LIBERATI sac. Germano. DIGITATI da Albino Vesprini – ARTE SACRA DEL FERMANO – Conferenze e articoli
Premessa: Nota biografica di Mons. Germano Liberati *11.09.1939 +8.02.2010
\ Don Germano, sacerdote dal marzo 1963 ha dedicato le sue qualificate competenze alla gioventù, alle parrocchie, alla diocesi, alla Chiesa ed alla società.
Laureato in lettere ad Urbino, docente liceale di italiano, storia, arte al Paolo VI (ultimo preside) e all’Istituto Teologico. Ha orientato e guidato molte ricerche di studio, dando notizie e documenti finora inesplorati. Con senso di ragionamento probante, ha voluto le certezze, le dimostrazioni, non le illazioni né le insinuazioni di tornaconto.
Assistente Diocesano per il turismo e per le risorse del tempo libero, animatore dell’oratorio A. Manzoni, parroco a Montegiorgio, celebrante all’ospedale montegiorgese, ha fondato e diretto una nuova Corale “Domenico Alaleona”, invitata in varie città italiane ed all’estero. Ha affrontato le tematiche per la formazione cristiana e per la valorizzazione della vita contro le devianze tra cui l’eutanasia.
Direttore dell’Ufficio Diocesano dei Beni Culturali del Fermano, autore di pubblicazioni di arte promosse dalla Regione Marche, relatore insostituibile ai convegni nei comuni e nelle parrocchie per l’arte sacra, organizzatore di mostre a Fermo, di richiamo internazionale, collaboratore delle Soprintendenze Statali. Ha stabilito le opere nel Museo Diocesano presso la Cattedrale. Ha valorizzato gli oggetti d’arte e promosso il recupero della storia delle Confraternite.
Autore di studi storici socio-economci, editi dall’Università di Urbino e dalla Deputazione della Storia Patria delle Marche, riorganizzatore dell’archivio delle parrocchie montegiorgesi. Ha incrementato la produzione di molti autori ed autrici.
Dopo che aveva superato la forte crisi causata dal coma indotto, sembrava ristabilito. Ha seguito tutte le cure e gli interventi clinici. Inattesa la sua morte, a Modena, in ospedale. Grazie di tutto, don Germano. \\\
ELENCO PROVVISORIO del digitato da A. V. in alfabetico
Ambro; Sibillini kb14 \\ 5.11.14- 9.2.16 – 13.4.07
Anni 1288 . 1309 tesi Fermo kb 14 \\ 24.11.13
Anno 1260 tesi Fermo Venezia kb 13 \\ 24.11.13
Anno 1305 tesi Fermo kb 20 21.11.14
Anno 1378?;1379 Fermo Statuti kb 14 \\ 23.11.14?13
Arte contemporanea kb 21 \\ 4.4.14
Arte sacra da capire kb 16 \\ 18.10.14
Arte sacra è profezia kb 15 \\ 8.10.14
Arte sacra valore kb 14 \\ 18.10.14
Belmonte Piceno tesi mercato sec. XIV kb \\ 28.11.14
Carbonara cfr. Gregorio kb 14 \\ 8.10.14
Chienti vallata arte storia kb 18 \\ 4.12.13
Arte e Cristianesimo kb30 \\ 18.10.14
Fermano. Arte farfense. Visita kb 13 \\ 2.12.14
Fermo 1341 tesi doc. Fraternita kb 16 \\ 24.11.13
Fermo Arte ‘300 \ ‘800, conferenza kb – 16.4.15
Fermo Beni Culturali diocesi kb 14 \\ 8.10.14
Fermo cattedrale acquasantiera kb 14 \\14.10.14
Fermo cattedrale cappella santissimo kb 17 \\ 8.10.14
Fermo cattedrale cripta kb 24 \\ 8.10.14
Fermo cattedrale kb 37 \\ 18.10.14
Fermo cattedrale kb17 \\ 5.11.14
Fermo Cattedrale kb28\\ 17.18.10.15; 24.26.10.16
Fermo cattedrale mensa nuova kb 15 \\ 7.10.14
Fermo cattedrale sec. XXI kb 14 \\ 8.10.14
Fermo centro storico arte kb 14 \\ 5.11.14
Fermo diocesi arte sec. XV mostra kb 26 \\ 14.10.14
Fermo documenti Hubart liber kb 19 \\ 21.11.14
Fermo ebrei tesi 1305.1306 kb 28 \\ 16.3.14
Fermo Girfalco cattedrale kb 30 \\ 18.10.30
Fermo Museo diocesano kb 16 \\ 7.10.14
Fermo museo sacro kb 15 \\ 18.10.14
Fermo storia 1341 tesi fraternita kb 18 \\ 17.3.14
Fermo tesi premessa sec. XIV kb 13 \\ 21.11.14
Fermo storia tesi economia kb73 \\ 16.3.14
Fermo tesi ceti ebrei kb 18 \\ 30.11.13
Fermo tesi in parte A5 kb 76 \\ 26.11.16
Fermo tesi TOT società economia kb 305 \\ 30.12.13
Fermo Venezia tesi storia kb 19 \\ 16.3.14
Fermo Zara sec. XIV tesi storia kb 21 \\ 16.3.14
Fermo. Seminario. dip. Ultima Cena kb 27 \\ 8.10.14
Francescani polittico attribuzione kb 14 \\ 7.10.14
Loreto culto mariano kb 16 \\ 5.5.14 – 9.11.14
Marche arti kb 39 \\ 14.10.14
Monte san Martino arte kb 27 \\ 13.10.14
Montegiorgio storia chiesa kb 203 4.4.14
Paradiso XI-XII Dante kb 71 \\ 7.12.14
Pasqua nell’arte kb 25 \\ 13.10.14
Pinacoteca genio locale kb 14 \\ 18.10.14
Storia cristiana locale kb 53 \\ 22.10.14
Tesi dott. Fermo sec. XIV. kb56\copiakb65\\ 4.3.16
Vescovi inizi arte kb 18 3.11.14
1.INVITO A CAPIRE L’ARTE SACRA
La mia esperienza e quello che io ho sempre cercato nell’arte sacra, si possono compendiare in una espressione che suona così: la ricerca di un accompagnamento verso il divino e di una sua presenza. Nei miei studi e nelle mie riflessioni sono tanto affascinato da alcuni pensatori antichi e moderni, attenti su questo versante: da Plotino che nel riflettere sulla bellezza e sull’arte (V libro dell’Enneade) va oltre il contingente e si immette nel divino; a Schelling che, cassando drasticamente l’arida razionalità illuministica, non esita a dichiarare che l’esperienza dell’Assoluto è riservata all’artista e al mistico. Ed ai nostri tempi come trascurare Hans Urs von Balthassar che in una ricca e appassionata analisi della letteratura e dell’arte, vi coglie la grande manifestazione della gloria di Dio che è concessa all’uomo?
Ecco dunque che per me l’arte in qual si voglia forma, e l’artista di qual si voglia tempo, insieme al santo e al mistico, più di altri, accompagnano verso Dio, l’infinito, l’Assoluto, perché ci aiutano a percepirne la presenza. Mi sono chiesto costantemente e me lo chiedo ancora, osservando un’opera, e lo propongo agli altri: quale esperienza interiore ha animato l’artista, tale da poterla tradurre nell’opera? Cerchiamo in qualche modo di penetrarvi.
Se vogliamo esemplificare, chiediamoci, magari pensando ad opere d’arte che tutti conosciamo: quale esperienza ha guidato Giotto nell’offrirci la suprema visione della Storia della Salvezza tutt’intera, dai profeti al giudizio universale nella cappella degli Scrovegni, nel suo cominciar a “imbrattare” quei muri nudi, dall’arriccio e il tonachino ancor freschi? La risposta più convincente credo si possa trovare in quel lucido scrittore e finissimo critico che fu Piero Bargellini, quando la compendia in una sola frase: “Giotto è entrato in quella chiesina crisalide e ne è uscito farfalla”.
E che altro possiamo immaginare se non un’esperienza quasi mistica in Dante per poter scrivere certi passi del suo Paradiso o in Michelangelo in quella visione cosmica del divino nella Cappella Sistina; o in Caravaggio così inebriato da un furore struggente? E ai nostri tempi, quale esperienza interiore, ad esempio, invadeva l’anima di Chagall per offrirci le sue splendide vetrate? Allora domandiamoci: come metterci di fronte all’arte sacra, non accantonando ma oltrepassando il tempo, lo spazio, le epoche e gli stili per poterla intendere e penetrare al di là della contingenza della sua storicità?
Io credo che, in qualche modo, una risposta dobbiamo darcela, se vogliamo penetrare l’opera d’arte in modo da carpirne l’intimo. Vi posso abbozzare solo quello che cerco dentro di me dinanzi ad un soggetto sacro sia antico come può essere, per citarne uno, la Crocifissione di Haltdorfer, come ugualmente per uno recente come il Cristo giallo di Galuguin. Oh! Certo: l’artista è paradossalmente il più riservato e pudico degli uomini, ma anche proprio il più aperto: ha pudore nel farci penetrare nella sua esperienza interiore, tanto che nell’opera si direbbe quasi che voglia criptarla, e trasferendola in forme le più varie, dal simbolico all’astratto, dandocene magari un senhal che può essere un pass-wort; tuttavia nel medesimo tempo ce la getta in faccia quasi nel modo più sfacciato.
La fede, le esperienze o la ricerca del sacro sono proprio questo. Perciò analizziamo e disquisiamo pure su stili e storicità di un’opera d’arte; su contesti culturali e magari sulla biografia dell’artista, ma solo come propedeutica. Se ci fermiamo qui non attingeremo mai, come l’artista è riuscito o ha tentato di fare quel noumeno del divino che lo ha animato, certo in uno scontro impari, tradotto inevitabilmente in un balbettio di “rade e storte sillabe” (direbbe il Montale); che poi siano esse versi, pennellate o note non fa differenza. Allora?
Proprio questo è quel che ci rimane da fare e spesso non vogliamo, rifiutiamo. Non riusciamo a farlo per mancanza di simpatia con l’esperienza tradotta in opera e non ci lasciamo suggestionare da quanto ci vien dato. Questo lasciarsi andare invece è l’unico modo possibile per un autentico approccio con l’arte sacra e si chiama contemplazione. Per chi non crede è l’unico modo per percepire il già e non ancora di sé e la chiave di lettura della realtà, per mettersi in ascolto di una risposta e avvertire una presenza.
La contemplazione diventa preghiera; preghiera come quella del salmista: “Signore, il tuo volto io cerco, mostrami il tuo volto!” \
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2 CONOSCERE E AMARE L’ARTE (Servigliano 2007)
L’arte sacra si esprime in forme diverse e tutte interessanti: dall’architettura delle chiese alle decorazioni, ai dipinti, alle statue, agli oggetti per il culto, come candelieri, croci, calici e i tessuti che sono usati per gli altari e per i paramenti liturgici. E’ da questa varietà di ‘cose’, di forme e di materie che nascono valori spirituali.
Questi oggetti, collocati negli spazi sacri indicano la devozione dei fedeli, ci ricordano la storia della nostra fede, dei santi che la comunità cristiana di un paese ha venerato ed in nome dei quali ha compiuto e realizzato spesso opere di carità e assistenza importanti. Chi visita una chiesa, può ricostruire la storia della devozione, della carità di una comunità cristiana, del paese.
In molte comunità oggi si stanno riscoprendo i valori che le immagini trasmettono. La Chiesa ha creato delle strutture apposite nelle singole diocesi istituendo l’Ufficio Beni Culturali ecclesiastici che ha il compito di catalogare, proteggere, rendere fruibile il patrimonio, ma soprattutto far scoprire ciò che c’è dietro ogni opera: perché quel santo? Come si lega alla Comunità? Quale messaggio essa trasmette? Un’opera d’arte sacra, se non ‘parla’, non trasmette un messaggio di fede e\o di storia della fede di una comunità, non è nulla, per quanto bella possa essere, se ne è perso lo scopo per cui è stata realizzata.
In altri ambienti si è persa l’attenzione da parte della comunità dei fedeli, che sembrano disattenti ai valori profusi dalle opere d’arte sacra conservate nelle nostre chiese, e questo per vari motivi: c’è un’ignoranza diffusa su riti, celebrazioni sacre e quindi su tutto ciò che li correda; si è perso il senso di un’appartenenza nel sentirsi componenti di una comunità, per cui, tutto quello che riguarda la parrocchia, i santi patroni, le tradizioni tipiche e particolari, viene ignorato. Si è perso il valore pedagogico e catechistico delle opere e degli arredi sacri. Io penso che portando le persone in chiesa, o in un museo d’arte sacra, si faccia catechismo.
Tutti possiamo essere istruiti sulle opere che il proprio paese, la propria chiesa possiedono affinché imparino ad apprezzarle e quindi a diffonderne la conoscenza. Occorre esser formati ad apprezzare il bello ed il sacro per poterlo proteggere. Questa formazione ha lo scopo di far comprendere la bellezza, la storia, i valori spirituali ed affettivi di certe opere: questo percorso permette a ciascuno di sentirle come ‘proprie’.
I furti nelle chiese rientrano nella categoria legale dei furti d’opere d’arte come quelli nei musei, nelle collezioni private, ma non si tratta solo di questo. Chi ruba nelle chiese si rende conto di rubare un oggetto sacro oltre che un valore artistico e quindi di commettere un sacrilegio.
Per la tutela, per la conservazione, per la valorizzazione delle opere di arte sacra occorrono molti fondi. Gli enti preposti sono generalmente poco attenti a questo. I pochi fondi che stanziano sono per lo più destinati alle opere dei Comuni o delle Province; mentre per le chiese e i luoghi religiosi restano generalmente gli ‘spiccioli’.
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3 MUSEO DI ARTE SACRA – LA FEDE DELLE COMUNITA’ INCARNATA NELLA STORIA
Il visitatore che entra in un museo di arte sacra, grande o piccolo che sia, percepisce subito che non sta solo, o non soltanto a bearsi di pregevoli opere d’arte. Sa che va ad ammirare, apprezzare, contemplare dipinti, arredi, suppellettili propri di un edificio sacro, che un tempo erano, e talora ancora sono di uso normale nella liturgia o oggetti di venerazione e di devozione o simboli di storiche aggregazioni religiose, quali le confraternite.
Sorge tuttavia spontanea la domanda sul perché di questo museo. Vi sono musei, infatti, che, per lo più, raccolgono sacro e profano, perché obbediscono a criteri cronologici o dall’autore o, peggio, metonimicamente, a materia e tecnica delle opere stesse. In questi casi, l’opera d’arte sacra vi è a pigione, diminuita del suo valore intrinseco, svilita di ogni senso, proprio perché viene annullata la funzione del codice che li trasmette: “un pasticcio di giovedì grasso e di venerdì santo” avrebbe esclamato l’acuto Manzoni.
Il frutto di tutto ciò è, da un lato, retaggio di requisizioni forzose di chiara memoria storica, di tortuosi percorsi antiquariali, di illegittime appropriazioni, e eufemisticamente dette depositi o prestiti dei beni della Chiesa. E’ anche la conseguenza inevitabile di un mutamento di orientamenti all’interno della Chiesa, con interventi sui riti liturgici e sulle forme della vita religiosa.
La prima ragione ha condotto ad un accumulo eterogeneo di opere ormai considerate solo per i pregi storico-artistici; l’altra, “e converso”, ad un dismesso uso di arredi e suppellettili o di quant’altro non ritenuto più utilizzabile. Proprio da questa situazione di fatto, è sorta la caratterizzazione del museo di arte sacra, ove trovino posto le opere di carattere religioso, con criteri adatti ad una lettura propria e adeguata, in dignità e decoro, garantite nella tutela della conservazione.
Del resto, questo modo di custodirle e di renderle fruibili ha radici assai lontane nella storia del cristianesimo: grandi cattedrali, fiorenti abbazie, famosi santuari hanno da sempre avuto il cosiddetto tesoro, che, in alcuni casi, esiste tuttora. Le fabbricerie di monumentali edifici sacri hanno istituito i ben noti musei dell’opera. Quanto ivi custodito poteva essere ammirato e nel contempo usato quando le esigenze liturgiche lo richiedevano.
Se, dunque, improprio può essere il termine museo, per l’idea che evoca, è certo valida la realtà della istituzione dei musei di arte sacra che ha molte e differenti valenze rispetto all’uso corrente. Resta comunque il fatto che una tale istituzione debba essere l’estrema “ratio” per opere di interesse religioso, qualora, cioè, esse non possano essere altrimenti conservate e tutelate. Resta infatti irrinunciabile il principio, ora accolto finalmente dallo Stato, che l’opera debba essere conservata là dove la committenza l’ha voluta, l’artista vi ha fatto riferimento nel crearla, le fede e la pietà l’hanno fatto oggetto di venerazione o oggetto di uso liturgico.
Un museo di arte sacra, dunque, istituito come soluzione alternativa, non può non essere che la ideale continuità dell’edificio sacro cui le opere appartengono, disponibili all’uso ogni qual volta la liturgia lo richieda. Va collocato perciò il più possibile vicino alla chiesa stessa, e in modo ottimale, nei locali di pertinenza, sicché il visitatore o il fedele che vi voglia accedere ne fruisca in contiguità all’edificio sacro con lo stesso spirito.
Si tratta infatti, di una sorte di “prolungamento” della vita ecclesiale della comunità, ne testimonia la fede, ne ricostruisce la storia. Questa particolare caratterizzazione individua la natura, diversa da quella di un museo di civili istituzioni, dove le opere spesso vi sono confluite per motivazioni improprie o per casualità, in un assemblaggio eterogeneo, fortemente straniante e senza un filo conduttore che possa determinare e “ricondurre all’unità” il loro significato.
La peculiarità dunque, di un museo di arte sacra è data dalla possibilità di ricostruire una storia di secoli della comunità cristiana cui ogni opera fa riferimento: suppellettili e arredi qualificano la dignità e il decoro delle azioni liturgiche, le donazioni mettono in evidenza cura e fede di famiglie e di singoli fedeli; opere pittoriche o reliquiari richiamano la devozione, la preghiera nel bisogno o nel pericolo, il ringraziamento per gli interventi provvidenziali. Gli arredi delle confraternite testimoniano la capacità di aggregazione ai fini di culto e carità, del popolo cristiano. Tutto ciò attraverso vari secoli, in forme e stili diversi, quasi una gara incessante di fede e di pietà.
4.LA PINACOTECA – GENIO LOCALE
Ogni luogo, come ogni persona, ha il suo generatore di vita intimamente connesso con l’esistenza del luogo. (cfr. Debuyst, F. “Genius loci cristiano”. Milano 2000). Una raccolta di arte sacra è questo genio locale, luogo intimamente connesso con la presenza del divino rappresentato in modo visibile, in un luogo. Il problema del fruire delle opere d’arte trova soluzione nel circuito di tanti musei locali che permettano di conservare “in loco” opere d’arte e suppellettili sacre delle chiese appartenenti allo stesso al medesimo vicariato
Per entrare in contatto con lo spirito del luogo servono conoscenze del carattere, dell’orientamento e della riconoscibilità. Il carattere è il complesso di connotazioni che ci fanno identificare e distinguere un luogo, come case, campagna, vallata. L’orientamento nel contesto da cui l’opera d’arte proviene (chiesa, convento, cripta) è ricerca, respiro, captazione visiva, concentrazione interiore. La riconoscibilità fa cogliere il senso profondo dell’opera sacra a vari livelli (storico, sociologico, iconologico, iconografico, stilistico) e la capacità del luogo stesso di comunicare il suo genio generatore di vita. Scrive il Paolucci: “ era necessaria un’aggregazione alla chiesa maggiore in modo che il museo fosse legato ad un edificio sacro ancora popolato e officiato, per permettere agli oggetti esposti di conservare quell’aura sacra che è elemento fondamentale per la comprensione di quella che è la loro specificità storica ed estetica; mantenere una contiguità fisica, una vicinanza, simbolica di cultura, di memoria, diritti, di consuetudini fra la realtà viva della Chiesa di oggi e i documenti della Chiesa di ieri (Intervista in Avvenire 12.03.2000).
In tali condizioni la pinacoteca della parrocchia offre un incontro con lo spirito del luogo. Scrivono di vescovi della Toscana, che l’uomo contemporaneo è affascinato dalle immagini che gli vengono proposte dalla tradizione del passato. Quando uno entra nella chiesa o in una pinacoteca ecclesiastica ammira architettura, affreschi, tele, statue e percepisce il carattere e la modalità principale della destinazione del luogo, ogni opera d’arte sacra ha riferimenti alla fede, alla devozione, all’uso liturgico e particolari annotazioni stilistiche e tecniche.
Il visitatore decodifica sia l’asse denotativo che quello connotativo, coglie un messaggio che ha la valenza di allargare lo spazio del sacro.
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5.L’ARTE SACRA COME PROFEZIA.
In ogni museo o mostra ci si trova di fronte a molte opere, prevalenti, o quasi esclusive, opere di arte sacra. C’è da chiedersi: perché questo predominio? E perché questa conservazione durata da secoli e da millenni da parte della Chiesa? La risposta semplice ma ricca è che la fede ha una storia e questa non può essere cancellata, anzi è gelosamente conservata. Certo, è storia di una comunità, di una devozione, di una ininterrotta attività dell’impegno umano: anche in ambienti non cristiani e in istituzioni civili questo principio è entrato.
È da sottolineare questo motivo profondo per cui le diocesi tramite l’operatività degli uffici competenti nei beni culturali svolgono la politica di valorizzare e proteggere dell’arte sacra. Giovanni Paolo II nell’enciclica sul significato teologico delle icone del1987 per commemorare l’editto del concilio di Nicea del 787 a difesa del culto delle immagini, scrive: “ La nostra tradizione più autentica, che condividiamo pienamente con i nostri fratelli ortodossi, ci insegna che il linguaggio della bellezza, messo al servizio della fede, è capace di raggiungere il cuore delle persone, di far conoscere loro dal di dentro colui che noi possiamo rappresentare nelle immagini, Gesù Cristo.”
Nello stesso anno il patriarca di Costantinopoli, Demetrio, più esplicitamente afferma che “ l’immagine diventa la forma più potente che le verità della fede cristiana prendono”. Perché? Come mai tutto questo? La ragione è che l’arte sacra profetizza nell’oggi il memoriale storico con i segni del futuro escatologico. Vi è contenuto ed espresso un evento di salvezza nella persona di Gesù Cristo. Un evento che è storia vivente, è presente nel tempo, vissuto ieri come oggi e ogni volta che il domani diventa attuale, oggi.
Il segreto di tutto ciò è la bellezza la quale assurge a valore assoluto, sciolto da ogni condizionamento o regola del contingente: Omero, Dante, Giotto o Michelangelo varcano le contingenze del tempo e di ogni contesto sociale. Tutto ciò è possibile perché il bello, che è radicamento dell’essere, ha in sé un’evidenza che immediatamente illumina. Se tutto questo viene assimilato dal nostro spirito allora è possibile capire e più ancora incantarsi dinanzi al volto di Cristo, ad un’icona bizantina della Vergine, ad un Crocifisso o ad una estatica rappresentazione di Santi.
E la popolazione, i fedeli, gli amministratori e quanti hanno a cuore queste opere hanno da fruire questi scrigni di sacralità e di bellezza.
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6 LA PASQUA E L’ESPERIENZA ARTISTICA. L’INCONTRO DI DUE MONDI: mistero creativo e mistero salvifico.
La Pasqua nella sua valenza cristiana (passione, morte, risurrezione di Cristo) ha registrato nel corso dei secoli una dimensione artistica plurima e alta: si va dalla poesia alle arti figurative, alla musica, alle sacre rappresentazioni. Certo, l’arte è l’espressione interpretativa onnicomprensiva della realtà e la “realtà” della Pasqua, così ricca e coinvolgente, non poteva essere trascurata o accantonata. Al di là delle dimensioni umane di ogni opera, c’è da chiedersi perché artisti grandi e meno grandi, anche non credenti, si sono lasciati “travolgere” dalla serie di eventi pasquali che rappresentano per ogni uomo un vero mistero. Proprio riflettendo su questo interrogativo, penso di aver colto con maggior pienezza il senso di un’affermazione di H. U. Von Balthasar: “Il bello ha in sé un’evidenza che immediatamente illumina”. E’ come dire che il mistero creativo dell’artista incontra il mistero della divina salvezza; sembra assurdo, ma due misteri, incontrandosi, producono evidenza, perché l’assurdo, o meglio, il miracolo che si compie è quello dell’artista-uomo che s’incontra con Dio. Questa “eccezionalità” non può restar nascosta, si impone anzi, con un carattere così palese e irrefutabile, che ogni artista non può fare altro che ammetterlo e denunciarlo apertamente, rendendolo una certezza visibile. Due letterati insigni, Metastasio e Manzoni, di fronte al Cristo sofferente e glorioso, non possono far altro che affermarne l’evidenza, risultato di un incontro, e ciò fin dall’attacco di loro celebri testi: “L’alta impresa è già compita / e Gesù col braccio forte…vincitor ”, scrive il Metastasio. “E’ risorto, non è qui …”, esclama il Manzoni nell’inno al Risorto. E ancora, l’evidente potenza del Cristo vincitore emerge prorompente in Piero della Francesca e in Michelangelo. La sua solitudine nel “Cenacolo” leonardesco, il dramma nella potenza dell’”anelito della seconda vita” nel resurrexit della “Missa solemnis” di Beethoven che “illumina”, manifesta, trasmette, in un’equazione che è la più potente forma comunicativa: bello così, in tali forme, il segreto del mistero nell’arte.
Ma la grandezza del mistero pasquale non è certo compendiabile in nessuna singola opera degli artisti-uomini; di esso ogni lavoro evidenzia, illumina alcune delle infinite facce: il mistero del dolore come strazio dell’anima nei versi di Jacopone da Todi, il “condolère” partecipato nei corali della “Passione” di Bach, lo struggimento e l’implorazione nello “Stabat” di Pergolesi, quello muto e contemplativo negli affreschi dell’Angelico a San Marco.
Fanno seguito la gioia di un trionfo regale nell’”Alleluia” del Messia di Hendel o lo sprigionarsi dell’”ambito della seconda vita” nell’energia creativa del Cristo Risorto del Fazzini; e in tutte, il tempo più ampio della fede ritrovata nella “Cena di Emmaus” del Caravaggio, l’indifferenza o l’incomprensione nella “Cena e Crocifissione” della serie di tele della scuola di San Rocco del Tintoretto, l’atmosfera sacrale e composta nei “Responsori” di Ingegneri e di De Victoria.
