Blasi Mario Parroco evangelizza Natale Luca 2

25 DICEMBRE 2001 NATALE DEL SIGNORE(Lc.2,1-15) “CESARE AUGUSTO ORDINO’ CHE SI FACESSE IL CENSIMENTO DI TUTTA LA TERRA. QUESTO CENSIMENTO…FU FATTO QUANDO ERA GOVERNATORE DELLA SIRIA QUIRINIO”.
Dio, Creatore del Cielo e della terra, entra visibilmente nella nostra storia per mezzo di una piccola, ma straordinaria famiglia: la famiglia di Nazareth.
Dio va cercato, riconosciuto e accolto nella famiglia.
Tutto sembra che cammini per l’autorità dell’imperatore. Chi comanda, chi decide è Cesare Augusto. Egli è il padrone di “tutta la terra”. Egli decide “tutto”. Ha orgoglio smisurato. Ha il potere di censire “tutta la terra”, ma non si accorge che è un piccolo strumento di Colui che è veramente Signore.
Giuseppe obbedisce al comando di Cesare, va a Betlem con “Maria sua sposa che era incinta”. Il germoglio di Jesse deve nascere a Betlem. Così avviene.
Dio guida la storia, non Cesare. Dio decide, non l’imperatore.
Colui che ha disteso i cieli si fa bambino, bisognoso di tutto e di tutti, ma è lo specchio del volto di Dio Creatore.
Dio va amato, riconosciuto nell’uomo.
L’uomo è al centro del creato, Dio al vertice di tutto.
Tutto cammina verso di Lui.
Chi contempla per primo il volto di Dio fatto uomo? Sono gli emarginati e i lontani da Dio: i pastori.
“Oggi è nato per voi… un Salvatore”.
I pastori, considerati peccatori incalliti, non sono esclusi dalla salvezza, ma sono i primi ad accoglierla. Proprio a costoro l’Angelo del Signore si rivolge e la gloria di Dio li avvolge.
“La gloria di Dio si manifesta visibilmente comunicando pace (felicità) a tutti gli uomini in quanto destinatari del Suo amore… I pastori vanno a Betlem a trasmettere la buona notizia che hanno ricevuto” (A.Maggi).
Dio dimostra il Suo Amore ai lontani e ai vicini. “Tutti vengono sconvolti da questa straordinaria novità, Maria compresa, ma lei non la rifiuta, la accoglie” (A.Maggi).
Tutti gli uomini sono chiamati a fare l’esperienza del Dio-Amore.

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VANGELO DI SAN LUCA inizio: Blasi Mario Parroco evangelizza il Natale dono

Mario Blasi Parroco evangelizza il Natale Giovanni “Il Verbo fatto Carne” 25 DICEMBRE 2002
NATALE DEL SIGNORE(Lc. 2,1-15) “Non temete, vi annuncio una grande gioia, che sarà per tutto il popolo: oggi vi è nato un Salvatore”. “Non temete” è il verbo della svolta. L’Angelo non vuole spaventare i pastori, ma li rassicura perché è venuto il momento della svolta nella loro vita. Gli ultimi in Israele sono i primi a conoscere il Salvatore.
“Se c’è gente in Israele che è malvista perché pericolosa, è proprio la categoria dei pastori. Gente da temere e comunque da tenere alla larga. Ritenuto un mestiere da ladro quello del pastore, spesso lo diviene; la mancanza di qualsiasi controllo per molti mesi rende agevole trasportare gli armenti in proprietà altrui e sottrarre parte dei prodotti del gregge.
Considerati dalla gente alla stregue di briganti, trattati da assassini, i pastori non godono dei più elementari diritti civili.
E’ proibito avere qualunque rapporto con essi e anche comprare lana, latte o carne, perché c’è il sospetto che possa trattarsi di prodotti rubati. Vengono trattati come bestie selvagge. Ai pastori viene perfino negata la possibilità di fare penitenza e di essere così perdonati dalle loro colpe. Per loro non c’è speranza di salvezza” (A.Maggi).
L’Angelo del Signore si rivolge proprio a queste persone disprezzate da tutti. I pastori “sono i primi a rendersi conto della luce che risplende… percepiscono i segni di Dio” (A.Maggi).
“Tutti quelli che li udirono furono sorpresi dalle cose che i pastori dicevano “. “Da che mondo è mondo Dio premia i buoni e castiga i cattivi: cos’è mai questa novità di un Dio che è benevolo verso gli ingrati e i malvagi (Lc. 6,33) se Dio ora, anziché punire i peccatori, dimostra loro il suo amore, non c’è più religione!
Tutti vengono sconvolti da questa tremenda novità. Maria compresa. Ma lei non la rifiuta, la accoglie per essere in sintonia con un Dio sempre nuovo. E i pastori “se ne tornarono, glorificando Dio”; glorificare e lodare Dio era ritenuto compito esclusivo degli Angeli (Lc. 2, 13-14). Dopo aver fatto esperienza di Dio-Amore, è possibile anche ai pastori” (A.Maggi) lodare e glorificare Dio.
Dio, con la venuta di Gesù, dona il Suo Amore a tutti: è un amore che deve essere accolto per avere la vita. Anche noi abbiamo l’oggi della salvezza: accogliere l’amore di Dio e ridonarlo ai fratelli.

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SANTUARIO MADONNA DELL’AMBRO in Montefortino (FM). San Giuseppe Benedetto Labre pellegrino qui dipinto da Salvatore Tricarico

Nel poemetto in versi latini sul Piceno, il poeta Francesco Barletta che si firmava con lo pseudonimo di Panfilo, ricorda il fiume Ambro per le acque gelide che spumeggiano scorrendo fragorose fra gli scogli. Qui, tra i monti Priora e Castel Manardo, i secoli cristiani hanno elevato un santuario che per l’affluenza dei pellegrini è il secondo delle Marche, subito dopo Loreto, che è tutto dire. Come santuario mariano, è stato definito da mons. Giuseppe Fabiani: “il più antico delle Marche”.

L’arte vi regna, originata dall’ispirazione dei devoti che considerano la vergine Maria di Nazaret come la gloria dei popoli e la onorano con preghiere, canti, fiori, dipinti, sculture, riti, feste e omaggi, tanto che l’umile cappellina costruita attorno al 1000 dai monaci dell’abbazia dei santi Vincenzo ed Anastasio, è diventata un tempio.

Si narra che una pastorella di nome Santina, muta, secondo la tradizione, offriva fiori e preghiere all’immagine di lei nella cavità di un faggio, ed ebbe sciolta la parola. Allora la gente cominciò a frequentare sempre più numerosa questo luogo. E la devozione crebbe sempre più portando anche opere d’arte.

L’arcivescovo di Fermo, Felice Peretti, che divenne poi papa con il nome di Sisto quinto, dispose che i canonici della cattedrale Fermana mettessero qui stabilmente un cappellano. