LE CISTERNE ROMANE DI FERMO. Notizie derivate dagli scritti di
POMPILIO BONVIVICINI
Le Cisterne di Fermo hanno importanza, considerando l’eccellente stato di conservazione e va inserisca nel quadro di attività tendenti allo sviluppo culturale, sociale e turistico del nostro bel territorio. Si tratta del più bello e interessante monumento romano di Fermo con la funzione originaria di serbatoio di acqua potabile.
Bisogna attribuire all’architetto Vitruvio la realizzazione nella «forma basilicale» a tre navate delle Cisterne fermane ; è necessaria la descrizione di tutto il sistema idrico di alimentazione delle Cisterne, dai pozzi di captazione delle acque freatiche alle bocchette d’immissione nelle vasche mediante tubi fittili attingenti l’acqua da un canaletto che cinge la sommità dei muri perimetrali. I canali di drenaggio del colle Sabulo sono esplorati nel preciso richiamo delle severe leggi romane sulla salvaguardia e la tutela igienica del complesso idrico.
A Fermo sono numerose e belle le costruzioni sotterranee create dal genio romano; tra esse il complesso che ha il vanto d’essere un vero capolavoro di tecnica costruttiva è quello detto comunemente «Piscine», ma che in realtà è un «Serbatoio» di acqua potabile.
Tale complesso si trova sotto l’attuale via Paccarone e palazzi contigui (1); occupa un’area di m. 69 x 32,20 pari a mq. 2.222, con una cubatura lorda (ossia compresi i muri) di me. 15.000 circa.
Le vasche o camere sono 30, sono vuote e bene illuminate. Ogni vasca è lunga m. 9,20, larga m. 5,90 e alta al sommo della volta m. 6,00. I muri esterni o perimetrali sono spessi m. 1,65 e sono di calcestruzzo (opus coementicium), mentre i muri divisori sono grossi m. 0,75 e sono costruiti secondo la tecnica «a sacco», ossia con i paramenti in laterizio e l’interno in calcestruzzo. Questo è composto da selci sminuzzate, da due parti di calce d’ottima qualità e da cinque parti di rena magra e vetrosa. I mattoni dei paramenti sono rossi, perché fatti con argilla ricca d’ossido di ferro, ben cotti e di grande durezza; generalmente hanno le dimensioni di cm. 45 x 30 x 7.
Gli archi delle aperture di comunicazione tra una vasca e l’altra sono costruiti con conci di laterizio all’esterno e con il solito calcestruzzo all’interno. Non è vero che i detti conci siano alternativamente rettangolari e rastremati, come afferma G. De Minicis C2), essendo posti i conci rettangolari solo dopo 3 o 4 mattoni rastremati (paramento in laterixio, interno in calcestruzzo, zoccolo in «opera signina»).
Le volte di copertura delle singole vasche sono «a botte», ossia semicilindriche; sono di calcestruzzo pozzolanico (calce, pozzolana e pietre spezzate), gettato a strati sopra l’armatura di tavole, delle quali rimane ancora l’impronta, anzi si vede pure che qualche tavola si è curvata sotto il peso della volta in costruzione, sebbene generalmente siano stati usati pezzi di tufo poroso per rendere meno pesante il carico del manufatto («opus cemenitium» tavole della centinatura)
L’opus signinum (malta di calce, rena e laterizio frantumato) fu generosamente usato per intonacare tutti i muri perimetrali, per impermeabilizzare gli spigoli formati dai muri divisori con le pareti perimetrali (muro a faccia ista o intonacato e spigolo con cordolo impermeabile (in opera signina), per fare gli zoccoli, che sono alti cm. 75, per livellare e rifinire la pavimentazione eseguita in calcestruzzo.
Nelle volte furono lasciate delle aperture (botole o lucernari), alternativamente quadrate con lato cm 60 e circolari con raggio di cm. 30. Quasi tutte le botole sono al centro delle volte, ma in alcune vasche sono assai decentrate;. Naturalmente all’esterno tali botole erano protette da piccoli puteali o da fitte graticciate di metallo e chiudibili con chiusini incastranti (v. più sotto).
