e rimasero lì in ginocchio, finché durarono le funzioni. Fra gli altri un vecchio prete, dai lunghi capelli bianchi, si attaccò con tale veemenza alle porte della chiesa, si sciolse in un pianto così dirotto che io ebbi quasi vergogna della mia tristezza, dinanzi a tanto dolore. 

     Rimessomi al lavoro, feci la « ispezione sanitaria » del campo ordinata dalla Ceka. Fra gli ultimi vi erano agenti e rappresentanti consolari, arrestati come me in giugno; e poi una quantità di stranieri: polacchi, inglesi, americani, serbi, romeni, svizzeri, francesi, cekoslo- vacchi presi come ostaggi gli ultimi tempi, e concentrati, nel nostro, da altri campi o dalle prigioni di Mosca; vari preti di provincia, il vescovo ortodosso di Luga. Di italiani non vero che io, perché, proprio durante il mio passaggio a questo terzo campo, erano stati liberati il vice console Fratini ed il Bastucchi. Ne vennero più tardi altri tre, uno da Pietrogrado, due da Vorónez, ma furono subito rimessi in libertà, perché operai, anzi «proletari», arrestati per reati comuni, ed anche perché si sperava di condurli all’ovile comunista catechizzandoli.

     Ma il lavoro ripreso con rinnovata lena; l’impegno che mettevo nell’adempimento dei miei incarichi; l’interesse che prendevo agli innumerevoli bisogni dei malati, non riuscivano ad assorbirmi, o a distrarmi da un più profondo pensiero che mi logorava: quello dei figli. Aspettavo con ansia le lettere, cercando, attraverso lo scritto di intrawedere il loro stato d’animo, o le influenze sotto le quali si potessero trovare. Mi preoccupavo assai più del loro morale, che delle condizioni economi¬che. Li avrei ritrovati come li avevo lasciati?

*

     Il 15 settembre mi fu comunicato che la Cekà si era pronunziata sul mio «affare: aveva deliberato che iodovessi rimanere in prigione fino alla fine della guerra civile in Russia. La deliberazione mi lasciò indifferente; non ritenevo che i bolscevichi mi potessero tenere prigioniero tutta la vita. Benché privo di notizie dall’Italia da circa un anno, avevo l’intimo convincimento che non ero abbandonato; e poi non vi era la Provvidenza che vegliava pure su di me? Se i bolscevichi avessero trovato un addentellato qualsiasi all’accusa di spionaggio, tanto strombazzata al tempo dell’arresto, non avrebbero esitato a metter fuori la scoperta, ingrandirla, e farsi nuovo merito d’aver sventato l’ennesimo complotto contro la repubblica proletaria. Invece no. Non solo io non fui mai interrogato; ma nella deliberazione, a differenza della formola adoperata per gli altri detenuti: «la Cekà condanna», «ha condannato», per me era scritto: «la Cekà ha stabilito». Era chiaro: non potendomi condannare, poiché nulla era risultato contro di me, né volendomi liberare, perché io potevo essere sempre un « buon mezzo di scambio », i bolscevichi mi tenevano in ostaggio, con la detenzione a tempo indeterminato, ciò che avrebbe permesso più tardi di prendere a mio riguardo qualsiasi altra decisione. E che fossi nel giusto, mi fu confermato qualche giorno dopo dalla Balabànova, che venne al campo, non so per qual motivo, e mi disse che contro di me non era risultato nulla; ma che mi si teneva in arresto per rappresaglia contro l’Italia, la quale favorendo con le altre potenze dell’Intesa l’azione dei reazionari, fomentava la guerra civile in Russia.

     Della Balabànova, che conoscevo di nome dai miei anni universitari, quando essa era in Italia e figurava tra gli elementi più attivi del partito socialista, avevo sentito parlare come di una curiosa mescolanza di fa¬natica esaltazione socialista, e superstiti residui di intellettualità borghese, condita del solito arcaico amore per l’Italia classica. Mi parlò in buon italiano; ma non di comuniSmo, nè di proletari. Trovò modo invece di dirmi delle parole di conforto e ricordarmi i figli ai quali si proflerse di far giungere notizie mie: promessa, che dubito abbia poi mantenuto.

     La visita fatta con certa ostentazione; la conversazione svoltasi non in russo, ma, contrariamente al regolamento, in italiano; l’interessamento apparente o reale che la Balabànova, allora membro influente del partito bolscevico, mostrò di avere per me, allorché uscendo accompagnata dal comandante e dal suo aiuto, mi domandò, e solo allora rivolgendomi la parola in russo, come fossi trattato; i ringraziamenti infine che mi fece con molta espansione per la mia opera di medico, di cui diceva aver avuto una prova allora (venendo era entrata direttamente nell’ambulatorio, dove io stavo vaccinando i reclusi contro il colera ed il tifo), mi fecero passare per una persona importante agli occhi di molti comunisti, di cui più d’uno non sdegnò discendere fino a me, borghese, perché l’avessi raccomandato ai miei « alti conoscenti ». Pel comandante divenni « qualcuno, con cui c’era da contare », anche all’infuori del mio sapere medico, che stimava, non so perché, molto elevato. Ciò che invero non mi faceva piacere, poiché le sue ostentate lodi, e non le sue soltanto, mal dissimulavano i suoi sentimenti antisemiti pel medico del campo, che covavano in fondo all’animo di tutti, dai detenuti reazionari e zaristi alle sentinelle lettoni ultracomuniste, dalle vecchie signore aristocratiche alle comuniste sguaiate, dal comandante ai suoi aiuti. Ogni volta che in qualche modo, attraverso confronti, giudizi, lusinghe, vedevo spuntare l’odio contro l’ebreo, troncavo il discorso con chiunque lo facesse. So che il dottor Hàikin seppe di ciò e me ne fu grato; e cercò di manifestarmi la sua gratitudine co¬me potè. Ma bisogna pur dire che talora le circostanze gli erano avverse, come fu per le vaccinazioni anticoleriche, ordinate di urgenza dalle autorità sanitarie di Mosca, sotto la minaccia del colera e del tifo scoppiati in città. Si trattava di vaccinare circa cin¬quecento persone non avendo a nostra disposizione che due piccole siringhe, pochi aghi e scarsissimi antisettici. Il dottor Hàikin aveva una fortissima miopia, sì che molte piccole manualità le compiva, come mi diceva, più a memoria che con l’aiuto della scarsa vista; cominciò tuttavia a fare anche lui le iniezioni; ma avendo rotto, fin dalle prime, metà degli aghi, dovè rinunziare a continuarle. Io avevo un po’ più di pratica, per averne fatto per anni ed anni ogni giorno al servizio antirabbico a Pietrogrado; un po’ quindi con le mie conoscenze, un po’ con qualche ripiego suggerito dalla necessità, vaccinai i reclusi, senza incidenti, o conseguenze spiacevoli, benché la massima parte di essi fossero stremati di forze e coperti di piaghe. Facevo appunto queste vaccinazioni quando venne al campo la Balabànova. Come medico, fui soddisfatto del ri-sultato; come uomo, avrei potuto dire, della mia opera, se fossi stato sicuro che fra i detenuti non ve ne fossero di destinati a più orribile morte, come pur¬troppo fu di molti. La fama di « specialista » (17) però che

1 Nel linguaggio dei bolscevichi « spez », abbreviazione di « spezialist» ( = specialista), qualifica professionale tenuta dalla gente in grande considerazione, e molto ambita anche per qualche vantaggio economico che fruttava.

me ne venne, non solo nel campo, ma anche presso i signori della Ceka, non era proprio giustificata. Il fatto potrebbe servire solo di esempio come facilmente sorgono favole, e purtroppo non nei campi di concentramento soltanto.

Queste mie fatiche mi procurarono una uscita speciale il 20 settembre. Mi rividi con la signorina Nakonétschnaja che pure aveva vaccinato le donne del suo campo; ma senza un aumento di fama. Anche lei era stata informata della decisione della Cekà, nei suoi riguardi: assolta circa i sospetti di complicità con me, era però trattenuta in arresto come ostaggio, essendo nata nell’Ucraina che era allora in guerra coi Soviety. La solita procedura della Cekà che mutava i capi di accusa come più le tornava conto e si pigliava gioco della libertà e della vita umana. Più che avvilita, indignava, non se ne stette, reclamò contro la nuova violenza. A me pareva fosse un rischio reclamare contro la Cekà, ed a chi poi reclamare? Pure lei lo fece e gliene venne bene.

     Tornando al campo, trovai delle novità, che non promettevano nulla di buono. Pochi giorni prima era evaso un generale Stógov che, si diceva, avesse intelligènze con Denikin. In conseguenza di ciò degli agenti erano venuti a prendere, per metterli in luogo più sicuro, il generale Levizkij, un colonnello e due ufficiali di ordinanza, che avevano appartenuto allo stato maggiore del generale Stógov. Il generale Levizkij, al momento di salire sull’automobile che doveva condurlo via, disse di aver dimenticato qualche cosa nella sua stanza; vi tornò, o fece finta di tornarvi, in realtà scomparve, né lo si potè ritrovare. Questo era suc¬cesso qualche ora prima che io rientrassi. Il comandante era in orgasmo; il campo in subbuglio e circon¬dato da un cordone di truppa; si cercò da per tutto per giorni interi negli angoli più reconditi dai solai ai sotterranei, fin nella cripta della chiesa, ma inutilmen¬te. Il comandante destituito, a stento si salvò; uno dei più fanatici agenti della Cekà, un polacco rinnegato, noto per la sua crudeltà fu nominato commissario straordinario del campo; e sotto di lui, per vendetta o ammonimento, fu instaurato il « terrore ». Per una settimana e più, agenti dell’« Osóbyj Otdiél », la sezione speciale della Cekà, la cui apparizione significava quasi sempre condanna a morte, vennero a prendere dei reclusi a gruppi, per condurli alla Lubjànka. Scomparvero in tal modo quasi tutti i giovani ufficiali, molti vecchi funzionari zaristi, molte donne. Questo vedersi togliere dinanzi, inaspettatamente persone colle quali si aveva avuto comunanza di dolori e sofferen¬ze morali, e la certezza che fra poco quelle vite, spesso nel fior degli anni, sarebbero state violentemente spezzate e forse a pochi passi da noi, era cosa da fare impazzire. I nervi non resistevano; nessuno riusciva a sottrarsi all’incubo della sorte che pesava su tutti. Unici indifferenti: il polacco rinnegato dagli occhi grigi e dallo sguardo cinico, e il nuovo comandante coi suoi aiutanti, che non rifinivano di ripetere che «la giustizia rivoluzionaria doveva avere il suo corso» tanto più che contribuiva a far diminuire il numero delle «bocche inutili per l’economia comunista».

Quando parve che il terrore avesse prodotto i suoi effetti, si pose mano alle « riforme » che avrebbero dovuto contribuire alla indipendenza economica del campo e procurare un lavoro stabile ai detenuti, senza farli più uscire. Dovevano sorgere, a seconda del personale adatto che poteva trovarsi nel campo stesso, officine e laboratori, sia per provvedere ai bisogni del campo, sia per eseguire lavori ordinati di fuori. Il guadagno sarebbe stato tutto del campo, come contributo pel miglioramento di esso, e la sua autonomia. Accanto alle officine, un circolo di cultura, una biblioteca ed un teatro dovevano essere centri e mezzi di propaganda comunista. Il programma di queste « riforme », per cui il luogo di pena sarebbe diventato un ricovero di redenzione; dove «il lavoro fisico dei proletari» avrebbe dovuto servire di esempio ai borghesi ed ai nobili; e la cultura di questi eccitare l’emulazione dei proletari, e stimolarli ad elevarsi, fu diffuso sotto forma di «appello» in tutti i campi di Mosca. L’esecuzione, per il nostro, fu affidata al nuovo comandante, ex-marinaio di Kronstadt, comunista naturalmente, perché faceva gran mostra di coccarde e distintivi; a sua moglie, ex-conduttrice di tranvai a Pietrogrado, ma evidentemente letterata, perché era incaricata della revisione della corrispondenza dei reclusi; al vicecomandante, ex-operaio del Donez, ma, in seguito, uno di quelli che avevano lavorato attivamente di rivoltella nelle segrete della Lubjànka.

     I reclusi furono divisi, secondo la loro professione, o quella che sceglievano, in due categorie: operai specialisti ed operai semplici; dopo di che si istituirono le prime maestranze e i primi nuclei delle future officine. Si trovarono falegnami, elettricisti, fotografi, disegnatori, artisti, letterati; e, fra le donne, cucitrici, sarte, lavandaie. Trovata la mano d’opera occorrevano però mezzi pel lavoro: strumenti e materiale. Il comandante, senza troppo approfondire, pensò di ricorrere per gli acquisti o le requizioni, agli specialisti.

     Io ad esempio fui mandato a prendere un ingombrante autoclave, che non servì mai; molti ebrei ad acqui¬stare tante altre cose. E ricominciarono le uscite dal campo, che erano state rigorosamente proibite dalla Cekà. La quale si accorse poi del tiro involontario giocatole dalla amministrazione del campo, da cui molti detenuti avevano finito per trarre quei benefici di cui proprio si voleva privarli, e sospese le uscite.

     L’autunno intanto si inoltrava; cominciò ad annottare sempre più presto; né era possibile ormai passare la sera all’aperto.

     D’altra parte, non essendovi lumi sufficienti, buo¬na parte del campo rimaneva nella più completa oscurità per lunghe ore; ciò che, se era causa di rattristante inerzia per molti, favoriva l’indisciplina e peggio, di moltissimi altri. Allora si provvide, alla lesta, all’illuminazione elettrica, il cui impianto fu fatto dai reclusi elettricisti, unico risultato utile di tutto l’inutile lavoro a cui s’era dato il campo. Per speciale concessione, io ebbi una lampadina, un pezzo di carta colorata mi servì da paralume; e, dopo molte sere di inerzia forzata nella oscurità, potei di nuovo concedermi il sollievo di qualche lettura, di che mi sentii quasi felice. Così poco ci vuole talora per sentirsi o esserlo davvero.