E’ proprio perché l’uomo non avrà mai, in tutta la sua storia intera, la capacità di accogliere in sé tutto il mistero salvifico, la suprema fatica di tanti artisti di ieri, di oggi e di domani, è tesa a evidenziare quanto ancora non espresso e a illuminarci con la bellezza per una nuova e più profonda comprensione.
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7.IL MUSEO DIOCESANO DI FERMO. (15 luglio 2004)
La storia del museo diocesano di Fermo ha radici lontane perché quindici anni fa l’arcivescovo Fermano, mons. Cleto Bellucci aveva prospettato la necessità di offrire adeguata collocazione allo straordinario patrimonio artistico della cattedrale e di altri siti, procedendo con la progettazione e la conseguente realizzazione. Le opere erano ben custodite nei loro luoghi, ma non potevano essere ancora fruite da tutti. I locali necessari al museo sono ubicati a lato della cattedrale. Per i necessari interventi si susseguirono imprese, collaborazioni, e pareri delle Soprintendenze competenti in materia. All’architetto Fabio Torresi era stata affidata la direzione dei lavori e la progettazione dell’allestimento, dalla disposizione delle opere, al design delle teche.
Nel 1997 il successore mons. Gennaro Franceschetti ha creduto fortemente nel museo come “bene” pastorale e quindi come strumento di evangelizzazione e di incontro anche con chi non è particolarmente partecipe della vita cristiana, ed ha sostenuto, promosso, favorito e sollecitato la conclusione dei lavori ed ha curato la disposizione delle opere con adeguamento dell’apparato didattico. Al vicario generale mons. Armando Trasarti è stata affidata la oculata gestione delle risorse finanziarie. Finalmente il 16 aprile 2004, alla presenza del ministro per i Beni Culturali, on. Giuliano Urbani, di numerose autorità e gran folla di cittadini, il museo è inaugurato. Questo museo vuole essere il polo di una ricchissima e preziosa rete di musei e di raccolte parrocchiali, diffuse nel territorio dell’arcidiocesi. La Chiesa Fermana si sta dimostrando molto sensibile alla tutela e valorizzazione del patrimonio artistico. Numerosi sacerdoti con grande passione ed entusiasmo ed anche con sacrifici economici hanno sistemato locali, realizzato impianti, restaurato opere, allestendo piccoli, ma straordinari musei parrocchiali. Il territorio di questa arcidiocesi è costellato da tali raccolte che vanno da Massignano a Campofilone, a Carassai e, da Capodarco di Fermo, a Petriolo, a Corridonia, a Mogliano, a Morrovalle fino a Montefortino, mentre sono in corso di progettazione altre sedi ancora.
Il museo ecclesiastico si pone come luogo di valorizzazione e recupero di un patrimonio posto al servizio della missione della Chiesa e significativo da un punto di vista storico-artistico: è strumento di evangelizzazione cristiana, di elevazione spirituale, di dialogo con i lontani, di formazione culturale, di fruizione artistica, di conoscenza storica (Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, La funzione pastorale dei musei ecclesiastici. Città del Vaticano 2001).
Nel museo diocesano di Fermo sono ora custodite le opere d’arte che un tempo erano conservate nel tesoro della cattedrale, con l’aggiunta di altre provenienti dall’arcivescovado, dalle chiese di Fermo e dal territorio dell’arcidiocesi. Vi sono esposte testimonianze di un arco di tempo che dall’arte paleocristiana giunge fino agli inizi del novecento, ripercorrendo le diverse fasi costruttive della cattedrale, la presenza di insigni vescovi, i rapporti con il papato (tra cui i vescovi di Fermo divenuti papi come Pio III e Sisto V) e oggetti di uso liturgico, tracce di una costante devozione. L’esposizione è organizzata per tipologie omogenee, seguendo, all’interno di ognuna di esse, epoche e stili.
Le sezioni più ampie sono così costituite: Sala dei vasi sacri (calici, ostensori, pissidi, reliquiari e altro): suppellettili sacre di splendida fattura, tra due cui due calici gotici, un tempietto in lapislazzuli, l’apparato pontificale del card. Filippo Angelis, opera in oro dell’insigne orafo G. L. Valadier; il servizio di candelieri e croce d’altare, in cristallo di rocca; e numerosi altri lavori di celebri argentieri e orafi romani e locali (Piani e Raffaelli). Nelle sale dei paramenti sacri dal 600 agli inizi del 900; rilievo particolare è riservato alla casula di San Tommaso Becket, frutto dell’arte tessile di origine araba, datata 1116: la madre dell’arcivescovo di Canterbury la donò alla Chiesa Fermana in ricordo dell’amicizia tra suo figlio San Tommaso al vescovo Fermano Presbitero, suo compagno di studi a Bologna.
La Quadreria si dispiega in due sale e raccoglie opere di celebri artisti: Marino Angeli, Vittorio Crivelli, Carlo Maratta, Pomarancio, Corrado Giaquinto, Hayez, Luigi Fontana. All’ingresso, nella prima grande sala sono raccolti autentici capolavori, la parte più importante del tesoro della cattedrale: vi si possono ammirare, infatti, il Messale miniato nel 1436 da Ugolino da Milano, un inedito Messale miniato del XIII secolo, la stauroteca donata da Pio III di fattura probabilmente veneta con preziose miniature; il pastorale in tartaruga e madreperla, donato da Sisto V, il monumentale ciborio in bronzo dei fratelli Lombardi-Solari del secolo XVI, una xilografia raffigurante L’istituzione della Confraternita del Salterio di N. S. Gesù Cristo e della beatissima Vergine Maria da parte di san Domenico, una delle primissime testimonianze, databile all’ultimo quarto del secolo XV, della diffusione del Rosario.
Il museo diocesano di Fermo vuole essere una realtà viva e vivace, centro di cultura e di formazione, inserito come valido strumento nel progetto pastorale diocesana. Concretizzare tutto ciò, coinvolgendo le diverse realtà ecclesiali e non, è il progetto ambizioso ma imprescindibile se non si vuole perdere la sfida che un museo di arte sacra ha insita in sé.
Il Direttore ringrazia le imprese, i restauratori e i loro collaboratori, infine gli operatori dell’Ufficio Beni Culturali.
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8. UN POLITTICO ARTE SACRA FRANCESCANA. Attribuzione
La sede del museo diocesano di Fermo si è arricchita di un grande polittico che viene variamente attribuito, recentemente a Giuliano da Fano detto Presutti. Si tratta di un’opera grandiosa costituita da cinque comparti, con otto tavole, una predella e cinque cuspidi, organizzata in una splendida cornice intagliata e dorata di grandi dimensioni: cm 325×280.
È un’opera sconosciuta ai più, ma studiata dagli esperti che proprio per la sua originalità e difficoltà di classificazione, hanno di volta in volta proposto varie attribuzioni. Vi si vedono stilemi del primo Rinascimento dell’Italia centrale e si è concordi datarla ai primi decenni del Cinquecento. Essa proviene dalla chiesa di S. Francesco di Monte S. Pietrangeli ed è stata trasferita in deposito temporaneo al museo, su richiesta dell’amministrazione comunale, in attesa che nella suddetta chiesa si potesse procedere ad una adeguata tutela. Il polittico ha trovato collocazione adeguata ed eminente nella prima sala della quadreria, insieme ad opere omogenee per tecnica (dipinti su tavola) e idealmente completa uno spaccato artistico del periodo che va dal tardo gotico al primo Rinascimento in un processo storico artistico che con i Crivelli, Marino Angeli e altri già presenti, ripercorre un segmento importante delle cultura figurativa nella nostra terra.
Quanto poi al contenuto iconografico, una lettura attenta delle varie tavole ci aiuta ad una ricollocazione teologica e devozionale precisa, connotata da una chiara matrice francescana. Al centro, infatti, sono poste due tavole che richiamano il mistero della redenzione: Madonna col Bambino e Cristo deposto dalla croce, completato dalla cuspide centrale con l’Eterno e dalla predella con Cristo risorto e i 12 apostoli. Ai lati, i santi che di volta in volta sono stati oggetto di venerazione nelle nostre terre: anzitutto i santi Francescani: San Francesco, Sant’Antonio da Padova, San Bernardino. Inoltre i santi a cui chiese e cappelle, per una diffusa devozione, sono state loro dedicate nella nostra arcidiocesi: san Pietro, i diaconi santo Stefano e san Lorenzo, santa Caterina d’Alessandria, san Biagio. Infine non poteva mancare san Sebastiano, uno dei protettori invocati nelle pestilenze. Si tratta di un’opera, assolutamente da vedere e contemplare, tanto più che la temporanea sua presenza in museo ne favorisce l’approccio, prima di tornare al sito naturale, per la verità un po’ decentrato.
9. IL CRISTIANESIMO E L’ARTE – tematiche: basiliche; sarcofagi. Dall’oriente simbolismo; mosaico; iconologia: iconismo, aniconismo, iconoclastia.
Nel medioevo: monachesimo, abbazie, reliquie. Benedettini: cluniacensi; cistercensi; certosini. Iconologia: la croce e i crocifissi. Cattedrali.
Dopo il Concilio di Trento, stili d’arte: barocco, rococò, neoclassico; revivals ottocenteschi.
Correnti: classicismo e realismo, devozionale, trionfalistico scenografico.
Nel novecento: innovazioni tecnologiche e disgregazione dell’arte.
Il sacro nell’arte?
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LIBERATI Germano. “PER UNA STORIA DELLA CATTEDRALE DI FERMO”
. – .Per una storia dell’edificio.
Tentare di delineare e documentare la storia della Basilica Cattedrale Metropolitana di Fermo significa dover fare la storia di quattro cattedrali. Occorre, infatti, prendere l’avvio da quella paleocristiana per giungere a quella neoclassica, attraverso quella romanica e la successiva gotica. Non si tratta, infatti, di descrivere soltanto aggiunte o modernizzazioni o aggiornamenti stilistico-decorativi che segnano per lo più l’evoluzione storica di tante chiese, bensì di ricuperare, dalla base (funditus), strutture, proporzioni, piante, stilemi che di volta in volta sono mutati in successive quattro ricostruzioni, tutte ex novo o quasi; esse hanno abbracciato sedici secoli di storia religiosa e civile di Fermo (1) e si sono caratterizzate secondo necessità, stili, gusti diversificati nel tempo, in un continuo divenire cui fanno da codicillo gli ultimissimi interventi tra il secondo e terzo millennio. Di ricostruzioni dunque si tratta e non di ristrutturazioni, segnate da eventi importanti nella storia fermana, dal sorgere e dallo svilupparsi della prima comunità cristiana, alle distruzioni del Barbarossa, alla rivisitazione storico-stilistica del tardo settecento. Quattro cattedrali, l’una sopra l’altra, tutte nuove, tutte diverse. Chi oggi vi entra non può non accorgersene, tali sono le sedimentazioni che dall’ipogeo si dispiegano nella facciata e nell’atrio, fino all’aula, maestosa e solenne che accoglie il fedele o il visitatore: un complesso di forme plurime e di volumi diversi che induce a pensare ad una comunità cristiana mai paga dell’esistente e sempre volta ad un dinamismo culturale di difficile riscontro: una creatività senza limiti di tempo e di gusto.
. – .Le origini paleocristiane e il primo tempio
Non sono state ancora chiarite le origini e la diffusione del cristianesimo nel territorio Piceno (2) in genere e a Fermo in particolare; del pari non è possibile stabilire l’epoca esatta della prima chiesa, dato che la documentazione è quasi del tutto assente a tal riguardo. Qualche elemento più probante ci viene dall’archeologia: un sarcofago cristiano del V secolo, oggi nella cripta della cattedrale, reperti di altra natura collocati nell’ipogeo di essa, iscrizioni funerarie cristiane nel lapidario della città, ma non ancora studiate, ci offrono elementi abbastanza sicuri, almeno come data prima della quale (terminus ante quem), per affermare la presenza di una comunità cristiana con vescovo (3) a Fermo tra la fine del IV sec. e l’inizio del V . Il vero evangelizzatore del Piceno sembra essere stato S. Marone (4) il cui santuario con la tomba si trova a Civitanova Marche, città della arcidiocesi di Fermo; il suo martirio andrebbe collocato, secondo studi recenti, sotto Diocleziano, tra la fine del sec. III e l’inizio del IV. Nel VI sec. certamente a Fermo era già costituita la grande diocesi insieme ad altre quattordici del Piceno (5). È dunque con ogni probabilità, da collocare alla fine del sec. IV o l’inizio del V la costruzione del primo tempio, divenuto, pur con successivi adattamenti, basilica cattedrale e sede episcopale, tenendo conto che la costituzione della diocesi va posta a seguito del progressivo incremento della comunità e dell’aumento del prestigio dell’importante municipio romano. A questo riguardo, oltre alla documentazione archeologica, può essere addotta la prova argomentativa, cioè il fatto che la chiesa, come vedremo, fu costruita proprio sul colle più alto della città dove avevano sede i luoghi di culto pagano, un’area cimiteriale e l’anfiteatro. Se, infatti, come è noto, fino al IV sec. le chiese cristiane erano per lo più edificate ‘ai margini’ per evitare conflitti con i culti pagani , nel V sec., vuoi per la grande diffusione del nuovo credo agevolato dall’editto teodosiano, vuoi per le distruzioni avvenute in seguito alle invasioni barbariche (6), tale zona dovette essere in decadenza o semiabbandonata e quei ruderi erano divenuti agevolmente utilizzabili per il nuovo edificio, sia come materiale di risulta, sia come eventuali costruzioni. Tuttavia fino al 1934, ad eccezione del sarcofago (7) e dei reperti cui si è fatto riferimento, ben poco si conosceva del primo edificio cristiano, salvo alcune tradizioni riportate dagli storici antichi, ma non documentate. In quell’anno si pose mano al rifacimento del pavimento dell’attuale cattedrale e alla demolizione della balaustrata e della gradinata d’accesso al presbiterio. Durante i lavori vennero alla luce strutture sottostanti e mosaici pavimentali. Si procedette ad uno scavo di natura archeologica (1934-1939) che portò a stabilire l’esistenza e a ricostruire abbastanza fedelmente le linee essenziali di una chiesa paleocristiana su un’area di difficile individuazione e natura, ma con ogni probabilità cimiteriale. I risultati degli scavi (8) hanno messo in luce un edificio a pianta basilicale, a tre navate divise da due file di sei colonne; la navata centrale termina con un’abside semicircolare orientata ad est. L’edificio antico ha una lunghezza di m 22,60 ed una larghezza di m 13,50. La struttura di un muro preesistente, che dalla sinistra dell’abside, taglia a mezzo la navata centrale, fa supporre l’esistenza di un edificio precedente, una chiesa più piccola, che forse doveva essere la primitiva, poco più larga della navata sinistra. Di tale primo tempio, la basilica restituita dallo scavo è il successivo ampliamento. Altri elementi attentamente analizzati ci convincono di una apertura al centro della navata sinistra sul lato settentrionale e di un’altra sul lato a fianco dell’abside: esse fanno supporre la presenza di uno dei due classici pastoforia (ai lati dell’abside locali gemelli), probabilmente la prostesi (locale a sinistra dell’abside). Del pari una traccia al centro dell’abside che interrompe il mosaico pavimentale può essere interpretata come il sito della cathedra cui farebbero da riscontro blocchi di pietre nel semicerchio da intendere come il gradone ove erano posti i subsellia (banchi) per il clero. Il titolo dedicatorio di questa prima chiesa ci è ignoto. Se dobbiamo pensare che successivamente essa è detta di “Santa Maria”, si potrebbe, come la tradizione vuole, supporre che tale titolo sia stato quello iniziale; ma argomenti più probabilistici possono far pensare a “San Savino” vescovo, il cui culto risulta assai diffuso nel sec. VI e ciò spiegherebbe la ininterrotta tradizione che fino ad oggi lo venera come compatrono della città (9). Gli scavi hanno permesso di andare oltre la cattedrale paleocristiana e certi indizi lasciano intuire successivi interventi. Tra il livello del pavimento attuale, infatti, e quello paleocristiano sono stati individuati almeno altri due livelli intermedi che certamente corrispondono a fasi successive, se pur con l’immutato impianto iniziale. Resta ora da accennare al pavimento mosaicato a quota di m – 1,35 dell’attuale piano di calpestio della cattedrale. Dei mosaici rimane quello dell’abside e ampie zone delle navate laterali nei settori verso il presbiterio, mentre della navata centrale sventrata nello scavo, non si sa nulla: che vi fossero mosaici è testimoniato da lacerti nell’intercolumnio; se siano stati strappati e ora in qualche parte dispersi o se siano stati distrutti non v’è alcuna registrazione documentaria (10). La decorazione musiva del pavimento dell’abside ha, come norma, un soggetto iconico policromo: due pavoni affrontati con al centro un kàntharos (coppa) con racemi ed una cornice in tessere bianche e nere. Nella navata sinistra invece la decorazione è costituita da una composizione ad onde con pelte (scudi)), girali e fasce a motivi geometrici; nella navata destra sono presenti motivi floreali e geometrici. I mosaici, anche se qualcuno vorrebbe anticiparli alla fine del IV secolo, sono, con ogni probabilità, ascrivibili al V sec.
. – .La basilica preromanica e romanica
Alcune foto degli scavi del 1934 e di anni successivi e alcune annotazioni accessorie rinvenute qua e là, offrono la possibilità di ricuperare elementi e tracce di strutture, successivi alla basilica paleocristiana. Innanzitutto tra il pavimento moderno e quello paleocristiano mosaicato si possono individuare due livelli intermedi, certamente altomedievali. Il più basso di essi (a circa m -1,25 dall’attuale) è accompagnato presso il muro della navata sinistra da lastroni di pietra che andavano a costituire una pavimentazione nuova, forse quella dell’edificio preromanico. L’edificio che si può individuare sulla base di queste strutture è del medesimo impianto del paleocristiano, ma notevolmente allungato nell’aula verso ovest, cioè dalla parte del muro della facciata primitiva con l’abbattimento di quest’ultima e la costruzione di una nuova, di cui non si possono definire struttura e ampiezza a causa della interruzione degli scavi. La ragione di tale allungamento non può essere altra se non quella della necessità di una maggiore ampiezza dell’aula, in seguito alla crescita della comunità. Se anche molteplici altri casi presentano tipi di interventi di ampliamento (si pensi a quello non lontano da Fermo, nella cattedrale di S. Ciriaco in Ancona), tuttavia, mentre negli altri si interveniva soprattutto allargando l’edificio o aggiungendo corpi di fabbrica più articolati, questo di Fermo si imponeva quasi come l’unico possibile o il meno complicato architettonicamente, perché non andava a creare problemi di statica e insisteva sulla zona più solida della collina, quella verso l’ampia spianata. Si potrebbe pensare forse anche ad un ampliamento della zona presbiteriale, ma ciò resta solo una ipotesi non confermata né forse confermabile, perché la zona è stata successivamente sbancata per costruirvi l’attuale cripta. Va aggiunto che nell’ipogeo restano in situ tuttora le basi di due colonne, scolpite agli spigoli con foglie stilizzate, forme che si adeguano a quelle in uso nel primo romanico, tra il primo ed il secondo millennio. In questo senso si può dunque pensare che la chiesa potesse aver subito anche interventi di ristrutturazione, oltre all’ampliamente predetto. L’edificio dunque di cui si son dati gli unici elementi ricostruttivi possibili, costituisce la “seconda cattedrale”, sovrapposta alla prima, allungata e ristrutturata in alcune parti, frutto di interventi nell’alto medioevo e nei secc. X – XI (11). In mancanza di documentazione di scavo, dobbiamo pensare che essa, salvo interventi occasionali e limitati, sia rimasta così sino alla fine del sec. XII. Fin qui le testimonianze archeologiche. Ma ad esse vanno aggiunte quelle archivistiche e storiografiche che ampliano alcune nostre conoscenze, specialmente in riferimento al sec IX. Protagonista di interventi specifici sarebbe stato il vescovo Lupo, cui il Catalani (12) attribuisce l’ampliamento e l’ornato della chiesa ma anche l’adeguamento (o la costruzione?) degli edifici annessi, l’episcopio e la casa dei canonici. È comunque certo che tali opere fossero state già realizzate all’inizio del nuovo millennio. Un prezioso codice, infatti, il Liber jurium dell’episcopato e della città di Fermo che corre dal 977 al 1266, ci fornisce preziose informazioni in tal senso, dalle quali si possono ricavare alcuni fatti importanti: a.- La cattedrale dopo il mille risulta dedicata alla B. Vergine Maria; b.- numerosissime furono tra i secc. X e XI le donazioni fatte alla Cattedrale (segno dei lavori in corso? ); c.- le decisioni venivano spesso prese di comune accordo tra vescovo e canonici, così come stabilito dal decreto di Eugenio IV nel concilio romano dell’826. I canonici abitavano in una casa comune (13). Se a questo punto vogliamo tentare una sintesi tra documentazione archeologica con quella archivistica, possiamo avventurarci a ‘ricostruire’ a grandi linee il complesso della cattedrale medievale intorno al 1000 – 1100. Era una chiesa sufficientemente ampia, a tre navate, sopraelevata rispetto alla paleocristiana, con copertura probabilmente a capriate, sorretta da pilastri romanici. Il presbiterio era rialzato e poggiava forse su una cripta, ed era transennato con ogni probabilità da plutei di stile longobardo-carolingio. Al fondo dell’abside era posta la cattedra vescovile con postergale cuspidato, su cui era scolpita una mitria (14). La facciata, a tre spioventi, aveva un portale centrale; sulla fiancata destra si trovava un altro portale e forse anche un secondo. Dietro l’abside, congiunti alla cattedrale, si trovavano l’episcopio e la canonica. Questo complesso è da considerarsi il frutto di interventi, più o meno invasivi, succedutisi tra i secoli da VIII a XII. Certamente ne sapremmo assai di più, se l’archivio della cattedrale non fosse andato quasi del tutto distrutto nell’anno 1176. E proprio questo anno è anche discriminante ai fini del lavoro di ricostruzione storica che stiamo compiendo.
. – .La cattedrale gotica
Il “terzo” edificio che, per comodità, chiameremo la cattedrale gotica, è il frutto di una integrale riedificazione dopo l’incendio e la distruzione subiti ad opera delle truppe di Federico Barbarossa, penetrate a Fermo il 21 settembre 1276, guidate dal Cancelliere dell’Impero, lo scomunicato arcivescovo di Magonza, Cristiano. Insieme alla cattedrale andarono distrutti gli edifici annessi (episcopio e canonica) e gravi danneggiamenti subì tutta la città di Fermo (15). Negli anni successivi, le trattative per la ricostruzione e la riconferma della costruzione precedente (status quo ante) furono personalmente condotte dall’arcivescovo Alberico (1174-1178) e dal suo successore, Pietro II (1179 – 1183): la cattedrale e la città riottennero dal Cancelliere Imperiale la restituzione di tutti i privilegi e dal papa Alessandro III la facoltà di promuovere una colletta tra le genti della Marca per la riparazione della Cattedrale (16). Sono questi gli anni e gli eventi che forse legano la presenza della casula di s. Tommaso Becket alla cattedrale di Fermo: il Catalani e gli altri storici propendono a collegare l’arrivo di essa a Presbitero (1184-1202) futuro successore di Pietro II (1169-1170). Del resto, da fonti abbastanza solide possiamo ricavare anche altre informazioni di grande valore circa la promozione e la diffusione del culto di s. Tommaso Becket dopo che nel 1178 era stato proclamato santo e la costruzione di una chiesa dedicata a questo santo e a S. Maria Maddalena era stata iniziata da Presbitero quando era ancora arcidiacono, fu portata a compimento e consacrata da lui, con rituale solennità (solemni ritu), dopo esser divenuto vescovo. Si può legittimamente pensare che tale chiesa sia stata costruita anche per conservare la preziosa reliquia della casula cui Presbitero doveva essere fortemente legato e solo in seguito essa fu trasferita nella cattedrale riedificata? È gioco forza ipotizzare che in questi primi anni, successivi all’incendio, o in attesa di costruire un nuovo edificio, o perché la riparazione poteva essere valutata risolutiva, si corresse ai ripari cercando, con interventi tampone, di riutilizzare l’edificio incendiato e parzialmente diruto (17), si tratta dunque della fortificazione del colle detto Girfalco, di cui oggi restano alcune strutture. In verità tale preoccupazione del vescovo non può non essere correlata alla tutela della cattedrale e si può pensare ad un organico progetto che contemplava anche la ricostruzione rinnovata (ex novo) della chiesa. Ma in una lastra di pietra incassata e murata tra l’attuale portale centrale e la monofora del fianco destro troviamo un’iscrizione che fa luce su questo evento. Una data e il nome di due personaggi sono annotazioni in grado di farci capire epoca e protagonisti della costruzione del nuovo edificio (18). La data è il 1227 e va di certo interpretata come l’anno in cui l’opera muraria e scultoria fu conclusa. Il primo nome, Bartolomeo, è da individuare, stante il titolo di “mansionario” come il responsabile della fabbriceria. Giorgio, della circoscrizione ecclesiastica comasca, con il titolo di “magister” fu certo il progettista e il direttore dei lavori, diremmo oggi, cioè il capomastro, responsabile di tutte le maestranze (19). Della cattedrale gotica restano oggi notevoli e splendide strutture: la facciata con il portale, il campanile, il portale laterale sul fianco destro, il rosone, l’atrio, la cripta, quest’ultima pur rimaneggiata. Siamo di fronte ad un lavoro durato qualche decennio, vuoi per le difficoltà economiche dopo la distruzione federiciana, vuoi per la nuova grandiosa concezione, con un progetto che raddoppiava la superficie dell’edificio, concepito a tre grandiose navate, con presbiterio sopraelevato e una cripta sottostante; la struttura era sorretta da pilastri polistili e da colonne, con soffitto a capriate lignee intagliate e dipinte. La scenografica facciata è asimmetrica con portale strombato e cuspidato e splendido rosone; tutta in pietra d’Istria (20). Fu consacrata, anche se non del tutto compiuta, con ogni probabilità da vescovo Ranaldo (Rinaldo 1223-1227) e dedicata all’Assunta, anche se per la sua posizione fu a lungo chiamata S. Maria in Castello (21). Notizie desunte da documenti d’archivio ci permettono di affermare che i lavori nella cattedrale non finirono mai e l’edificio fu oggetto di aggiunte e modifiche fino al sec. XVIII, con una stratificazione storico-stilistica di cui ancor oggi restano le vestigia. Meritano un accenno le più importanti e significative. Nel 1348, l’anno della grande pestilenza, fu messo in opera il finissimo rosone della facciata in pietra intagliata, opera dello scultore fermano Giacomo Palmieri; e l’atrio di cui restano notevoli affreschi, fu un susseguirsi di interventi pittorici dal sec. XIV al sec. XVI. Sul colmo del tetto in corrispondenza del presbiterio fu innalzata nel 1423 una colonna marmorea sormontata da un gallo in bronzo, emblema dell’allora signore della città, Ludovico Migliorati. Tra la fine del quattrocento e l’inizio del cinquecento fu aggiunto un corpo di fabbrica a metà della navata sinistra che costituì la cappella della confraternita del Santo Nome di Cristo, forse propiziata dalla devozione promossa da S. Bernardino da Siena e dalla predicazione di S. Giacomo della Marca (22). Nel lasso di tempo la cattedrale si arricchì di splendidi tesori fra cui il monumento funebre a Giovanni Visconti di Oleggio (23), opera di mastro Tura da Imola (1366). I secoli successivi videro ulteriori interventi, tra cui val bene segnalare due opere insigni: il monumento al condottiero fermano Orazio Brancadoro del 1560, rimaneggiato nel 1608, in cui il Maranesi individua l’intervento dello scultore Alessandro Volta (24); l’imponente ciborio bronzeo commissionato dal Capitolo nel 1570 a Ludovico e Giuliano Lombardi-Solari (25). In quegli stessi anni fu sistemata anche quella che oggi è detta la cappella dell’Immacolata con un organo del sec. XVI. Nel frattempo l’aula fu letteralmente “invasa” da sovrastrutture. Si registrano, infatti, in epoca post-tridentina, legati, donazioni, costituzioni di patronati di nobili famiglie cittadine, insediamenti di confraternite, per cui si moltiplicarono gli altari posti sia alle pareti che sui pilastri, soffocando in qualche modo lo slancio architettonico e l’eleganza delle linee. A danno della liturgia, si moltiplicarono le celebrazioni. Per farci un’idea di quel che doveva essere diventata la cattedrale alla fine del ‘500, basta rifarsi alle note della visita apostolica di Mons. Giovambattista Maremonti (26) nel 1573. Il ciborio bronzeo era stato posto sull’altare maggiore nuper, cioè poco prima, ma la chiesa era tutta da restaurare nel pavimento, nelle pareti, negli altari e nel fonte battesimale; un deposito qualificato indecens di pietre e legname era sul fianco destro del portale principale; le reliquie del corpo di S. Alessandro vescovo erano state murate vicino alla sacrestia abbastanza indecentemente (prope sacristiam satis indecenter). Della pletora di altari, ben tredici ne elenca il Maremonti (27), la maggior parte dei quali versava in cattivo stato nelle strutture e nelle suppellettili. Questo stato di cose, salvo alcuni interventi parziali e di non grande impegno, si era protratto fino alla prima metà del secolo XVIII, quando fu eletto vescovo di Fermo Alessandro IV Borgia (28) vescovo dal 1724 al 1764. Egli si prese cura della cattedrale con passione, sensibilità e competenza artistica. Fu da lui fatta ristrutturare e ampliare la cripta ove trovarono dignitosa e ordinata sistemazione le ss. Reliquie; provvide ad eliminare alcuni altari malridotti e ingombranti, restaurò la facciata e fece porre nella cuspide del portale la splendida scultura bronzea dell’Assunta. Riorganizzò l’archivio e lo sistemò nel miglior decoro. Tuttavia l’aula dell’edificio restò senza decisivi interventi e quindi con l’aggravarsi del degrado a risentirne furono inevitabilmente le strutture stesse.