Alla sommità dei muri lunghi perimetrali e in corrispondenza degli assi delle vasche, ci sono dei piccoli canali in muratura; stanno a livello con la chiave delle volte, hanno la sezione rettangolare di cm. 22 x 25; essi servivano per l’immissione delle acque nelle vasche sottostanti. Ma non tutte le vasche ne sono fornite perché nella navata occidentale ce ne sono solo 5 e cioè nelle vasche (da nord): 1, 5, 8, 9 e 10, e nella navata orientale solo 4 e cioè nelle vasche; 4, 5, 6, 10. I predetti piccoli canali ricevevano l’acqua da un condotto in muratura di sezione quadrangolare aderente alla sommità della parete esterna nei muri lunghi perimetrali (3); tale condotto riceveva l’acqua da una conduttura proveniente certamente dalla vasca di decantazione.
A metà del lato meridionale, esattamente in mezzo alla vasca mediana, fu costruita una scala di 22 scalini, per entrare ed uscire dalle Cisterne. É evidente, per lo strappo che si nota nel muro meridionale, che la scala fu eseguita in un secondo tempo, quasi certamente sotto l’imperatore Antonino Pio, come fanno ritenere il bollo d’un mattone usato nei lavori di restauro e la qualità dei mattoni di colore grigio chiaro e di spessore inferiore a quello dei paramenti delle vasche. Negli anni precedenti la sua costruzione si poteva usufruire del pozzetto (botola), fornito di grappe di ferro orizzontali come scala, situato presso l’angolo nord-est dell’ultima vasca della navata orientale. É logico supporre che la scala fosse coperta da un padiglione, la cui porta stava vicino all’attuale ingresso del Collegio Fontevecchia, perché ivi appunto termina la scala predetta. Questa non è visibile dall’esterno perché resta nascosta dal selciato stradale.
Il De Minicis (4) pensa che sopra le vasche già descritte ve ne fossero altre delle stesse forme e dimensioni; ma tutto porta ad escludere una tale supposizione. Invece è certo che sopra le volte delle Cisterne, colmati i rinfianchi, fosse eseguita una grande terrazza o solaio di copertura, la cui esistenza è provata da alcuni lastroni, rettangolari o quadrati, di pietra calcarea e soprattutto da alcuni chiusini forniti di doppia battentatura per serrare le botole, ritrovati durante il vuotamento delle vasche. Detta terrazza in origine era a livello col suolo circostante o lo superava di poco, mentre ora i suoi resti sono a m. 1,20 sotto il piano medio di Via Paccarone, causa l’accrescimento delle quote dovuto all’accumularsi, durante i secoli, delle macerie e al fluitare della terra dal colle sovrastante.É molto probabile che detta terrazza fosse isolata e recintata con un basso muretto o con una cancellata (ringhiera) per impedire il libero accesso, date le severe disposizioni di legge a tutela degli acquedotti e in particolare dei serbatoi e cisterne; infatti Frontino (5) ricorda che ogni operazione doveva farsi a non meno di m. 1,50; e l’editto di Venafro, commentato dal Mommsen (6) prescriveva una zona di rispetto di m. 2,40.
Si deve escludere, contro quanto pensa il De Minicis (7), che le Cisterne si trovassero al di sotto dell’Anfiteatro e ne dovessero quindi sorreggere il peso. Invero l’Anfiteatro stava, probabilmente, a nord-ovest delle Cisterne, dove un tratto di muro con il profilo di due grandi nicchie si vede presso l’abitazione del Dott. Moschini ad est di via dell’Anfiteatro Antico.
Si deve escludere pure che le Cisterne servissero a conservare le acque piovane e specialmente quelle raccolte dall’Anfiteatro, perché tali acque non sarebbero mai potute divenire «potabili», neanche con gli accorgimenti escogitati dal De Minicis.
OPERE PER LA DERIVAZIONE DELLE ACQUE
Invece è certo che le trenta vasche servissero a conservare, particolarmente per i periodi di siccità o di assedio bellico, le acque potabili che scorrono abbondantemente negli strati sabbiosi del colle fermano. Infatti nel 1934, durante gli scavi archeologici compiuti nei sotterranei del Duomo, venne alla luce un pozzo romano, il quale è profondo m. 14, ha il diametro di m. 0,90 ed è rivestito nel primo metro con selci conce; sono visibili agli strati di sabbione, spessi in media cm. 70, separati da straterelli di tufo, che formano degli anelli aggettanti sulla sabbia, la quale si è alquanto arretrata per naturale sgretolamento e caduta (nei sortterranei del duomo). A livello col fondo ci sono due cunicoli, diretti uno verso levante e uno verso ponente; sono alti m. 1.80 circa, larghi m. 0,75 c. e lunghi rispettivamente m. 7 e m. 9 circa; tali cunicoli sfociano in altri pozzi uguali al sopradescritto ed hanno una pendenza unica verso levante. Evidentemente si tratta di una serie di pozzi intercomunicanti, che furono trovati pieni di macerie e calcinacci, messi lì per rendere più sicuro il pavimento della chiesa paleocristiana costruitavi sopra (8).