     Qualche volta mi teneva compagnia la suora Hólm- skaja, che non aveva potuto a vere una lampada. Parlavamo di tutto: di filosofia, arte, letteratura, religione. Seduta su una minuscola cassetta di legno in un angolo della stanza, raggomitolata su se stessa, picco¬la, come era, quasi scompariva nella penombra; non ne sentivo che la voce, attraverso le domande che mi faceva sottili, intelligenti, su tante cose che ci univano o ci separavano.

     Alla fine di settembre aumentarono di colpo gli ammalati. I primi freddi che si abbatterono su quella poveraglia cenciosa dei reclusi; la fame che spingeìva i più a mangiare ogni rifiuto, a razzolare tra le immondezze; la decadenza morale verso cui tutti preci¬pitavano inesorabilmente, favorivano ed affrettarono il disfacimento di quelle miserabili esistenze.

     Si ammalò fra gli altri di tifo addominale la moglie del comandante. Dovei curarla; e durante le visite ebbi le confidenze di lei e del marito. Lui era stato marinaio dell’«Aurora», uno dei primi incrociatori della squadra del Baltico a passare ai bolscevichi l’autunno del 1917; si diceva comunista convinto, ciò che non gli aveva impedito di accumular denaro coi diversi «incarichi di fiducia» avuti fino allora; durante la rivoluzione aveva preso parte a crapule, orge di sangue e sozzure di cui si vantava; finalmente aveva incontrato, dopo tante altre, la donna che gli si confaceva, e l’aveva sposata col solo vincolo civile, secondo l’obbligo che il partito comunista faceva ai suoi adepti. Avevano però accanto al letto una piccola immagine religiosa. La moglie, Kàtja, gli aveva messo la testa a posto; e, pur essendo una comunista fanatica, aveva contribuito ad aumentare le economie del marito, mettendo da parte il meglio che poteva, nella speranza di poter comprare, dopo la rivoluzione, un pezzo di terra in Ucraina ed andarvi a godere il meritato riposo. Ora la malattia, con le inevitabili spese, dava un colpo alle loro economie, di che erano assai più preoc¬cupati che non della malattia stessa. Proposi che la ammalata fosse inviata all’ospedale pei comunisti, dove

senza spesa avrebbe potuto avere maggiori cure; non ne vollero sapere, dicendo che non avevano fiducia negli ospedali comunisti e nei medici ebrei. Vi si decisero però, quando la malattia peggiorò. Ma, anche all’ospedale, il comandante volle che io la andassi a vedere; ed ebbi allora non solo il permesso di uscita, ma financo la carrozza. Kàtja guarì dopo più di un mese, tornò al campo, e debbo dire che mi rimase grata, perché quando più tardi ai reclusi mancò il pane o non si potè avere nemmeno la broda calda, per mancanza di legna, essa me ne mandò.

Malate gravi ebbi anche all’infermeria. Una giovane polacca, la quale parlava bene l’italiano, che raccolsi in condizioni gravissime per una forte emorragia, e riuscii a darle aiuto; una zingara che, con la sua arte divinatoria e le sue forme seducenti, faceva girare la testa ai giovani ed aveva dei gravi accessi epilettici; delle russe; delle tedesche di Riga. Con queste fu più difficile aver da fare, e per un pezzo non andammo d’accordo. Avevano pretensioni senza fine; contentate in una cosa, ne domandavano subito dieci, e mi creavano imbarazzi. Ora il vitto era scarso, un’altra volta non abbastanza caldo. Poi venne l’assistenza; pretendevano che la suora Hólmskaja fosse tutto il giorno accanto a loro; ciò che era impossibile, quindi malcontento. Permisi che altre recluse, loro amiche, venissero ad assisterle. Non l’avessi mai fatto; fu un’invasione tedesca dell’infermeria: per ogni malata vi erano almeno due o tre amiche, che venivano a tenerle compagnia durante il giorno; i camini, che dovevano servire a riscaldare l’infermeria, divennero cucine tedesche, con grande malcontento dei malati. E finalmente cominciarono i pettegolezzi. Allora chiusi le porte a tutte. Le malate pigliarono una posa di incomprese perseguitate; anzi mi dissero che io ero assai duro con loro, perché tedesche, e perché nessuno amava più i tedeschi. Per la verità debbo dire che quando uscirono dall’infermeria mi ringraziarono delle cure, e riconobbero che avevano ecceduto e che il mio richiamo alla disciplina era stato giusto.

     Con le tedesche esigenti, ebbi una lettone comunista, tubercolotica all’ultimo stadio, la quale minacciava ad ogni momento di denunziar tutti, e smise quando vide che le sue minacce non facevano impressione. E poi una insolente «compagna », che aveva appartenuto alla guardia rossa, di cui portava con orgoglio il berretto; ma che aveva tutti i vizi e tutte le malattie di donna da trivio e posava a sentimentale.

     Era l’infermeria del campo un caleidoscopio nel caleidoscopio, in cui fisico e morale si sovrapponevano in un insieme di miserie, le quali, nel ristrettissimo ambiente, in cui eravamo ridotti, assurgevano a cose di importanza: indice forse del nostro immiserimento spirituale?

     L’ultimo giorno di settembre, dopo il lavoro della giornata, ero ancora all’infermeria con la suora Hólmskaja, parlando, come al solito dei casi clinici, e disponendo il lavoro per il giorno dopo, quando entrarono quattro agenti dell’« Osóbyj Otdiél », i quali senza neppure salutarci, chiesero alla Hólmskaja se fosse la reclusa di tal nome, ed avutane risposta affermativa, la condussero via. Essa potette appena balbettare «kónceno!», è finita, e scomparve.

     Qual sorte l’aspettava? Pensai le cose peggiori; e dal dolore che provai nel distacco, sentii quanto fossi affezionato a questa creatura. La quale, nelle ore di stanchezza e di scoraggiamento, aveva una parola di sollievo per tutti; nei momenti difficili si prodigava fino all’abnegazione, e perciò era da tutti rispettata ed amata. Il dottor Hàikin cercò di averne notizie, ma gli fu risposto essere meglio neppur mostrare di interessarsi dei reclusi chiamati all’«Osóbyj Otdiél». Avemmo da ciò il convincimento che fosse finita per lei; e da tutti fu rimpianta come raro esempio di cristiana carità, là dove, ogni giorno più, si vedeva crescere la mieria e l’avvilimento dell’egoismo.

     Durava ancora nel campo la dolorosa impressione della scomparsa della Hólmskaja, quando una notte telefonarono dalla Cekà al comandante che fosse consegnato agli agenti il principe Obolénskij del partito cadetto, implicato, si diceva, in un recente attentato. Ai primi di ottobre, mentre si inaugurava a Mosca il congresso annuale dei soviety, era stata gettata una bomba contro alcuni membri del comitato centrale esecutivo. Al campo non vi era nessun Obolénskij; ma, alla perentoria richiesta, il comandante consegnò un recluso da poco arrivato dalla provincia che pareva si chiamasse Obolénskij. Questi la notte stessa fu giustiziato, in esecuzione di una condanna già pronunziata contro di lui, ma temporaneamente sospesa. Il giorno dopo la cosa fu saputa al campo; ed il comandante, mosso non so se dal dubbio di essersi ingannato nella affrettata consegna della notte, o da altre ragioni, andò a rivedere i documenti del giustiziato. Non si chiamava Obolénskij, ma Obolónskij; non era principe, ma gentiluomo di campagna; né aveva avuto condanne poiché l’istruttoria contro di lui era appena aperta. Vi sarebbe stato di che sentirsi mordere la coscienza. Il comandante non se ne dette neppure per inteso; e, con una scrolìlata di spalle, conchiuse: «Sono borghesi lo stesso, l’uno vale l’altro, che vadano al diavolo »! Eppure, questo cinico a me non rivolse mai parole men che rispettose. Ed una volta che ebbi a chiedergli non ricordo che cosa, mi rispose pieno di sollecitudine: per voi faccio tutto. Fondo di bontà? rispetto, soggezione per lo straniero? senso di gratitudine?

     Verso la metà di ottobre, al sopraggiungere dell’inverno, cominciai ad averè piu vive preoccupazioni pei figli; e questa volta anche per le loro condizioni materiali. Come avrebbero potuto affrontare l’inverno senza legna, senza mezzi, soli? Le persone che mi avevano promesso di aiutarli avrebbero potuto più farlo? Da Pietrogrado arrivavano al campo le più fosche notizie: terrore aumentato; di nuovo arresti in massa sotto la minaccia di Judénic’, che avanzava dall’Estonia; esecuzioni sommarie; lo spettro della fame. Si pensò di farli venire a Mosca, come avevano fatto altri detenuti. La vita a Mosca pareva meno difficile; sarebbero stati vicino a me; e, se la signorina Nakonetschnaja fosse stata liberata, come sperava da promesse avute, sarebbero stati con lei. Volle scrivere essa stessa; non ebbe risposta. Finalmente ebbi io una lettera nella quale Michele e Mara mi dicevano che, coi primi freddi, si erano ammalati, ma si erano rimessi; e che non volevano lasciare Pietrogrado, perché presto si sarebbero riaperte le scuole. La lettera mi parve fredda; i miei sospetti aumentarono, e il timore di influenze non buone, mi assalì più forte. Ma in un’altra lettera Michele mi rassicurò ancora; tanto che io mi acquetai, o, piuttosto, mi imposi di non lasciarmi prendere da troppo inconsiderato pessimismo. Cercai pure di distrarmi, specie la sera; quando, tornando solo, dopo il lavoro della giornata, ricadevo nei dubbi e nei tristi pensieri. E presi a frequentare la compagnia dei « francesi ». Si chiamavano così al campo un ingegnere fran¬cese, il segretario del Consolato Francese a Pietrogrado, un belga e l’avvocato della Legazione Svizzera che si erano adattati in una sola stanza, ma tanto piccola che ci stavano appena, ed era un problema trovare un po’ di spazio, per una quinta persona. Le nostre con-versazioni, da semplice passatempo acquistarono a poco a poco maggior contenuto, diventarono quasi un bisogno per tutti noi. D’ordinario vi si parlava delle letture fatte da qualcuno di noi durante il giorno, di storia, filosofia, religione. Il nostro però era il cenacolo intellettuale del campo, frequentato spesso da Volkón- skij; e, per ragione di sorveglianza, dal vicecomandante, che arrivava sempre all’improvviso, e rimaneva a bocca aperta ad ascoltarci.

     Per la maggioranza dei reclusi, le cose si passavano altrimenti. Nonostante la proibizione severa, e la minaccia di forti punizioni, al campo si giocava ed a denari, fin che ve ne furono; ed erano talvolta somme forti che si perdevano o si guadagnavano la notte; mancati o finiti i denari, qualunque oggetto avesse potuto avere un minimo di valore diventò buona posta. E si beveva pure. Io stesso dovetti durare non poca fatica per sottrarre alle avide richieste ed agli assalti ladroneschi l’alcool medicinale che avevo in custodia.

     Fra i nuovi reclusi che giornalmente arrivavano al campo verso la fine di ottobre, cominciarono a giungere ufficiali di Denikin, fatti prigionieri sempre più a sud di Kursk, Vorónez, Tambóv. Comprendemmo da ciò che non solo l’avanzata era stata arrestata, ma la disfatta doveva essere completa; e fu facile prevedere che una nuova corona di gloria i bolscevichi si sarebbero aggiunta ai loro trofei nella grandiosa dimostrazione di fine ottobre. Ma era appena «liquidato » Denikin, che al campo si intuì che qualche cosa di inatteso succedeva al nord o a Pietrogrado.

     Con i soldati ed ufficiali di Denikin sempre più affamati, laceri, disfatti fisicamente e moralmente, cominciarono a venire da Kronstadt, dalle frontiere della Finlandia, da Luga, da Pskov, ostaggi in gran numero, in massima parte donne. Vedove ed orfane di ufficiali di marina, uccisi a Kronstadt, le quali dovevano aver conosciuto chi sa quali orrori della fame, per trovare un tesoro il nostro già scarso ed orribile cibo; mogli di ufficiali scomparsi, e perciò prese come ostaggio pei mariti; queste venivano specialmente da Pskov, Gàtcino, Luga; e poi vecchie cadenti e bambine che non sapevano neppure dire dove fossero e perché; e contadine della Carelia, che spesso non parlavano una parola di russo. Fra queste, una aveva un bambino di poco più di una settimana che le agonizzava fra le braccia pel freddo e la fame, essa non a- veva latte, noi neppure una goccia da dargliene.

     Presto si comprese la causa di questa nuova stretta: si delineava l’avanzata di Judénic’ su Pietrogrado, che sollevò di nuovo vive speranze ed intense attese.

     Con questo nuovo afflusso di prigionieri ed ostaggi, non solo aumentò, fino a triplicarsi, il numero dei reclusi, ma l’aspetto stesso del campo divenne qualcosa tra la fiera, la piazza, il marciapiede, e talora la bolgia, in cui una accozzaglia di gente si moveva, si agitava, si esprimeva nei più diversi modi e nelle più diverse lingue. Vi erano ebrei e tartari; armeni e rus¬si; polacchi, ucraini, stranieri; ufficiali con la divisa a brandelli, e borghesi stracciati; monaci e preti, vecchi gentiluomini che conservavano, sotto i vestiti laceri, residui di nobiltà nel portamento, e sfacciati bol- scevichi che mal nascondevano, sotto la divisa delle guardie rosse, la loro criminalità; vecchi cadenti e giovanotti imberbi. E fra le donne: donne del popolo sguaiate e sciatte, e dame della vecchia aristocrazia compassate e raccolte nei loro cenci; contadine del litorale estone-finlandese, e titolare delle provincie baltiche; ucraine nei loro costumi, e signore della nobiltà polacca; proprietarie di campagna della Siberia, ed operaie delle città; suore di carità, e donne equivoche; e poi artiste, letterate, studentesse; perfino una dottoressa polacca, rinchiusa nel campo per vendetta dal commissario, quel tristo polacco rinnegato.

     I vecchi non facevano che lamentarsi, invocare la morte, e scadevano a vista d’occhio, immiseriti, indifferenti alla sporcizia che saliva, attaccandosi a tutti. Migliori erano i giovani, uomini e donne. Ma, in una vita forzatamente comune, nonostante la lustra palizzata che avrebbe dovuto tener separati gli uomini dalle donne; fra gente obbligata a vivere in stretto contatto, accadde quel che doveva accadere: corruzione, immoralità, depravazioni dilagarono senza ritegno, come una epidemia morale, peggiore delle infezioni che scoppiarono più tardi. Non solo; ma gli stessi istinti, non più tenuti in freno, né coperti o dissimulati da amor proprio, rispetto umano, orpello di riguardi, i- pocrisia, in quel disfacimento morale di tutti, anche di coloro che più si sorvegliavano, scesero al livello dei più bassi impulsi della bestia umana.

     Lo psicologo avrebbe trovato non poco da meditare su quelle anime a nudo. Bassezze morali e viltà in persone stimate per dirittura e vita intemerata; manifestazioni di egoismo brutale in uomini raffinati, colti, religiosi, sui quali educazione, cultura, religione pareva fossero passate senza effetto; immoralità e vizio dilaganti nelle forme più basse e senza ritegno dal fondo della putredine. È vero che, accanto alle torbide bassezze, alle tristi ombre, vi erano pure anime cristalline che passavano incontaminate fra quel fango; e, racchiuse in se stesse, o rivestite di gioconda indifferenza apparivano tanto più alte. Ma al di là delle apparenze, al di là del bene e del male, quella che mi sembrava emergere nelle sue linee salienti, dal mondo femminile che mi circondava, era la psicologia della donna russa, in una sintesi inattesa.

     E, come a conclusione delle mie riflessioni, scrissi nelle mie note di quei giorni: «Vi è nella psicologia della donna russa qualcosa di tragico che essa fatalmente accetta, o subisce con rassegnazione. Eredità individuale o di razza; ambiente immutato per generazioni, o immaturità storica dell’Èva russa; scarsa influenza etica della ortodossia, o male assimilate forme della civiltà e cultura occidentale; queste od altre le cause, il fatto è incontestabile. Ed è in esso forse la ragione per cui la donna russa apparisce un po’ l’essere degli estremi…

     «Anime, che, a conoscerle, pare che non sappiano o non possano vivere altrimenti che in un continuo struggersi per l’irraggiungibile. Non il sogno roseo o mesto di un ideale lontano, alto o altissimo che sia; ma la disperazione di non poter avere quello che molte volte non esiste, poiché è soltanto il prodotto della loro immaginazione o dei loro sogni.

«È in questo struggimento la molla segreta della loro intima esistenza: di quella loro psiche, che a noi occidentali sembra tanto più misteriosa e seducente. Ma proprio per ciò, queste eterne Marie, nella dura prassi della vita, si mostrano inadatte, o divengono fragilissima cosa. E quella loro fantasia, che spesso le rovina; ma le mena non poche volte all’eroismo, non solo le nostre Marte, ma noi stessi uomini la diciamo morbosa; e non esitiamo a gratificare del titolo di «anormali», queste creature, anche dopo aver sentito tutta la suggestione, nel migliore e più nobile senso della parola, della loro mente e del loro cuore. Ma chi ci assicura che proprio quella loro «fantasia», quei loro inesausti desideri non siano proprio il «porro unum»?

     Questo era il campo all’inizio dell’inverno, quando i bolscevichi si preparavano a festeggiare, con l’anniversario della rivoluzione d’ottobre, il loro trionfo sulla reazione. Uno dei numeri dei festeggiamenti doveva essere la inaugurazione delle biblioteche e dei teatri dei campi di concentramento. Di Kolciàk, che aveva destate tante speranze nell’estate, non si parlava più, già disfatto ed in ritirata verso la Siberia. Denikin era in dissolvimento. Non rimaneva che Judénic’. Le giornate fra il 18 e il 25 ottobre furono vissute al campo in affannosa trepidazione. Speranze di una prossima liberazione, di cui ognuno possedeva il piano, (chi di fuga nel tumulto che sarebbe scoppiato, chi di liberazione per opera di comitati che si diceva si andassero formando), si alternavano con ore di abbattimento e di panico per le minacciate vendette della Cekà, la quale aveva dichiarato che, in caso di caduta dei bolscevichi, i detenuti dei campi di concentramento avrebbero pagato per tutti. Non si dormiva più; e quando corse la voce che Pietrogrado era caduta, ed a molti sembrò che il comandante e i suoi fidi non fossero del solito umore, e mancarono al campo il pane e la legna, fu un delirio. Ma durò poco. Il 27 ottobre Judénic’, giunto alle porte di Pietrogrado, ripiegava; i bolscevichi si riordinavano. E, alla inaugurazione del teatro, differita di otto giorni, «poiché nell’ora che la rivoluzione correva il supremo pericolo non vi poteva essere posto a divertimenti», il comunista Kirov, nel suo discorso di apertura, veramente teatrale, poteva affermare che l’idea della reazione era distrutta.

     Nessuno di noi stranieri andò alla inaugurazione del teatro. Ma vi si suonò e cantò molto l’«internazionale. Le pareti del teatro erano tapezzate dei più diversi manifesti di propaganda che l’«arte comunista » aveva sa-puto produrre: appelli alla lotta di classe; inni all’avvento del proletariato, all’opera di Lénin, anzi al suo capolavoro: la rivoluzione russa. Pare infine che gli artisti avessero faticato con impegno dinanzi al pubblico delle prime file, ed aspettassero la ricompensa della promessa amnistia. Questa però non venne che a metà novembre, e fu una delusione; furono liberati molti rei comuni, che, uscendo dal campo non avevano dove andare; molti commissari bolscevichi prevaricatori, che sarebbero tornati ai loro posti; nessun ostaggio, o detenuto politico. Gli artisti, quasi tutti ufficiali del vecchio regime o ostaggi, rimasero assai male; e la compagnia era per sciogliersi, se le autorità non avessero ravvivate le speranze con nuove promesse. Allora nell’attesa dell’inaspettato, «l’avós» russo, si ripresero le recite: due la settimana; la domenica per gli uomini e le autorità, il lunedì per le donne. Così aveva disposto il comandan¬te, per evitare che uomini e donne si trovassero insie¬me… al teatro. In realtà poi alla recita della domenica assistevano le autorità, gli invitati, gli uomini e quasi sempre la parte scelta delle donne, mentre la rappresen-tazione del lunedì era per i proletari, le guardie rosse e il resto.

     La moglie del comandante faceva, col miglior garbo borghese, gli onori di casa agli invitati, che erano ordinariamente i comandanti degli altri campi di concentra¬mento e le loro dame, i commissari, i redattori dei giornali comunisti, ai quali erano riservate le prime file; dava il segnale degli applausi; ma soprattutto non disdegnava di vedersi baciare la mano alla fine della rappresentazione, quando gli invitati si congedavano da lei. La posa che pigliava allora, la smorfia che le veniva sulla faccia valevano tutta una commedia; tanto più che questo succedeva spesso sotto gli occhi del marito, il quale aveva sempre manifestato il più proletario disprezzo per tali superstiti forme borghesi nel campo. E quelli che sapevano ciò, rincaravano la dose.

L’ingegnere francese, ad esempio, vi metteva cosi sottile ironia, accompagnando il baciamano con tale garbato saluto in francese, che il comandante non voltava più la faccia; ma, con tutta sollecitudine, ripeteva egli stesso « banjour missié » pronunziando il francese come i russi che non lo conoscono. Il volto di questo contadino che assaporava, in ogni modo, qualche primizia delle aborrite forme borghesi; quel senso di rispetto per lo straniero, che rimane in fondo all’anima di ogni mugik russo, fosse pur camuffato da comunista e lo spingeva, contrariamente alle sue dichiarazioni, a ripetere la frase francese di saluto, era quanto di più comico si potesse immaginare, era la vera commedia.

     Poiché quella che si recitava sul palcoscenico, an¬che quando era «tutta per ridere», era in realtà una tragedia, nella quale dovevo o finivo per intervenire io. Gli artisti e le artiste erano detenuti politici, cui soltanto la speranza della liberazione, più forte dell’odio che sentivano pei comunisti, spingeva a far da giullari dei nuovi signori delle prime file del teatro. Vi era un principe, altezza serenissima, a cui i bolscevichi avevano ucciso la moglie sotto i suoi occhi, perché, con atto forsennato ma spiegabile, al momento dell’arresto, aveva voluto strappare il marito a coloro che glielo portavano via. E quest’uomo, già vecchio, doveva suonare patetiche arie sul violoncello dinanzi ai carnefici della moglie, ed essi lo applaudivano. Vi era una giovane che, sui tratti bellissimi del volto, portava i segni di un dolore profondo. Le avevano giustiziato il fidanzato e il fratello entrambi ufficiali di Denfkin; il padre aveva potuto scampare alla stessa sorte con la fuga; essa, unica rimasta della famiglia, era stata presa come ostaggio pel padre. Era la prima attrice della compagnia. Vi era la moglie di un ufficiale di Judénic’, ostaggio pel marito; le avevano promesso che l’avrebbero liberata, dopo aver fatto giustizia del marito, se lo avessero trovato; intanto doveva recitare. Vi era una pianista che volentieri avrebbe suonato dei pezzi classici; dovette invece formare e dirigere i cori pel canto dell’«internazionale» col quale immancabilmente si aprivano e chiudevano gli spettacoli. Del coro poi facevano parte preti spogliati che conservavano ancora buona voce, ebrei, ex-ufficiali, studenti: tutto il più vecchio regime. Non vidi mai che vi partecipassero comunisti o qualcuno che si qualificasse tale. Vi era un colonnello d’artiglieria che aveva perduto l’udito durante la guerra, soffriva di fortissimi dolori articolari; ma, nonostante la sua rovina, conservava ancora certo spirito umoristico. Lo presero per fame e, con la promessa di un supplemento di razione giornaliera, ne fecero il brillante della compagnia. Ora tutti questi poveri esseri non reggevano, molte volte, allo sforzo di tenersi insieme. E se le artiste spesso nascondevano l’una l’altra le proprie miserie, io viceversa le conoscevo tutte; e, dietro la maschera del sorriso, vedevo lo spasimo della sofferenza. Quante volte negli intermezzi, fra una scena comica e l’altra, erano singhiozzi e dolori! E quante volte, finita la rappresentazione, a tarda notte, mi vedevo nell’infermeria povere donne fuor di sé, in preda alla disperazione, perché non l’attesa liberazione era stata loro annunziata, ma l’esecuzione di una persona cara, il rinnovo del giudizio, la minaccia di maggiori pene se non avessero fatto le confessioni che si volevano. Vi èra una commissaria della Ceka, una ebrea, la quale con le donne era così crudele, di tale raffinata barbarie, da dar loro le peggiori notizie sempre al teatro e fra un atto e l’altro. Quando la vedevo arrivare prevedevo crisi nervose generali, e non m’ingannavo mai. 

      Il teatro andò avanti con gli artisti, gli amatori e i dilettanti  che non mancavano mai tra i reclusi nuovi arrivati. E ve ne erano talvolta proprio di singolari. Arrivò fra le ultime una signora di nazionalità assai complicata, perché contava al suo attivo due divorzi con stranieri ed una vedovanza, e parlava tre lingue, benché una peggiore dell’altra. Il cognome però era russo: si chiamava Svietovostóc’naja, come chi dicesse luce d’oriente; al campo si finì per chiamarla «M.me Ex oriente lux». Era vestita da suora di carità, tutta di bianco; aveva bianca perfino la faccia, per l’abbondante cipria che si dava; portava una enorme croce rossa sulla cuffia bianca; e, fra tanto candore, cominciò a cantare al teatro le più scollacciate canzoni da caffè concerto ed a sgambettare con una mimica che proprio con la Croce Rossa non aveva nulla da vedere. Fece furore, tanto che finì per provocare il mio in-tervento d’urgenza presso due pretendenti ed attori che si conciarono una sera assai male in un rustico duello prima dello spettacolo.

     Col teatro, il campo ebbe pure la biblioteca: un migliaio di volumi presi alla rinfusa nella biblioteca di un palazzo aristocratico di Mosca, «nazionalizzato» cioè divenuto res nullius. Nella scelta, affidata a due squadre di proletari, che avevano pensato assai più a portar via oggetti di più tangibile valore, anziché libri per il campo, erano capitate opere intere e volumi scompagni, edizioni rare e minuteria, libri russi e stranieri di storia, letteratura, filosofia, religione, viaggi. Volkónskij, curatore della biblioteca, lavorò una decina di giorni ad ordinarli. Il comandante, che leggeva appena il russo, li esaminò, appose accanto agli ex-li- bris il bollo con la falce ed il martello; ed il pubblico fu ammesso ad usufruirne. Vi trovai il Convito di Dante, le Lettere di Annibal Caro e la Città Morta di D’Annunzio nella traduzione francese. Mi fe¬cero pena, ed avrei voluto bruciarli, dopo averli riletti, per sottrarli alla prevedibile sorte di tutti gli altri libri ed, in generale, di tutto quello che c’era al campo, quando poi si fosse chiuso. Da principio la biblioteca fu molto frequentata, era una specie di circolo degli intellettuali del campo. Ma sospettata per questo, di divenire facile centro di complotti, fu invasa da spie; e finì ad uso e «consumo» dei proletari.