. – . La cattedrale tardo – settecentesca
La prima idea di una ristrutturazione (di base) funditus dell’edificio così mal messo, fu ventilata e avanzata dal Card. Urbano Paracciani, successore di Borgia e arcivescovo dal 1764 al 1777. Ne aveva anche fatto elaborare un progetto che il papa Pio VI aveva, accolto ma ridimensionato, così come si legge nel decreto di approvazione: “ dato che intendi non costruire di nuovo, ma soltanto rifare e restaurare” (cum tu non de novo aedificare, sed dumtaxat reficere et restaurare intendas) (29). I lavori non ebbero comunque inizio, forse per la sopraggiunta morte del Presule o, più probabilmente, per l’accendersi di opposizioni varie, così come il breve pontificio lascia intendere: opposizioni che si rinfocoleranno in seguito. Il successore, Mons. Andrea Minnucci (1779 – 1803), infatti, riprese l’idea di una vera e propria ricostruzione e questa volta, con estrema decisione, volle condurla a termine, nonostante le polemiche, le rimostranze e i ricorsi al papa da parte del Capitolo dei Canonici, delle autorità cittadine e di parte della nobiltà fermana (30). Il nuovo progetto fu affidato all’architetto pontificio Cosimo Morelli di Imola, la esecuzione dei lavori a Luigi Paglialunga di Fermo, che stava già costruendo la chiesa prepositurale di Montegiorgio, le decorazioni al sangiorgese Pio Panfili. I lavori durarono nove anni: la chiesa fu consacrata nel 1789 e nel 1793 mons. Minnucci vi celebrò il Sinodo Piceno (31). Siamo così giunti alla “quarta cattedrale”, quella che possiamo ammirare oggi. Il progetto morelliano è di assai maggior ampiezza della cattedrale gotica con un prolungamento della zona presbiteriale ed una dilatazione in larghezza. Del precedente edificio furono salvati la facciata, il campanile e l’atrio. L’interno si presenta imponente e con chiari stilemi neoclassici: a tre navate con archi a tutto sesto su enormi pilastri in stile composito; una trabeazione classica ed una cornice a membrature rilevate ed articolate corrono per tutto l’edificio.
.-. Il nuovo edificio
La monumentalità è ingentilita e arricchita da decorazioni di finte cupole, lacunari e mostre di portali ad effetto illusionistico che, insieme allo splendido e scenografico stucco dell’Assunta nell’abside, annullano la rigidezza e la fredda simmetria delle strutture. Armonicamente e sobriamente si coniugano dunque la grandiosità neoclassica e il gusto raffinato tardo-rococò. Da allora la cattedrale non ha subito modifiche significative se non interventi di necessaria manutenzione ed un progressivo arricchimento di opere d’arte. Oggi, gli interventi su vasta scala iniziati negli anni novanta e incrementati a ridosso e in previsione del Giubileo del 2000. Si può dunque comprendere, dopo aver scorso queste note compendiarie, come storia secolare della Cattedrale e storia altrettanto ininterrotta della comunità cristiana abbiano camminato in simbiosi e le vestigia dell’edificio ne mostrano tutti i segni dei secoli
NOTE
\ 1 \ Fermo, di origine preromana, poi municipio romano, è una cittadina del Piceno, nelle Marche meridionali, divenuta provincia nel 2004; conta 35.000 abitanti, sita a brevissima distanza dal mare Adriatico e posta su un colle a 319 m. s.l.m. L’Arcidiocesi di Fermo è tra le più antiche (V secolo) del territorio, assai vasta (comprende 58 comuni) e la più popolosa delle Marche. La sua Cattedrale, dedicata all’Assunta, è posta nel punto più alto del colle detto “Girifalco”. Il titolo di Basilica Metropolitana le è stato conferito nel 1589 dal papa Sisto V, già cardinale e arcivescovo di Fermo (1571 – 1577); il presule di Fermo è a tutt’oggi Metropolita con le diocesi suffraganee di Macerata-Tolentino-Recanati Cingoli-Treia, Camerino-San Severino Marche, Ascoli Piceno e Montalto – Ripatransone (oggi accorpate nella diocesi di S. Benedetto del Tronto).
\ 2 \ Le ipotesi più ricorrenti sono due e gli storici propendono ora per l’una ora per l’altra con argomenti apprezzabili, ma non del tutto probanti. La prima di esse fa riferimento alla situazione amministrativa di Fermo, importante municipio romano, e che indurrebbe a pensare ad un asse privilegiato, Roma – Fermo, attraverso il quale, insieme ad eserciti e mercanti, sarebbero giunti anche i primi evangelizzatori. All’opposto, altri storici privilegiano la via del mare, facendo riferimento agli intensi scambi commerciali con l’Oriente e da cui sembra quasi certa provenire la evangelizzazione delle città della costa e soprattutto di Ancona.
\ 3 \ Per la verità gli storici antichi (Catalani, Porti, Trebbi-Filoni, De Minicis) riportano una tradizione non documentata, secondo cui i primi due vescovi di Fermo sarebbero stati Alessandro e Filippo, martirizzati sotto Decio il primo (249 ca.), sotto Gallo il secondo (251 – 253). Studiosi più recenti hanno messo in evidenza la presunta infondatezza di tale tradizione: S. Prete, I santi martiri Alessandro e Filippo nella Chiesa Fermana, contributo alla storia delle Origini, in, Studi di Antichità Cristiane, XVI, Roma 1941; R. Di Mattia, L’arcidiocesi di Fermo, Fermo 1995, pp. 11 – 15. Una sintesi di tutta la problematica si trova in E. Tassi, Gli arcivescovi di Fermo nei secoli XIX e XX, Fermo 2006, pp. 19 – 28.
\ 4 \ S. Prete, Pagine di storia fermana, in, Fonti e studi, IV, Fano 1984, pp. 18 – 19.
\ 5 \ Nel secolo VI la ecclesìa (diocesi) firmana è ampiamente documentata sia nei suoi confini, sia per aver assorbito diocesi minori come Potentia, Faleria, Pausolae (S. Prete, Pagine cit., p. 5) E ancora testimonianze esplicite nelle lettere di papa San Gregorio Magno (M. G. H., tomo II, Epist. IX, 52, p. 77, 58, p. 81, 71, p. 90; idem, Epist. XIII,18, p. 385).
\ 6 \ Documenti archivistici più volte editi e menzionati da tutti gli storici di Fermo mettono in evidenza i drammatici eventi dei secc. V e VI: le devastazioni dei Visigoti (Alarico nel 410, Ataulfo nel 413), l’assedio nel 545 dell’ostrogoto Totila, fino al saccheggio delle milizie di Autari nel 584.
\ 7 \ Si tratta di un sarcofago paleocristiano di cui si ignorano luogo e data di rinvenimento, fatto collocare dall’arcivescovo Borgia, nella prima metà del sec. XVIII, nella cripta da lui ristrutturata e dove si trova tutt’ora ed è accreditato dalla tradizione come il sepolcro del secondo vescovo di Fermo, San Filippo martire.
\ 8 \ Degli scavi purtroppo restano solo notizie frammentarie, qualche schizzo, alcune fotografie e notizie interpretative a caldo, poco verificabili. Non esiste un giornale di scavo, non si conoscono i rinvenimenti stratigrafici né gli esami, non si conoscono i reperti effettivi ad eccezione di alcuni (forse i meno importanti), attualmente depositati nell’ipogeo. La Soprintendenza Archeologica delle Marche non ne ha mai curato un inventario né chiarito la dispersione. Tutto il materiale documentario esistente è disperso in più sedi e parte forse in archivi e raccolte private. A tutto ciò, va aggiunta la pessima conduzione dello scavo: risarcimenti in cemento, completamenti in muratura hanno minato la effettiva consistenza e natura delle strutture originarie; i mosaici pavimentali sono stati malamente consolidati e restaurati. Chi volesse affrontare il problema, può documentarsi con quel poco esistente che qui di seguito viene elencato. G. Breccia, Fermo. Rinvenimenti archeologici sotto la Chiesa Metropolitana, in, Il Palladio, 1939, n.3, pp. 85 – 86; G. Cicconi, La Metropolitana di Fermo e i recenti rinvenimenti archeologici sotto il pavimento, Fermo 1940; F. Maranesi, La cattedrale di Fermo, Fermo 1940; G. Graciotti, La Basilica paleocristiana sotto la chiesa metropolitana di Fermo, in, Felix Ravenna, Ravenna 1963, serie 3, n. 87, pp. 108 – 131; F. Cocchini, La Basilica paleocristiana di Fermo, in, Atti del VI convegno nazionale di Archeologia Cristiana, Pesaro 1983, pp. 19 – 23. Una recente tesi di laurea (1994) di S. Cesarini discussa presso l’Università Cattolica di Milano tenta di mettere ordine alla problematica, ma non raggiunge se non lo scopo di una aggiunta di documentazione e una serie di nuovi interrogativi.
\ 9 \ Stranamente nessuno storico si è occupato della questione e tutti concordemente ripetono che la cattedrale era dedicata alla B. Vergine Maria, riportando il titolo medievale ricorrente ‘Santa Maria in Castello’, aggiungendo poi – e questo a ragione – che tale titolo sotto Sisto V fu precisato, o forse meglio esplicitato, in Santa Maria Assunta. Ma, secondo noi, non sembra del tutto improbabile invece che questo primo tempio fosse dedicato a S. Savino vescovo. Non si spiegherebbero infatti, il culto ininterrotto per questo santo e le chiare testimonianze che attestano un culto assai sentito nell’antichità. Come viene ricordato nella lettera 598 (M. G. H., tomo II, Epist. IX , 58, p. 81) di papa Gregorio Magno al vescovo della città, Passivo, a Fermo era stato dedicato un oratorio a S. Savino, fatto erigere da un tal Valerianus notarius in fundo Visiano (un podere nella zona che ancor oggi si chiama colle Vissiano). S. Savino non era un santo locale, ma vescovo di Spoleto (B. H. L. 7451 – 7453 ) il cui culto o per traslazione di reliquie o per cause che ci sfuggono, si era diffuso a Fermo. Se così fosse, prenderebbe maggior corpo la tesi secondo cui il cristianesimo si sia diffuso nel Fermano attraverso l’asse Roma – Adriatico che passava proprio per Spoleto.
\ 10 \ Per una descrizione ed una analisi più dettagliata dei mosaici rinvenuti nello scavo e tuttora conservati, si faccia riferimento alla bibliografia della nota n. 7, in special modo agli scritti di Gracetti, Cocchini e Cesarini cit. Ma il parato musivo del pavimento della navata centrale di cui i cronisti contemporanei alla scavo (Breccia e Cicconi citt.) non fanno menzione, costituisce un vero e proprio “giallo”. Esso c’era senz’ombra di dubbio, come testimoniano i lacerti degli intercolumnii. Che cosa è successo? Il fatto che le relazioni contemporanee non ne parlino, suggerisce diverse ipotesi. Gli addetti allo scavo per imperizia lo hanno malamente distrutto e fatto scomparire prima che se ne avesse pubblica notizia? Per proseguire nello scavo degli strati sottostanti gli addetti lo hanno rimosso senza alcun resoconto e trasferito in qualche sito sconosciuto? Ciò potrebbe essere una delle ragioni della scomparsa o della mancanza di un giornale di scavo?
\ 11 \ Nell’ipogeo della cattedrale, ed ora in parte esposti nel Museo Diocesano, si conservano numerosi frammenti dei secc. VIII – XI: resti di decorazioni, parti di cornici, la vasca battesimale, la cuspide della cattedra vescovile, una colonna con scultura di vescovo, una porzione dei plutei longobardo-carolingi che costituivano con ogni probabilità la transenna del presbiterio.
\ 12 \ La forma ipotetica (‘sarebbe stato’) è stata usata per il fatto che questo vescovo, Lupo, viene espunto dalla cronotassi dei presuli fermani dal Tassi (Gli arcivescovi cit. p. 35) dietro anche l’indicazione di U. Cameli, Note di storia fermana. Il vescovo Lupo presente al Sinodo Romano dell’826, in, Studia Picena, 12, 1936, p. 169 e ss. La sua presenza si basa infatti, solo sulla firma apposta ai Decreti del Sinodo, ma il Cameli anziché leggervi come il Catalani, Lupus episcopus firmensis, vorrebbe leggervi Lupus episcopus furconiensis. Va aggiunto che le ulteriori notizie su Lupo riportate da Catalani e riprese dal Trebbi-Filoni e dal Maranesi, non sono correlate di alcun riferimento documentario.
\ 13 \ Liber jurium, cod 1030 dell’Archivio Storico Comunale di Fermo, a cura di D. Pacini, G. Avarucci, U. Paoli, voll. 3, Ancona 1996. Si consultino in particolare i documenti 27, 36, 47, 59,72, 107, 183, 229. 14 Cfr. nota n. 11.
\ 14 \ Cfr. nota 11
\ 15 \ Con questa drammatica notizia comincia la più antica ronaca fermana. “In nomine Omnipotentis Dei et Beatissime et Beatissime Marie. Hec est memoria omnium et singulorum novorum, novitatum et quamplurimarum rerum occurrentium infrascriptis temporibus, adnotatarum et scriptarum per me Antonium Nicolai de Firmo, notarium publicum videlicet in primis: In millesimo CLXXVI , in festo beati Matthei, de mense septembris, civitas Firmana fuit invasa, occupata ac destructa ab Archiepiscopo Maguntie, dicto alias Cancellario Christiano”. (Cronaca della città di Fermo di Antonio di Nicolò pubblicata per la prima volta con annotazioni e giunte, dal Cav. Gaetano De Minicis, Firenze 1870, p. 3).
\ 16 \ Sono custoditi nella sezione dell’Archivio di Stato di Fermo (A. S. Fe.) tre rescritti a firma di Cristiani Mogontine (sic!) sedis Archiepiscopi legati domini Imperatoris datati tutti 1177 (A. S. Fe., sezione diplomatica, pergg. 501, 217, 853). Per brevità, rimandando alla consultazione diretta, citiamo il rescritto n. 217 nel regesto di M. Hubart, ms, del 1624, quando era notaio e cancelliere del Comune di Fermo. Copia privilegii Cristiani Archiepiscopi Moguntini confirmantis omnia civitatis Firmi bona, iura, rationes, iustitias, terras, agros, vineas ac remittentis eandem civitatem et homines in eadem libertate quam anno ante civitatis destructionem habuerunt, relevantis eos seu eam infra proximos quinque annos ab omni exactione vel dativa quovis modo a quoquam hominum exacta. Dat. Anno Domini 1177, apud Assisium; esemplati per Bartholomeum Petri. A fianco di questa restituzione di privilegi da parte del Cancelliere imperiale va collocato l’intervento del papa Alessandro III che, con lettera data da Venezia nel 1177 esorta le popolazioni della Marca ut bonis suis pro reparatione Ecclesiae Firmanae liberaliter conferant beneficia charitatis (Trebbi – Filoni , op. cit., p. 44). Per le annotazioni sui vescovi Alberico e Pietro II cfr. Liber Iurium cit., passim. 7 Di maggior interesse è l’altra notizia, fornitaci sempre dal Catalani, secondo cui il vescovo Presbitero insieme agli interventi sulla cattedrale, si preoccupò di rendere più sicuro il colle dove essa sorgeva: “initium factum fuere illis propugnaculis aedificandis quae Zironem seu Girones appellabant”
\ 17 \ Sul vescovo Presbitero oltre al Liber iurium cit., si veda M. Catalani, De Ecclesia Firmana eiusque Episcopis et Archiepiscopis commentarius, Firmi 1783, p. 147 e ss. e l’appendice.
\ 18 \ Ecco il testo dell’iscrizione: A. D. MCCXXVII BARTO/LOMEUS MANSIONARI. HOC/ OPUS FIERI. FECIT. P(er). MA/NUS. MAGISTRI GEORGEI DE (…..) EPISCOPATU COM(acensi)
\ 19 \ Su maestro Giorgio si veda F. Maranesi, La cattedrale cit., pp. 9 – 11.
\ 20 \ Non deve meravigliare la scelta di questo materiale perché noti e ampiamente documentati sono gli stretti e importanti rapporti commerciali tra le due sponde dell’Adriatico, la Repubblica Veneta e Fermo.
\ 21 \ Una facciata romanica a ridosso di un edificio gotico pur costruito ex novo, può creare qualche problema interpretativo. Le ragioni di questa apparente disarmonia vanno ricercate nell’epoca della costruzione. Come è ormai assodato, lo stile gotico nato nella regione dell’Ile de France verso la metà del sec. XII, raggiunge l’apogeo nel sec. XIII. In Italia giunge nel sec. XIII, appunto, portato dai monaci cistercensi, ma stenta, all’inizio, ad affermarsi al di fuori di tali abbazie. La tradizione romanica è forte e ben consolidata; inoltre sopravvivono stilemi della tradizione bizantina e paleocristiana. In questo quadro, la cattedrale di Fermo, compiuta nel 1227, può essere annoverata tra le prime espressioni del nuovo stile (Fossanova 1206, Casamari 1217, S. Galgano nel 1227, come Fermo) Forse l’esempio più calzante è la chiesa di S. Andrea a Vercelli, iniziata nel 1189 e conclusa anch’essa nel 1227: romanica la facciata, se pur in stile francese, e gotico l’interno.
\ 22 \ Per annotazioni più dettagliate sulle stratificazioni successive si veda Maranesi, op.cit., pp. 12 – 21.
\ 23 \ Maranesi, ibidem, pp.23 – 27.
\ 24 \ Maranesi, ibidem pp. 29 – 32.
\ 25 \ Maranesi, ibidem pp. 36 – 38. Il ciborio originariamente collocato sull’altare maggiore, fu spostato all’epoca della ricostruzione della cattedrale da Mons. Minnucci nell’altare del SS. Sacramento (1789 ca.); nel 2004 è stato restaurato e trasferito nel Museo Diocesano, a fianco della Cattedrale.
\ 26 \ Archivio storico Arcivescovile di Fermo (A.S.A.F.), Sacre Visite, visita di Mons. Giovambattista Maremonti, ms, ff. 1 – 2. Tutte le citazioni latine sono desunte dal testo.
\ 27 \ Nella relazione del Maremonti e relativi decreti troviamo accurate annotazioni su ciascuno di essi. Qui di seguito ci limitiamo ad un semplice elenco. Altare maggiore dedicato ai SS. Filippo ed Aurelio martiri; altare dei SS. Giovanni Battista e Pietro; altare di S. Giuseppe; altare dei SS. Tommaso, Antonio e Giacomo; altare di S. Ruffino; altare di S. Leopardo e Santa Maria; altare di S. Elisabetta; altare di S. Lucia; altare di Sant’Anna; altare di S. Giovanni Evangelista; altare di S. Biagio; altare del SS. Crocifisso; altare dei SS. Ignazio e Nicola.
\ 28 \ Una dettagliata descrizione dei restauri del Borgia in Trebbi – Filoni, op. cit., pp. 46 – 48. 9
\ 29 \ A.S.A.F., Motu proprio di Pio VI, 7 aprile 1781.
\ 30 \ A.S.A.F., Supplica della Città di Fermo ad alcuni Em.mi Sigg. Cardinali sulle presenti vertenze con Mons. Minnucci intorno alla Chiesa Metropolitana e Collegio Marziale, Villafranca 1782, passim.
\ 31 \ Maranesi, op. cit. pp. 27 – 50 passim.
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Ambro cuore dei Sibillini
La via maestra è la strada provinciale 239 che risale il corso del Tenna: in un’ora di auto, da Porto San Giorgio si raggiungono i contrafforti dell’Appennino e ci si addentra nella valle dell’Ambro che, al termine della carrozzabile, dispiega uno scenario di incomparabile bellezza. Fondale naturale è un semicerchio del Monte Priora (m. 2334) a sinistra, il secondo dei Sibillini , monte Castel Manardo a destra (m. 1917) e sullo sfondo, pizzo Tre Vescovi (m. 2092).
Al centro dell’emiciclo, in basso, il santuario della Madonna dell’Ambro, affiancato dal convento dei Cappuccini e, a fare da quinte, altre costruzioni più recenti su un ampio piazzale. Il fiume Ambro, affluente del Tenna, lambisce le mura del santuario; a cui dà il nome e sembra ripetere, in un incessante e costante mormorio, l’eco dei voti e delle preghiere dei pellegrini.
L’umanista Francesco Panfilo nel 1575 fu colpito da tale spettacolo e lo immortala in un memorabile distico di onomatopeica rilevanza: “Volvitur horrendo per saxa rivus murmure fumiferis frigidus Ambrus aquis” scorre l’Ambro freddo rivo, con cupo rumore, con le sue acque spumeggianti tra gli scogli. L’origine del santuario si perde nell’alto medioevo, irreperibile come i più antichi documenti: la prima testimonianza scritta risale al 1073. Sono scomparse le vestigia della primitiva costruzione. La tradizione lo lega ad una apparizione della Vergine Maria all’umile pastorella sordomuta di nome Santina: “la celeste Signora le apparve un dì, bella di soave splendore e con sovrana misericordia le donò all’orante la favella”. È comunque certo che nel luogo vi fu una presenza benedettina.
Entrati nella chiesa attuale, ci si presenta un ampio affresco che campeggia sopra l’altare maggiore, opera del pittore Virgilio Parodi: esso raffigura da un lato l’apparizione della s. Vergine alla pastorella, dall’altro i santi fondatori religiosi: Benedetto, Francesco e Romualdo. La scena idealmente unisce la storia antica con la recente: San Benedetto ricorda la dipendenza del santuario dalla vicina abbazia dei ss. Vincenzo ed Anastasio; San Francesco puntualizza l’attuale custodia affidata ai padri Cappuccini dal 1897; S. Romualdo rammenta i monaci dell’eremo di San Leonardo al Volubrio che furono pellegrini, promotori della devozione e qui prestarono servizio pastorale liturgico.
Al posto dell’antica chiesa, nel secolo XVII, dal 1603, fu costruita l’attuale, su progetto dell’architetto urbinate Ventura Venturi. Con indovinata perspicacia egli concepì l’edificio ad una sola navata, una grande aula che raccoglie i pellegrini, con alle pareti altre sei piccole cappelle. Il sacello della Vergine fu sistemato presso l’abside, con notabile elevazione, per superare il dislivello roccioso: ne risultò una specie di tempietto cui si accede dalle rampe delle scale laterali. All’esterno, la facciata concepita dal Venturi era monofastigiata, e in seguito vi fu aggiunto un porticato ad uso monastico. Nel complesso la struttura è articolata e dinamica con forte tensione scenografica che si accorda con i monti circostanti; quasi un blocco di calcare massiccio levigato e modellato dagli agenti atmosferici nel lento correre dei secoli.
Il gioiello artistico più accattivante è costituito dal ciclo di affreschi con la “Storia della Vergine” del pittore di Patrignone, Martino Bonfini che le eseguì tra il 1610 e il 1611, proprio alla pareti nel sacello. Al santuario accedono folle di pellegrini che si contano ormai a decine di migliaia ogni anno. Tra le manifestazioni di fede e folclore è la festa detta delle “Canesterelle” nella prima domenica di settembre. In quest’occasione, giungono gruppi di pellegrini e insieme con gli abitanti della valle e dei paesi circostanti, vestiti nei costumi tradizionali, sfilano processionalmente per offrire alla Vergine i tipici prodotti della terra.