Tutto il complesso dei pozzi è conforme con la precettistica di Vitruvio (9): «… quando si sarà trovata la vena principale dell’acqua, si scavino attorno dei pozzi, le cui acque per mezzo di cunicoli saranno convogliate in un sol luogo… Queste vene si trovano più facilmente nelle parti settentrionali dei colli; le loro acque sono di buon gusto, più salubri e più abbondanti, perché sono più riparate dalla veemenza dei raggi del sole e perché ivi gli alberi crescono più numerosi e più grandi… Inoltre, le acque filtranti dal sabbione maschio sono più sicure (ossia: più pure), di più costante quantità e di miglior gusto…».
Questo brano sembra scritto appositamente per noi; infatti, il pozzo suddetto con i suoi cunicoli sta proprio nella parte settentrionale del colle Sabulo, presso il versante ancor oggi ricoperto da piante silvestri. Naturalmente nella parte meridionale del colle vi erano altri pozzi simili, che fornivano acque alle Cisterne, come possiamo ricavare dagli «Atti dei Consigli e Cernite» comunali di Fermo.
Infatti, vi si legge che l’8 novembre 1463 fu deliberato che si facesse una fontana presso il muro occidentale della Piazza (10); evidentemente si tratta di quella seminterrata, ma ancora attiva, che sta presso la scala d’accesso alla Biblioteca Comunale. Nei medesimi Atti (n) è scritto che il 3 agosto 1506 la popolazione della contrada Pila chiese ed ottenne che si facesse una pubblica fontana con le acque che sgorgavano abbondantemente dal suolo della chiesa di san Rocco, allora in fase di costruzione.
Altre acque, che non riescono a fluire verso Piazza, a causa della ricordata ostruzione dei cunicoli, scorrono in quello esistente a notevole profondità (anche oltre i 12 metri) sotto il Corso Cefalonia, il Corso Cavour e Via Recanati; però tali acque dovevano essere destinate agli utenti del suburbio e forse anche al Castellum Firmanorum (odierno Castiglione), dato che l’ultimo tratto del cunicolo esplorato passa sotto il palazzo della SIP. , cioè alla quota 270, che è notevolmente inferiore a quella 282 delle Cisterne.
Tutte le acque predette provenivano e provengono ancora dalle viscere del colle Sabulo, i cui strati geologici sono formati prevalentemente di sabbione maschio (granulare e siliceo), alternati a piccole falde di calcare, che raccolgono le acque freatiche, per cui anticamente era assicurato il costante rifornimento delle grandi Cisterne fermane. Naturalmente non solo i pozzi scavati nell’area del Duomo, ma anche quelli profondi sino alla quota delle bocchette d’immissione potevano alimentare le Cisterne. D’altra parte, la falda acquifera era assicurata da un’area d’impluvio di circa centomila mq. di superficie entro il perimetro del Girfalco.
É logico supporre, in conformità con le prescrizioni vitruviane (12), che tra i pozzi di captamento delle acque e le Cisterne vi fosse qualche vasca di decantazione, che servisse non solo a migliorare la qualità delle acque depurandole da eventuali impurità, specie nei periodi di piogge prolungate e dello scioglimento delle nevi, ma anche a interrompere o prevenire la violenza del flusso entro gli specus (condotti in muratura), dovuta al forte dislivello (m. 20) esistente nel breve percorso (m. 150-180) tra il colle Sabulo e le Cisterne stesse (13). Si può ritenere che la vasca di raccolta e di epurazione delle acque provenienti dai pozzi romani stesse dietro al muraglione situato fra il locale Helios e la scarpata del Girfalco. Il dislivello fra detta vasca e le bocchette d’immissione nelle Cisterne poteva essere superato mediante “cadute” disposte lungo i canali adduttori; mentre la breve distanza esistente fra la detta vasca e le Cisterne poteva essere superata adottando il sistema delle condotte a linea spezzata, cioè a zig-zag.