     Il nutrimento dello spirito però non migliorò le condizioni morali del campo, che scadevano sempre più, di pari passo con lo stato materiale, che fra poco, mi pareva, sarebbe arrivato al limite della anabiosi. E pure si ripeteva da tutti, dai reclusi liberati ai medici della Sanità, che nel campo si stava meglio che fuori, e che il nostro campo si trovava in condizioni migliori degli altri. Che cosa allora dovessero essere gli altri, non oso neppure immaginarlo!

Con l’avanzata dell’inverno, crebbero le malattie: scoppiò una epidemia di influenza, s’ammalarono quasi tutti, primi, noi medici e gli infermieri, e si ebbero le prime morti. Morì, la sera stessa dell’arrivo all’infermeria, un povero vecchio settantenne, ex-generale zarista, ostaggio di Pietrogrado, sottoposto durante l’arresto ed il viaggio a tormenti di ogni specie. Avevo potuto appena osservarlo sommariamente, che qualche ora dopo finì.

     Seguirono altri pressappoco nelle stesse condizioni. Queste morti mi impressionarono; mi pareva che non avessi fatto abbastanza per prevenirle. Ma dovetti ricredermi dei miei scrupoli, quando parlando col comandante, mi vidi preso in giro. Il comandante si doleva soltanto di non avere pronte le casse per spedire subito i morti « al diavolo ». Ed i morti rimasero perciò diversi giorni nell’infermeria in una stanza accanto alla mia. Vennero le casse, ed il comandante tutto contento mi disse che ne aveva ordinate molte per averne sempre pronte «per tali parassiti». Fu questo l’estremo saluto a quei poveri morti. Vi fu un giovane soldato, del quale non si sapeva altro che era un lettone; aveva già una febbre altissima e delirava, quando giunse al campo verso sera, perciò era stato mandato all’infermeria. Io uscivo appena dall’influenza, eccitato, insonne ed infiacchito. Lo sentii gemere fino a notte alta, poi tacque. La mattina mi levai prestissimo, quasi spinto da un presentimento, e andai a vederlo. Era morto e già freddo. Giaceva prono, le gambe flesse e sollevate, irrigidito, stringeva fra le mani come in una morsa, un orciòlo con un po’ d’acqua che forse aveva cercato di portare alla bocca per estinguere la sete della febbre. In quell’atto la morte lo aveva colpito. Il viso magrissimo, i pomelli sporgenti, i muscoli della bocca contratti come in un ghigno, gli occhi aperti fissi, vitrei gli davano un aspetto che faceva pietà e spavento insieme. E vennero dopo questi altri ed altri casi sempre più dolorosi, e giornate sem¬pre più tristi, nelle quali non il lavoro cresciuto, pel numero dei malati aumentato; né le letture a me care, né le conversazioni coi francesi riuscivano a distrar-mi e sollevarmi.

     È vero che lo stato del campo peggiorava sempre, con l’aggiunta della immensa pietà dei nuovi ostaggi; delle visite improvvise della Ceka nelle ore della not¬te; della impossibilità di uscire più; del vitto sempre peggiore, se poteva ancora peggiorare il cattivo e scarso che avevamo: tutte cose che non potevano influire su di me. Cominciai pure a provare una stanchezza non so più se fisica o morale, che mi pareva salisse dal fondo del mio essere, ed una svogliatezza che fino allora non avevo mai sentito. E certi brividi che mi venivano di tanto in tanto; lo scadimento fisico che aumentava; le voci che il tifo esantematico si diffondeva minaccioso, mi parvero i prodromi di quella quiete a cui credevo aver diritto. Non lo dissimulai al dottor Haikin, che mi rimproverò, e mi disse di leggere e pensare meno e lavorare di più. Ma, come lo potevo; se proprio il lavoro che mi aveva sempre salvato era divenuto per me un peso?

     In novembre e dicembre continuarono ad affluire al campo prigionieri ed ostaggi. Ne arrivavano ogni giorno a decine, ma così esauriti, specialmente i pri¬gionieri, dagli stenti, dalla fame, dalle sofferenze, che s’ammalarono immediatamente e la maggior parte morivano. Di cinquantatrè ostaggi di Riga e Pskov, pochissimi giunsero al campo; gli altri erano morti per via di vaiuolo, tifo esantematico, fame. Alcuni ufficiali presi sul fronte di Denikin arrivarono così laceri e in tale stato di magrezza e sporcizia da fare impressione a noi che nella sporcizia affondavamo, e ci pareva non si potesse andar più in là. Un treno sanitario, che veniva dal Volga, aveva dovuto fare per via lunghe soste pel numero sempre crescente di malati e di morti di tifo; i medici, gli infermieri e le suore di carità, a metà del viaggio erano già morti; i cadaveri, che da prima erano stati buttati dal treno, furono poi lasciati nei carri; e su di essi, che si erano congelati pel freddo, si erano adattati i superstiti, come su sedili, vi avevano dormito sopra, ed erano arrivati così a Mosca. In città vi era già il vaiuolo, il tifo esantematico verso la fine di novembre dilagò e crebbe rapidamente.

     In dicembre il campo era un miserando spettacolo di gente lacera, sporca, miserabile. Gli insètti pullulavano su quei corpi consunti. Vi erano i bagni, ma non era possibile servirsene più di una volta al mese per mancanza di legna; e d’altra parte diventavano una cosa inutile, dal momento che i reclusi non potevano cambiar la biancheria, o dare almeno a disinfestare i loro cenci. Quando tentavo di parlare di igiene, la gente mi rideva in faccia, quasi meravigliandosi della mia ingenuità. Ma il Commissariato di Sanità insisteva, perché qualcosa si facesse, altrimenti i campi di concentramento, nell’interno della città, sarebbero diventati altrettanti focolai di epidemie.

     La Sanità aveva tali fisime; ma la Cekà se ne rideva. In una riunione col comandante e i suoi aiuti, proposi, in mancanza di meglio, che i nuovi arrivati si tenessero per un certo periodo, isolati sotto osservazione; e per quanto era possibile, si separassero i reclusi un po’ meno sporchi e che non si rifiutavano di seguire certe norme igieniche, dagli altri che affondavano nel lerciume. Il vicecomandante mi rispose che io volevo, a questo modo, separare i proletari dai borghesi; e che alla fin fine, quando fossero morti tutti gli internati nei campi di Mosca, alla rivoluzione non ne sarebbe venuto che bene, perché si sarebbe liberata di altrettanti nemici. E, coerente alle sue parole, riordinò il campo a modo suo. In una settimana le poche stanze e l’infermeria, che fino allora erano miracolosamente rimaste indenni dagli insetti, ne furono zeppe. Nulla avrebbe ormai salvato il campo dal tifo esantematico. E se ne ebbero presto i primi casi insieme al vaiuolo nero, alla spagnola, al carbonchio. Quando il vicecomandante vide il risultato della sua opera, perché egli stesso fu pieno di insetti e fu preso dallo spavento della morte, volle correre ai rimedi e tornò umilmente da me. Ma era tardi. Allora pensò alla propria salvezza, ed ottenne di essere mandato altrove.

     Si era aperto intanto un ospedale centrale pei malati contagiosi di tutti i campi di concentramento. Ma da una parte i malati imploravano di non esservi mandati, perché lì non vi erano neppur letti, e i malati erano messi per terra sulla paglia; dall’altra non era facile inviarvi i malati per mancanza di mezzi di trasporto. Ciò nonostante, l’ospedale presto si riempì, con la aggravante che s’ammalarono pure medici ed infermieri. Allora fu ordinato che non vi si inviassero più malati, ai quali avrebbero dovuto provvedere le infer¬merie dei campi. Avemmo dalla Sanità una cassa di biancheria, che fu affidata a me con pochi medicinali, del sublimato, della canfora, e dello iodio; e con questa scorta ci apparecchiammo a far fronte all’epidemia di tifo, che spaventava assai più me che i reclusi! Non che avessi paura di contagiarmi; lo pensavo, ma non me ne preoccupavo; pensavo invece con orrore ad una epidemia in quella sentina che era il campo. I reclusi, meno qualcuno, tra l’indifferenza e il fatalismo dei più neppur se ne davano pensiero; si divertivano anzi più che potevano fra la biblioteca e il teatro, trasformato nelle ore diurne in sala da ballo.

   I primi casi di tifo esantematico, contrariamente alle nostre previsioni, guarirono. Questo ci diede coraggio, e continuammo senza risparmiarci. Molte recluse si offrirono volontariamente come infermiere, e fecero miracoli; un ingegnere e due ex-ufficiali, intelligenti, pieni di buona volontà, obbedientissimi, mi assiste¬rono come sanitari. Con questo personale il nostro lavoro di medici divenne meno duro; il comandante ci lasciò piena libertà; potemmo perfino mettere mano ad una cosiddetta disinfezione del campo, a cui tanto teneva la Sanità. E le giornate brevissime, e piene di lavoro, volavano.

     Verso la metà di dicembre, un giorno m’ero appena levato, che un’infermiera venne a dirmi che una donna, giunta allora al campo, chiedeva di vedermi. Mentre pensavo chi potesse essere, mi vedo innanzi la Hólmskaja. Provai una gioia grandissima nel rivederla; potei solo gridare: «Dunque qualche volta si esce vivi dall’Osóbyj Otdiél?». «Sì, disse lei; ma dopo quanti orrori ancora». Era sfinita per le notti passate fra arrestati quasi tutti menati al supplizio; per la fame; pel lungo cammino fatto per ritornare al campo. La risto¬rai con un pezzo di pane e un po’ di tè caldo. Quel giorno stesso tornò al suo posto all’infcrmeria. Era stata chiamata alla Cekà, per errore da omonimia; ma c’era voluto un mese, perché lo sbaglio fosse chiarito e lei avesse scampata la pena capitale, a cui la sua omonima era stata condannata.

    Questo inaspettato ritorno dissipò un poco la grigia atmosfera della mia crescente tristezza. Uscii dal mio isolamento misantropico; tornai qualche volta alle conversazioni coi francesi; e non potendo più neppur passeggiare nel cortile per la neve già alta, finii per cedere alle insistenze di un tedesco, di far con lui un’o¬ra di ginnastica svedese al giorno. Ogni pomeriggio questo ex-granatiere della Pomerania, alto, quadrato, rubicondo, nonostante le privazioni e i 60 anni suonati, veniva puntualmente a prendermi alla infermeria; dovevo sospendere il lavoro, e con un gruppo di altri volenterosi, seguirlo nei suoi esercizi fisici ai quali fa¬ceva una propaganda da apostolo, ed attribuiva di essersi conservato alla sua età ancora florido ed in buona salute.

     Così, giorno per giorno, il 1919 volgeva al termi¬ne. Venne il Natale fra la tristezza generale e lo scon¬forto di tutti. Ebbi lettere dei figli. La signorina Naknétschnaja mi venne a vedere e mi portò un ciclamino in fiore. Venne ancora pel Capodanno; ma era febbricitante. Un pensiero funesto mi traversò la mente; se fosse già malata di tifo? Mi sforzai di scacciarlo; ma tornava insistente ad accrescere la mia tristezza. Pure bisognava aver forza! Era stato questo l’augurio che ci eravamo scambiato, il 31 dicembre a sera, un gruppo di reclusi: l’unico che ci fosse ormai consenti¬to. E col desiderio di aver forza e fede, aggiungevo io fra me, incontrammo il Capodanno del 1920 al campo.

     Ai primi di gennaio cominciai ad avvertire dolori alle braccia, alle spalle e alle giunture; li attribuii alla stanchezza dei muscoli, d’ordinario inerti, che io sottoponevo forse ad eccessiva fatica con la ginnastica svedese; e pensavo quasi di smettere, quando il 9 gennaio fui preso da brividi seguiti da febbre alta. Credetti si trattasse di un raffreddore; ma la febbre non scese; ed il terzo giorno comparvero le tipiche macchie sulla pelle: segno non dubbio che si trattava di tifo esantematico. Il dottor Hàikin, nell’intento pietoso di dissimularmi la verità, specie i primi giorni, sofisticava sulla diagnosi, sul posto e sul tempo della comparsa dell’esantema; ma inutilmente.