Il visitatore curioso ed amante delle scoperte, trova, nel territorio tutto intorno, piacevoli sorprese. Chi è meno abituato a camminare, con le visite ad Amandola, Montefortino e Montemonaco può completare una giornata indimenticabile. Per coloro che hanno qualche dimestichezza con la montagna, si offrono molteplici itinerari, con le loro bellezze incomparabili, tra i quali, quello all’Infernaccio dell’Ambro e quello all’Eremo di San Leonardo.
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ARTE FERMANA NEI SECOLI che il maestro Mario Liberati potrebbe rivedere correggere o cancellare
(Umili appunti di un ascoltatore alle conferenze di d. Germano) SECOLI XIV e XV
La più grande diffusione della pittura medioevale nella zona Fermana e la fase più originale con le opere più belle va esplorata nel ‘300 e nel ‘400. È il trionfo del gotico. Senza pensare a ritardi rispetto ad altrove, l’arte nelle nostre zone si era diffusa così capillarmente che gli artisti locali, influenzati anche da artisti di altre zone, hanno creato un clima fiorente di pittura che si sarebbe evoluta con il grande rinascimento fiorentino. Abbiamo una pittura gotica, ma di grande valore e di grande spessore, pur chiamata “dei primitivi” dai critici. L’arte non si divide per secoli. La prima rinascita da noi avviene con l’arrivo dei Crivelli insieme con altre personalità che vissero nel Fermano, tra cui Alemanno e Pagani.
Per divisioni di comodo dividiamo i primi 80 anni del ‘300 dal resto del ‘300 unito con il ‘400. Il ‘300 ha il chiaro stile “gotico fiorito” internazionale. La pittura del ‘300 è dominata in Italia da grandi scuole. C’è la scuola fiorentina di Giotto e dei Giotteschi. Una corrente di Giotto (al tempio Malatestiano) e dei Giotteschi è la scuola figurativa di Rimini. Sulla scia dei pittori toscani fiorentini si è avviata la scuola Toscana Senese con artisti che han molto girato in Italia e in Europa, portando le loro innovazioni. Da questa diffusione sono derivate le influenze sulla scuola Emiliana che si è diffusa nelle Marche (ad esempio, Andrea da Bologna), poi in Istria e nella costa Dalmata, ambito veneziano sulle coste adriatiche.
Per un’epoca così lontana, se certi pittori non fossero stati studiati da Crocetti Giuseppe, nulla ne avremmo saputo; ora possiamo conoscere Marino Angeli, Arcangelo di Cola, ed altri che vanno riemergendo, come anche Giacomo di Antonio da Recanati. C’è ancora molto da studiare: molte opere sono andate perdute e altre sono esplorate come palinsesto. Così a Monte Vidon Combatte sono riemersi i dipinti di San Procolo nella parte dove furono intonacati, coperti. Così a Montefortino, allo staccarsi dell’intonaco, sono riemersi dipinti molto antichi. Si viene conoscendo quello che non si immaginava. Non pensiamo che le Marche siano state soltanto colonizzate da altrove. Oltre ai normali riflessi e flussi dall’esterno, le Marche hanno un proprio gotico fiorito, o cortese, con importanti artisti che, a loro volta, hanno esportato altrove questa loro esperienza Marchigiana. Le pitture hanno una tecnica di affresco, in grandi cicli; inoltre una tecnica di pittura su tavole preparate in un modo del tutto specializzato per farvi la base con indorature e per la restante esecuzione. Le committenze sono importanti. Lavoravano nelle chiese di san Francesco, di san Domenico, e di sant’Agostino, cioè degli ordini mendicanti subentrati in molti luoghi ai Benedettini. Le chiese di questi ordini mendicanti erano tutte affrescate con dipinti che raffigurano la storia della Madonna, la storia del Gesù Cristo e del Vangelo o le storie dei qualche santo.
La committenza francescana, ad esempio, fa dipingere la storia della santa Croce a Montegiorgio nella chiesa di san Francesco (o S. Maria Grande). Le commissioni erano fatte con viva partecipazione: si cercavano le notizie sui nuovi artisti e sulle opere loro d’arte e si facevano contratti nuovi. Oltre ai religiosi e al clero, anche le confraternite svolgono un ruolo di committenti. Parimenti fanno le famiglie gentilizie dalla metà del ‘400 con l’affermarsi maturo delle signorie locali.
Dalla scuola giottesca e da alcuni rami della scuola senese, presero esperienza i pittori Riminesi, che dal nord, scendono al centro e al sud delle Marche. Li troviamo a dipingere nella chiesa francescana a Fermo, inoltre in quella di san Nicola a Tolentino e a san Ginesio: due chiese francescane e una agostiniana.
Giuliano da Rimini (documentato dal 1307 al 1324) all’inizio secolo, a Fermo, nella chiesa san Francesco, dipinge la Madonna e il Crocifisso dal grande colore blu. Il disegno ha linea marcata nelle figure, stile giottesco, con effetto di plasticità dei corpi in rilievo.
Di Francescuccio Ghissi (attivo tra il 1345 e il 1374) abbiamo alcune opere tra cui la “Madonna che allatta i bambino” ora nella chiesa di sant’Andrea a Montegiorgio, con la data del 1364, altra opera a Fermo già nella chiesa san Domenico, ora trasferita al palazzo comunale, databile tra il 1360 e il 1370; infine l’immagine di santa Lucia del 1354 la più antica. Come dimensioni, il dipinto esistente a Montegiorgio è il più ampio.
Figura dominante nelle Marche, Andrea da Bologna si rifà a queste opere del Ghissi nel dipinto esistente a Corridonia, nella pinacoteca parrocchiale. Per molti pittori non si hanno né il nome, né le date, né committenti. Si fa riferimento al Maestro di Offida che ha lavorato nella chiesa di santa Maria della Rocca. Dagli studi analitici di Crocetti Giuseppe si conosce il percorso pittorico di questo maestro di Offida che ha lavorato anche a Montefiore dell’Aso e a santa Maria a piè di Chienti a Montecosaro Scalo. Come al solito, ovviamente ci sono spesso molte attribuzioni.
Andrea da Bologna ha una propria caratterizzazione nel dare forza e quasi un rimarco alle figure. Lavorava a Bologna a metà secolo XIV. A Fermo il suo dipinto appartenente alla chiesa di san Michele, ora è nel museo diocesano: fa notare alcune caratteristiche del gotico cortese, nelle decorazioni. Il “Battesimo di Gesù” dello stesso polittico interessa anche per la gestualità del Battezzatore Giovanni.
Vengono studiati gli Influssi esercitati da artisti Romagnoli sui pittori delle Marche. A Fermo, nella chiesa di sant’Agostino ci sono dipinti “giotteschi” che per la figurazione o volume della persona si possono dire influenzati dai Riminesi, in particolare: “Ss. Trinità”, “Annunciazione”, “S. Antonio”, e nella “Natività”. Si nota il classicismo, ad esempio, nell’atteggiamento figurale della Madre di Gesù addormentata. La scena del lavare il divin Bambino ha elementi di visione solenne.
Ci sono varie presenze d’arte che collegano entrambe le sponde dell’Adriatico e testimoniano gli influssi veneti di fine trecento sull’intera sponda veneta, assieme con i legami commerciali. A Fermo, ad esempio, nel portale dell’oratorio di santa Maria della Carità, a lato chiesa del Carmine è intervenuto dalla Dalmazia, Giorgio a scolpire la Madonna detta della Misericordia. Sono documentati i rapporti dalla sponda orientale dell’Adriatico verso Fermo. Dal litorale dalmata sono arrivati artisti nella nostra zona. Tra le presenze, il maestro del polittico già rubato, poi ricomposto, di Torre di Palme manifesta una certa influenza veneziana, anche se non se ne sa nient’atro. Il maestro chiamato di Sant’Elsino per i dipinti della storia di questo santo, in seguito ha ricevuto attribuzioni di altre opere, anche a Zara, sull’altra sponda adriatica. Somiglianze nella pinacoteca comunale e negli affreschi chiesa di santa Monica, a Fermo.
Il gotico cortese che si realizza nel ‘400 Fermano è espresso da Iacobello da Fiore e da altri artisti di rilievo. Iacobello da Fiore attivo tra il 1380 e il 1440 è autore dei dipinti per l’altare della chiesa di san Pietro a Fermo. Tra le sue opere grandiose, la più importante può dirsi il polittico di Fermo databile forse attorno al 1390, in cui è evidente il chiaroscuro da grande pittore. Otto tavolette della “Storia di santa Lucia”, smembrate, incorniciate furono create per l’altare chiesa santa Lucia di Fermo. Lo storia di santa Lucia è il capolavoro assoluto, unico più di ogni altra sua opera: architettura innovativa, vesti preziose, raffinatezza dei particolari in oro, attenzione agli animali, cane, gatto come riscoperta della natura. La drammaticità della scena della trazione di santa Lucia per mezzo dei buoi è evidente nelle linee divergenti. Il gioco dei colori, le scene con il gusto degli abiti dai diversi colori, la reminiscenza bizantineggiante degli angeli in alto, manifestano Iacobello orientaleggiante. Dalla sue opere si derivano notizie per la storia dell’architettura.
Le committenze laiche delle corti hanno facilitato la diffusione di questo stile gotico fiorito nella pittura raffinata e dorata. Il modello gotico si diffonde in tutta Europa, per cui è chiamato “gotico internazionale”: disegno minuzioso, destrezza espressiva, grazia distinta dei moti entro moduli architettonici tra il verde, il rosa e l’azzurro. Le scuole di pittura nelle Marche sono facilitate dalle committenze degli ecclesiastici e dei signori di varie cittadine, di Fabriano, di Camerino e di San Severino. Dalla metà del Trecento a tutto il Quattrocento la produzione artistica nell’abbellire le chiese è rilevante, a motivo di ex-voto e di figure catechetiche.
Alla scuola pittorica urbinate di Antonio Alberti da Ferrara è stato attribuito, tra l’altro anche il ciclo degli affreschi della Cappella Farfense a Montegiorgio. Il pittore Ottaviano Nelli nativo di Gubbio ha lavorato in Umbria e nella Marche. A questi artisti si ispiravano altri grandi pittori.
Giacomo da Recanati, discepolo di Iacobello, ha dato a Fermo il “Crocefisso” della chiesa di san Michele Arcangelo, opera trasferita al museo diocesano. La sagomatura dei bracci della croce mostra somiglianze con gli elementi caratterizzanti le formelle di Lorenzo Ghiberti. Il recanatese mostra abilità nella trasparenza dei veli.
A Fermo, gli affreschi del convento di santa Monica (chiesina attaccata a quella di sant’Agostino) sono stati diversamene attribuiti. Quando si troveranno altre opere per farne un catalogo si esplorerà una personalità, non da pittore primitivo. E’ certo un pittore italiano degli inizi del secolo XIV che , tra l’altro, crea un’interessante visione dell’Apocalisse: ”La Gerusalemme celeste contemplata da san Giovanni” arricchita con elementi naturalistici.
Una rimarchevole novità a Fermo è la miniatura del famoso Messale, codice conservato nel museo diocesano, datato con il nome dell’autore: Giovanni di Ugolino da Milano nell’anno 1436, a tempo del cardinale Domenico da Capranica. Tra le molte immagini, “l’Adorazione dell’Eterno” è una pagina interamente miniata con il gusto della pittura nordica. Si intuisce l’inizio del rinascimento nel tentativo di dare molta profondità alle scene. Secondo un’antica tradizione l’avvio di questo Messale è attribuito al vescovo Giovanni del Firmonibus (1417-1421) che dopo il Concilio ecumenico di Costanza promuoveva la riforma liturgica secondo il rito romano.
Un pittore dalla nitida personalità è Marino Angeli da Santa Vittoria in Matenano, monaco del locale monastero benedettino Farfense. Documentato nel 1448 a Collina. E’ stato fatto conoscere dagli studi di Crocetti Giuseppe. Tra altre opere è apprezzato il polittico esistente nel palazzo comunale di Falerone; una tra le sue opere migliori raffigura la Madonna, “Maestà” in cui si notano l’ influenza dallo stile gotico nella linea dura, forse anche l’influenza del codice di Ugolino milanese. Vi si realizza una certa delicatezza dei colori accostando rosa e celeste. La figura pur appesantita è nitida.
A Fermo, l’attività architettonica pubblica più importante è stata l’organizzazione di Piazza del Popolo e dell’attuale corso Cefalonia. I palazzo vescovile fu iniziato nel 1394 dal vescovo De Vetulis e rimaneggiato dai vescovi Capranica e da altri successori. Tra il 1446 ed il 1525, tra peripezie, si costruì il Palazzo dei Priori. Tra il 1502 e il 1532 il Palazzo Apostolico; Nel 1528 il loggiato di san Rocco.
In corso Cefalonia sorsero tra il Quattrocento e il Cinquecento alcuni splendidi palazzi, come il Vitali –Rosati e l’Azzolino e nel contempo le chiese della Pietà, e del Carmine, oltre a Santa Maria del Carità. Nei vari quartieri della città, si ebbero altre nuove emergenze, tra cui il rifacimento e l’ampliamento della chiesa di Sant’Agostino (1360-1420) a fianco della quale, tre anni dopo, furono iniziati i lavori di costruzione della chiesa di san Giovanni Battista, detta oratorio delle sacra Spina dal titolo della confraternita che vi si insediò.
Fu completata anche la chiesa di san Francesco con il bel campanile e la famiglia Eufreducci vi aggiunse la cappella del Santissimo Sacramento, ad opera del veneziano Cedrino, affrescata poi da Vittore Crivelli, nel 1484, la cui opera è andata perduta.
Accanto all’attività edilizia si è dispiegata, concomitante e successiva, quella figurativa, in cicli di affreschi, polittici, tavole, sculture che accompagnavano l’architettura. Maestri dalla più varie provenienze, locali ed esponenti di scuole marchigiane, hanno ornato ed arricchito iconograficamente le chiese, gli oratori, i conventi. Vi compaiono protagonisti di tutto rilievo: i Crivelli e i crivelleschi, l’Alemanno, i Vivarini, i Solario e i maestri riminesi, bolognesi e ferraresi, umbri e toscani insieme ad artisti locali come Francescuccio Ghissi, Marino Angeli, Giovanni e Vincenzo Pagani ed Antonio Bonfini.
Non va dimenticata la produzione di oreficeria, di scultura lignea e di intaglio con splendidi esempi di reliquiari, calici, croci astili, di cori e dell’arredo liturgico più vario, come l’arte della miniatura, di cui alcuni capolavori sono conservati nel Museo diocesano e nella Biblioteca comunale. Le attività creative della diocesi hanno avuto nel vescovo il segno dell’unità e dell’operosità.
I CRIVELLI NEL FERMANO. Secoli XV e inizi XVI.
I fratelli Crivelli sono stati un’altissima realtà nella pittura soprattutto nel Fermano e nell’Ascolano, dove si trova l’80 % delle loro opere. Non si hanno molte notizie della loro vita. La prima notizia di Carlo Crivelli che è il maggiore dei due, è dell’anno1457 quando viene pronunciata una sentenza contro di lui per aver tradito la moglie di un marinaio dopo che lui se l’era portata con sé. Nella sentenza risulta che era un pittore e per questo riconoscimento aveva quindi almeno vent’anni: pertanto la data di nascita si colloca tra il 1430 e il ‘40. In un’altra data, anno 1465, lo troviamo a Zara dove rimane per qualche anno. Tre anni dopo, nel 1468 lo troviamo nelle Marche, in base al dipinto datato nella chiesa di san Silvestro di Massa Fermana, opera firmata da lui appunto all’anno 1468. Da documenti rinvenuti dal Dania si pensa che questo dipinto era stato commissionato dal conte Azzolino di Fermo. Quindi Carlo Crivelli è venuto a Fermo, su chiamata degli Azzolino. Di fatto Fermo teneva stabili collegamenti di trasporti marittimi con Zara, come risulta in archivio, tra l’altro, dai contratti per importare il sale. Nell’anno 1469 Carlo si sposta in Ascoli e qui fissa la sua sede. L’ultima sua opera che si conosca, è datata del 1493. Sta a Fabriano e raffigura “l’Incoronazione della Madonna”. Carlo è vissuto a Zara, a Fermo, in Ascoli, ma ha lasciato opere anche nel Maceratese e nell’Anconetano. I Crivelli esprimono l’arte della scuola veneta del secolo ‘400, prima dei Mantegna, Bellini, Carpaccio. La loro formazione risente delle botteghe veneziane, tra le quali era nota la grande scuola dello Squarcione che di per sé appare un pittore mediocre, ma è diventato famoso per le decorazioni vegetali. Nelle sua scuola accoglieva apprendisti pittori e chiamava qualche bravo insegnante per questi allievi. Questa scuola influenza Carlo Crivelli che riporta nei suoi dipinti gli elementi vegetali. Un dipinto di Carlo sta a Massa Fermana nella chiesa di San Francesco, e come molti altri è mutilo di alcune parti. Reca l’iscrizione: “Carlo Crivelli veneto dipinse quest’opera nel 1468” Lo Zampetti ha ricomposto varie parti del polittico. Si nota che il disegno è molto dolce e delicato; la luce non sempre è equilibrata con le ombre. Carlo si distingue per i particolari stampigliati sugli abiti o sull’arredo, ad esempio sulle maniche e sugli oggetti. Questa stampigliatura è fatta in oro elaborato, dopo preparato lo stampo in gesso. Va tenuto presente che le opere dei fratelli Crivelli, Carlo e Vittore, sono state saccheggiate perché erano polittici compositi da cui sono stati smembrati e venduti i pezzi, questo a cominciare dal saccheggio napoleonico. I pezzi sono finiti nelle mani di mecenati forniti dai mercanti.
Un’altra opera di Carlo è la “Crocefissione” che si trova a Montefiore dell’Aso, nella chiesa di san Francesco. Quando quest’opera fu esposta nella mostra fatta a Venezia nel 1961apparve come una rivelazione della sua bravura. Carlo Crivelli si manifesta come un sensitivo a volte rude perché sembra che le sue immagini siano scolpite: dipingendo crea una raffinatissima plasticità che dona rilievo. Altri santi S. Pietro, S. Caterina d’Alessandria, S. Chiara, S. Ludovico di Tolosa (fratello del re Roberto d’Angiò), S. Giacomo della Marca, S. Maria Maddalena (non santa Lucia). Si nota dolcezza di tratti nei volti femminili
Fratello minore di Carlo Crivelli è Vittore di cui non abbiamo molte notizie biografiche. Nulla si sa fino alla sua venuta a Fermo. Sembra che i due fratelli si siano divise le aree di lavoro: Carlo in Ascoli e Vittore rimasto sempre a Fermo tanto da esser detto Fermano. Vittore sposa figlia di Pietro Solaria che era zio del pittore anch’egli a Fermo, il Solario. Vittore vive tra pittori. Era uso sposarsi tra famiglie di pittori; come Mantegna sposa una Bellini. Nel 1481 Vittore dipinge il polittico di Loro Piceno. Muore nel 1502 a Fermo. Vittore ebbe un felice intagliatore che era Stefano da Montelparo studiato dal Crocetti. La cornice non era un oggetto comprato come nell’ottocento, era invece adeguata e fatta appositamente per le tavole dipinte Le cornici vengono ben elaborate e adeguate per dare profondità alla pittura. Stefano ‘corniciaio’ lavorerà anche per il Presutti. Vittore non è stato all’ombra del fratello Carlo, riesce da sé con dipinti di ammirabile bellezza. Il pittore compone vari pezzi dell’unica serie delle scene del polittico: nella parte centrale mette le figure maggiori e sotto forma il basamento o predella con molti quadretti. Vittore in alcuni punti rassomiglia al fratello, ma ha elementi propri. Novità: san Giorgio dipinto in modo che esce fuori dalla scena.
Nella pittura veneta ricorre la fascia per dare rilievo alle figure. Tra le opere della scuola veneta ci sono quelle di Bellini padre, e dei suoi figli Gentile e Giovanni. Significativo l’Alemanno pittore di polittici a Monterubbiano e Montefalcone, e un’attribuzione a Torre san Patrizio. Manifesta derivazioni dai Crivelli.
NEL SECOLO XVI
Antonio Solario parente della moglie di Vittore Crivelli, creduto prima milanese, poi riscoperto veneto abitò e visse a Fermo tra gli anni 1502 e 1518 . Nel dipingere studia la luce e conferisce precisi orientamenti alle ombre. Così nel dipinto a Fermo nella Chiesa del Carmine “Conversazione della Madonna con il Bambino, in trono, con quattro santi” dell’anno 1502.
Nel rinascimento, ai primi del ‘500 più correnti artistiche si sono intrecciate nel Fermano, provenienti da esperienze urbinati (Raffaello Santi), lauretane, umbre toscane e venete.
Giuliano da Fano (Presutti o Persutti) lascia a Fermo la “Sacra Conversazione” in stile veneto con volti bel espressivi simili a quelli di Luca Signorelli ed anche con nitide prospettive architettoniche. L’opera è nella pinacoteca comunale.
Lorenzo Lotto ha molte opere nelle Marche, in particolare a Loreto. Durante Nobili suo disceoo ha la “Madonna in gloria e santi” del 1549 a Massa Fermana. La scuola umbra e quella toscana hanno influito molto sulla pittura locale rinascimentale.
LA PITTURA NELLE MARCHE DEL SECOLO XVII. Dal Barocco al Neoclassicismo
L’epoca moderna nelle Marche è un ambito di vaste ricerche nuove. Tra Ascoli e Fermo dalla seconda metà del seicento a tutto il settecento c’è una marea di pittori ancora da studiare. E’ questa la zona più fertile delle Marche ancora non adeguatamente studiata.
Abbiamo opere di pittori che non stavano nelle Marche, ed hanno avuto le committenze da questa regione; inoltre opere di pittori presenti nelle Marche, anch’essi con commissioni di opere da parte di parroci, di ordini religiosi, e di qualche nobile. Notiamo, ad esempio i pittori veneti di fine cinquecento, tra l’altro un quadro a Potenza Picena (non si sa come sia arrivato); inoltre i pittori Bolognesi . Sappiamo che il vescovo Paoletti di Bologna ha emanato delle norme ed ha costituito una scuola di pittori. Alcuni di questi sono venuti nelle Marche soprattutto nel nord. Nella pinacoteca di Fermo ci sono opere del Lanfranco, una delle quali è la “Discesa dello Spirito Santo” già nella chiesa dei Filippini. Tra i pittori toscani nelle Marche del nord, ad esempio il Baciccia (Giovanni Battista Gaulli) ha una “Natività” bellissima nella chiesa del Carmine a Fermo. Altro pittore Boscoli Andrea (1560-1607) fiorentino tra cinquecento e seicento ha fatto i dipinti della chiesa della Misericordia di sant’Elpidio a Mare, dove ci sono anche due organi del Callido.
Oltre agli italiani, abbiamo avuto anche opere di artisti di altri Paesi Europei: ad esempio il Rubens che ha dipinto “La natività” per i Filippini di Fermo. Un’opera attribuita a Van Dick è nella chiesa in piazza a Falerone, opera certamente dell’ambito della sua scuola: rappresenta due santi gesuiti: sant’Ignazio da Loiola e san Francesco Saverio.
Alcuni dei vari pittori nativi delle Marche della fine del Cinquecento: Zuccari, Bonfini, Maratta.
I pittori Zuccari, padre e figlio, formatisi a Roma alla scuola raffaellesca, hanno, nella chiesa dei Frati Cappuccini a Fermo, il dipinto su tela “Il martirio di San Lorenzo”, e nella chiesa di san Francesco a Loro Piceno un altro bel dipinto. Federico Zuccari è un grande artista manierista, riconosciuto a livello internazionale.
Un altro pittore importante è Martino Bonfini, nativo di Patrignone, frazione di Montalto. E’ molto dinamico: lo stile della sua arte deriva dallo stile dei pittori toscani. Nella sua opera più bella, Bonfini ha affrescato lungo l e pareti e nel volto della chiesa dell’Ambro (Montefortino), le “Storie della Madonna”.
Due pitture del manierismo Fermano, di fine cinquecento e primo seicento, sono nella casa parrocchiale a Monterubbiano, sono anonime. Un raffigura san Sebastiano ed è opera di un pittore locale (anonimo). Si nota l’imitazione di grandi pittori, ma non sempre con le dovute armonie. L’altro dipinto di stile napoletano, con le gradazioni di un solo colore (dal giallo al marrone scuro), raffigura un santo, forse un santo Francescano. Il pittore riesce a dare profondità al dipinto e la parte luminosa è in controluce.
I pittori “maratteschi” sono stati gli imitatori della seconda metà del seicento. Carlo Maratta o Maracci di Camerata aveva una bottega a Roma. Tra i vari ascolani, notiamo Ludovico Trasi che ha tanti dipinti, anche nel Fermano. Un altro ascolano alla scuola Marattesca, tra seicento e settecento, era Tommaso Nardini, discepolo del Trasi. A Petritoli il Nardini ha la Madonna dell’Annunciazione.
TRA SETTECENTO E OTTOCENTO. La Pittura dei Ricci, di Liozzi, e di Fontana
Natale Ricci ha avuto due figli, Lucia e Filippo. Lucia ha dipinto una serie di Madonne tra cui una sta a Grottazzolina. Era monaca e dipingeva in quadri piccoli. Filippo (1715-1793) dopo aver studiato l’arte con il grande pittore napoletano come Corrado Giaquinto (suoi dipinti nella pinacoteca di Montefortino). Filippo Ricci ha realizzato una quantità enorme di commissioni per cui talora era sbrigativo. I Ricci hanno molte opere in tutto il Fermano, tra l’altro a Montegiorgio (Sacro Cuore, San Michele, Ultima Cena e varie attribuzioni) e a Servigliano (San Giovanni e Giacomo, Madonna delle Rose, Madonna del Rosario), a Belmonte e in molte parrocchie della Valle del Tenna.
Figlio di Filippo è Alessandro (1750-1829) che ha frequentato (dice Zampetti) gli ambienti veneti e soprattutto i Tiepolo Giambattista padre e Giandomenico figlio, come si vede dai colori pastello. A Fermo, nel duomo, Alessandro Ricci ha il dipinto “San Ludovico re”, altro dipinto nel cripta. A Monterubbiano nella chiesa di sant’Agostino il dipinto “San Pasquale Baylon”. A Servigliano “San Serviliano”; altro dipinto “San Marco e san Gualtiero”.