Le acque s’immettevano nelle vasche con un salto di 6 m. o scivolando lungo le pareti, su cui si vedono numerose tracce di concrezioni calcaree, e poi attraverso le varie aperture dei muri divisorii m. 1.20 x 3,15 passaggio 0,45×0,35 si diffondevano sino alle vasche più interne. La massa d’acqua generalmente non raggiungeva il metro d’altezza, in armonia con gli zoccoli in opus signinum, ma poteva salire sin oltre l’imposta delle volte di copertura (m. 3). All’areazione delle acque provvedevano le numerose aperture o botole delle volte, mentre le acque che cadevano dall’alto delle bocchette le agitavano alquanto e ne facilitavano, insieme con le prese di distribuzione, il continuo rinnovamento.
TUBATURE DELLA RETE DI DISTRIBUZIONE DELL’ACQUA
Attualmente si vedono solo due tubature d’uscita (tubi di piombo), presso l’angolo di nord-est del monumentale complesso, ma certamente altre stanno nel muro meridionale, a sud-est, non visibili a causa delle murature eseguite per il funzionamento dell’acquedotto dell’Ascensione.
Di solito le «fistole» di piombo erano fatte curvando delle lastre intorno a un’anima cilindrica e bullonando i due lembi marginali rialzati e sporgenti. Invece quelle delle Cisterne fermane sono state eseguite in modo completamente diverso, ossia sono state saldate e non bullonate.
La «fistola» più grande è posta a cm. 10 sopra il livello del pavimento e a cm. 90 dallo spigolo del muro; ha il diametro interno di cm 27, quindi è una «sexagenaria» (cioè un tubo da 60 quadranti romani) e mostra che la sutura longitudinale fu eseguita colando piombo fuso tra i labbri rialzati della lastra arrotolata, cosicché la saldatura acquistò la forma d’un listello a T, di cui si vedono ancora le sbavature all’interno (saldatura a piombo fuso). La lunghezza d’ogni tubo era di m. 3, come risulta anche da quel ritrovato intatto nell’ottobre 1972 in Sanseverino Marche.
La «fistola» minore è collocata a cm. 25 sopra il pavimento e cm. 15 a sinistra della precedente; ha il diametro interno di cm. 9 circa, è quindi una «vicenaria» (cioè un tubo da 20 quadranti); presenta frontalmente un ispessimento della parete cilindrica: è il cerchio di sutura con calix aeneus (presa di bronzo), che stava a filo con la parete interna della vasca.
Sulla tecnica di congiungimento del calix con la fistula occorre notare che non fu eseguito nel solito modo, ossia infilando un capo del tubo nella tazza dell’altro, ma per «giustapposizione», cioè comprimendo la «fistola» contro la «presa di bronzo», previa immissione di piombo fluido nel giro frontale delle due sezioni destinate alla saldatura; pure in questo caso si notano le sbavature interne ed esterne del piombo cementante.
La «presa», secondo Frontino (14), doveva esser lunga non meno di 22 cm., evidentemente per poter restare ben salda nel muro. Era di bronzo perché molto più idonea, che non l’imboccatura plumbea delle fistole, ad esser chiusa ed otturata con tappi di metallo. Nelle Cisterne fermane il calix della conduttura vicenaria era lungo cm. 50 e quello della tubatura sexagenaria cm. 60, almeno a giudicare dal vuoto restato a seguito della loro asportazione, della quale non è possibile precisare l’epoca, essendo anteriore al recente vuotamento delle quindici vasche.
Si deve considerare, infine, che la sutura tra i margini delle lastre di piombo è riuscita ottimamente, costituendo quasi una «saldatura autogena», mentre quella tra piombo e bronzo si deve considerare più «tamponamento» che saldatura, non essendosi verificata la coesione, tanto è vero che, quando furono asportati i due calices di bronzo, non si effettuò nessuno strappo sullo strato plumbeo di congiungimento, che presenta ancora una superficie liscia.
Le «fistole» furono rafforzate esternamente con uno strato di opus signinum (impasto di calce, rena e frantumi di coccio), che le avvolse come «camicia di contenimento», la quale talvolta ha deformato un po’ la cilindricità del tubo ammaccandolo. Ciò è accaduto specialmente con la fistola più grande, che ha una parete spessa appena 11mm., mentre il tubo più piccolo, pur avendo lo stesso spessore, ha logicamente resistito meglio alla pressione esterna.