     La forma era grave, glielo dissi io; e gli dissi pure che la malattia non mi spaventava, né il probabile esito; ero disposto a tutto. Tanto disposto, che gli affidavo una lettera per i figli da rimetter loro dopo la mia morte. Pregai poi Volkónskij e l’ingegnere francese di leggermi il «De profundis » negli ultimi istanti. Alla Hólmskaja chiesi che mi ponesse al collo una piccola croce, che era stata di mia madre ed avevo cara, e volevo esser seppellito con essa. Fatto ciò mi acquietai e attesi la morte. Voglia Iddio concedermi una simile serenità e rassegnazione quando l’ora sarà venuta. Allora il distacco dalla terra fu completo. Nei giorni che precedettero il coma, parlavo della malattia; seguivo e studiavo i sintomi nel loro aggravarsi come se non si trattasse di me, a tal punto il mio spirito si staccava dalla terra. La febbre fin dall’inizio fu elevata; il polso debole; la mente, nella prima settimana, più che lucida, quasi mi trovassi in uno stato di esaltazione psichica, specie le prime notti passate nella insonnia completa. Poi sopravvennero violentissime e dolorose contrazioni cloniche, che cominciavano alle gambe e si diffondevano a tutto il corpo; erano così forti che mi facevano scattare come una molla, ed erano accompagnate da profuso sudore, dopo il quale la febbre, invece di cadere, continuava a salire. Poi la testa cominciò a farsi pesante, a martellarmi sempre più forte; la vista si annebbiò, sì che le persone che mi stavano intorno le vedevo come ombre sempre più vaghe; la coscienza, sempre meno chiara si offuscò e scomparve. Ultime scomparvero le impressioni uditive; le note del pianoforte del teatro, le quali attraverso la sottile parete che separava l’infermeria dal teatro, mi giungevano ancora, quando avevo già perduto fin la percezione della luce; ma mi pro¬vocavano una sofferenza fisica, come di battiture. Poi anche questo residuo di coscienza disparve e caddi nel coma profondo. Furono i giorni in cui, mi dissero poi che io pronunziavo sconnesse parole italiane, o ridevo come ebete, e dei quali non ho che il ricordo di allucinazioni. Una volta mi parve di esser diventato piccolo piccolo, e dover reggere con le mani esili e scarne due immensi globi scuri, che mi opprimevano fin qua¬si a schiacciarmi. Un’altra volta mi trovavo in una val¬le scura, ed altissime lingue di fuoco di color giallo si sollevavano da essa. Seguì una danza di folletti che sbucavano a frotte da una viuzza dietro il mio letto, mi circondavano e non ristavano dal danzarmi intorno sogghignando. E venne infine la cavalcata della morte. Mi vidi in groppa di un cavallo nero, che prese a galoppare per un sentiero erto e stretto, il quale a destra costeggiava una rupe altissima ed a sinistra dava su un precipizio profondo. A misura che salivamo, io ed il cavallo diventavamo più piccoli. Finalmente arrivam¬mo ad una porta e ci fermammo; di dentro vedevo rilucere delle fiamme vive, di fuori non vi erano che le tenebre nelle quali mi trovavo. Non so se questa fu veramente allucinazione o « specchio dell’enigma »; a me parve di essere al limite della vita, e provavo una grande gioia all’idea della luce che era per disvelarmi- si. Forse fu allora che dissi alla Hólmskaja: muoio. Il polso non batteva; la suora rispose che non sapeva più che fare; era notte alta; tutto il giorno mi aveva fatto iniezioni di canfora caffeina e digitale. Le dissi che mi iniettasse ancora della canfora, e mi desse a bere dell’acqua tiepida. Appena il polso ricominciò a battere, la suora corse a chiamare un recluso medico arrivato al campo con gli ultimi ostaggi, ed ottenne pure dal comandante che si chiamasse il dottor Hàikin. Ricordo queste ombre che si muovevano intorno a me in quel consulto notturno in extremis. Fu forse il solo momento di lucido intervallo durante il coma, nel quale poi ricaddi. E ripresero i sogni. Vedevo estese pianure assolate e colline verdi e cani neri che dormivano qua e là. Di tanto in tanto queste visioni, le più lunghe di tutte, erano turbate da sensazioni dolorose di punture che mi pareva fossero fatte ad un altro, non a me. In questo stato di sdoppiamento della persona, uscii dal coma. Riconobbi la suora non più spaventata, come la notte del consulto, ma sorridente, la quale mi disse: «Abbiamo tremato per voi»; riconobbi il dottor Hàikin, che non credeva a se stesso vedendomi vivo. Dodici giorni la temperatura si era mantenuta fra 40° e 41° gradi; sette giorni li avevo passati in coma; la minaccia del collasso era stata continua, e più forte alla caduta per crisi della fabbre; infine una dissenteria sopraggiunta aveva reso anche più grave il mio stato. Cessata la febbre, dormii ancora due giorni, poi mi svegliai; ma lo sdoppiamento della persona durò ancora a lungo, e i dolori delle punture delle iniezioni divennero insopportabili trafitture.

     Tornato alla vita, quando il corpo giaceva ancora inerte, perché il più piccolo movimento mi dava dolori acutissimi, a causa di miositi diffuse e di due decubiti, dovetti non solo riabituarmi al mondo che mi circondava (uomini e cose mi sembravano nuovi, quasi li vedessi per la prima volta), per credermi veramente vivo; ma mi dovetti pure riabituare alla esistenza del mio corpo, come parte integrante di me, poiché avevo la sensazione come di esserne distaccato e di andarne ripigliando possesso a stento. Finalmente l’incubo del « doppio io », cessò; ma sopravvenne una straordinaria apatia ed un disgusto per tutto. Nemmeno la notizia della liberazione che mi fu data appena ripresi coscienza mi fece impressione. Neanche un primo raggio di sole che, di mezzo al velame delle brume rossastre arrivò un mattino lino a me, mi allietò. Si aggiunse a questo una ripugnanza pel cibo tale, da farmi rifiutare financo i pochi grani di zucchero che mi davano giornalmente, e da far temere che, superato il tifo, non morissi per inanizione. Ero ridotto a un mucchio di ossa; e se per poco provavo a sollevarmi, la testa mi cadeva sulle spalle. Ma non era giunta la mia ora, e mi avviai verso la convalescenza. Seppi che, mentre vagavo nel mondo dei deliri, o battevo alle porte dell’eternità, cuori umani palpitavano per me. Ero solo, sconosciuto ai più, straniero, gettato dalla tempesta fra esseri provati anche più di me dal dolore; e vi fu una suora che per nove notti, senza risparmiarsi e sfidando il contagio, rimase al mio capezzale; un medico che per ore intere mi fu vicino, non occupandosi che di me; vi furono reclusi che parecchie volte mi mandarono del latte; vi fu Volkónskij che veniva ogni giorno a vedermi, e pianse quando non lo riconobbi più; vi furono le recluse di Pietrogrado che nei giorni più gravi della malattia fecero preghiere per me. Molti, quando si temeva da un momento all’altro l’esito letale, non ebbero la forza di chiedere al dottor Hàikin o alla Hólmskaja notizie di me, per timore di non averne la nuova. I francesi appena cominciai a mangiare mi mandarono il più che poterono. Ebbi tali prove di bontà da tutti; trovai in tutti tanta carità per me che rinascevo alla vita, tanto desiderio di volermi in qualche modo aiutare, che non posso ricordarmene senza viva commozione.

     Perfino la commissaria ebrea, cosi cattiva con le donne, ebbe per me sentimenti più umani: si compiacque della guarigione, e mi disse che sarei potuto rimanere al campo, nonostante la liberazione fino a quando non mi fossi rimesso in forze. Le quali mi tornavano lentamente, assai più tarde della coscienza, mentre intorno a me il tifo faceva strage. Alle forme lievi erano succeìdute forme sempre più gravi, come se la virulenza dell’infezione si fosse rinforzata dopo i primi passaggi al campo; vi erano state fin delle forme fulminee della durata di qualche giorno. Morirono, fra gli altri, l’ingegnere francese Havard-Duclos ed il buon Burchardt il tedesco della ginnastica : l’uno e l’altro non sognavano che tornare in patria e di questa speranza avevano vissuto al campo.

     Un giorno finalmente mi alzai, e feci il giro del letto, tenendomi attaccato ad esso, come un bambino che fa i primi passi; barcollai, ebbi capogiri e sudori freddi; ma lo sforzo era riuscito. Dopo il letto, feci il giro della stanza, tenendomi alle pareti, provai ad uscire nel corridoio. Poi tornò il sole: il sole invernale del nord che illumina, ma non riscalda; era tuttavia il sole che sco¬priva un lembo d’azzurro, quasi una promessa.

     Il 14 febbraio, adempiute le formalità richieste, uscivo dal campo e, dopo otto mesi, riacquistavo la libertà; se libertà poteva dirsi il passaggio da una cella d; rigore a quel carcere comune, che erano allora Mosca, Pietrogrado e la Russia tutta.

16. LA LIBERAZIONE. PIETROGRADO E

MOSCA. LA PRIMAVERA DEL 1920.

LA PARTENZA DALLA RUSSIA

     Se l’arresto fu per me inaspettato, non meno inaspet¬tata giunse la liberazione, e quasi inesplicabile, dopo la decisione di settembre della Ceka. Fatti che avessero potuto influire a mio vantaggio non ve ne erano stati nel frattempo. Durante la mia malattia era stato bensì rilasciato il consulente legale della Legazione Svizzera; ma verso la Svizzera neutrale, i bolscevichi non avevano i motivi di rappresaglia che accampavano contro i paesi già alleati della Russia.

     Strano poi il modo come me ne fu dato l’annunzio. Ebbi dapprima, il 21 gennaio, una comunicazione diretta a me personalmente dal Commissariato per gli Affari Esteri, con la quale mi si informava che « appena gua¬rito » sarei stato messo in libertà. Tre settimane dopo, il 12 febbraio, la Cekà mi faceva sapere che ero stato rimesso in libertà. Fu allora il Commissariato per gli Affari Esteri, informato forse della gravità della mia malattia e del prevedibile esito mortale, ad indurre la Cekà ad un atto di clemenza che essa non avrebbe altrimenti compiuto? Ed era concepibile un atto di clemenza dalla Cekà?

     Uscito dal campo, pareva che potessi tornare subito a Pietrogrado. Invece ci vollero ancora non poche formalità per essere dichiarato definitivamente libero. Ebbi dalla dottoressa Nakonétschnaja le poche notizie che durante la mia malattia era riuscita ad avere dei figli. Pare stessero bene; ma soffrivano per il freddo. Ancora una perquisizione era stata fatta nell’appartamento, ed era stato portato via il resto. Impossibile per allora saperne di più: la corrispondenza metteva da due a tre settimane, tra andata e ritorno; telegrammi privati non sempre si poteva spedirne.

Nel frattempo, dal pastore della Chiesa anglicana di Mosca, unica via per la quale era possibile far arrivare soccorsi in Russia, ricevetti un pacco di vestiario, biancheria, viveri, inviato per me dal ministro d’Italia a Copenhaghen. Fu un tesoro, poiché non mi era rimasto che qualche straccio; ma fu, soprattutto per me, un conforto morale immenso, poiché era la prova che in Italia si sapeva del mio stato, e si cercava di aiutarmi. Non avevo dunque sperato invano, durante otto mesi.

     Alla fine di febbraio, ricevei una lettera di Michele. L’avevo tanto aspettata, che già averla fu una gioia per me. Brevissima gioia purtroppo. La prima notizia che mi dava era che Mara era stata colpita dal tifo esantematico. Il dottor Cesckóv dell’Istituto mi scriveva contemporaneamente che il tifo era di forma leggera e faceva il suo corso regolare, ciò che lasciava sperare un esito favorevole, data anche l’età della piccola inferma. Volli credergli: ero guarito io, come non sarebbe guarita una bambina! Dopo due giorni, invece dell’annuncio’ della crisi superata, un telegram¬ma di Michele mi annunziava la morte di Mara. In una seconda lettera Cesckóv mi parlava della malattia aggravatasi repentinamente, e dell’eroica assistenza fatta da Michele anche lui malato, alla povera sorella.

     E i bolscevichi mi tenevano a Mosca. Finalmente ebbi il permesso di « recarmi a Pietrogrado per prendervi mio figlio malato » coll’obbligo di tornare al più presto a Mosca; e, per mezzo della Balabànova, una specie di lasciapassare pel viaggio, e per non essere poi arrestato a Pietrogrado.

Arrivai a Pietrogrado il 15 marzo. Feci il tratto dalla stazione a casa col batticuore: Mara non c’era più; ma Michele? E se la malattia avesse volto al peggio anche per lui? E se l’avessero portato all’ospedale? E se…? Giunto a casa non ebbi la forza di salire le scale, nel dubbio che Michele non vi fosse più. Mandai a vedere, e, quando sentii la sua voce, feci le scale correndo, e fummo nelle braccia l’uno dell’altro. Povero figlio, in che stato lo trovai, tra le sofferenze, la malattia, il dolore della perdita della sorella, l’in¬digenza! Era ancora febbricitante e mal coperto da un mio vecchio vestito lacero. Gli avevo portato da Mosca il più che potei del pacco; lo vestii quasi a nuovo; gli detti da mangiare.

     E la casa come era ridotta! Invasa tre volte da sac¬cheggiatori che avevano rubato tutto, e perfino deriso cinicamente il dolore di due poveri fanciulli; poi visi¬tata dalla morte; era rimasta vuota, fredda, sudicia da far ripugnanza insieme.

     Più nulla: non affetti; non cose di questi affetti simbolo o ricordo, che potevano parlare solo a me, ed erano state contaminate, rubate. Che schianto! Non ebbi l’animo di toccar più nulla di quello che avevo avuto tanto caro. Gettai al fuoco le cose scampate allo scempio; ma non sfuggite alla profanazione dei bruti; financo i ricordi che la povera Mara, soleva raccogliere in un giornale che trovai gualcito e sporco fra i cenci.

     Partire di là con Michele subito, fu l’idea che mi venne prima alla mente; ma non potei farlo. Per sfug¬ire all’arruolamento forzato, che i bolscevichi facevano di tutti gli stranieri di età superiore ai sedici anni, Michele era dovuto entrare come volontario telefonista in un reparto della guarnigione di Pietrogrado; e non fu facile tirarlo fuori.

     Dovetti fermarmi perciò quasi un mese a Pietrogrado, e, non avendo la forza di rimanere a casa, accettai la proposta del dottor Usciakóv di andarmene all’Istituto. Fu una festa per tutti il rivedermi. Il consiglio si riunì per rallegrarsi con me del ritorno. Ebbi una stanzetta al Servizio Antirabbico; e tutti mi vollero di volta in volta a pranzo, o al tè. Vi era poco o nulla da mangiare; ma non si vive di solo pane; e il calore dell’affetto da cui ero circondato e del quale sentivo tanto bisogno, mi compensava largamente del poco e povero cibo.