Nicola Monti, ascolano (nato 1736) si è formato a Roma alla scuola di Batoni Pompeo grande ritrattista. Il Monti ha fatto molte copie di grandi opere. Suo lo stupendo dipinto di “Sant’Anna e san Gioacchino con la Madonna bambina” al duomo di Fermo. Nella chiesa delle Grazie di Montegiberto “Ultima Cena”. Disegni del Monti nella biblioteca comunale di Fermo, tra cui la Madonna Assunta.
La scultura dell’Assunta che sta dentro nell’abside del duomo di Fermo è opera di Gioacchino Varlè.
Tra settecento e ottocento, Antonio Liozzi di Penna San Giovanni (1730-1806) ha dipinto per molte chiese nella diocesi Fermana. Don Giuseppe Crocetti ha pubblicato uno studio sistematico su questo pittore che sa coniugare il gusto settecentesco del colore e del decorativo, con una certa compostezza del neoclassico. Suoi i quattordici dipinti della Via Crucis (rubata) della parrocchiale di Penna San Giovanni. Del tutto uguale c’è a Montegiorgio, nella chiesa collegiata. E’ un manierista delicato, color pastello, ma rivela tratti seri nella grandi composizioni.
Nell’ottocento, un grande manierista, nato a Monte San Pietrangeli nel 1827, è Luigi Fontana che ha lavorato a Roma alla scuola di Tommaso Minardi, ha lasciato opere nella chiesa conventuale dei SS. Apostoli (non lontano da Piazza Venezia). Nel Fermano il Fontana ha lavorato in molti luoghi. Sei dipinti sono a Montegiorgio: nella chiesa dei santi Giovanni e Benedetto, in quella di san Nicolò e nella chiesa un tempo officiata dai Cappuccini. A Grottazzolina, tutta la chiesa del SS. Sacramento, ora parrocchiale, è stata dipinta dal Fontana. Il suo stile che appare neoclassicheggiante è piuttosto ispirato ai preraffaelliti del ‘400, dai colori spiccati, non morbidi, ma forti, come se scolpisse. Giovanni Cicconi pubblicò un libro su Luigi Fontana.
Il precedente articolo è modificabile, aggiornabile\
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LORETO cittadella di Maria e scrigno dell’amore per Maria. (Liberati Germano)
La storia del santuario di Loreto sta tutta concentrata in una data conservata dalla tradizione, il 1294. Fu allora – ci è stato tramandato – che la casa della santa Famiglia di Nazareth fu trasportata miracolosamente dalla Palestina in mezzo ad un bosco della campagna Lauretana.
Gli storici parlano di Crociati o di altre concrete vie attraverso cui tale presenza può essere razionalmente spiegata. Due fatti, comunque, restano incontrovertibili: la Casetta è costruita senza fondamenta, quasi appoggiata sul terreno; le pietre stesse sono quelle della Palestina. Forse su alcuni aspetti storico – archeologici si può discutere all’infinito senza trovare soluzioni apodittiche, affacciando magari ipotesi scientifiche; ma tutto ciò non crea nessun contrasto con la fede.
Loreto è e resta un luogo storicamente privilegiato, ove il culto della Vergine Maria si focalizza e prende tale e tanta valenza che ivi la provvidenza misericordiosa di Dio si manifesta con una presenza tangibile, spesso straordinaria. E’ questo particolare significato che attira le masse di fedeli che a centinaia di migliaia vi affluiscono. La Chiesa ne approva e favorisce il culto mariano. La cultura e l’arte ne hanno fatto il più bello scrigno dell’amore per la Vergine. E tutto ciò non ha limiti temporali, non momenti di stasi, ma una continuità che, oggi come ieri, genera attrazione ed aggregazione.
E’ così che deve essere impostata la visita di chi, credente o semplice turista, voglia andarvi: se il suo è pellegrinaggio di fede, la grazia che corrobora le virtù teologali è fondamentale; se si tratta di un turista curioso, questi non può fare a meno di scoprire come la fede e la cultura, la fede e l’arte, la fede e la vita si coniughino in una impresa di impensata armonia. Una particolare suggestione viene suscitata , al solo giungere nella Piazza del Santuario: essa non è solo un mirabile spazio armonico, secondo i canoni della ritmica classica, ma una specie di spazio raccolto che protegge e incornicia una preziosa realtà.
Il Palazzo Apostolico, i palazzi degli ex collegi ecclesiastici, la monumentale scalinata costituiscono le linee direttive che indirizzano verso la sopraelevata facciata del Santuario che raccoglie le folle, le segrega dal profano, convoglia verso il divino. Entrando nel Santuario, si percepisce la perfetta funzionalità della costruzione. Ad accoglierci è una grande aula, a tre navate, con cappelle laterali ed un presbiterio sopraelevato, ben visibile: uno spazio, insomma, concepito per la grande massa dei fedeli che vi si affollano.
Oltre il presbiterio, si estende quasi una nuova chiesa con cappelle raggianti, absidata, come una immensa corolla, a circondare il palladio della santa Casa e questa, incorniciata da una cassa marmorea scolpita, protetta da un grande cupola. Girando per le numerose cappelle si percepisce l’universalità della fede; la cappella francese, la slava, la svizzera, la tedesca, la polacca … con figurazioni, artisti e stili nazionali. Tutto l’edificio è sintesi di storia delle culture e dell’arte in una ininterrotta linea di sviluppo: gli architetti da Bramante (=Donato Pascucci), a Giovanni da Maiano, a Giuliano da Sangallo, a Luigi Vanvitelli, e fino a Giuseppe Sacconi, hanno riorganizzato l’antico spazio gotico, ampliandolo, coordinandolo, in razionali rapporti, raccordati nella superba cupola: il tutto senza impressione di stonature stilistiche o giustapposizioni indebite.
Del pari gli scultori, dai bronzisti fratelli Lombardo, ai marmorari Andrea Sansovino, Giovanni Cristoforo Romano, e Raniero Nerucci. A loro il compito di intervenire nelle parti più nobili dell’edificio, quali il rivestimento e l’altare maggiore, e quelle tradizionalmente in evidenza, come le porte bronzee. Infine i pittori come Melozzo da Forlì, Luca Signorelli, Carlo Maratta, Cristoforo Pomarancio e Ludovico Seitz. Le loro opere sono disseminate un poco ovunque nella chiesa e nei locali adiacenti: le vecchie sagrestie nella navata destra, all’altezza dell’innesto con il transetto, la superba cappella tedesca, la sala del tesoro .
Tutto questo confluire di storia, culture ed arte riporta il visitatore alla sua ragion d’essere, quando accede alla santa Casa. Essa è una costruzione in pietra, ad un solo piccolo vano, a pianta rettangolare (m. I0,52 x 4,10) annerita dal fumo e con tracce di intonaco affrescato. Le pietre sono quelle della Galilea e gli esami chimici sui materiali non ammettono dubbi. Sopra l’altare in una nicchia, la statua della Madonna con il bambino, in legno di cedro, in sostituzione di quella bruciatasi nell’incendio del 1921.
Centro del santuario, la santa Casa, luogo di preghiera e di raccoglimento dove, nella penombra, ordinatamente e in silenzio, sostano i pellegrini. Ma questo povero ambiente viene custodito nella sua sacralità, da un rivestimento marmoreo, una specie di cassa-reliquiario su disegno attribuito al Bramante. Scultori del Rinascimento tra i più celebrati, quali Bandinelli, Andrea Sansovino, Raffaele da Morlupo, Domenico Aimo e Sangallo il Giovane, hanno immortalato gli episodi della vita della Vergine: dalla Natività, alla Dormitio; e la traslazione della santa Casa. Sul crepidoma, vi sono i segni della pietà e della penitenza: solchi profondi scavati nei secoli dalle ginocchia dei pellegrini, alcuni dei quali così lo percorrono ancora oggi.
La santa Casa è divenuta, lungo la storia, meta di pellegrinaggi particolari, come quelli degli ammalati, organizzati dall’UNITALSI, che si distribuiscono lungo l’arco dell’anno ed interessano regioni e diocesi italiane, e in particolare quelle delle Marche. Dirompente è la testimonianza di fede e di servizio di migliaia di volontari, specialmente giovani. Appuntamenti particolari sono la “notte della Venuta” e la celebrazione della festa liturgica, il 10 dicembre, con eccezionale afflusso di fedeli. Essa viene ricordata anche in tutte le Marche con l’accensione dei “falò” la sera della vigilia.
Il Museo Pinacoteca della santa Casa è situato al primo piano del Palazzo Apostolico: un monumentale edificio progettato dal Bramante e completato nel ‘700 dal Vanvitelli. Il museo si dispiega in 12 sale, offrendo ai visitatori un complesso di opere: i dipinti, gli arazzi, i gioielli, le ceramiche, i mobili e gli arredi sacri. Di notevole valore otto dipinti di Lorenzo Lotto, morto a Loreto nel 1556. Interessante la collezione di ceramiche, tra le migliori delle botteghe di Urbino e castelli. Pregevoli gli arazzi delle manifatture di Bruxelles su cartoni di Raffaello.
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L’ARTE CONTEMPORANEA CHE SGRETOLA L’IDENTITA’ PERSONALE CON IL SACRO PUO’ CREARE LA PROIEZIONE AL NUOVO
Sul piano dell’arte figurativa, il compiersi del secolo XX cifra soprattutto la caduta di un “codice multiplo” che, come costante aveva accomunato artisti ed epoche, se pur con variazioni di gusto, nei secoli passati. In questo novecento, la progressiva frammentazione ideologica, la caduta di valori fino ad ora ritenuti irrinunciabili, l’irrazionalismo diffuso che ha finito per esprimersi in forme e codici individualistici ed ora il “pensiero debole”, che ha messo in crisi fin i possibili approdi dell’ermeneutica, hanno condotto l’arte ad una esasperata ricerca formale, ad una solipsistica formulazione di poetica, ad una proiezione inconscia, incapace di trovare, nella maggior parte dei casi, forme ed espressioni adeguate.
Donde il moltiplicarsi nella prima metà del secolo degli “ismi” che si rincorrono e si superano a vicenda; nella seconda, l’abbandono di contenuti che ne individuassero la forma, finendo per identificarsi con percorsi di puro metalinguaggio, quali l’informale e il concettuale, il moderno e l’underground e giù giù fin al post-moderno: etichette che poi finiscono spesso per essere denominazioni di comodo, se non addirittura a sublimazione di tentativi mal riusciti. Siamo così di fronte ad un rispecchiamento di tutto un secolo con tutti i suoi mali e le sue turbinose vicende.
V’è infatti, una società in crisi e che perde progressivamente la sua identità e si esprime in atteggiamenti puramente fenomenologici, in ideologie irrazionali che generano orrore, in nazionalismi esasperati che frantumano popoli e nazioni, uomini e cose.
Nel vano tentativo di recupero, il secondo dopoguerra si è configurato poi, come l’ultimo atto di sgretolamento di ogni identità personale, generando la caduta delle ideologie, esprimendosi in razzismi e fondamentalismi. Tutto ciò in un processo culturale osmotico che, mentre vuole esserne la giustificazione teorica, finisce, per altro verso, a decadere in cultura massificata e reificata, ove creatività, genialità, intuizioni sono rimaste vuote parole, dimesse e senza soggetto.
Tutto ciò ha finito per influenzare e di interagire nell’arte, evidente cartina di tornasole dell’esperienza umana. In particolare le ripercussioni si sono riversate sull’”arte sacra”, per un progressivo distacco dell’artista dai valori religiosi, visti e sentiti come ormai desueti e fuori dal mondo (da quel mondo) e quindi datati e poco stimolanti. Ci viene dunque da chiedere quanto la nuova epoca possa offrirci.
Non mi reputo certo uno che loda il passato, “laudator temporis acti”, che desidera ricondurre l’arte a forme storicamente concluse, parametri con cui molti nostalgici tentano di liquidare quella contemporanea.
Credo fermamente nelle inesauribili potenzialità dell’uomo, nell’immensa sua capacità, nella meravigliosa forza dei suoi stimoli interiori, nella sua progressiva, dinamica ricerca e proiezione verso il nuovo. Ma sono altresì convinto che tutto ciò sia possibile solo attraverso lo sforzo di una riacquisizione di invarianti di fondo, che permettano dialogo e scambio, attraverso la “inventio” di forme che promuovano rapporti inter-relazionali sul piano culturale ed artistico, attraverso una seria riflessione che consenta e sia, autentica ermeneutica di valori comuni.
Sarebbe deleterio scoprire e vivere una crisi interiore e rimanere quiescenti, senza che da essa non si tenti di venir fuori: ogni conflittualità interna ed interpersonale, perseguita e vissuta, subita e protratta, è fatale principio di distruzione di sé e della realtà in tutte le sue forme.
In questo contesto, credo sia molto proficuo ed opportuno “rivisitare” il Cristianesimo, rimeditare sull’arte sacra che offre molti elementi per un positivo superamento dell’impasse attuale. Tale è certo una delle ragioni di fondo per cui il Papa (Giovanni Paolo II), ad esempio, ha rivolto il suo “Discorso agli artisti”: una opportuna provocazione ed una oggettiva offerta di ricomposizione del dialogo e dei rapporti tra Chiesa e arte, nella convinzione che il sacro offre molto agli artisti e gli artisti possono dare impensati contributi al sacro, proprio per quella scintilla di divino che è nel genio e nell’arte.
Diventa perciò urgente che il secolo XXI e con esso il millennio che ci si aprono dinanzi, siano portatori di una prospettiva nuova, inconsciamente sentita come bisogno urgente e imprescindibile, ma non sempre individuabile nella concreta coscienza.
La prospettiva nuova è quella di compiere finalmente il salto da un’arte di denuncia e testimonianza di uno stato di cose, da una descrizione anatomica della distruttività umana, da un’arte di mera analisi, di manifestazioni d’impotenza interiore, verso un’arte che sia propositiva, che dimostri la intrinseca verità di una “natura naturans”, offra acquisizioni, esprima bisogni fondamentali, affermi la volontà di costruttività, urli a tutti la necessità di recuperare alla vita, alla persona ed alla realtà il loro senso definito.
Anno 1999. Germano Liberati Digitazione di Albino Vesprini
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TURISTA E PELLEGRINO NELLA STORIA E NELL’ARTE DEL FERMANO DAI MONTI AL MARE
Germano Liberati
A Montegiorgio, a Ponzano, a Santa Vittoria in Matenano, gli insediamenti monastici nella vallata del Tenna e della vicina e parallela valle dell’Ete sono collocati a scansioni ritmiche, lungo le colline circostanti i fiumi, dai monti Sibillini al mare Adriatico. Di questi monasteri ed abbazie oggi per lo più restano i toponimi e le chiese trasformate, lungo i secoli. E’ il caso, ad esempio, di S. Giovanni ‘in selva’ tra Fermo e Monte Urano, o di Santa Maria Grande a Montegiorgio. Molti insediamenti risalgono ad epoche assai antiche (secoli VI – VII), ma una effettiva fisionomia ed una piena organizzazione l’ebbero nei secoli IX e X, fino all’avanzato medioevo (secolo XV). Nell’anno 899 avvenne il trasferimento temporaneo, per motivi di sicurezza, dell’abate di Farfa dalla Sabina, ai monasteri presso Santa Vittoria in Matenano. Questa presenza, sempre più incisiva nel prosieguo degli anni, anche per cospicue donazioni, creò il Presidato Farfense che certamente fu l’anima dello sviluppo sociale, economico e demografico di molti paesi gravitanti su queste valli, oltre che il polo attrattivo anche per le altre comunità benedettine preesistenti.
Il nostro itinerario punta su alcune costruzioni importanti, procedendo nell’entroterra verso i monti. La prima abbazia dedicata a Santa Maria Mater Domini (Madre del Signore ) detta poi di S. Marco, è appena fuori l’abitato di Ponzano di Fermo. La si coglie in tutta la sua bellezza, adagiata su un piccolo poggio, tra il verde della campagna circostante. I restauri del 1923 – 24 e quelli del dopoguerra hanno permesso di storicizzare i successivi momenti di interventi costruttivi: dai resti dei secoli sesto e settimo, alla ristrutturazione Farfense del 1154 fino ai rimaneggiamenti quattrocenteschi e cinquecenteschi. La concezione generale si integra con l’ambiente: la costruzione non è molto alta nelle navate. La facciata è tripartita con grande articolazione delle membrature, quasi ad evitare una presenza di massicce strutture per realizzare una compenetrazione ariosa con la natura.
Fa eccezione l’imponente e forte campanile, che oltre ad essere un elemento ricorrente dell’epoca, aveva una funzione, con ogni probabilità, di avvistamento e di difesa. Anche le fiancate e le tre absidi hanno la tendenza ad alleggerirsi nella muratura con lesene, archetti pensili e monofore. L’interno è di una semplicità sconcertante: la pianta è a tre navate, scandite da archeggiature insidenti su pilastri e colonne. È da ammirare il senso del ritmo degli spazi e la chiarezza della impostazione, in concomitanza con l’ordine interiore a cui il luogo doveva elevare tramite le preghiere, il canto e la contemplazione.
Nell’ambito dell’itinerario proposto, merita di essere raggiunto l’abitato di Montegiorgio. Tra i molti edifici ed opere d’arte da vedere, al sommo del colle su cui sorge la cittadina, si trova la chiesa di San Francesco che risale al Presidato Farfense, con l’antico titolo di Santa Maria Grande. In un corpo di fabbrica aggiunto a sinistra del presbiterio, con strutture gotiche a costoloni, è conservato il più bel ciclo di affreschi tardo gotici della terra marchigiana, sul tema delle Storie della santa Croce”, premessa di qualche decennio per l’opera di Piero della Francesca ad Arezzo (San Francesco). Tra i vari nomi di artisti che gli studiosi hanno detto, il più attendibile è quello del pittore ferrarese Antonio Alberti (prima metà del secolo XV).
Per conoscere l’opera dei Farfensi da qui ci si muove verso Santa Vittoria in Matenano. Nel punto più alto del paese, su una collinetta arrotondata, certamente fin dallo sterramento antico, sorgeva la chiesa madre del Presidato Farfense. Ora l’edificio neoclassico funge da chiesa parrocchiale, conservando la venerazione della martire Santa Vittoria, sepolta in un artistico sarcofago nella cripta. Questa martire è stata trasferita da Monteleone Sabino fin qua, per i collegamenti con l’abbazia di Farfa.
Quello che resta ancora dello splendore abbaziale e monastico è certamente il cosiddetto Cappellone (chiesa della Resurrezione), avanzo di una costruzione Farfense, demolita nel secolo XVIII. L’aula attuale, adornata da stucchi tardo barocchi, è stata conservata per la presenza di uno dei complessi pittorici più importanti della zona, attribuito a vari pittori, dai diversi studiosi, e datato 1471. Sulla volta sono dipinti Evangelisti e Dottori, alle pareti la Storia della Vergine, dall’Annunciazione al Transito.
Infine, l’occhio attento del visitatore deve appuntarsi, all’esterno dell’edificio, accogliendo lo spazio circostante. Si possono qui percepire la vastità dell’area abbracciata dall’abbazia farfense e l’articolazione delle strutture, osservando la collocazione degli attuali edifici, deducendone così l’impressione di una delle più grandi e imponenti abbazie delle Marche.
Ad Amandola, in prossimità dell’abitato urbano si incontra, sulla destra della strada provinciale 239, la chiesa di Santa Maria a pie’ di Agello, edificio rurale, forse di origine gentilizia, secondo la denominazione romana prediale che allude ad una appoderamento privato. È di semplice struttura, con un porticato sui fianchi, sorretto da pilastrini. Numerosi affreschi, molti dei quali votivi, decorano i fianchi esterni e l’interno. Costituiscono una rassegna di vari mani di artisti tra il quattrocento e il cinquecento: pittori locali, maestri marchigiani di passaggio ed epigoni di scuola umbra. Tra tutti si eleva il maestro della “Dormitio Virginis”, Transito della Vergine Maria.
All’Infernaccio dell’Ambro se giunge seguendo il sentiero nella valle, risalendo il corso di questo fiume: ambiente aspro e accattivante; le numerose cascatelle; i Balzi Rossi, a strapiombo, di una marna color rosa, interessata da una tettonica molto tormentata; i picchi e gli spuntoni di roccia che si stagliano minacciosi conducono su su fino alle Roccacce; tutto intorno un verde cupo di arbusti ed alberi che nell’autunno volge verso infiniti toni di giallo e rosso.
L’Infernaccio del fiume Tenna si raggiunge dopo l’incasato di Rubbiano, lungo il tratturo. Qui ci si infila nella stretta e tortuosa gola del Tenna, detta “Stretta delle Pisciarelle” e si rimane col fiato sospeso e con un senso di brivido addosso per l’orrido che si dispiega in scorci sempre diversi.
Dopo aver superato la gola, il sentiero risale e si biforca. Proseguendo diritti si può arrivare fino a Capo Tenna, dove un tempo si potevano ammirare le Cascatelle delle sorgenti del Tenna, ora imbrigliate e incanalate con un muro di cemento per l’acquedotto. Arrampicandosi invece a destra, per la mulattiera attraverso una splendida faggeta, si raggiunge l’eremo di San Leonardo al Volubrio: “pietra su pietra” lo ha rimesso su, esattamente sui resti dell’antico, con infinita pazienza e amore, padre Pietro Lavini, moderno eremita. Il cuore dei Monti Sibillini è il santuario dell’Ambro.
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LA STORIA DELLA CITTA’ di Fermo NELLA CATTEDRALE Note di Liberati Germano
Ecco un itinerario ideale attraverso i secoli, dai Romani all’epoca moderna, tutto concentrato in un solo edificio, il duomo. Collocato nel punto più alto, visibile da ogni lato, in suggestivi scorci, sempre diversi, imponente in tutta la sua mole, attira subito lo sguardo del visitatore. Ma è bene visitarlo dopo una visita attenta ai monumenti cittadini, per avere modo di fare la sintesi della città. La visita fa conoscere le piscine epuratorie romane, l’antiquarium; l’arte nelle chiese di Sant’Agostino, Santa Monica; San Francesco, San Domenico; la piazza del Popolo, dove si concentrano cultura, potere politico e autorità religiosa con il palazzo del Comune e la pinacoteca, l’episcopio, l’ex università e il loggiato di San Rocco, fino ai più recenti palazzi e al teatro dell’Aquila: tutto fa intravvedere gli spezzoni di storia disseminati come tante tessere di un mosaico in un’articolazione incredibile di stratificazioni urbanistiche, politiche e religiose. Il duomo le riassume tutte.
Ecco allora la necessità di salire il colle per trovare la risposta all’ovvia e incalzante esigenza di dare ordine, chiarezza e di percepire lo svolgimento logico di una storia così ricca, così diversificata, anche contraddittoria, che nemmeno il commissario Valerio del governo sabaudo del 1861, aveva capito, pur con la sua assidua frequentazione della città.
Giunti sulla spianata, immersi nel verde del piazzale del “Girifalco”, la gotica facciata ci appare in tutto il suo splendore: la pietra d’Istria, che la riveste, le forme apparentemente asimmetriche, l’elaboratissimo strombo del portale cuspidato, sormontato dall’elegantissimo rosone del fermano Palmieri, subito dicono quello che Fermo rappresentò nel medioevo: splendore, ricchezza, potenza, superiore alle altre città delle Marche. “Anno del Signore 1227. Bartolomeo mansionario fece innalzare questo edificio per mano del maestro Giorgio della diocesi di Como”.
Era l’epoca di Federico II; e furono scomodate niente di meno che le maestranze comacine e fu ordinato e trasportato il bianco – grigio calcare dell’Istria sulle barche che giungevano cariche al Porto di Fermo. Questo è il centro della storia che si proietta nei secoli futuri e rammenda le file del passato.
Superato il portone, l’atrio con le vestigia medievali segna il primo passo del cammino della storia. Nell’atrio il monumento funebre a Giovanni Visconti di Oleggio, signore di Fermo e rettore della Marca fino al 1366.
L’interno della cattedrale, entrati dalla bussola, ci si dispiega grandioso, a tre navate divise da enormi pilastri su cui sono voltati archi a tutto sesto, con le cupole e le calotte di prospettiva dipinta. L’inaspettato impatto ci fa recuperare ancora una volta la storia: quella religiosa, innanzitutto nella volontà dell’arcivescovo mons. Minucci di adeguare Fermo agli splendori del Settecento romano; e quella culturale dell’architetto Cosimo Morelli da Imola, e del decoratore Pio Panfili del Porto di Fermo, in un misto di linee neoclassiche e decorazione scenografica tardo settecentesca.
Questo clima è più evidente nel grandioso presbiterio rialzato, con l’altare, il coro ad intarsi e, sul catino dell’abside, la gloria della Vergine Assunta in cielo, dove lo scultore Gioacchino Varlè, in un linguaggio magniloquente e prezioso ha esaltato la patrona della città e della diocesi. Ma questa chiesa in ogni dettaglio riassume i protagonisti e la cultura storica con opere disseminate lungo le pareti e nel tesoro: dalla mondo orientale con la casula di Tommaso Becket di fattura arabo – spagnola, all’icona bizantina nel terzo altare di destra; il classicismo del ciborio dell’altare del SS. Sacramento dei fratelli Solari, il pastorale di Sisto V; la migliore pittura del nostro Settecento con tele di Alessandro Vitali e Andrea Boscoli; il monumento funebre della contessa Spinucci, moglie del principe di Sassonia, esemplato dal Cardelli su quello del Canova a Vienna, e la pittura dell’ottocento nel tono e nei colori dei preraffaeliti della cappella del SS. Sacramento, e di quella dell’Immacolata, per mano del fermano Cordella allievo di Friedric Overbek. E completano l’insieme tutta la preziosa argenteria e i ricami dei paramenti conservati nel tesoro.
La sintesi di un lontano passato si scopre in due particolari ambienti: la cripta e l’ipogeo.