In altra posizione, cioè all’esterno della navata orientale delle Cisterne, è visibile lungo l’attuale corridoio d’accesso e precisamente entro un vuoto del muro medievale, un tratto di conduttura formata di piccoli tubi in cotto. Ogni pezzo è lungo cm. 30 circa, è leggermente rastremato, ha la luce media di cm. 4,5 e quindi è una «denaria» (cioè un tubo da 10 quadranti romani); presenta da una estremità un ampliamento a tazza per l’innesto del tubo successivo e perciò è simile ai moderni tubi d’eternit.
Durante la ripulitura delle vasche si è trovato anche un altro tipo di tubi fittili, rastremati, lunghi cm. 45 circa e con luce minima di cm. 4,5; hanno un’estremità tronco-conica fornita d’anello di raccordo (tubo in terracotta del tipo lingulato), questi tubi erano detti «Ungulati» (cioè «a spada») ed erano molto adatti a infilarsi gli uni negli altri anche in curva, avendo la punta conica, mentre quelli con tazza cilindrica erano più semplici ma idonei solo per le condutture rettilinee.
Le giunture tra un tubo e l’altro risultano eseguite con malta di calce viva stemperata nell’olio, come prescrive Vitruvio (15).
Sull’impiego delle varie tubature di distribuzione non conosciamo tutte le «prese» che stavano nelle Cisterne. Comunque, con la scorta degli autori romani che hanno trattato la materia e con l’analisi delle leggi romane sugli acquedotti e serbatoi, possiamo farci un’idea abbastanza sicura in merito.
La tubatura «sexagenaria» molto probabilmente alimentava un serbatoio «particolare» (castellum aquarum), come per esempio quello del quartiere latino (oggi «rione di San Francesco») o quello di Castiglione, il famoso Castellum Firmanorum, costruito a sostegno e difesa del porto-canale di Fermo, che stava nella foce dell’Ete Vivo, ad ovest dell’attuale chiesa di Santa Maria a Mare (16).
La fistola «vicenaria» poteva alimentare la rete idrica cittadina, e pertanto dovevano esservi altre tubature simili, specialmente nei lati meridionali e orientale delle Cisterne, per servizio dei rispettivi quartieri della città.
La tubatura «denaria» (nei due tipi fittili descritti sopra), quasi certamente portava l’eccedenza delle acque (aquae caducae) ai serbatoi «privati» delle tintorie e lavanderie (officinae fullonicae), dei mulini e forni (pistrina), dei bagni gestiti da privati (balnea), ecc.
La fornitura di tali acque veniva concessa dietro pagamento di un canone annuo (vectigal), concordato con le magistrature locali (17).
Vitruvio (18) aggiunge che la conduttura di terracotta era meno costosa e più igienica e perciò da preferirsi a quelle di piombo.
IPOTESI SULLA DATA DI COSTRUZIONE DELLE CISTERNE
Non è possibile sapere se le fistole plumbee fermane avessero delle iscrizioni, perché sono andate tutte disperse, altrimenti da tali iscrizioni si sarebbero potute ricavare notizie utili sulla data della costruzione delle Cisterne e probabilmente anche sul loro architetto e sul loro funzionamento.
Comunque, è quasi certo che la costruzione delle Cisterne fermane sia dovuta alla generosità e benevolenza di Augusto, che poté farle negli ultimi decenni della sua vita. Infatti, le notevoli dimensioni dei laterizi usati (cm. 45 x 30 x 7), il loro colore (rosso cinabro), la loro ottima qualità (argilla depurata, compatta e a sfaldatura cocleare), il piccolo spessore delle malte nei giunti dei mattoni (mm. 10 – 15), la tecnica delle volte assai progredita, fanno ritenere quasi certa la datazione qui proposta (19).
Questa conclusione, di carattere tecnico-edilizio, è confermata dal sistema e dal metodo seguito per il rifornimento delle acque sorgive del colle Sabulo, in conformità con le prescrizioni di Vitruvio, che era proprio l’architetto dell’imperatore Augusto. Forse non è troppo azzardato pensare che il costruttore della Basilica augustea di Fano, cioè Vitruvio, sia anche l’autore delle cisterne fermane, dato che queste non sono indegne del suo valore e della sua arte ed hanno una pianta” basilicale”.