     E tornai al lavoro; la mia stanza al laboratorio di anatomia patologica spirava l’aria tranquilla, quieta, ordinata dei recessi della scienza. Sul mio tavolino ogni cosa si trovava come l’avevo lasciata nove mesi prima: i reattivi, i colori, gli strumenti, il microscopio, ed accanto, l’ultimo preparato istologico allestito; una sezione di timo, lasciata ad asciugare, come facevo d’ordinario, fino all’indomani. Ed il domani erano sta¬te la prigione e nove mesi di dolori.

     A Pietrogrado rividi Fratini, il dottore Goldberg, le suore dell’ospedale Maximiliànovskij. Tutti, oltre quel che avevano fatto per me, avevano avuto pensiero pei figli. Il dottore Goldberg specialmente e le suore, dopo la mia partenza per Mosca, li avevano aiutati quanto avevano potuto.

     Ma anche il povero Goldberg ne aveva passate! Suo fratello medico, direttore di un ospedale militare, giustiziato sommariamente dalla Cekà; egli stesso arrestato l’autunno del 1919. Durante la prigionia aveva assistito a non poche scene tragiche, ed a qualcuna anche assai edificante, come la spartizione di una collana di perle provenienti da una perquisizione, che i commissari facevano tra loro, mentre interrogavano lui ed altri arrestati. Era stato interrogato pure su di me, sulle nostre relazioni, fin sull’origine di esse. Goldberg, che aveva incontrato fra i commissari un suo cliente, gli chiese allora perché si indagasse soltanto su di me.

 Gli risposero che il «mio patriottismo, noto a tutti», mi avrebbe spinto ad «atti di spionaggio a favore della mia patria, di che si avevano indizi più che fondati».

     Lasciamo stare il mio patriottismo, che non era roba per loro. Rimanevano gli indizi; e questi c’erano; e tali, da accreditare sospetti contro di me non pure presso i bolscevichi, in preda alla ossessione continua di complotti e spionaggi tramati a loro danno; ma anche presso giudici meno prevenuti. E, coi fatti, un insieme di circostanze, che apparivano così connesse fra loro, da dare solido fondamento ai sospetti. Se non che, non sempre i fatti apparenti o i sospetti fondati, rispondono alla verità; ed allora possono condurre non alla storia vera o verosimile, ma alla leggenda, la quale nel mio caso per un punto non fu per riuscire fatale alla signorina Nósikova ed ai suoi. La Nósikova era stata arrestata prima di me, insieme ad altre compagne d’ufficio della censura militare, per sospetto di spionaggio. Nella perquisizione fatta a casa sua, furono trovati libri e scritti italiani, particolare notato dagli agenti della Ceka, ma senza darvi soverchia importanza; ed uno schizzo sul posto delle navi russe a Kronstadt alla fine di maggio, che il fratello le aveva fatto desumendolo dalla lettura dei giorna¬li. Interrogata su questo schizzo, la signorina aveva risposto la verità: cioè che si trattava di un disegno ricavato dalle notizie che gli stessi giornali bolscevichi avevano pubblicato. I commissari non parvero crederci troppo; ma, siccome null’altro era risultato a carico di lei, si parlava di metterla in libertà, quando inaspettatamente fu inviata alla Spalérnaja e sottoposta ad un nuovo interrogatorio. Nel quale le domande stringenti riguardavano me; miravano ad ottenere categoriche risposte sulle sue relazioni cop me. In caso di rifiuto a parlare, la si minacciava delle più rigorose misure, perfino della tortura. La Nósikova, pur intuendo che nuove cose dovevano essere accadute, tanto più che la si intimidiva, dicendole che tutti gli altri, la sorella cioè e il fratello di lei arrestati, avevano parlato, e che lei inutilmente si ostinava a non dire la verità, nulla cambiò delle risposte precedenti, perché nulla aveva da cambiare. Fu messa a digiuno, tenuta tre giorni nella cella di rigore, minacciata di morte; ma senza risultato. In questo mentre, io ero menato a Mosca, e lei mi vide nel cortile della Spalérnaja fra i partenti. Allo¬ra essa si spiegò il nuovo interrogatorio subito, e le domande su di me; capì, o seppe, che io ero mandato altrove. Ma quale la causa del mio arresto, che fondamento avessero i sospetti sulle nostre relazioni, per quanto cercasse, non riuscì a venirne a capo. Vi riuscii io, invece. Perché, a questo punto del racconto che lei mi andava facendo, quando la rividi, e mettevamo in¬sieme i ricordi comuni, mi sovvenni di un particolare della perquisizione del 2 giugno a casa mia che spiegava i sospetti e il resto. Fra gli oggetti sequestrati, vi era il mio taccuino nel quale, fra gli ultimi appunti, ve n’era uno a parole abbreviate in italiano col nome Nósik, ed il numero di telefono dell’ufficio, perché lei non aveva il telefono a casa. Il taccuino, come era da prevedere, era stato accuratamente esaminato; e l’esame aveva menato alla scoperta della « prova sicura » delle relazioni della Nósikova col Console d’Italia. Ed allora: la conoscenza dell’italiano e i libri italiani che essa aveva; lo schizzo sulla posizione delle navi fatto dal fratello, ufficiale di marina, e dimenticato «come per caso», di quale nuova luce non s’illuminavano, e che prova a lor volta non costituivano della fitta rete di spionaggio che noi stranieri tessevamo intorno ai bolscevichi il 1919? È vero che a chi avesse avuto il fiuto un po’ fino, uno spionaggio così all’aperto sarebbe parso fin troppo ingenuo. Ma i bolscevichi non era¬no gente da sottilizzare: i fatti c’erano. Ed allora si riaprì l’istruttoria contro la Nósikova, con raggravante di spionaggio a favore dell’Italia; la si mise alle strette minacciandola di morte, come si mise alle strette il fratello che avevo incontrato alla Spalérnaja.

     In questo stesso tempo, pure alla Spalérnaja, ed in modo somigliante, si cercava di estorcere confessioni alla signorina Nakonétschnaja, promettendole la libertà immediata se confessasse, le pene più gravi se si ostinasse a «mentire» sul mio conto. Ma pure lei si ostinò a «mentire» e fu mandata a Mosca.

     Ed ecco in che modo da «fatti inoppugnabili» veniva fuori la « leggenda » del mio spionaggio; come tante altre, sorte durante la rivoluzione russa da altri fatti non meno «evidenti e palmari». La verità era molto diversa, assai più semplice, tanto che a dirla allora nessuno vi avrebbe creduto; ed era questa. Appena cominciai a ripigliarmi dopo l’ultimo e più violento attacco di appendicite, come ho detto, andai dal dottore Goldberg per metterci d’accordo sull’opera-zione, ed andai anche per l’ultima volta al Consolato che affidavo al viceconsole Fratini. Era il 29 maggio del 1919. Sulla via Morskàia, poco lontano dal Con¬solato, Fratini ed io incontrammo la Nósikova, la quale, sentendo che avevo deciso di farmi operare, mi chiese di farle conoscere l’esito della operazione; e, per far più presto, di telefonarle all’ufficio, invece di scriverle a casa, e mi dette il numero del telefono. Io lo segnai nel taccuino, e vi scrissi accanto in italiano e in parole abbreviate «dopo operazione, telefonare Nósikova».

     Imprudenza, certo, questa, specie la nota del numero del telefono; ma che si può spiegare con lo stato e le circostanze del momento. Il taccuino arrivò alla Ceka, lo scritto tradotto; ed un fascio di luce fu proiettato sul mio spionaggio e sulla complicità di una caritatevole persona. La signorina Nósikova mi disse pure che, stretta ancora più di domande in un nuovo interrogatorio dopo la mia partenza, per tema di non avermi a nuocere in qualsiasi modo, si era chiusa nel più assoluto silenzio, e non aveva più risposto alle interroga¬zioni ora ciniche, ora allettatrici, dovesse pur questo costarle la vita. Una sola volta, spossata, aveva buttato sulla faccia di un sozzo commissario che voleva fare il galante, tutta la sua indignazione. Credette che fosse finita; la rimisero invece in libertà.

     Ricostruiti così i fatti che seguirono al mio arresto, ed in parte lo accompagnarono, mi apparì chiaro, perche, durante la detenzione, non avessi mai subito interrogatori: era stata già interrogata tanta gente per me; e perché il commissario della Ceka all’Ivanovskij, parlando di me al dottor Hàikin, anche dopo la mia liberazione, continuasse ad affermare che su di me pesavano sempre sospetti di spionaggio.

     La Pasqua del 1920 la passai a Pietrogrado. Ma lo squallore della città, maggiore di quello dell’estate precedente; la desolazione delle vie vuote e sporche, delle case abbandonate e ridotte in molti quartieri ad informi rovine, come dopo un terremoto; l’aspetto stesso di alcuni quartieri completamente mutato per le devastazioni e gli incendi; i cumuli di macerie su cui sciami di corvi roteavano senza posa, ricordavano ad ogni passo la spaventevole causa di tanta rovina, riflesso della più grande rovina della stessa Russia.

     Eppure, nonostante lo squallore, le distruzioni, le rovine, i tristi ricordi, quella Pasqua fu per me per tanti segni, Pasqua di « risurrezione ». Vecchi amici e conoscenti; cuori rimasti ancora sensibili, fra le sofferenze proprie, ai dolori altrui, fecero a gara per aiutarmi o fare qualcosa per me. Gli inservienti stessi dell’Istituto piansero, rivedendomi; e vollero abbracciarmi per la Pasqua, secondo il rito ortodosso. Una studentessa di medicina, alla quale avevo mostrato una volta dei preparati microscopici, mi mandò per Pasqua del pane, dei legumi, un po’ di zucchero.

     Ma vi fu anche di più. Poco dopo Pasqua, un giorno che mi trovavo per combinazione a casa venne a chiedere di me una donna dimessamente vestita di nero; mi parve una religiosa. Saputo che la persona che lei cercava ero proprio io, che le avevo aperto la porta, mi disse che monsignor Cieplak desiderava vedermi al più presto. Avevo conosciuto monsignor Cieplak, rettore del Collegio Cattolico, per mezzo di God- lewski; ma di sfuggita, e non mi pareva avesse potuto serbar ricordo di me. Invece di tornare all’Istituto, co¬me ero in procinto di fare, andai alla Fontànka al Collegio Cattolico dove abitava monsignor Cieplak. Il quale si ricordava di me, nonostante il nostro fuggevole incontro, come mi disse, ricevendomi cordialmente; ed, entrando subito in discorso, mi spiegò il motivo della chiamata. Il Nunzio Pontificio a Varsavia, monsignor Ratti, lo aveva richiesto di notizie mie e dei miei, e gli aveva scritto pure di venirmi in aiuto, se ne fosse stato il caso (18). Egli conosceva tutto quel che avevo passato, ma temeva che le sue informazioni non fossero esatte: aveva preferito perciò averle confermate da me. Prima che avessi potuto dire qualche parola di ringraziamento, mi prese una indicibile emozione; e dal profondo del cuore, mi vennero alle labbra le parole «et conversus vivificasti me». Il giorno appresso tornai da monsignor Cieplak; gli parlai di me, dei miei, delle povere morte, della speranza che avevo di tornare in Italia. Ebbi nobili parole di incoraggiamento, cordiali profferte, e l’assicurazione che le notizie mie sarebbero arrivate a chi le chiedeva. Qualche giorno dopo egli era arrestato col decano Butkévicz ed altri sacerdoti della chiesa di S. Caterina.

Michele potè finalmente liberarsi dal servizio; e nulla più trattenendomi a Pietrogrado, affrettai il ritorno a Mosca; tanto più che mi scrivevano esservi fondate speranze di partenza per l’Italia, e dover quindi tenerci pronti. Mi congedai dal dottore Goldberg, dalle suore del suo ospedale, dalle sorelle Nósikov, dagli amici dell’Istituto, rimasti sempre gli stessi nell’ora lieta e nella triste; ed il 15 aprile lasciai Pietrogrado.

     I diciotto anni che vi avevo passati, i migliori della mia vita, spesi in una attività, alla quale non mi illudevo poter più tornare, li rividi tutti; e mi parvero un attimo, in cui la trepida attesa del domani, il piccolo tragico quotidiano, l’immenso tragico dell’ora, si fondevano e svanivano in un passato, che fuggiva veloce e lontano nel tempo, più che non corresse il treno, nello spazio, fra le distese di neve e il cielo di piombo.

     Viaggiammo due notti ed un giorno in piedi; dominando con sforzi sovrumani di volontà le sofferenze fisiche dei corpi affranti, stivati nella cabina del frenatore con uno più infelice di noi: un soldato dell’armata rossa tubercolotico, che aveva appena superato il tifo esantematico, ed andava in licenza al suo villaggio verso Riasàn. Era una pena vederlo, con quello sguardo semispento; quando tossiva poi era uno strazio. Ma chi pensava alla morte che egli seminava intorno, se tutti, dinanzi alla malattia ed alla morte, eravamo in uno stato di indifferenza, di ottundimento fisico e psichico?

     A Mosca ci aspettava la signorina Nakonétshnaja ansiosa di veder Michele e ritrovare in lui i ricordi della sua piccola amica estinta. E furono giornate di dolorosi ricordi, più pungenti al pensiero del prossimo distacco. Perché pareva ormai sicuro che gli italiani avrebbero avuto il permesso di partire, prima degli altri stranieri che si trovavano ancora in Russia. Ma quando sarebbe avvenuta la partenza, qui cominciavano le risposte ambigue, dalle quali era facile capire che nulla era stato ancora deciso. Ci fu detto però di presentare i passaporti al Commissariato per gli Affari Esteri, per le pratiche necessarie, le quali avrebbero, comunque, richiesto del tempo. Li presentammo e cominciò la paziente attesa.