Alla cripta del Duomo si accede, scendendo a lato del presbiterio. Qui, in uno splendore, l’arcivescovo Borgia volle rinnovare i fasti della Chiesa romana, e vi troviamo le radici del cristianesimo. A destra dell’altare centrale è conservato il corpo del beato Adamo vissuto nel secolo XII. E’ tradizione che il sarcofago paleocristiano, di ottima fattura, sia il sepolcro del secondo vescovo di Fermo, san Filippo martire nel quarto secolo. Siamo così agli albori del cristianesimo, quando cultura romana e fede cristiana tentavano una difficile convivenza. A portare la fede a Fermo, si vuole sia stato un giovane romano, Alessandro, divenuto il primo vescovo della nuova comunità e martirizzato sul Colle Vissiano dove la memoria è conservata da un tempietto con colonnato e con materiali di riporto. Se la tradizione non ha prove, l’archeologia è certamente una scienza precisa; e allora fermiamoci ad ammirare il mosaico pavimentale paleocristiano probabilmente del quarto secolo, nella consueta simbologia di due pavoni che si abbeverano: è solo la punta visibile di un iceberg che recenti scavi hanno portato alla luce.
Possiamo documentarci scendendo nell’ipogeo. Vi si individuano i resti delle strutture di base di ben tre chiese: quella paleocristiana, quella romanica e quella gotica. Una storia scandita da numeroso materiale, dai Piceni ai Romani, al Medioevo, conservato in loco. Le memorie storiche e l’epigrafia ci aiutano nella ricostruzione. Sul posto, sorgeva una Chiesa paleocristiana risalente al quarto (o quinto) secolo restaurata e ampliata dal vescovo Lupo (826-844), intitolata Santa Maria in castello. Incendiata e distrutta da Cristiano di Magonza, cancelliere dell’imperatore Federico Barbarossa, questa venne ricostruita, durante alcuni anni, nello stile di transizione con elementi romanici e, nel seguito, prevalentemente gotici. La storia della cattedrale non si è mai conclusa, come viva è la fede cristiana. Per riscontro, uscendo dalla chiesa, soffermiamoci sull’ultima stratificazione, le porte bronzee del portale centrale, volute dall’arcivescovo Cleto Bellucci, opera dello scultore Aldo Sergiacomi di Offida, fuse a Milano dai Battaglia e poste in sito nel 1980.
Un’ultima riprova è nel volgere lo sguardo sull’immensa terrazza che, ad angolo giro, domina tutta la città appollaiata ai suoi piedi e il territorio circostante, memoria di un’antica potenza.
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NEL CENTRO STORICO DI FERMO esploriamo l’arte \\\ Liberati Germano
A Fermo, non è da meravigliarsi se la parte predominante delle strutture edilizie e soprattutto delle opere di arte figurativa hanno carattere o liturgico o devozionale, promosse dal clero secolare e regolare e dalle confraternite laicali. L’attività più rilevante è certamente l’organizzazione della Piazza del Popolo e dell’attuale corso Cefalonia. Nella prima, infatti, sorse il palazzo arcivescovile iniziato dal vescovo Giovanni De Vetulis nel 1394 e rimaneggiato in molti interventi successivi. Tra il 1446 e il 1525, in mezzo a molte peripezie, si portò a termine il palazzo dei Priori; tra il 1502 e il 1532 il palazzo Apostolico; nel 1528 il loggiato di San Rocco.
Nel corso centrale (Cefalonia) sorsero tra Quattrocento e Cinquecento alcuni splendidi palazzi, come il Vitali-Rosati e l’Azzolino e nel contempo le chiese della Pietà e quella del Carmine, della cui organizzazione primitiva si conserva una splendida tela di Antonio Solario detto “Zingaro”. Merita menzione la lunetta del portale dell’ospedale di Santa Maria della Carità, splendido lavoro attribuito al maestro Giacomo di Giorgio da Sebenico.
Accanto all’attività edilizia si è dispiegata, concomitante e successiva, quella figurativa, in cicli di affreschi, polittici, tavole, sculture che hanno accompagnato l’architettura. Maestri delle più varie provenienze, locali o esponenti di scuole marchigiane, hanno ornato e arricchito iconograficamente chiese, oratori e conventi. Vi compaiono protagonisti di tutto rilievo: i Crivelli e i Crivelleschi, l’Alemanno, i Vivarini, i Solari e maestri riminesi, bolognesi e ferraresi, umbri e toscani insieme ad artisti locali come Francescuccio Ghissi, Marino Angeli, Giovanni e Vincenzo Pagani e Antonio Bonfini.
Non va dimenticata la produzione di oreficeria, di scultura lignea e di intaglio, con splendidi esempi di reliquiari, calici, croci astili, di cori e dell’arredo liturgico più vario, così pure l’arte della miniatura, di cui alcuni capolavori sono conservati nel Museo diocesano e nella Biblioteca comunale.
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IL GIRFALCO E LA CATTEDRALE DI FERMO. Studio di Liberati Germano
Sul margine orientale del Girfalco si eleva la maestosa mole della cattedrale di Fermo, dedicata all’Assunta ed edificata su un’area che presenta una interessante stratificazione di resti architettonici risalenti all’epoca romana e all’Alto Medioevo. La cattedrale sintetizza la storia di Fermo. Del resto, la storia più antica di Fermo può iniziare dal colle Sabulo, come allora veniva chiamato il Girfalco prima di questo toponimo medievale; su questo colle infatti, fu costruita la rocca pre-romana tutt’intorno munita dalla prima cinta muraria, i cui blocchi megalitici irregolari sono visibili, ancor oggi, a Largo Calzecchi.
L’altura è restata munita per secoli tra lo sviluppo ed una evoluzione urbanistica sedimentata lungo la storia. Interventi romani sono da registrare attraverso la costruzione di un tempio probabilmente rifacimento, ampliamento con modificazioni, di uno pre-esistente in stile italico. Si potrebbe mettere in luce sia la successione stratigrafica del luogo, con sondaggi e scavi archeologici mirati a riconoscere le fasi evolutive e la ricostruzione topografica.
Si può pensare alla presenza di altri edifici pubblici, avallata dalle sostituzioni di epoca più tarda. Va comunque segnalato che il fianco nord -est del colle fu edificato un teatro, probabilmente con esterno alla greca e strutture archeggiate romane; il che conferma come la sommità del colle dovesse essere certamente l’arce (arx) romana con tutte le sue tipiche strutture ed edifici annessi. Per tutto questo, rimando alle competenze di studiosi che anche di recente hanno messo in evidenza, con dotte pubblicazioni, la fase romana.
Il castello sull’altura doveva risultare imprendibile sia per la quota d’altura, perché munitissimo, come fu infatti di l’impressione che ne ricevette, ancora nel X secolo, Liutprando di Cremona che annotava, “Fermo castello di vocabolo e di natura fermo” espressione che potremmo tradurre “castro (castello) solido di nome e di fatto”.
Quando leggiamo che durante il periodo barbarico, Fermo fu varie volte devastata, è logico rferirsi piuttosto a tutta la zona urbana sviluppatasi sotto la rocca particolarmente all’arce romana nel tempo divenuta cristiana. Una data infausta è stata quella del 21 settembre del 1176 quando Cristiano di Magonza, arcivescovo scomunicato, cancelliere dell’imperatore Federico Barbarossa (fa pensare al sarcastico e venato anticlericalismo il Carducci nell’ode “Su i campi di Marengo la notte del sabato santo 1175”) diretto nelle Puglie per contrastare i Normanni, assediò questa città, la conquistò e la mise a ferro e fuoco devastandola pesantemente, appiccando incendi agli edifici del Girfalco e distruggendo preziosi tesori di arte e di archivio. Quando alla fine del XII secolo i Fermani si diedero le prime magistrature comunali, lenta fu la ricostruzione della collina. E poiché Fermo restava una città vulnerabile, per insinuazione del Papa Onorio III fu costruita una nuova cinta muraria i cui ampi segmenti, se pur rimaneggiati, si possono ammirare tuttora; furono ricostruiti anche gli edifici del Girfalco a Fermo, anzi fu edificata nel 1236 una rinnovata imponente e imprendibile rocca, successivamente ampliata, la cui rappresentazione si può osservare in un dipinto esposto oggi nel palazzo comunale. Ma con il tempo proprio il Girfalco con la sua rocca divenne motivo di grande danno per la città, divenendo rifugio blindato di tiranni e avventurieri. Sicché i Fermani, snidato l’ultimo di essi lo Sforza, che vi era asserragliato, per evitare ulteriori insidie, la demolirono, radendola al suolo, nel 1446.
Ora, Il Girfalco, emblema di una storia passata, è anche un grande palcoscenico sul presente. Dopo superata la mole muraria della Casina, apriamoci allo stupendo piazzale costituito da due spazi contigui, quello con i lati a nord e ovest con file alberate, siepi e aiuole a prato, ricondotto a unità centrale da sentieri confluenti ad una fontana. Il successivo settore accanto alla cattedrale, ai lati est e sud come una balconata immersa nel verde di lecci e conifere, è la terrazza della città, da cui si possono ammirare gli edifici storici sottostanti, i colli, il mare. Al fondo del piazzale la grande quinta della Villa Vinci, già Paccaroni, fu prima uno stupendo convento tardo-cinquecentesco dei Cappuccini.
In fondo al grande e diritto viale, in direzione ovest est, campeggia il monumento più insigne della città, il Duomo tra i più belli delle Marche insignito del titolo di “basilica metropolitana”. Di tutte le strutture ed edifici del Girfalco, solo la cattedrale ha resistito al trascorrere dei secoli ed all’accanimento spesso rabbioso e cieco degli invasori. È questo il segno di una continuità storica, e soprattutto, di un popolo che ha sempre visto in essa il simbolo di una precisa identità, il luogo dell’unità nonostante gli innumerevoli capovolgimenti politici e le mutazioni ideologiche, il punto di riferimento di una comunità, una Chiesa locale, come si direbbe oggi, intorno al suo vescovo nella riflessione dell’identica fede. In questo senso la cattedrale (così chiamata dal termine cattedra) riassume la storia di Fermo. La Chiesa Fermana venera san Marone tra i primi evangelizzatori e i santi Alessandro e Filippo, vescovi martiri della fede del sec. III. Non vi sono documenti storici che suffraghino apoditticamente tale convinzione. Tuttavia tre elementi più che indiziari ne appoggiano la consistenza: 1) i martyria: quello di sant’Alessandro sul colle Vissiano e quello di san Filippo lungo la strada Castiglionese; 2) il sarcofago tardo-romano della cripta del duomo, sepulcrum di s. Filippo 3) la tradizione ininterrotta. V’è una legge storiografica , infatti, secondo cui l’absentia di prove non contrarie testimonia la veridicità di una tradizione. Questi tre elementi non sono costruiti, come talora accade, su miracoli strepitosi o prodigi inspiegabili; se mai il prodigio vero, si può enunciare con la sublime lingua dantesca: “ Se ‘l mondo si rivolse al Cristianesmo – diss’io – sanza miracoli, quest’uno è tal, che li altri non sono il centesmo” (Paradiso XXIV, 108).
Dunque, a questa epoca di evangelizzazione il IV – V secolo, con propagginazioni nel VI, va ricondotta la prima basilica Fermana. Non poteva essere costruita se non nella sommità dell’arce (arx) là dove la verità cristiana si sostituiva alla religione “degli dei falsi e bugiardi” (Dante Inf.1, 72).
Periti i documenti e le testimonianze scritte, nell’incendio di Cristiano di Magonza, la tradizione orale ha sempre sostenuto l’esistenza di una basilica paleo-cristiana: ne suffraga l’autenticità oggi l’archeologia che fornisce le prove. Gli scavi del 1937 sotto il pavimento dell’attuale aula della cattedrale ci hanno restituito molte informazioni. Alcuni elementi tardo-romani fanno certamente riferimento ad un edificio, probabilmente un tempio. Su di esso e con materiali di riporto è stata costruita la prima basilica, datata all’inizio del V secolo, come fanno fede il mosaico absidale e i resti del mosaico pavimentale sul lato sinistro (poco accessibile): mosaico pregevole nei colori e negli intrecci, denso di senso nei suoi simboli. Fin qui la prima fase storica della cattedrale. Ma l’invasione del romanico, l’originale stile proveniente dalla Francia, adottato dal monachesimo benedettino e utilizzato per pievi e cattedrali divenne stimolo per un ampliamento e una ristrutturazione un della secolare basilica. Nel secolo nono, l’età carolingia ha che ha visto l’ergersi delle chiese abbaziali come, nel Fermano, San Ruffino; S. Giovanni in Silva e San Claudio al Chienti. Il dotto vescovo Fermano, Lupo, affascinato dalle chiese di Francia, propose e attuò una ristrutturazione fin dalle fondamenta: ecco la cattedrale (pre)romanica di cui nella zona degli scavi già citati, si notano due possenti pilastri animati da elementi decorativi a fogliame stilizzato. Ma Lupo fece di più: ristrutturò (o forse costruì) l’episcopio annesso alla chiesa sul lato est: edificio ampio, quasi un’abbazia, che ospitava anche di canonici in vita comune con il vescovo.
Per quattro secoli la nuova cattedrale accolse fedeli, risuonò del canto gregoriano nelle solennità della liturgia romana, ascoltò voti e preghiere dei fedeli e il salmodiare dei canonici. Di tutto ciò oggi restano alcuni reperti sistemati nella zona degli scavi. Cristiano di Magonza, più guerriero che vescovo, come già detto, nel 1176 causò l’incendio che divenne facile date le capriate in legno delle volte. È il caso di dire che non restò ‘pietra su pietra’. Di pari passo con la ricostruzione degli edifici del Girfalco e la costruzione della rocca, tra il 1227 e il 1250 fu ricostruita la cattedrale. Se ne occuparono i vescovi Rinaldo e Filippo. Tempi, arti e stili erano nel frattempo mutati.
All’austero romanico stava sovrapponendosi la maniera detta poi con errato disprezzo ‘gotica’. È quanto ciascuno coglie guardando la facciata e la torre, e lo scopre con una più attenta osservazione dell’angolo meridionale e degli scavi donde partono i possenti pilastri. Maestranze in viaggio erano allora i cosiddetti “Maestri Comacini” cui tanto debbono il romanico e il gotico lombardo. Uno di essi, Giorgio da Como, con le sue maestranze di scalpellini e di carpentieri fu incaricato di progettare la nuova cattedrale: avevano avuto buon fiuto quel Bartolomeo mansionario di cui parla l’iscrizione in caratteri gotici inserita tra il portale e la monofora del fianco. Forse aveva compiuto un viaggio apposta a Jesi per vedere quel che il maestro Giorgio stava realizzando per la cattedrale quando se ne parlava con stima. La facciata in pietra d’Istria, scandita da sottili lesene, presenta al centro un elegante portale con fasci di colonne scolpite, sormontato da un’ampia cuspide racchiudente la statua della Vergine; in asse è posto il grande rosone con dodici colonnine decorate con motivi tortili e a spina di pesce, opera dello scultore fermano Giacomo Palmieri (1348).
Di questa cattedrale romanico-gotica ammiriamo ancora la falsa asimmetria della facciata (uno studio del compianto prof. Marcello Seta ne smentisce l’impressione) ove nel lato sinistro, al posto dello spiovente laterale in simmetria con quello di destra esiste il campanile. Che cosa dovette essere questa rinata cattedrale lo lasciamo dire a quell’entusiasta e attento studioso di cose Fermane, oltre che emerito insegnante di Storia dell’Arte, che fu don Francesco Maranesi, il quale in un suo volume così si esprime: “ Dalle parti superstiti e da un disegno conservato in municipio si desume che il tempio, organizzato tutto in pietra istriana, doveva essere elegante ed armonico benché asimmetrico, con magnifici archi a sesto acuto impostati su possenti piloni; con il soffitto a capriate dipinte ed il ballatoio sostenuto dal mensole; con la tribuna e l’abside poligonale; con portali esterni istoriati e snelle monofore trilobate. Palladio di fede e di arte consacrato all’Assunta, era meta di grandi dimostrazioni collettive di pietà e di devozione da parte del popolo Fermano, tra le quali, la caratteristica Cavalcata di Ferragosto, quando tutte le corporazioni artigiane della città, gli ambasciatori dei castelli soggetti allo Stato Fermano, i magistrati, i priori delle contrade si allineavano dietro le proprie insegne in un pittoresco corteo e salivano, avvolti di luce e di colori, l’erta del Girfalco per fare atto di omaggio ed offrire doni votivi alla ‘celeste castellana’ di Fermo.“
Interventi di integrazione e di apprendimento si ebbero col susseguirsi dei secoli. Tra le opere demolite in epoca illuminista sono documentati l’altare maggiore del 1351, consacrato dal vescovo Buongiovanni; la grande tribuna realizzata nel 1391; apparato ligneo a cassettoni del soffitto realizzato nel 1535 secondo l’usanza del tempo per coprire le nude capriate. Il cardinal Capranica a metà del secolo XV progettò una scalinata. Negli anni che decorrono dal 1731 all’1760 l’arcivescovo Alessandro Borgia fece rivestire che il parato esterno (ormai consunto) di nuova pietra d’Istria ; fece dipingere l’abside su bozzetto del Giaquinto; e fece porre di nuovo nel presbiterio l’antico ambone marmoreo.
Di tutti questi interventi non rimane nulla, eccetto il rosone. La trasformazione radicale fu operata a partire dal 1781 dall’arcivescovo Minucci Andrea. Furono addotti due motivi: la precaria condizione tattica dell’edificio e la relativa poca ampiezza, e fu motivo la voglia di ammodernamento, in quello stile neoclassico ormai dominante nello Stato pontificio, che comportò la ristrutturazione di tanti edifici sacri anche nella nostra diocesi. Qui bisogna dire che tutto, forse, sarebbe andato perduto del vetusto edificio se non ci fosse stata la ferma e insistita protesta della cittadinanza. Si salvarono così la facciata, il campanile e il portale laterale insieme a tutto l’atrio. Fu rifatto tutto il resto della cattedrale, allungata, ampliata e strutturata in forme e decorazioni di stile classicheggiante.
Per buona sorte o per accorta perspicacia la ristrutturazione fu affidata al grande architetto pontificio Cosimo Morelli, protetto dai papi Clemente XIV e Pio VI, di ottimo talento e immerso in uno stile di transizione che coniugava le strutture classicheggianti alla decorazione tardo-settecentesca. Della struttura stessa seppe cogliere elementi di continuità come le fasce e le lesene che scandiscono il parato in laterizio e ripropongono la pietra d’Istria. Tuttavia alcune modifiche ai disegni originali (quali si possono osservare esposti nella sala capitolare accanto la sacrestia del duomo) furono apportate dall’architetto Paglialunga di Fermo.
Del pari, gli studi e le decorazioni dell’interno furono commissionati a due intelligenti artisti: forse i migliori che in loco si trovassero sul mercato. Gli stucchi allo scultore Gioacchino Varlè coadiuvato dai locali Stefano Interlenghi e Domenico Fontana: superbo e imponente è infatti il gruppo dell’Assunta nell’abside. Al sangiorgese Pio Panfili forse l’ultimo grande quadraturista, furono affidate le decorazioni delle false cupole e di altre parti delle pareti. Dello stesso Panfili era il disegno di rifacimento della facciata esterna.
Questi interventi ebbero il merito di annullare la freddezza geometrica delle strutture e della scansione degli spazi, riuscirono a dar colore agli interni, e creare monumentalità con effetti plastici. All’interno degli metodi della liturgia, l’oro, l’argento, le pietre, le stoffe sono stati lavorati e accostati in sorprendenti variazioni negli oggetti e negli apparati liturgici preziosi per l’arte e per la fede, tra cui spicca la casula di San Tommaso Becket, a testimoniare vita nella storia.
Ecco dunque la cattedrale che oggi ci è stata consegnata dalla storia. Vorrei concludere riaffermando l’idea iniziale: in essa riusciamo a leggere, (“con occhio chiaro e con affetto puro” dice il padre Dante Par. 6,87) la storia di un popolo, di una comunità, di una fede: storia ininterrotta, cui la memoria deve inchinarsi, e gli uomini di oggi, noi dobbiamo esser grati estimatori, eredi e continuatori.
In sintesi, la cattedrale è segno e storia della vita cristiana e dell’inculturazione, dopo la preistoria e la storia romana, a cominciare dalla chiesa paleocristiana della prima comunità cattolica che manifestò sempre la sua vitalità, con i tanti vescovi che crearono l’edificio romanico e lo ricostruirono, dopo distrutto, in stile gotico, assieme con il la sede dei canonici in vita comune nell’episcopio. Quando fu demolita la rocca la cattedrale sembrò solitaria, ma si abbellì di opere rinascimentali e fu in gran parte ampliata negli ultimi decenni del secolo XVIII in stile neoclassico. Quest’opera che testimonia il passato è stata profetica per il tempo a venire.
Nella cattedrale di Fermo, nel secolo XX e agli inizi del successivo, sono stati compiuti molti interventi di risarcimenti strutturali, restauro delle opere d’arte e del presbiterio. L’inizio fu dato nel 1996 dal arcivescovo mons. Cleto Bellucci e proseguito dal suo successore mons. Gennaro Franceschetti. Notiamo il rifacimento del tetto nuovo, il consolidamento statico delle strutture, la pulizia e il consolidamento della facciata, il nuovo pavimento con il relativo impianto di riscaldamento e tutta l’impiantistica in generale; l’apparato decorativo della chiesa, della sala del capitolo e dei locali della sagrestia; restauro dei due prestigiosi organi, dei dipinti dell’atrio, del monumento a Giovanni Visconti d’Oleggio, dei dipinti nella cappella del SS. Sacramento; nuovo altare nel presbiterio (2004) e nuovo ambone (2007). La cattedrale completamente restaurata è stata riaperta al culto in occasione del Giubileo il 4 maggio 2003 con una solenne celebrazione presieduta dal cardinale Giovanni Battista Re.
Da questa cattedrale hanno avuto scaturigine la fede e la civiltà cristiana delle nostre terre: una civiltà omogenea, che ha saputo tenere unite o ricompattare le comunità del territorio, nonostante i sommovimenti della storia locale. È presente la caratterizzazione unitaria sul piano sociale, in uno stesso linguaggio vernacolare, nelle comuni tradizioni e nell’attiva e capillare presenza delle istituzioni religiose. Potrà divenire un ulteriore elemento aggregante della nostra vita religiosa, culturale e sociale.
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ACQUASANTIERA: IL SACRO DOMESTICO.
Nota di Germano Liberati
“L’Acqua santa” ha la sua simbologia e l’uso di radici antichissime, di natura culturale e sacrale, ed è meglio dire acqua benedetta. Come segno di purificazione l’uso dell’acqua è riscontrabile in molte culture antiche: senza andare troppo lontano, basti qui riandare al rito italico-romano della “lustratio agrorum” purificazione dei campi. Si svolgeva in primavera e era connessa con un rituale sacrale riservato ad un particolare collegio sacerdotale i “Fratres Arvales”, con processioni specifiche e canti codificati. Restano ancora frammenti del così detto “Carmen fratrum Arvalium”.
Nell’ambito cristiano tale riferimento all’acqua ha connessioni bibliche: si pensi all’acqua del diluvio, purificatrice del male del mondo; l’acqua che sgorga dal tempio di Dio nella visione del profeta Ezechiele (XXXVI, v 25 ss “Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure, da tutti i vostri idolei”). Nel nuovo Testamento la prassi si carica di nuovi significati: l’acqua del battesimo nel fiume Giordano. Gesù stesso si proclama “ acqua viva”.
Tutto ciò viene chiaramente ripreso dalla liturgia cristiana. Eloquenti sono i testi della benedizione dell’acqua nella Veglia di Pasqua. Alcuni stralci di essi offrono questa dimensione ampia e compiuta del segno dell’acqua: “Signore, degnati di benedire quest’acqua, che hai il creato perché dia fertilità alla terra, freschezza e sollievo ai nostri corpi” […] Con l’immagine dell’acqua viva i profeti hanno preannunziato la nuova alleanza […] segna l’inizio dell’umanità nuova libera dalla corruzione del peccato…”. E in conclusione: “Ravviva in noi, Signore, nel segno di quest’acqua benedetta, il ricordo del nostro Battesimo, perché possiamo unirci all’assemblea gioiosa di tutti i nostri fratelli, battezzati nella Pasqua di Cristo nostro Signore”. Da ciò l’uso dell’acqua benedetta vista come un “sacramentale”, cioè un segno che ha scopo di impetrazione di grazie spirituali e anche benefici temporali”.
Acquasantiera
Fin dai primi secoli della Chiesa si afferma l’uso dell’acqua benedetta. Nel quadriportico antistante la basilica paleocristiana, v’era normalmente la fontana dell’acqua lustrale allo scopo di lavarsi prima del rito, ma anche a carattere di purificazione spirituale. Oggi residuo di tale uso rituale è la “pila” dell’acqua santa posta all’ingresso delle chiese, fatta in materiale lapideo, murata a parete o poggiata a terra su basamento. L’acqua benedetta entra nella liturgia: l’aspersione dei fedeli all’inizio della liturgia, il lavarsi le mani del sacerdote all’offertorio, l’aspersione del defunto nel rito esequiale e altro. Si diffonde anche con usi più temporali: come la benedizione pasquale delle famiglie. Tale benedizione si impartisce in particolari circostanze, come benedizione di nuove case, di istituzioni sociali, di un esercizio commerciale, e di un monumento e altro.
Il concetto dell’acqua benedetta come “sacramentale” si radica talmente che entra anche nell’uso domestico; si vuole averla anche in casa. Nascono così le acquasantiere pensili, cioè appese e pendenti dalla parete. Nei palazzi nobiliari si trovavano perlopiù nelle cappelline e oratori privati, interni all’edificio, per uso della famiglia. Nelle abitazioni più dimesse si potevano trovare all’ingresso o nella camera da letto.
L’acqua santa veniva prelevata dalla chiesa, consegnata dal sacerdote al richiedente, e portata in casa e versata in tali contenitori. Come si usa entrando in chiesa, così anche entrando in casa o in camera, si usava intingere le dita nell’acqua e ci segnava con il segno della croce: un rito vero e proprio, dunque, di doppia valenza: di purificazione spirituale innanzitutto, ma anche di integrazione di grazia, di aiuto, di protezione.
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LE ARTI NELLE MARCHE DEL SUD NEL PONTIFICATO DI SISTO V (1585-1590)
LIBERATI GERMANO
Lo Stato Pontificio come del resto ogni Stato, nei secoli passati, sul piano artistico e culturale in genere, come del resto su quello politico, subiva notevoli mutamenti per interessi, tendenze, indirizzi legati alle preferenze, alle scelte e ai gusti dei sovrani. Essi infatti imponevano artisti favoriti, sovvenzionano iniziative culturali e quant’altro secondo il loro modo di vedere, concepire e sfruttare la vita dello Stato.