Inoltre, concorda con queste osservazioni e quindi ribadisce la data proposta, la seguente considerazione di carattere storico-politico.
Fermo aveva seguito, durante le guerre civili, la politica degli ottimati, ossia del partito conservatore, ligio a Pompeo e a Cicerone, e s’era apertamente schierata contro Marcantonio. Pertanto, Ottaviano, divenuto principe e signore assoluto di Roma, pensò di sistemare i suoi «carissimi quartani» (20) a Fermo, ma per non disturbarne troppo i cittadini, creò o trasformò per i suoi veterani il quartiere occidentale della città, che si chiamò «Campus legionis», nome corrispondente all’attuale toponimo di «Campolègio». Ottaviano non si limitò a porre i suoi diletti legionari in un quartiere nuovo o rinnovato, ma volle mostrarsi benevolo coi Fermani dei quartieri sud-orientali della città, sia che fossero degli indigeni, ossia dei veri «piceni», oppure i discendenti dell’antica colonia latina, costruendo per essi, nel fianco orientale del colle, le grandi Cisterne, onde cattivarsene l’animo e attrarli nella sua sfera politica.
Certamente l’astuto Ottaviano non poteva fare un dono più gradito, più signorile e più apprezzato ad una cittadinanza romanizzata nella lingua, negli usi e nei costumi: basti ricordare che la più grande ambizione dei Romani del tempo imperiale era quella di avere ottime acque potabili e di poter fare molti bagni: freschi d’estate e caldi di inverno e con ogni comodità in casa propria! Si aggiunga che, essendo Fermo il «cardine della dominazione romana nel Piceno» f21), non doveva sfuggire ad Augusto l’eventuale pericolo d’un lungo assedio e quindi la necessità di ottime e grandi riserve d’acqua.
STATO DI CONSERVAZIONE DELLE CISTERNE E REPERTI ARCHEOLOGICI
Durante il ricordato vuotamento delle vasche, furono trovate svariate cose, tra cui sono da ricordare: due ritratti marmorei di grande pregio, uno di Augusto ancor giovane e l’altro d’un personaggio a noi sconosciuto (forse di Terenzio Senecione), ora tali sculture sono conservate nella Sala dei Ritratti Romani nel Museo Nazionale delle Marche di Ancona; due iscrizioni latine, scolpite in onore di illustri cittadini fermani (traduzione: “A Quinto Terenzio Senecione Fanniano, figlio di Caio, della tribù Velina, Duunviro Quinquennale, Pontefice – Dedicato l’Augusteo e offerto il banchetto, i coloni e gli abitanti dedicano”) da me edite negli «Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei» (22); numerosi pezzi di pietra calcarea; qualche chiusino per botola, pure di pietra, di cui uno presenta 4 fori passanti presso gli spigoli. Si tenga presente che tutte le suddette cose furono trovate aderenti al pavimento delle vasche più settentrionali.
A questo punto conviene fare una breve riflessione. Il ritratto di Augusto in età pagana godeva non solo del rispetto dovuto al grande imperatore, ma anche di un’autentica venerazione come a un dio; d’altra parte le due iscrizioni mettono in evidenza il culto degli imperatori divinizzati, per cui quando si affermò il cristianesimo con Costantino (313 d. Cr.) e soprattutto dopo i decreti di Graziano (382) e di Teodosio (391) contro i culti pagani e i loro beni, non mancarono eccessi di zelo, specie tra i neofiti di umile origine, che causarono la distruzione degli oggetti di culto, anche se di grande pregio artistico. Pertanto, non ci sorprende se le ricordate sculture furono tolte dalle loro sedi e scagliate con disprezzo nel fondo delle vasche ancor vuote. Conseguentemente dobbiamo ritenere che l’uso della parte settentrionale delle Cisterne Romane si protrasse in maniera regolare ed igienica sino a tale «iconoclasti- co» episodio di storia fermana.