     Insieme al passaporto, io presentai al Commissariato un memoriale in cui domandavo, nella mia qualità di Console d’Italia, e con maggior ragione, dopo esser stato rimesso in libertà, che mi fosse restituito il contenuto della cassaforte consolare: valori, denaro, documenti, secondo un elenco che unii alla nota. Questa fu accettata. Il funzionario però al quale la consegnai, che era lo stesso con cui trattavamo della partenza, non mi nascose la sua poca speranza di ritrovare qualche cosa di quanto era stato portato via. E passarono dei giorni, delle settimane. A misura che il tempo passava, l’attesa diventava più penosa per le crescenti ristrettezze economiche di tutti; più spesso per la difficoltà di trovar da mangiare. Vi erano giornate in cui neppure un po’ di pane era possibile avere; e, se non ci avesse soccorso la signorina Nakonétschnaja che riceveva una doppia razione giornaliera dagli ospedali dove prestava servizio, avremmo sentito la fame: non nuova certo per noi; ma assai più dura dopo le malattie sofferte.

     Eravamo in queste angustie, allorché ricevemmo dall’Italia, inaspettatamente, e sempre pel tramite del pastore della chiesa inglese, ancora dei pacchi di viveri. Cera un po’ di tutto: riso, farina, burro, cioccolata, zucchero, conserve, sapone; un aiuto in quei momenti tanto grande per noi abituati a vivere di nulla che, del mio pacco feci parte alla signorina Nakonétschnaja ed al dottor Hàikin.

     A questa, una più grande consolazione si aggiunse. Presso il dottor Hàikin trovai una lettera di mia sorella Maria indirizzata a me all’«ospedale Ivanoski» (sic) a Mosca. Non vi era a Mosca un ospedale di tal nome. Ma la Ceka sapeva bene dove e come rintracciarmi; ed, invece di distruggere la lettera, come avrebbe potuto fare, l’aveva mandata al campo Ivànovskij, dove l’avevano data al dottor Hàikin, perché trovasse modo di farmela avere, e Hàikin l’aveva avuta proprio il giorno che gli portavo un po’ di riso e di burro pei figli.

     Dopo più di un anno di silenzio, la voce dei miei arrivava di nuovo a me, per quelle vie che solo la Provvidenza dispone quando vuol trarci « dagli abissi della terra ». Coi richiami agli affetti domestici; con la prospettiva di pace nell’angolo della nostra terra, la lettera mi parve un ponte gettato su l’abisso dei nostri dolori, delle nostre miserie, di tutte le nostre angosce; e le risorte speranze accrebbero la pazienza dell’attesa; e l’attendere divenne quasi un motivo di gioia.

Il 1° maggio vi furono a Mosca i soliti festeggiamenti; strade imbandierate, spettacoli di hala,  comizi e discorsi comunisti, percle piazze,  eivista militare sulla Piazza Rossa. Questo era da prevedere, ed è noto. Meno conosciuto è che, mentre il pubblico riceveva una larga distribuzione di infocate parole comuniste, con la promessa di poter soddisfare la fame in futuro, al Kremlino, auspice Lénin e i frugalissimi suoi compagni, si faceva festino. Bolscevichi, che avevano chiuso le chiese del Kremlino appena vi si furono insediati, vi avevano invece aperta una grande cucina per soddisfare ad altri più sentiti bisogni del formicaio comunista che brulicava là dentro. Cuochi e cuoche lavoravano per mantenere forte il cuore pulsante della rivoluzione russa. Una cuoca, o economa che fosse, era stretta parente della famiglia presso la quale eravamo alloggiati; e per questo tenue canale qualche volta delle briciole arrivavano fino a noi. Il primo maggio del 1920, mentre il pubblico proletario faceva la coda per avere qualche cucchiaio di cavoli o un pezzo di aringa; vidi arrivare a casa pane bianco, come al buon tempo antico, salame, prosciutto cotto, caviale, burro, formaggio, torta pel tè, pasticcini, confetti. 

     Il mio pane bianco e la torta, riportare ilHò alla suora Hòlmaskaja ammalata di tifo al campo, e destare il le meraviglie di lei e del dottore Hàikin quando dissi loro donde venivano. Anche essi credevano che al Kremlino si vivesse solo di pane nero e che. Ma non minore fu la meraviglia mia, allorquando Hàikin mi mostrò una cassetta di materiale sanitario e medicine, avuta dal Commissariato per l’igiene. Vi erano fasce, garza, cotone di marca inglese, e poi quattro boxxioni di compresse di sublimato e chinino dello Stato italiano non credevo ai miei occhi; ma ripensando donde potessero venire, mi ricordai che la missione militare dei prigionieri di guerra, partendo da Pietrogrado, con altre cose, aveva lasciato al Consolato, con alre cose, anmche i non scarsi residui della buona provvista di medicinali che aveva portato dall’Italia. Nel saccheggio del Consolato, i medicinali non erano stati risparmiati; e, di mano in mano, da Pietrogrado erano finiti al campo a Mosca; e fu un bene, perché poterono essere utilmente impiegati. Ma il resto, il contenuto della cassaforte, da chi era stato non meno proficuamente utilizzato? mi chiedevo io. E mi tornavano alla mente i dubbi del segretario del Commissariato per gli Affari Esteri sulla possibilità di avere più nulla.

     Mosca, al ritorno della primavera e delle giornate belle, parve risorgere. Le larghe vie alberate presero di nuovo un aspetto ridente; i ruderi delle case distrutte o demolite per servirsi del legname come combustibile, scomparvero sotto una fitta vegetazione; fin gli ammassi di rifiuti d’ogni sorta, accumulati dovunque durante l’inverno, si coprirono di verde. Era la rinascita della natura russa grandiosa, esuberante; e Mosca affondava veramente nell’intenso verde.

     Ma erano i dintorni, e specialmente i parchi: il Sokólniki, il Petróvskij e gli altri, quelli che, colle immense distese di verde e la ricca vegetazione, conservavano ancora l’incanto della loro bellezza primitiva. Lì, lontano dagli uomini e dagli spettacoli di vio¬lenza e di miseria, lo spirito veramente riposava. Poi¬ché in città erano troppo vivi i contrasti, e troppo immediati, perché la mente potesse non dico riposare, ma raccogliersi almeno in pensieri tranquilli.

     Questi contrasti sono proprio le ultime impressioni, e gli ultimi ricordi dell’estate del 1920, a Mosca.

      Certo, la città non aveva l’aspetto sepolcrale e di distruzione di Pietrogrado. Erano ancora tollerati i mercati che davano una certa animazione ad alcune piazze e vie fin nelle ore tarde del pomeriggio; i giardini verso sera erano pieni di gente. I morti si portavano a seppellire in carri chiusi e non scoperti e nudi, su carretti a mano, come a Pietrogrado. Ma se per poco si andava al di là del centro, o delle vie maggiori, verso l’interno, come apparivano più grandi gli orrori, come tornava più angosciosa la domanda: ma perché?

     Un giorno la signorina Nakonétschnaja mi volle far vedere un suo ammalato nell’ospedale militare dove, poco dopo la liberazione, era stata inviata come aiuto in un reparto chirurgico. L’ospedale, un edificio grandioso posto in una bella piazza alberata a cui metteva capo uno dei più bei viali di Mosca, lo Zvietnój Bulvàr, pareva all’esterno una invitante casa per convalescenti. Ma all’interno che carnaio! Dopo aver visto l’infermo rimasi per la medicatura dei malati. Du¬rò quattro ore. Chirurgi, suore ed infermieri lavoraro¬no fino alla spossatezza per fasciare corpi fradici che cadevano a pezzi, per tenere in vita esseri sfiniti dalla mancanza di nutrimento, dall’esaurimento di tutte le risorse organiche. Rivi di sanie colavano da quei poveri corpi in sfacelo, nei quali unico segno di vita era talvolta lo spasimo del dolore, o lo sguardo lucente del febbricitante che si disfa consunto. E dalle ampie finestre della sala l’occhio spaziava sul parco, sul viale con gli alberi in fiore, sulla grande distesa di verde; inutile speranza per tanti infelici che si consumavano di ora in ora.

     Un’altra volta, il pomeriggio di una domenica, verso la fine di maggio, eravamo in un parco fuori della città a goderci un po’ di sole. La folla variopinta, la gaiezza dei bambini, i prati in fiore, ricordavano la Russia di altri tempi. In quel mentre si sentì una forte detonazione, seguita da altre sempre più spesse, come fitti spari di cannone, mentre si levavano vampate di fuoco lontane, ma altissime da oscurare il sole. A Pietrogrado si sarebbe potuto pensare ad un bombardamento dal mare, ma a Mosca? Al primo momento di stupore e di sconcerto, seguì un panico grandissimo e poi un fuggi fuggi generale. Tutti ripetevano che si trattava di un attentato controrivoluzionario; ma chi lo diceva diretto contro una delle stazioni di Mosca, non lontana dal parco, chi contro il Kremlino; altri dicevano che si era incendiata una fabbrica di esplosivi. Questa voce era la vera. Crebbero la confusione, lo spavento, il fuggi fuggi, sia per la paura di cadere sotto le bombe che solcavano il cielo in tutte le direzioni, sia per sfuggire alle guardie rosse che erano state lanciate per ogni dove. Gli scoppi intensi e ripetuti durarono parecchie ore, continuarono più rari la notte e il giorno dopo. Mosca fu messa in stato d’assedio; perquisizioni, arresti, razzie per le piazze; il terrore pesò di nuovo su tutti.

     I grandi attentati alla maniera nichilista, ricominciavano a Mosca, in quel pomeriggio di maggio, quando la natura sorrideva intorno ed invitava alla pace.

     Noi tememmo per la partenza e passammo ancora lunghi giorni in grande inquietudine.

     Al Commissariato per gli Affari Esteri proibita l’entrata; da altri impossibile saper nulla. Eravamo, per giunta, privi di documenti personali validi, ciò che ci esponeva anche più al rischio di arresti e seguito. Allora a qualche italiano venne l’idea di ricorrere alla Balabànova per avere notizie ed interessarla alle cose nostre. Vi andammo in pochi.

Essa abitava in uno dei migliori alberghi del centro, confiscato come tutti gli altri dai bolscevichi e ridotto una rovina tra porte fracassate, gradini infranti, vetri rotti, il pattume, la sporcizia. Ci accolse con garbo; ci rassicurò sul conto nostro; credeva di sapere che niente di mutato vi fosse riguardo agli italiani; ma avrebbe parlato a Cicérin. E volle offrirci del caffè: un caffè eccellente; tazze di Sassonia, zuccheriera e cucchiaini di argento del Caucaso; non mancavano neppure i cioccolatini, serviti in un bel vaso di cristallo di Boemia. Questo lusso molto borghese faceva singolare contrasto col luogo, col tempo e, non minore, con quei principi che la cortese ospite non cessava di proclamare. Ma lei, quasi a prevenire la nostra meraviglia o curiosità, ci disse, nella conversazione, che era queste le ultime concesioni che faceva alla sua passata psicologia borghese. Dubito fossero le sole.

     La Balabànova apparteneva ad una vecchia famiglia di proprietari dell’Ucraina. Come molte giovani russe del suo tempo forse anche essa sazia e stanca di ciò che la casa paterna le offriva, era andata, all’estero, in Francia, in Italia, in Svizzera, a cercarvi il «suo mondo» o farsi la «sua vita. E lì, seguendo la corrente, era scivolata nel socialismo dapprima teorico e intellettualistico, poi piazzaiolo; trovato l’ideale, aveva trovato la sua missione nella vita, né le era mancata l’aureola della persecuzione. Con tutto ciò, conservava, in fondo, una grande dose di sentimenti e forme borghesi; ed una educazione, che il contatto coi « compagni » non aveva intaccato.

     Finalmente avemmo i passaporti e la partenza fu stabilita. Gli italiani sarebbero partiti per Odessa, meno un piccolo gruppo: due famiglie di Mosca ed io che saremmo partiti per l’Estonia, accompagnati fino alla frontiera da un corriere del Commissariato per gli Affari Esteri, il Narkomindel.

     La notte del 14 giugno, ci accomiatammo con grancommozione dal dottor Hàikin, dalla suora Hólmskaja e dalla signorina Nakonétschnaja e partimmo. Era una purissima notte bianca.     La sera dopo, eravamo a Pietrogrado. Lasciammo la ferrovia di Mosca, e traversammo la città deserta, ma immersa essa pure in una splendida notte bianca, per prendere la linea del Baltico. Passammo per luoghi e città a me noti per le nostre villeggiature estive: Iamburg, divenuta posto di frontiera fra la Russia e l’Estonia; Narva, l’illustre cittadina che portava le tracce delle distruzioni della guerra nei boschi rasi al suolo, nel ponte di ferro sulla Narova crollato, negli immensi imbuti scavati nel terreno dagli obici. Dopo due giorni eravamo a Revai che non si chiamava ancora Tallinn, la linda città sul Baltico, piena di ricordi dei cavalieri teutonici, già porto militare russo, poi capitale dell’Estonia. Eravamo di nuovo nel consorzio umano. Dovunque segni di attività, di lavoro, di vita, quali non vede¬vo, e non speravo di veder più. Il pensiero, che mi aveva così tormentato gli ultimi tempi, che le angosce, i patimenti, i dolori sofferti, l’umiliazione della prigionia, l’avvilimento del campo, potessero distruggere in me ogni interesse alla vita, o che io potessi uscire dalla Russia meno uomo di quel che vi ero entrato, si dileguò dinanzi alle fresche impressioni che avidamente racco-glievo, con la fervida curiosità del fanciullo che si affaccia alla vita, in un volare dello spirito a cui, con difficoltà, teneva dietro il corpo malfermo.