A Roma i pontefici si affidavano ad architetti, letterati, pittori, scultori ecc. che riflettevano meglio i loro interessi e che reputavano più capaci di realizzare i loro programmi. Tale situazione è riscontrabile ai tempi di Sisto V che impose, come nella riforma della Curia e delle Congregazioni, una sua precisa linea artistica nei monumenti e negli interventi assai noti sulla città di Roma. Questo atteggiamento si è ripercosso nelle nostre Marche, tuttavia, in modo indiretto.
Non ritroviamo infatti tracce precise di programmi artistici direttamente voluti da Felice Peretti. Fanno forse eccezione quelli della sua terra – Grottammare e dintorni -che tuttavia non sono computabili in un indirizzo più ampio. Nelle nostre Marche si sono verificati invece interventi di cardinali e vescovi, o eletti da Sisto V o a lui legati, hanno intrapreso iniziative di grande interesse e valore. Si tratta tuttavia di interventi che hanno carattere diverso rispetto a quelli contemporanei nella Roma Sistina. Mai di essa hanno trasmesso il fervore artistico considerato che negli ultimi due decenni del ‘500 e nei primi anni del ‘600 si registrano lavori che per quantità e talora per qualità superano assai quanti ce ne erano già stati compiuti nei primi tre quarti dello stesso sec. XVI. Indicare le cause non è facile, anzi credo si debba pensare ad un intrecciarsi di concause.
Sisto V elesse tra vescovi delle varie diocesi e creò cardinali molti prelati marchigiani, rivalorizzò il santuario di Loreto e fece una scelta oculata di uomini a lui legati, e assai colti e preparati. Altra caratteristica che poi sarà evidente sul nostro prosieguo del discorso è quella di una pluralità di artisti, di tendenze e stili diversi, che provenivano o dalla Roma papale o erano locali e in questa complessa articolazione generarono nella regione un vero e proprio “secondo Rinascimento”.
Di fronte a questo quadro assai variegato è stato necessario restringere il campo alla Marca meridionale da Macerata ad Ascoli, anche se non si poteva trascurare Loreto che ho incluso. Inoltre ho ritenuto opportuno e utile per tutti soffermarmi su fatti e cose di maggior interesse onde trarne qualche utile apprendimento. Un lungo elenco di nomi, cose, e date sarebbe stato oltre che un noioso non intellettualmente introiettabile. Pertanto vedremo insieme, attraverso l’esame di alcune opere più significative, e talora meno note, quello che vescovi e cardinali che definisco genericamente “sistini” hanno promosso e fatto realizzare nelle nostre terre. A questo corposo aspetto aggiungerò, in breve, due aspetti diversi: i doni sistini nelle Marche; la ritrattistica commemorativa di Sisto V durante e dopo il suo pontificato.
Molti furono i vescovi e cardinali sistini che ebbero stretti legami con le Marche; o perché ivi nati: si pensi al card. Decio Azzolino di Fermo; il Card. Costanzo Torri di Sarnano, minore conventuale; il Card. Antonio Maria Gallo di Osimo; Il Card. Evangelista Pallotta di Caldarola; il Card. Mariano Pierbenedetti di Camerino; il Card. Petrocchini di Montelparo, agostiniano; oppure perché furono vescovi o operarono nelle diocesi delle Marche: mons. Berneri ( o Bernieri, nato nel 1540 a Correggio e domenicano) vescovo di Ascoli poi cardinale; il vescovo di Camerino Girolamo Vitale dei Buoi; il romano Rutilio Benzoni vescovo di Loreto e Recanati.
Ci fermiamo solo su alcuni di essi. Iniziamo con il cardinale Decio Azzolino. Nato nel 1550 circa a Fermo, era stato segretario di Sisto V quando era vescovo di Fermo ed era stato così dotto che dopo eletto papa se lo portò a Roma dove restò segretario particolare e fatto cardinale divenne direttore della Consulta (quella che è oggi la Segreteria di Stato).
Diverse opere dell’Azzolino restano a Fermo. Tra questi emerge un arredo d’altare costituito da una croce e quattro candelieri di due misure diverse, ora esposti al museo diocesano: poggiano su un basamento di metallo dorato con sulla fronte lo stemma del cardinale. La croce e i candelieri sono costituiti da blocchi di cristallo di rocca tagliati in varie forme e lavorati a reticolato con disegni variati e infilati su perni metallici. Questo tipo di lavorazione su cristallo di rocca non è comune in Italia tra ‘500 e ‘600 e se ne trovano rari esempi, tra cui due a Firenze (all’Annunziata e all’abbazia dell’Impruneta) e fanno pensare che siano di fattura fiorentina se non addirittura Lorenese.
Al Museo Diocesano di Ascoli si conserva un pastorale appartenuto a Berneri Girolamo vescovo della città dal 1586 al 1603 poi cardinale. La descrizione del pastorale è stata puntualmente fatta dalla Nardinocchi. Il pastorale è costituito da un’asta cilindrica pausata da tre nodi a disco a forma di corone di alloro. Il nodo principale è sostenuto da quattro aquile ad ali spiegate e formato da un’edicola architettonica quadrangolare con facce e colonne scanalate sostenenti frontoni sotto i quali si aprono le nicchie contenenti le statuette a tutto tondo dei santi Domenico, Francesco, Emidio e la Madonna di Loreto. Il riccio è formato dal concatenarsi di ampie foglie di acanto che includono al centro la figuretta del Bambino benedicente. Vanno notati i simbolismi. Il disegno è tradizionalmente attribuito al Vasari, ma senza alcuna prova. E la fattura sembra doversi collocare a qualche bottega orafa romana.
Il prelato più di spicco in territorio marchigiano nel periodo sistino è forse il cardinale Antonio Maria Gallo (di nobile famiglia residente ad Osimo) che si può dire creatura di Sisto V con una carriera che da vescovo di Osimo lo porta alla porpora e al decanato del sacro Collegio. Tralasciando quando il Gallo ha fatto ad Osimo durante il suo episcopato, fermiamoci piuttosto sui legami con Loreto cioè con la basilica della Santa Casa. Questi legami risultano antichi e costanti e si inseriscono nella devozione Mariana Lauretana che negli anni posti post-tridentini acquistò grande diffusione e Sisto V propose esplicitamente anche attraverso la rappresentazione iconografica (la santa Casa) alla devozione dei fedeli, in una “ortodossia dell’arte” attraverso il linguaggio delle immagini per un verso anticipa e certo favorisce le tematiche della fede (lo si veda per la presenza bolognese, la più ortodossa). Tale legame del resto è evidente in un dipinto nella chiesa osimana della santissima Trinità (o SS. Sacramento) sede dell’omonima confraternita che recenti documenti hanno restituito al pittore bolognese Enea Campi e risalente al 1590 circa. Scena grandiosa, eloquente, a tratti un po’ enfatica ma di ottima mano in cui fede-devozione e committenza sono strettamente correlati. Ma i legami con Loreto divennero diretti, stretti rapporti, quando fu, alla fine del secolo, nominato cardinale protettore di quel santuario. E proprio in seguito a ciò, egli fece costruire un nuovo corpo di fabbrica denominata “Sacrestia nuova” in ossequio alla volontà del nuovo pontefice Clemente VIII che nella visita al Loreto del 1598 suggerì di approntare un luogo ove conservare i donativi fatti al santuario. In ossequio all’”ortodossia artistica” il cardinale aveva chiamato il pittore bolognese Lionello Spada, ma si era dimostrato non all’altezza anche nel giudizio di Guido Reni chiamato dal cardinale per un sopralluogo. Allo Spada subentrò quindi il toscano Cristoforo Roncalli detto il Pamarancio, anche lui legato alla riforma trentina, tanto che aveva avuto come maestro il Circignani, attivo nelle committenze di papa Gregorio XIII (si pensi alla cosiddetta sala vecchia del Quirinale) e iniziò il lavoro nel 1605 e lo portò a termine nel 1610. Il tema, certo ispirato dalla committenza e dai teologi è quello mariano, di grande attualità contro l’eresia protestante: episodi della vita terrena e le glorie celesti della Vergine alternate a Sibille e Profeti culminando al centro con l’Assunzione, la traslazione della Santa Casa, l’Incoronazione. Una serie di grisailles (chiaroscuri) riportano episodi dell’Antico Testamento. Roncalli rinuncia alla scena “storica”, spesso piena di dettagli di figure ornamentali per dare massima chiarezza alla scena, e nello stile sistino troviamo la cromia brillante e il tono lieto delle immagini.
L’ultimo personaggio di cui ci occupiamo il card. Giovanni Evangelista Pallotta di Caldarola. Chiamato dal Peretti, allora cardinale, a Roma, gli furono affidati alcuni incarichi di curia, poi durante il papato fu nominato arcivescovo di Cosenza e in seguito cardinale Prefetto della Fabbrica di San Pietro (tra l’altro completò la cupola di San Pietro proprio nel 1590 prima che Sisto V morisse). Il suo impegno pastorale e civico (elementi strettamente congiunti nello Stato Pontificio) lo fecero interessare anche del paese natale di Caldarola dove feci edificare la chiesa collegiata di San Martino, fondò il monastero di S. Caterina dove morì ed è sepolto. Tralasciando l’attività e le opere e il palazzo del municipio, erroneamente attribuito al De Magistris, ma ora restituite ad Antonio Tempesta, fermiamoci su quelle più importanti e significative della chiesa di San Martino. Tuttavia prima di addentrarci merita di tener conto di una acuta puntualizzazione dello Zampetti il quale fa notare che il Pallotta, grazie alla autorevolezza e competenza acquisiti a Roma, si propose di “rinnovare” la cittadina natale di Caldarola sulla base di un preciso oggi diremo “piano regolatore” che sconvolse l’antica borgata medievale e Caldarola fu l’unico paesino delle Marche forse in cui le nuove concezioni urbanistiche sistine trovarono un’applicazione globale facendone “un esempio rarissimo – sono parole dello Zampetti – praticamente indotto, di urbanistica tardo- rinascimentale”. Esso ha epicentro nella piazza dove confluiscono tutte le vie urbane e dove hanno sede il palazzo di città (non il castello) dei Pallotta, oggi il municipio, e la chiesa parrocchiale di San Martino che sostituì una più piccola precedente, demolita, innalzata tra il 1587 e il 1590: opera dell’architetto maceratese Pompeo Floriani. La decorazione della chiesa fu affidata al pittore Simone De Magistris caldarolese e alla sua bottega. Di tutta la decorazione ricca e complessa fatta di scene della vita di S. Martino, rimane ora la pala d’altare che secondo lo Zampetti risale al 1590. Raffigura un episodio della vita di S. Martino legato alla glorificazione del santo. Il vescovo di Colonia nell’assistere alla Messa in suo suffragio, mentre il celebrante è fermo in riflessione sull’altare, ha la visione dell’ascesa al cielo di San Martino, accolto dal Redentore tra un coro di angeli. La composizione è innovativa e complessa: punto di vista “nuovo” molto rialzato rispetto alla scena in primo piano. Non vi è unità temporale ma sovrapposizione dei tempi. Controriforma: il misticismo onnicomprensivo.
I DONI SISTINI
_ A Montalto il Reliquiario del 1587; qui si conserva anche un preziosissimo apparato liturgico.
_ A Grottammare il Calice nella chiesa di Sant’Agostino- proveniente dalla chiesa di Santa Lucia, voluta dal Peretti e portata a termine dalla sorella Camilla. Il calice è sobrio e lineare con una decorazione leggera, ma quel che colpisce è l’eleganza della linea in cui gli elementi curvilinei lo minano; base a campana, nodo ad oliva, coppa a tronco di cono gotico. A questa chiesa furono assegnate ricche suppellettili: candelieri, croce d’argento, e vari calici.
Si discute quando mons. Peretti lo abbia donato: secondo alcuni quando egli tornò a casa, essendo vescovo di Sant’Agata dei Goti, dall’otto all’undici maggio del 1567. L’iscrizione che è sotto la base confermerebbe questo ed è un calice proveniente dall’episcopio di Sant’Agata dei Goti. Secondo altri fu donato alla chiesa dalla sorella Camilla. È comunque assodato che questa chiesa fu cara a Sisto V tanto che alcuni ipotizzano che essa fu progettata dal celebre architetto Domenico Fontana (famiglia di architetti del Canton Ticino – Melide -) morto a Napoli nel 1607: fu l’architetto preferito per i progetti urbanistici di Roma proprio da Sisto V (assi viarii che collegarono Santa Maria del popolo a Santa Maria Maggiore, San Giovanni in Laterano e Santa Croce in Gerusalemme – scalinata di Santa Trinità dei Monti) . Il Fontana, esonerato da Clemente VIII andò a Napoli: molte opere tra cui la celebre facciata del palazzo reale.
_ A Fermo il Pastorale datato dagli storici nel 1572 quando era Amministratore di questa diocesi e già cardinale. È un omaggio assai significativo che testimonia il legame con Fermo (vi era stato da frate e aveva conseguito il dottorato in Teologia). Opera unica nel suo genere. Realizzato in tartaruga intarsiata in avorio e madreperla. Tali oggetti (materiali) erano provenienti dall’aria napoletana e dalla Sicilia. Forse proprio quest’ultima mostrerebbe anche il perché delle linee che presentano tendenze d’arte mudejar. Se poi si pensa all’uso liturgico bisogna riferirsi ai francescani missionari in Oriente o altrove e poi rielaborati.
Due iconografie: statue bronzee di Sisto V.
1). Statua a Fermo. Il consiglio comunale di Fermo, nel 1585, eletto papa Peretti, decise di far eseguire una statua bronzea in suo onore da collocare nel portico del Palazzo dei Priori per commemorare lo Studio Generale voluto dal Papa. Un momento di grande entusiasmo nella regione e a Fermo. Si chiamò lo scultore allora noto Accursio Baldi di Monte San Savino che aveva appena compiuto opere nell’ospedale di Santa Maria della Scala a Siena. È una immagine fortemente caratterizzata: la testa esaspera i tratti rudi e arcigni del volto. La figura compare avvolta dall’ampio di viale e la testa è schiacciata dalla pesante e ornatissima tiara. La gestualità: testa rivolta in basso; destra grande in segno benedicente, sinistra con in mano il documento dell’Università, in atto di porgerlo. La fusione per difficoltà varie si protrasse: fu messa in loco dal 1590.
2) Statua di Loreto. Opera voluta dal legato pontificio con il contributo di tutte le comunità delle Marche(Macerata, Camerino, Recanati, Fermo). Decisione del 1585. Dell’esecuzione fu incaricato lo scultore recanatese Antonio Calcagni allievo e collaboratore dei fratelli Lombardi. Fu collocata il 23 dicembre del 1587 e dopo che fu posta sul basamento fu cantato un solenne Te Deum di ringraziamento. Essa ha tutte le caratteristiche della tradizione della statuaria funebre del Rinascimento: assai vitale; roteazione del busto; andamento docile del panneggio, vivacità del volto, gesto morbido ma risoluto.
Cit. Le arti nelle Marche al tempo di Sisto V. Catalogo della Mostra, a cura di P. Dal Poggetto. Milano 1992.
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L’AMBONE DELLA CATTEDRALE DI FERMO. Nota di LIBERATI Germano
Il nuovo ambone costituisce il compimento dell’adeguamento liturgico del presbiterio nell’ambito generale degli interventi realizzati. Nel presbiterio l’altare, la sede e l’ambone non sono da considerarsi riduttivamente come strumenti o comunque strutture semplicemente funzionali, ma luoghi liturgici, cioè spazi ben individuati, definiti e caratterizzati, in cui si svolgono momenti distinti della liturgia.
Per l’ambone, è stato seguito quanto prescrivono le norme emanate dalla CEI nel 1996 in applicazione degli orientamenti conciliari:
“l’ambone è il luogo proprio dal quale si proclama la parola di Dio. L’ambone deve essere una nobile, stabile ed elevata tribuna. L’ambone va collocato in prossimità dell’assemblea in modo da costituire una sorta di cerniera tra il presbiterio e la navata e non sia in asse con l’altare della sede, per rispettare la specifica funzione di ciascun segno”.
L’ambone è corredato da un’iconografia che contribuisce oltre che a renderlo più prezioso, a esprimere in pienezza il la sua specifica identità mentre lo caratterizza di un messaggio ben chiaro. (04.02.07)
CARBONARA E DE GREGORIO (note di Liberati Germano)
Architetto Giovanni Carbonara, docente ordinario di Restauro Architettonico e Direttore della scuola di specializzazione in Restauro dei monumenti nell’Università ‘La Sapienza’ di Roma. Ha tenuto corsi alla Scuola Archeologica italiana di Atene e al Centro per lo studio di conservazione e restauro; è collaboratore di numerose riviste specializzate e dell’Istituto per le tecnologie applicate ai beni culturali del CNR. Ha pubblicato numerosissimi studi sul restauro e la storia dell’architettura; ha fondato e dirige la collana “Guide di ricerca storica e restauro” dell’editore gli Liguori.
La dott.ssa Paola De Gregorio ha già lavorato insieme con l’arch. Carbonara nei bassorilievi dei lati dell’altare del duomo di Fermo; questo impegno è più significativo. È nata a Roma dove abita e lavora; si è formata all’Accademia di scultura di Roma, prima con Attilio Selva e poi con le Pericle Fazzini marchigiano. Ha esposto in molte mostre in Italia e all’estero. Con il ministero degli esteri ha esposto con delle personali a Vienna, Zagabria, Zurigo, Belgrado, Atene e Salonicco. Sue opere si trovano in collezioni negli USA, in Portogallo, Grecia, Australia e Iran. Particolarmente attenta all’arte sacra, ha partecipato ad esposizioni di questa tipologia ad Assisi, Belluno, Ravenna, e Messina. Nella sua attività artistica ha ricevuto da grandi maestri, come Fazzini e Manzù, lusinghieri attestati di stima.
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I LAVORI NELLE CATTEDRALE DI FERMO nel secolo XXI. Note di Liberati Germano
LIBERATI.Duomo
Da questa cattedrale hanno avuto scaturigine la fede e la civiltà cristiana delle nostre terre: una civiltà omogenea, che ha saputo tenere unite o ricompattare le comunità del territorio, nonostante i sommovimenti della storia locale. È presente la caratterizzazione unitaria sul piano sociale, in uno stesso linguaggio vernacolare, nelle comuni tradizioni e nell’attiva e capillare presenza delle istituzioni religiose. Potrà divenire un ulteriore elemento aggregante della nostra vita religiosa, culturale e sociale.
Nella cattedrale di Fermo sono stati compiuti molti interventi di risarcimenti strutturali, restauro delle opere d’arte e del presbiterio. L’inizio fu dato nel 1996 dal arcivescovo mons. Cleto Bellucci e proseguito dal suo successore mons. Gennaro Franceschetti. Note in un arido elenco: il rifacimento del tetto nuovo, il consolidamento statico delle strutture, la pulizia e il consolidamento della facciata, il nuovo pavimento con il relativo impianto di riscaldamento e tutta l’impiantistica in generale; l’apparato decorativo della chiesa, della sala del capitolo e dei locali della sagrestia; restauro dei due prestigiosi organi, dei dipinti dell’atrio, del monumento a Giovanni Visconti d’Oleggio, dei dipinti nella cappella del SS. Sacramento; nuovo altare nel presbiterio (2004) e nuovo ambone (2007).
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—- veda Mario Liberati se questo è un testo da trasmettere —-
FERMO: Chiesa ed arte agli inizi del secolo XV. Appunti da una conferenza di Germano LIBERATI
Il vescovo Fermano Antonio de Vetulis ottenne l’istituzione dell’Università nel 1389, che fu considerata ideale continuazione dello “Studium generale” di Lotario. Inoltre costruì il palazzo vescovile, sul quale poi intervennero a più riprese vescovi e arcivescovi, fino alla sistemazione attuale.
Nel primo Quattrocento Giovanni de Firmonibus si adoperò con fede e pietà per il bene dei fedeli e riorganizzò la liturgia con una revisione ed una stabilizzazione del Messale, facendo compilare quello che fu detto Missale de Firmonibus, secondo il rito romano; indisse il primo sinodo di cui si abbia memoria, sul tema della vita cristiana del popolo di Dio e la disciplina del clero.
Meritano una menzione particolare i vescovi Capranica che ressero la diocesi dal 1425 al 1484: prima i fratelli Domenico e Angelo, poi Nicola e il suo nipote. Di particolare rilevanza è Domenico, nominato vescovo nel 1425 e cardinale nel 1426. Amministrò la diocesi sino al 1458. Si adoperò per la pacificazione del Piceno contro l’usurpatore Francesco Sforza e fece demolire la rocca del Girfalco in cui si annidavano i tiranni.
Le doti personali e l’ampia cultura lo portarono alla nomina di penitenziere maggiore. La sua attività pastorale aveva come solida base le virtù sacerdotali, la purezza dei costumi, l’austerità della vita. A Fermo tenne un sinodo nel quale si impostarono i principi pastorali della vita e del governo della diocesi. A Roma, fondava uno studio di Teologia, riservando per Fermo con l’accesso gratuito e privilegiato di alcuni alunni provenienti dalla diocesi: un diritto di cui Fermo gode ancora nello stesso Collegio Capranica.
Religiosi e Confraternite costituivano una struttura parallela al clero nel reciproco sostegno, sia sotto l’aspetto teologico –culturale che caritativo. Riguardo agli Ordini religiosi, soprattutto va registrata la capillare diffusione degli ordini mendicanti: Francescani, Agostiniani, Domenicani, Carmelitani. Rilevanti furono gli eventi strettamente legati alla vita degli ordini religiosi. Ne emerge l’importanza dei conventi del Fermano, nell’ambito più generale dei territori pontifici. In questo contesto va collocata la loro straordinaria committenza artistica che spesso coinvolgeva anche i privati.
I Francescani in diocesi furono “come in casa propria” (Di Mattia R.) con tutte le loro diramazioni: di Minori Conventuali, Minori Osservanti, Clarisse. Moltissimi paesi hanno le testimonianze della loro presenza. Ci fu anche un fiorire di santità, tra cui il beato Giovanni da Fermo, il beato Pellegrino da Falerone, che rimase laico, benché letterato e decretalista, il beato Liberato da Loro. Dal francescanesimo di questa nostra terra uscì il beato Matteo da Bascio, fondatore dei Cappuccini (1495-1552).
I Domenicani, si insediarono a Fermo nel 1216 per opera di Giovanni Paccaroni, rettore della chiesa di san Tommaso di Canterbury, ed amico di san Domenico, che nel 1214 era venuto a Fermo da lui invitato. Fu costruito il loro convento, divenuto ben presto importante con l’apertura dello “Studio dell’Ordine” (Istituto Teologico). Il fermano Tommaso Paccaroni fu il XXIV ministro generale dell’Ordine. A Fermo visse ed insegnò Michele Ghislieri, il futuro Pio V.
I carmelitani furono chiamati a Fermo dal vescovo Francesco Piccolomini (futuro Pio III) con il compito di dirigere l’Ospedale di Santa Maria della Carità per i poveri e vagabondi senza sussidio. All’opera dei religiosi va affiancata quella delle Confraternite o Fraternità, spesso promosse dagli stessi religiosi per associare i nobili e i ricchi nelle opere di carità. Tra l’altro l’Ospedale di San Giovanni per le donne povere fu promosso dai Minori Conventuali a metà del secolo XV. L’Ospedale dei cavalieri Teutonici, presso la porta vecchia di San Marco era a favore dei pellegrini.
Non è da meravigliarsi se la parte prevalente delle strutture edilizie e soprattutto delle opere dell’arte figurativa hanno carattere liturgico e devozionale, essendo promosse dal clero secolare e regolare e dalle confraternite. Possiamo appena citare le emergenze più importanti, che testimoniano il proliferare di iniziative e di apertura dei cantieri, senza trascurare qualche opera pubblica o nobiliare.
L’attività più importante è certamente l’organizzazione di Piazza del Popolo e dell’attuale corso Cefalonia. I palazzo vescovile fu iniziato nel 1394 dal vescovo De Vetulis e rimaneggiato dai vescovi Capranica e da altri successori. Tra il 1446 ed il 1525, tra peripezie, si costruì il Palazzo dei Priori. Tra il 1502 e il 1532 il Palazzo Apostolico; Nel 1528 il loggiato di san Rocco.
In corso Cefalonia sorsero tra il Quattrocento e il Cinquecento alcuni splendidi palazzi, come il Vitali –Rosati e l’Azzolino e nel contempo le chiese della Pietà e del Carmine, oltre a Santa Maria del Carità. Nei vari quartieri della città, si ebbero altre nuove emergenze tra cui il rifacimento e l’ampliamento della chiesa di Sant’Agostino (1360-1420) a fianco della quale, tre anni dopo, furono iniziati i lavori di costruzione della chiesa di an Giovanni Battista, detta oratorio delle sacra Spina dal titolo della confraternita che vi si insediò.
Fu completata anche la chiesa di san Francesco con il bel campanile e vi fu organizzata da parte della famiglia Eufreducci la cappella del Santissimo Sacramento, opera del veneziano Cedrino, affrescata poi da Vittore Crivelli, nel 1484, la cui opera è andata perduta.
Accanto all’attività edilizia si è dispiegata, concomitante e successiva, quella figurativa, in cicli di affreschi, polittici, tavole, sculture che accompagnavano l’architettura. Maestri dalla più varie provenienze, locali ed esponenti di scuole marchigiane, hanno ornato ed arricchito iconograficamente le chiese, gli oratori, i conventi. Vi compaiono protagonisti di tuto rilievo: i Crivelli e i crivelleschi, l’Alemanno, i Vivarini, i Solario e i maestri riminesi, bolognesi e ferraresi, umbri e toscani insieme ad artisti locali come Francescuccio Ghissi, Marino Angeli, Giovanni e Vincenzo Pagani ed Antonio Bonfini.
Non va dimenticata la produzione di oreficeria, di scultura lignea e di intaglio con splendidi esempi di reliquiari, calici, croci astili, di cori e dell’arredo liturgico più vario, come l’arte della miniatura, di cui alcuni capolavori sono conservati nel Museo diocesano e nella Biblioteca comunale. Anche le attività creative della diocesi hanno avuto nel vescovo il segno dell’unità e dell’operosità.