Nel periodo delle incursioni barbariche, come tutte le opere monumentali, anche le Cisterne caddero nel più desolante abbandono. Dal basso medioevo in poi invece furono usate e manomesse dai proprietari delle case, dei palazzi e dei conventi ad esse sovrastanti. Inoltre è tradizione costante che durante l’Inquisizione qualche vano servisse come carcere. Durante l’uso (abuso) delle vasche da parte di privati, molte volte di copertura furono squarciate e parzialmente demolite per scendervi dall’alto con scale di legno (cfr ripostiglio arbitrario costruito sopra la terra e le macerie d’una vasca della navata orientale), mentre in molti muri divisori furono eseguite delle aperture ad uso di porte, per passare da un vano all’altro restando al di sopra della terra e delle macerie e utilizzando così quei locali a proprio talento.
Ora le Cisterne fermane sono state riparate per conto della Soprintendenza delle Antichità delle Marche, a varie riprese, dal 1964 al 1969. Ma un danno maggiore alla monumentale costruzione romana è stato causato, presso l’angolo di nord-est, dalle infiltrazioni d’acqua, che per secoli ha corroso e abbassato la falda sabbiosa, su cui poggia l’edificio, causando una depressione del pavimento e conseguentemente uno spiombo verso l’esterno dei muri maestri per una lunghezza di m. 13 a levante e di m. 9 a nord e inoltre un grave squarcio nelle volte delle ultime due vasche. Lo squarcio del pavimento è indicato nella «pianta delle Cisterne» con una leggera linea tortuosa. A questa grave lesione, naturalmente, non si è potuto porre riparo, salvo che si è cercato d’impedire l’ulteriore infiltrazione dell’acqua piovana.
Se da una parte le varie crepe, visibili nei muri perimetrali e nelle volte, testimoniano le dolorose vicissitudini cui le Cisterne sono andate soggette, e se d’altra parte esse sopportano bene da molti secoli il gravissimo carico d’un intero quartiere costruitovi sopra, si deve proprio concludere che la tecnica costruttiva, la qualità del materiale edilizio e il calcolo delle resistenze sono superiori ad ogni elogio e fanno delle Cisterne fermane una grandiosa realizzazione architettonica, la quale ad una immensa solidità unisce un’austera bellezza e un’incomparabile utilità pubblica.
NOTE
(1) Precisamente in corrispondenza delle seguenti indicazioni catastali: foglio 62, particelle 55, 57, 58, 60, 61 e foglio 61, particelle 386, 387 e frazione della 391.
(2) DE MINICIS, Intorno alla Piscina Epuratoria in Fermo, p. 7.
(3) E’ merito della Prof.sa M. Pasquinucci l’avere individuato e descritto il complesso architettonico dell’alimentazione idrica delle Cisterne fermane; cfr. FIRMUM PICENUM, Pisa 1988, p. 230, figg. 77, 94 e 95.
(4) Op. cit., pp. 6, 10,21
(5) De aquaeductibus Urbis Romae, 12
(6) BONVICINI, «Bullettino dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica», Roma 1850, p. 53.
(7) DE MINICIS, Intorno alla Piscina Epuratoria, pp. 6 e 14.
(8) Queste notizie mi sono state gentilmente fornite dal sig. Umberto Cassiani, che eseguì lo vuotamento del pozzo romano.
(9) De architectura, VIII, 1.
(10) Archivio storico del Comune di Fermo «Consigli e Cernite» anni 1463-64, c. 67 v.
(11) Op. cit., anni 1505-1508, c. 58 v.
(12) De architectura, Vili, 7.
(13) Il problema della pendenza delle condotte era molto sentito dai costruttori romani, che bene spesso cercavano di diminuirla evitando il percorso rettilineo e adottando quello a linea spezzata, i cui segmenti erano congiunti da pozzetti in muratura; questi servivano anche a frenare l’impeto delle acque; in alcuni casi si è costatato un percorso tre volte più lungo di quanto sarebbe stato se rettilineo. (Fr. PELLATI, Acquedotto, in «Encicl. ital. », vol. I, pag. 385).
(14) De aquaeductibus urbis Romae, XXXVI, 3.
(15) De architectura, Vili, 6.
(16) G. NAPOLETANI, Fermo nel Piceno, p. 171 e 174.
(17) De aquaeductibus, XCIV, 4.
(18) De architectura, VIII, 6.
(19) G. LUGLI, La tecnica edilizia romana, Roma 1957, vol. I, p. 585
(20) I “quartani” erano i militari della quarta legione; CIL., IX, 5420,
(21) MOMMSEN, CIL., IX p. 508.
(22) BONVICINI, P., «Rendiconti di Scienze Morali ecc.», voi. XXVII, fase. 5-6, 1972
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