     Ed ecco, tra il fitto verde di un parco, contro l’azzurro del cielo di quel fulgido mattino d’estate che arrivammo a Revai, vedo sventolare il tricolore. Corsi ad esso; ed all’ombra del simbolo della patria trovai riposo e pace. Il ministro Depretis, nostro agente diplomatico in Estonia, mi fece gentili accoglienze. Non volle che prendessi il piroscafo che partiva per Stettino il giorno stesso del nostro arrivo. Gli parve che il mio stato fisico non lo permetesse; e poi voleva, come egli disse, porre una parentesi di calma tra le sofferenze della Russia e le emozioni dell’arrivo. E vi riuscì con la cordialità e le premure che ebbe per me e mio figlio durante il tempo che fummo suoi ospiti: due settimane di completo riposo del corpo e dello spirito in un sito fatto apposta per ridare la salute.

     La Legazione si trovava nel magnifico parco di Ekaterinenthal, che ricordava nel nome l’epoca della grande Caterina; ed aveva dinanzi il panorama superbo della rada di Revai, che vide gli ultimi fulgori della potenza zarista (19) .

     Nelle notti bianche la rada ampia appariva sconfinata; e mostrava di ora in ora tinte, colori, riflessi indescrivibili.

     Il sole di mezzanotte a Revai del 1920, richiamava alla mente la notte bianca di Dvinsk del mio primo viaggio in Russia; e chiudeva, con uno stesso spettacolo di grandiosa bellezza, il ciclo dei miei ricordi russi. A Dvinsk, la mente giovanile tesa al futuro, correva verso gli ardori dell’estate. Ora che il futuro sognato non era che un passato, ed incombeva l’autunno; il sole, che non tramontava sul mare di Revai, in quell’addio del nord, pareva dicesse ancora all’anima: spera!

     La mattina del 3 luglio partimmo. Il Baltico, la traversata, una tempesta fra due sfolgorìi di sole dinanzi all’isola di Gotland, Stettino, Berlino; nulla riusciva più a fermare la mia mente, assorbita da un pensiero solo: l’Italia.

Il 9 eravamo al Brennero, ai nuovi confini della Patria.

Avellino, settembre 1920 – Roma, febbraio 1938.

N O T E

1– A proposito della curiosità destata da me all’istituto,  sarebbe forse da         

     ricordare pure un certo assistente di una  sezione, il quale, in    

     presenza di un italiano autentico, come lui diceva, non rifiniva di

     rilevare tutte le mie  particolarità somatiche, rispetto a quelli dei

     colleghi slavi; e voleva farne oggetto di uno studio antropologico,

     e per poco non voleva cominciare dall’indice cefalico.

 2– Mi torna a mente qui la non meno grande artista Sara  Bernardt, la

      quale anche lei ormai ombra di se sessa, settantenne e già amputata

      di una gamba, recitò fra il 1916 e ’15, agli inizi della peima guerra    

      mondiale, per due sere di seguito al teatro francese Michailovsckij

      nell’Aiglon e in Chanteclair, sostenendo quasi da sola lo spettacolo

      dinanzi ad una folla di spettatori avvinti ancora dalle “ceneri” di

       quella che era stata la sua arte.

3- Su Pobiedonòszev, correva una epigrammam bisticcio suk significato  

     del cognome e le sue funzioni, ed allusione a sventure coniugali su  

     cui si malgnava, e che rproducono come saggiio dello spirito

     caustico russo; diceva:

         Pobiedonòszev dilià Synòda

         Biedonòsez dilià naròda

         Donòsez  dilià Zariò

         Vienzenòsez u sebià

      cioè:  Pobiendonòszev, apportatore di vittoria per il Sinodo, è

      portatore di sisgrazia per l popolo, delatore per lo Zar; e a casa,  

      portatore di corna

 4-Trovo in «Quaderni di Critica» – novembre 1947 – questo notevole   

     giudizio del Croce sulla Russia, e, riportato da lui, uno non meno

      notevole del Ciaadaev. « La Russia, scrive il Croce, è il paese che

      fra tutti quelli di Europa, ha le più scarse tradizioni di pensiero e di

      metodo del pensiero, e la più povera esperienza e disciplina in

     questa sfera spirituale… Fin dal 1829 un russo, Pietro Ciaadaev,

     scopriva l’intima debolezza mentale della sua gente, riponendola

     nella secolare estraneità in cui era rimasta verso la cultura greco-

      romana e rinascimentale, e perfino verso la educazione logica della

     scolastica medievale; cosicché (scriveva il Ciaa-dàev « le syllogisme  

     dell’occident nous est inconnu »; e di conseguenza esclamava: « Où  

     sont nos sages, où sont nos penseurs? Qui est-ce qui a jamais pensé

     pour nous? Solitaires dans le monde, nous n’avons rien donne au

     monde, nous n’avons rien appris au monde, nous n’avons pas versé

     une seule ideé dans la masse des ideés humaines, nous n’avons en

     rien contribué au progrés de l’esprit humain, et tout ce que nous est

    revenu de ce progrés, nous l’avons defiguré! ». (CROCE –  

      L’immaginario passaggio del comuniSmo marxista dalla utopia  

   alla scienza – « Quaderni di Critica », novembre 1947, N. 9, pp. 1718).

  7 dicembre 1947

      All’osservazione di Croce, si può aggiungere questa di Waliszewski,   

 sfuggitami alla prima lettura, di molti anni fa, di « Polonais et Russes» che ora vado rileggendo:

«Malgré Vladimir Soloviov, le domaine de la métaphysique et des  conceptions abstraites n’est pas un de ceux où le genie russe soit

arrivò jusq’à présent à se produire le plus heureusement, et les

excursions de Léon Tolstoy y ont été fàcheuses. (Waliszewski,

Polonais et Russes, p. 147).

               14 luglio 1948

5- In tema di differenze fra la psicologia dei russi e il carattere latino si

andrebbe assai lontano. Non parlo quindi dell’« asiatismo » dei russi, dell’appellativo « asiatici » con cui vengono spesso designati in

una sintesi che comprenderebbe tutte le note specifiche della

psicologia russa, e nel tempo stesso tutto ciò che di più barbaro o    

meno civile vi è nella razza umana. Quasi noi fossimo così profondi conoscitori della psicologia dei popoli asiatici da sentirci, anche senza tener conto del loro passato, non tanto remoto, dopo tutto, di poterli designare in blocco come barbari. E lascio anche da parte la non meno speciosa questione dell’”Eurasia”, il nuovissimo argomento etnico-geografico, che dovrebbe costituire il fondamento o il supposto scientifico dell’« asiatismo russo »; argomento ripreso  da molti russi emigrati, per arrivare alle più opposte conclusioni; spesso discusso da noi, come purtroppo molti altri sulla Russia, da  gente che della Russia seppe solo dai libri. Il Kliucévskij aveva già scritto: « Quanta Asia nella Russia d’Europa… Certo storicamente la Russia non è ancora l’Asia; ma essa non è punto l’Europa geograficamente. È una contrada di transizione fra due mondi. È tutta qui l’Eurasia ». Nulla di nuovo dunque. Ma, anche quando vi fosse questo « asiatismo » dei russi, può forse la costatazione di un fatto invocarsi per arbitrare spiegazioni di esso?

6- Qualche anno più tardi, verso la fine del 1904, e propriamente quando partì per l’Estremo Oriente la squadra dell’ammiraglio Tojestvenskji, che finì miseramente  a Zuscima, dopo aver fatto il giro del mondo, una pungentissima satira sul granduca Alessio, zio dello Zar, comandante in capo della flotta russa, ma più noto per il denaro che spendeva per un’attrice del teatro francese di Pietroburgo. In occasione del ritiro della scena di questa attrice, capitato appunto nel 1904, si fingeva che l’imperatore le avesse indirizzato un grazioso rescritto, come usava cori generali e ministri che andavano a riposo, nel quale la ringraziava dei serviogi resi alla Russia, durante gli anni della sua intima collaborazione col granduca Alessio; la additava ad esempio per la forza nel sopportare per molti anni tale peso; e la insigniva di un certo ordine creato per lei, per aver essa contribuito con la sua opera alla gloria della marina russa. Si comprenderà il sarcasmo di queste parole, quando avrò detto che il granduca era un colosso, come il fratello Alessandro III; e che l’attrice era un tramite di quegli affari, per cui, al tempo della guerra russo-giapponese, si ripeteva che il granduca Alessio si « era mangiata la flotta ». L’attrice si chiamava Balétat, assai piu famosa per le sue arti che per la sua arte. Quando poi partì dalla Russia, fiorì un epigramma sul granduca Alessio, il quale sarebbe diventato anarchico, perché scriveva a bas l’état!

 7– Un francese il quale, fra il 1901 e il 1902, con le sue ciarlatanerie aveva saputo conquistare i favori delle granduchesse Miliza e Anastasia e per mezzo loro della Zarina e tra le sedie parlanti e le sedute mistico-spiritiche con donne ed uomini di corte, avrebbe dovuto procurare alla Zarina il desiderato erede. Era stato poi congedato con molti denari e molti onori, perfino col titolo di dottore in medicina “honoris causa”, dopo una mitica gravidanza della Zarina Alessandra.

8- dopo la pace di Portsmuth col Giappone, nella quale ebbe una parte importante, era stato insignito del titolo di conte, di che il pubblico trasse motivo per attaccargli il soprannome di “Kaniàz Polusahalinsckji” Conte si messa Sahalìa, pel fatto che a Pormunth la Russia aveva dovuto tra l’altro, accedere al Giappone una metà dell’isola di Sahalìn.

 9- K(onstitutional – D(emocraty)

10– Vedere Appendice pag, 108

11– Francia, Inghilterra, Russia, Belgio

12-Smolavy era un grandioso edificio comprendente diversi corpi di fabbrica ed una chiesa con opere d’arte italiana. Vi era un istituto di rieducazione per signorine dell’aristocrazia, ed un ricovero per signorine e signore decadute. Scoppiata la rivoluzione, l’istituto era stato ceduto da Kerènskjiai soviety, che ne avevano fatto una loro cittadella, e, nel tempo stesso, la sede dello stato nello stato. Di là sorvegliavano il vicino palazzo della Tauride, sede della Duma, e poi del governo provvisorio,

13– Questo Lévìn fu meno scalmanato e teatrale degli ebrei che mi toccò di avvicinare nelle mie funzioni consolari in …..partibus infidelium. Però anche lui, come il suo collega Sàlkind giorni prima, non mancò di parlarmi dell’Italia e del Governo, proprio consegnandomi i passaporti visitati perché gli italiani si ostinano a partire mi disse, dal momento che le cose in Italia vanno rapidamente cambiando ? Nitti è già al potere, “Nitti-nasc” (Sic) Nitti è  dei nostri! Nitti era allora ministro del Tesoro; ma, ambizioso di potere di successo, mirava più alti posti sulla ribalta politica, sognava già un’Italia sovietica, diceva Lévin; e chissà se non pensava che l’Italia di Facile quindi intendersi con lui per riconoscimento della Russia sovietica, diceva Levin; e chissà se non pensava che un’Italia di inetti non potesse essere pedina o non da mani rosse dei bolscevichi in Occidente…… Perché dunque l’ambasciata voleva lasciare la Russia ?

14- Come si potrà constatare, in nome della dottoressa Nakonètschnajia (Naconetschnii, secondo l’esatta grafia russa) apparirà sempre più sovente in queste pagine. Questa donna meravigliosa parteciperà ogni giorno al calvario del dottor Pirone, fino a che, una volta passata la bufera per entrambi, venduta anche lei in Italia, accetterà di diventare la seconda sposa (N.d. E.)

15- Era questo il modo con cui  alla Goròchovaja a Pietrogrado e alla Lubjànca a Mosca, si finivano i condannati a morte, senza l’intervento delle guardie rosse lettoni o dei carnefici cinesi ma pare che si fosse diffuso presto pure in provincia. Lì si conducevano ad uno o due per un  corridoio oscuro verso una determinata stanza per lo più remota. Nell’atto di aprire la porta, sulla soglia della stanza, i commissari che si vivono i condannati scaricavano su di essi la rivoltella in direzione della nuca, i colpiti cadevano, la faccia in giù, spesso non del tutto finiti. La notte il mucchio, era portato via e gettato in una fossa comune. Vi furono commissari che non nascondevano di aver partecipato a tali assassinii ed esibirono come titolo per avanzamento nella carriera quello di aver eseguito maggior numero di esecuzioni. Questi commissari erano poi mandati spesso nei campi di concentramento come comandanti

16- Da manifesti affissi nei campi di concentramento nel secondo anniversario della rivoluzione bolscevica.

17- Nel linguaggio dei bolscevichi “spez”, abbreviazione di “spezialist” (=specialista), qualifica professionale tenuta dalla gente in grande considerazione, e molto ambita anche per qualche vantaggio economico che fruttava.

18- Mio fratello Edoardo, non sapendo più a chi rivolgersi per aver notizie mie, ricorse al Vaticano. Il Vaticano interessò il Nunzio a Varsavia, monsignor Achille Ratti, il quale non si limitò a rimettere la richiesta a monsignor Cieplak; ma, nella sua immensa carità, scrisse di venirmi anche in aiuto. E furono poi, queste del Vaticano, le sole notizie di me giunte ai miei.

19– Nel giugno del 1908 si incontrarono nelle acque di Reval Nicola II e di Edoardo VII e la visita suggellava l’”intesa anglo-russa” dell’agosto 1907. Nel luglio arrivò a Reval il presidente della Repubblica francese; Fallières, e l’alleanza franco-russa apparve “solide plus que jamais”. Ma la potenza degli Zar volgeva al declino. E venne il 1914.

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