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ELENCO DELLE OPERE segnalate da LIBERATI GERMANO
1)- Paolo Veneziano, Madonna con Bambino, Monte San Pietrangeli, Palazzo Municipale
2)- Icona di Santa Maria a Mare, Fermo, Palazzo dei Priori, Sala Rossa
3)- Marco di Paolo Veneziano, Polittico, Fermo, Chiesa di San Michele Arcangelo
4)- Jacobello di Bonomo, Croce astile dipinta, Montefortino, Pinacoteca Civica
5)- Maestro del Polittico di Torre di Palme, Trittico, Fano, Palazzo Comunale
6)- Jacobello del Fiore, Storie di Santa Lucia, Fermo, Pinacoteca Civica
7)- Jacobello del Fiore, Imago pietatis tra la Vergine e San Giovanni battista dolenti, Kiev, museo d’arte Occidentale e Orientale
8)- Maestro d’Elsino, Incoronazione della Vergine, Fermo, Pinacoteca Civica
9)- Cristoforo Cortese, Polittico, Altidona, Chiesa parrocchiale dei SS. Maria e Ciriaco.
10)- Lorenzo di Giacomo, Madonna con Bambino tra San Giovanni Battista e San Giovanni evangelista, Cristo risorto tra un Santo e San Giorgio, Monterubbiano, chiesa di Sant’Agostino
11)- Carlo Crivelli, Polittico, Montefiore dell’Aso, Chiesa di Santa Lucia
12)- Carlo Crivelli, Polittico, Massa Fermana, Chiesa di San Lorenzo, Silvestro e Rufino
13)- Carlo Crivelli, Madonna con il Bambino, Macerata, Pinacoteca Civica
14)- Carlo Crivelli, Predella del polittico del 1472, Parigi, Collezione Sarti
15)- Carlo Crivelli, Madonna del latte, Corridonia, Pinacoteca Parrocchiale
16)- Nicola di Maestro Antonio, Santa Lucia fra i santi Antonio da Padova e Bernardino, Montefortino, Pinacoteca Civica
17)- Antonio e Bartolomeo Vivarini e bottega, Santa Caterina d’Alessandria e Santa Lucia, San Nicola da Bari e San Pietro Apostolo, San Paolo e San Giorgio, Corridonia, Pinacoteca Parrocchiale
18)- Vittore Crivelli, Pietà, Fermo, Collezione Fondazione Cassa di Risparmio
19)- Nittore Crivelli, Dormitio Virginis, Amsterdam, Collezione Van Schelken
20)- Vittore Crivelli, Pentecoste, Amsterdam, Collezione Van Schelken
21)- Vittore Crivelli, San Pietro, Camerino, Collezione privata
22)- Vittore Crivelli, Madonna con il Bambino, Zagabria, Palazzo Comunale
23)- Vittore Crivelli, Polittico, Sant’Elpidio a Mare, Pinacoteca Civica “Vittore Crivelli”
24)- Vittore Crivelli, Trittico, Sant’Elpidio a Mare, Pinacoteca Civica “Vittore Crivelli”
25)- Vittore Crivelli, Madonna con Bambino, Milano, Pinacoteca di Brera
26)- Vittore Crivelli, S. Francesco e S. Giovanni Battista, Amsterdam, Collezione privata
27)- Vittore Crivelli, Madonna con Bambino, Amsterdam, Collezione privata
28)- Antonio Solario, Sacra Conversazione, Fermo, Chiesa del Carmine
29)- Scuola veneta, Madonna con Bambino e Santi, Fermo, Museo Diocesano
30)- Lorenzo Lotto, Madonna e Santi, Roma, Collezione privata
31)- Lorenzo Lotto, Assunta con i santi Giovanni Battista, Antonio da Padova, Giuseppe e
Maria Maddalena, Mogliano, Chiesa arcipretale di S. Maria
32)- Gerolamo Dente, Assunzione, Sant’Elpidio a Mare, Pinacoteca civica “Vittore Crivelli”
33)- Jacopo Palma il Giovane, Crocifissione, Sant’Elpidio a Mare, Collegiata
34)- Jacopo Palma il Giovane, Crocifissione, Potenza Picena, Chiesa degli Zoccolanti
35)- Claudio Ridolfi, Madonna del Rosario, Rapagnano
36)- Anonimo del XVI secolo, Battaglia di Lepanto, San Ginesio, Collegiata
37)- Orafo veneziano, Reliquiario della Sacra Spina, Fermo, Chiesa di San Michele Arcangelo
38)- Orafo veneto-marchigiano, Reliquiario di San Gualtiero, Servigliano, Collegiata di San Marco
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IL SENSO DEL SACRO. Riflessione di LIBERATI Germano All’inaugurazione dell’altare della sacra Spina a Sant’Elpidio a mare 23 settembre 2006.
Rifletto su un aspetto che mi sta a cuore: sono di fronte ad un altare e per giunta che conteneva una preziosissima reliquia. Provo un sentimento di rammarico al pensiero di quel che era la sua struttura e il suo contenuto e di quel che è seguito in conseguenza dell’età post-unitaria, della politica anticlericale massonica, delle spoliazioni del noto commissario Valerio. Se infatti oggi siamo arrivati a spendere soldi per il restauro e a chiederci come dovesse essere in origine o la causa di questi ruderi e di tanti decenni di abbandono, lo dobbiamo a ciò. Eppure questo altare era luogo di culto e di preghiera, di fede e di devozione.
E’ encomiabile l’interessamento del sindaco, dell’amministrazione, della soprintendenza cui sono grato e di cui apprezzo la sensibilità e l’operosità: tutti segni che in certi ambiti sta avvenendo una inversione di tendenza. Tuttavia, forse perché con l’arte sacra sono quotidianamente a contatto e sulla di essa verte la mia riflessione costante, avverto un certo vuoto in questa operazione. Quest’opera resterà in questo contenitore, sarà oggetto di visite reali guidate, ne saranno illustrate la bellezza, la storia, la iconologia, ma chi ridarà il suo significato a quest’opera – mi si passi l’espressione – dopo lo scempio di questi 150 anni trascorsi?
Chi riuscirà a percepire ed interiormente avvertire il senso del sacro? come recuperare il messaggio per il quale committenza ed artisti si adoperarono? Ogni opera di arte sacra – non mi stanco mai di ripeterlo – non è mai consegnata al solo godimento estetico o non precipuamente: non è mai esornativa, ma funzionale alla fede e alla devozione: e allora come restituirglielo?
Come segno significante, può essere celebrata magari una Messa votiva della passione di Cristo, ricuperando in tal modo il significato e lo scopo originale. Io, ve lo confesso, una brevissima preghiera l’ho fatta. (Germano Liberati)
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L’ALTARE DELLA CATTEDRALE DI FERMO “Canto a lode di Dio”. Studio di Germano Liberati
ISPIRAZIONE E ICONOLOGIA. “Carmen Deo contextum” canto composto a lode di Dio: l’altare nuovo della basilica cattedrale di Fermo, come in ogni chiesa, è il luogo dell’incontro sacramentale, segno del rapporto di Dio con gli uomini e degli uomini con Dio attraverso la liturgia e il culto. Tale canto sacrale è specifico e diventa ampio, solenne, comunitario in una cattedrale, centro di una ‘ecclesìa’ (assemblea) raccolta nella sacra convocazione dei dispersi figli di Dio (Gv 11,52). L’altare assurge perciò a segno della realtà tangibile che vi si compie, di una storia di comunione che è attestata da secoli fino a noi, nella celebrazione del Mistero pasquale.
Pensare dunque un nuovo altare significa comporre un carme che compendiasse la storia delle meraviglie di Dio nella Chiesa Fermana, e che già nella struttura fosse perenne inno di lode: “O popoli tutti, lodate il Signore” “lodate il Signore nei suoi santi”. Le connotazioni che dovevano scaturire dal canto: ara sacrificale di Cristo, vittima e sacerdote; mensa del convito che il Padre imbandisce per i suoi figli; Eucaristia per una storia di salvezza di una comunità alle cui origini sta, in ordine al Sacrificio di Cristo, quello dei suoi vescovi, Alessandro e Filippo.
Nella progettazione di forma, dimensioni, iconografia e altro non si è voluto, né si poteva, prescindere da tutte queste connotazioni, e necessitava creare una struttura che organicamente le componesse e le estrinsecasse; oppure, che è lo stesso, bisognava salvare la funzione, il simbolo e gli stilemi, perché ne risultasse “il segno” quale l’altare doveva essere.
L’ISPIRAZIONE IN ATTO E L’ICONOGRAFIA. Affinché le enunciazioni e i criteri direttivi possano essere da tutti colti in concreto, osserviamo l’altare da vicino. Nell’insieme, esso appare impostato con monumentale grandiosità; supera in un certo senso la funzionalità pratica, per collocarsi come elemento architettonico pienamente inserito, senza perdersi nella vasta spazialità dell’edificio e con l’impatto scenografico che caratterizza la cattedrale: una sorta di “media proporzionale” tesa a coordinare la profondità e la larghezza del presbiterio e nello stesso tempo, per chi entra, al primo colpo d’occhio, rappresenti in senso longitudinale, un elemento di scansione dei rapporti, in un climax progressivo tra scalinata, altare storico e scena absidale.
Dopo questa visione d’insieme, l’altare, osservato nel suo apparato iconografico si caratterizza come luogo sacrificale nella duplice dimensione di storia della salvezza e storia della comunità. La lettura prende avvio dal lato sinistro (di chi guarda) che presenta un pennello in cui leggerissimi, quasi lontani nel tempo sono evocati i sacrifici antichi di Abele, di Abramo e di Mechisedech, soggetti di cui l’altare è l’anticipo nel sacrificio di Cristo. Sul fronte è posto il calco del sarcofago paleo-cristiano della cripta (IV-V secolo) con scolpite le storie di San Pietro apostolo: questo evidenzia iconograficamente la continuità già messa in luce per l’aspetto spaziale, con il coordinare il mosaico absidale della chiesa primitiva con la successiva, in una persistenza storica nella fede degli Apostoli.
Sul lato destro è posto un pannello da cui emerge la perennità sacrificale, accentuandone il segno, a tal punto da renderlo quasi un altare della confessione, o, comunque, un altare testimoniale, conferendo alla cattedrale intera il valore quasi di “martyrium”. Tale pannello, infatti, presenta, sullo sfondo il sacrificio di Cristo, e, più avanzate, ai lati, le figure dei vescovi martiri della Chiesa Fermana, Alessandro e Filippo. Gli attributi di essi, il pastorale di Sant’Alessandro e le linee della cattedrale, l’inginocchiarsi di San Filippo e la cattedra episcopale arretrata, congiungono una storia di testimonianze fino all’effusione del sangue, correlate al sacrificio di Cristo e dell’apostolo Pietro.
Nella gestualità viene rimarcata la “potestas” dei successori degli Apostoli in duplice caratterizzazione. Per Sant’Alessandro, fondatore della comunità la “auctoritas”; per San Filippo suo successore la “pietas”. Il progetto generale dell’altare si deve al team dell’architetto prof. Carbonara, i pannelli dei dati alla scultrice Paola De Gregorio.
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LA CRIPTA DELLA CATTEDRALE DI FERMO: studio di Germano LIBERATI
La cripta (trad. = grotta) ha origini remote. Nei sepolcri delle catacombe o dei ‘martyria’ a paleo-cristiani; sotto le chiese abbaziali romaniche e gotiche, già fin dal secolo VIII e ugualmente nelle cattedrali medievali. Le cripte dunque equivalgono ad ambienti per venerare i sepolcri dei martiri e dei santi, a luoghi di preghiera sotto il presbiterio delle chiese. Così ebbe origine la cripta della cattedrale di Fermo.
All’inizio fu un ambiente non molto ampio, con accesso, come di consueto, dall’aula della chiesa: un luogo di preghiera, prima in forme romaniche poi gotiche. Successivamente gli interventi portarono la cripta a una ampiezza maggiore, fino alla sistemazione attuale, strutturata quasi chiesa sotterranea, a tre navate, risultato del progetto voluto dall’arcivescovo Alessandro Borgia nel secondo quarto del secolo XVIII. Vi furono collocate le numerosissime reliquie della cattedrale, sistemate in credenze agli spigoli e nei pilastri. Divenne così un luogo testimoniale della santità e parte integrante della storia dell’arte dell’arcidiocesi Fermana. Già infatti nella visita del Maremonti, nel 1571, si ordinava che le reliquie del primo vescovo sant’Alessandro e di altri santi venissero in essa decorosamente sistemate.
Un sarcofago di arte tardo-romana, del secolo IV, adibito ad altare, era ivi collocato e custodisce, secondo la tradizione, i resti mortali del secondo vescovo martire di Fermo, san Filippo. Va anche sottolineato che sotto l’altare centrale della cripta, sul lato posteriore, sono visibili le spoglie del santo abate Fermano, Adamo: una storia di santità, lunga moltissimi secoli. A questa presenza di santità e al culto relativo, è legata la tradizionale visita e venerazione di gran folla di fedeli il primo maggio, detta il latino volgarizzato delle “corpora sante” dei corpi santi. Connessa a culto e preghiera dei fedeli, fa riscontro una singolarissima e originale tradizione, anche se ormai quasi scomparsa, quella, cioè, di portare con sé un mazzetto di verdura commestibile e porla a contatto con qualche teca di reliquia, per poi cuocerlo e mangiarlo in famiglia con devozione, per invocare aiuto e protezione per tutti.
Dopo la ristrutturazione e l’ampliamento tardo settecentesco della cattedrale, voluti dall’arcivescovo Andrea Minucci, la cripta è divenuta luogo di sepoltura (sotto il pavimento) per alcuni vescovi. Veramente, dalle origini ad oggi, si può dire che la cripta conservi gelosamente e nascostamente i gioielli della fede: uno scrigno unico che annuncia a tutti il messaggio dei papi: la Chi
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I DIPINTI DELLA CAPPELLA DEL SANTISSIMO NELLA CATTEDRALE DI FERMO. Studio di Germano Liberati
Al gran fervore di recupero dello splendido gioiello architettonico e nel contempo scrigno inesauribile di opere d’arte, che è la cattedrale di Fermo, iniziato con passione e competenza da mons. Bellucci e proseguito con grande attenzione ed impegno dal successore mons. Franceschetti, si aggiunge il restauro completo della cappella del SS. Sacramento.
Architettonicamente, questa cappella costituisce un’ articolazione spaziale asimmetrica rispetto alla pianta fortemente organica e regolare dell’insieme. Probabilmente si tratta di un corpo di fabbrica preesistente, recuperato e inglobato dall’architetto Morelli nella ristrutturazione tardo settecentesca voluta e promossa da mons. Minucci. Una annotazione del Dania a proposito della ‘pala d’altare’ che vi si trova e raffigura la Circoncisione di Gesù ci informa – sulla base di un antico documento – che tale dipinto fu commissionato al Boscoli dalla confraternita del ss. Nome di Gesù e dipinto dal pittore fiammingo allo scadere del secolo XVI. Ciò concorda con il soggetto, dato che proprio nella Circoncisione (secondo il racconta di Luca) gli fu imposto il nome di Gesù. Dato che tale dipinto non è stato mai rimosso, si può ipotizzare con molta probabilità che quella fosse la cappella della stessa confraternita e che nella ristrutturazione del Morelli (1781) sia stata conservata per divenire la cappella della reposizione del Santissimo sacramento: quasi una previsione di quelle che sarebbero state le disposizioni liturgico-architettoniche, dopo il concilio Vaticano secondo. Si spiega così la collocazione, anche se è impropria per la grande mole, del tabernacolo bronzeo dei fratelli Lombardi-Solari, ora collocato nel museo diocesano.
Forse proprio per questo nuovo uso, si procedette alla decorazione della cappella, se pur con lentezza e in momenti diversi, durante la seconda metà del secolo XIX. Innanzitutto si mise mano al nuovo altare il cui pregio maggiore è il ciborio eseguito dal marmista Gaetano Serravalle di Servigliano su disegno del Fermano Salomone Salomoni e messo in opera nell’1855; furono infatti utilizzati i pezzi dei marmi antichi trovati tra i ruderi della romana Faleria, assemblati con raffinato gusto e ornati con fregi metallici. In un secondo tempo – dopo la bufera degli eventi militari dell’unità d’Italia che rallentarono gli interventi – si procedette alla decorazione dell’intera cappella. Essa fu affidato a un Fermano, ormai noto per i suoi lavori in dimore nobiliari e nobile egli stesso, Giacomo de i conti Cordella (1824 – 1909); la decorazione fu ultimata nel 1881, come attesta l’iscrizione apposta.
Due parole sul pittore e il suo stile. Giacomo, rampollo di quella nobiltà pontificia Fermana, profondamente religiosa e fedele al Papa, si era trasferito a Roma per apprendere l’arte della pittura. Tra le numerose scuole romane, aveva scelto – ne ignoriamo il motivo – quella cosiddetta dei Nazareni: un movimento fondato da alcuni pittori tedeschi, il più noto dei quali è l’Overback; era sorto a Vienna nel 1809, come “Confraternita di San Luca” dal nome del primo pittore cristiano; ma nel 1810 il gruppo si era trasferito a Roma, come sede più consona, stabilendosi presso il convento di S. Isidoro, e dando vita ad una sorta di comunità di lavoro monastica. La pittura del gruppo si basava su precisi valori estetici e su una visione mistica della fede, in aperta opposizione al neoclassicismo imperante, considerato pagano. Si tratta dunque di un recupero di un purismo arcaicizzante esemplato sui pittori del Trecento e Quattrocento fiorentino e della scuola tedesca spese del Durer. Anche sul piano della tecnica pittorica, in ossequio a quella tradizione, i Nazareni abbandonarono quasi del tutto la pittura ad olio su tela, prediligendo quella su intonaco, sia ad affresco che ha sempre con ocre. Il Cordella fu uno dei discepoli prediletti proprio dell’Overback.
Nel complesso decorativo della cappella di cui ci stiamo occupando, il nostro, ormai al pieno della maturità artistica, più che cinquantenne, mostra di coniugare una decorazione aniconica classicheggiante, costituita da partizioni architettoniche dipinte a candelabri e finte finestre ad ovale della cupola; nelle pareti ancora candelabri, turiboli fumanti di incenso, drappeggi e finti damaschi. La parte iconica, la più importante e significativa, interessa i pilastri e i pennacchi della volta: sui primi le figure in piedi di Apostoli, sui pennacchi le figure sedute del quattro Evangelisti con accanto i rispettivi simboli. È in queste figure che vediamo la perizia e lo stile del Cordella ‘nazareno’, nel suo rifarsi ai fiorentini del Quattrocento tra cui emerge l’impostazione, ad esempio, la massaccesca degli Apostoli.
Voglio concludere con un breve cenno sul restauro, rimandando all’osservazione più diretta. Il restauro è stato possibile grazie ad un cospicuo contributo della fondazione della Carifermo, è stato eseguito da Marco Salusti di Smerillo sotto la diretta supervisione dell’ispettrice della Soprintendenza Dott.sa Benedetta Montevecchi. Si trattava di intervenire su circa 550 m² di intonaco con strato pittorico in cui si riscontravano infiltrazioni piovane, estese macchie di umane umidità, una pellicola pittorica a tratti decoesa, cadute di intonaco e altro. Il restauro perciò ha comportato la rimozione di murature posticce, il consolidamento dell’intonaco, il fissaggio della pellicola pittorica, risarcimento delle fessurazioni, la pulitura del dipinto, e quindi il restauro estetico e il fissaggio di protezione. Questa cappella appare oggi rimessa a nuovo, come potevano osservarla i fedeli del 1881.
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Valle del Chienti. Arte e storia con il Monachesimo – Liberati Germano
Chi da Civitanova si immette sulla strada per Foligno, ha la fortuna di godere di una valle trale più ampie e più belle valli delle Marche: la Valle del Chienti con il fiume omonimo, il più importante della regione. Oggi si presenta ben coltivata, ricca di vegetazione, puntinata di centri urbani e pullulante di attività industriali e commerciali. La scoperta della sua importanza non è recente: già al tempo dei Romani costituiva, attraverso il valico del Col Fiorito un’importante via di comunicazione con il Tirreno, costellata di “oppida” (centri abitati) tra cui Pausolae (presso l’odierna Corridonia), Urbs Salvia (Urbisaglia), Tolentinum e da importanti “stationes” come quella presso l’odierna Pievebovigliana. Il volto del paesaggio agricolo attuale, nella sua floridezza, trae origine dai monaci che vi si insediarono, fin dall’alto Medioevo. Sui resti delle antiche centuriazioni ed insediamenti, presso gli ‘oppida e le ‘stationes’ si stabilirono, in una natura che per abbandono stava inselvatichendo, richiamati sia da donazioni di terre, sia per la ricerca di luoghi adatti alla contemplazione ed al lavoro, taluni eremiti e molti più cenobiti. Ecco sorgere allora le abbazie con tutte le strutture annesse, fin dai secoli VII e VIII. Quei luoghi p resero a rifiorire, meta di pellegrini, oasi di ospitalità e di spiritualità, determinando la ripresa religiosa e socio economica della Valle del Chienti. Le chiese e le abbazie, quali ci sono state consegnate dalla storia, rispecchiano chiaramente, pur nella libertà creativa dei costruttori, la vita benedettina al principio del secondo millennio: una vita che, conciliando lavoro e preghiera, era a contatto con le realtà del mondo circostante. Non per nulla lungo la valle si incrociavano pellegrini e mercanti, crociati e soldataglie dei signorotti i cui castelli erano arroccati sui colli circostanti. Così i piccoli borghi collinari riprendevano vita attraverso un incremento demografico, una maggiore e razionale organizzazione del lavoro e nascevano anche le prime “fiere” come quella di San Claudio. Si stabilivano, ad opera dei saggi abati, le prime forme di rapporti giuridici con tutti coloro che si mettevano a servizio o alle dipendenze delle abbazie. In particolare, degni di nota sono i contratti agricoli, singolari e atipici per quei tempi, ma di una modernità sconcertante e rivolti innanzi tutto al rispetto della persona umana. Vale la pena di menzionare le cessioni di terre in enfiteusi a canoni simbolici, le assegnazioni a ‘novali’ (maggesi in terre da poco dissodate), a ‘partitionem’ (la spartizione del raccolto in base alla resa del terreno) o ‘pastinandum’ (da piantare in riferimento a colture specifiche come vigneti e oliveti). L’architettura che delinea e definisce le costruzioni è quella romanica che costituisce il linguaggio espressivo di tutta l’Europa a partire dal 1000. Esso è giunto nella valle del Chienti ad opera dei monaci e qui, come per ogni linguaggio, ha assunto particolari connotazioni desunte da influssi bizantini, adattamenti ad esigenze specifiche, con inflessioni proprie del territorio anche in rapporto a materiali e tecniche costruttive. Insomma una sorta di opera “aperta”, in cui stili e linguaggi si sono talora integrati e talora sovrapposti. Vi sono tuttavia caratteri comuni: struttura estremamente semplice improntata ad evidenza costruttiva; una maggiore complessità si nota nella articolazione della zona absidale con deambulatorio e absidiole minori. Luce diretta proveniente da piccole finestre laterali strombate; presenza di una cripta. Talora in alcune di queste chiese abbaziali si riscontra una divisione a due piani, una sorta di “doppia chiesa”: l’una, la inferiore a pianterreno, destinata alla celebrazione della liturgia per il popolo di Dio; l’altra, la superiore, riservata forse all’uso monastico per la celebrazione dell’opus Dei , l’ufficio divino (salterio) che nelle sue varie parti scandiva la giornata del monaco.
L’imperiale abbazia di Santa Croce, collocata presso la confluenza dell’Ete Morto nel Chienti, non lontano dalla sua foce, sulla piana della riva destra, è accessibile attraverso una carreggiata agricola, e la si trova attorniata da alcune case coloniche semiabbandonate. Della monumentale abbazia, istituita con decreto ottoniano nel secolo XI, resta la chiesa, fortemente manomessa per il successivo uso abitativo e di magazzino che se ne è fatto. Quasi intatte sono le linee e le decorazioni ad archetti pensili e le monofore delle fiancate e dell’abside del più puro stile romanico cluniacense.
Santa Maria a pie’ di Chienti, nascosta tra gli alberi, tra il fiume e la vecchia strada statale, si presenta come costruzione molto articolata in larghezza, austera nelle strutture, elegante nella linea. E’ forse una delle più antiche costruzioni (anche se ampliata e ristrutturata nei secoli successivi) e certamente la meglio conservata e restaurata. Le memorie risalenti al secolo X si trovano nella carte Farfensi ove il luogo viene denominato “monasterium”, “cella”, “curtis”: tre termini che messi insieme indicano una struttura ben definita: chiesa monastero, caseggiati adiacenti per servizi e abitazione della i coloni come testimonia un mulino ad acqua ancor oggi individuabile. Una data significativa è nell’epigrafe dell’anno 1125, forse la data di consacrazione dell’attuale chiesa; il testo suona pressappoco così: “A Cristo vincitore e alla Madre Santa, l’abate Adenolfo dedicò questa chiesa”. La facciata semplici e con rimaneggiamenti conserva una meridiana (sec. XII)ove sono scandite tramite lettere le ore monastiche diurne: T (tertia); S (sexta); N (Nona). Il bellissimo interno, a due piani, è avvolto nella penombra e l’invito al raccoglimento è d’obbligo. È a tre navate nel più lo stile lombardo, tra archi scanditi da lesene e matronei sovrapposti e slanciati, per concludersi in un soffitto a capriate. La zona absidale in stile cluniacense, è articolata con deambulatorio e cappelle raggianti. Di particolare interesse sono gli affreschi del vano superiore e il grandioso ciclo storico datato 1447 nel catino dell’abside: al centro Cristo in trono racchiuso in una mandorla e quindi le scene dell’infanzia.
Andando verso Corridonia, un suggestivo viale di cipressi conduce ad un ampio spiazzo, ove sulla destra si scorge l’Abbazia di san Claudio, forse la più antica, certamente la più originale: scavi e testimonianze hanno messo in evidenza infatti una continuità di insediamento e vita tra romanità e cristianesimo.
L’abbazia sorge infatti presso l’abitato romano di Pausolae (stazione di pausa). Forse su un tempio pagano si costruì nel quinto secolo una chiesa, rimaneggiata quando, nel secolo nono, vi si stabilirono i monaci i quali, per vedetta e per difesa, innalzarono, in puro stile ravennate, le due torri cilindriche ai lati della facciata. L’attuale chiesa risale ai secolo IX – XII: la facciata è a due piani, “a parato”. La pianta quadrata e le absidiole delle fiancate richiamano gli edifici bizantino – ravennati. Le strutture sono romaniche con pilastri quadrati e campate a crociera; romanica del pari la muratura in laterizio, a faccia vista, con sagomatura “quadrata” o a “spina”. I pochi gli affreschi che restano con i santi Claudio e Rocco segnano la storia dell’edificio, dal titolare alla peste del 1460.
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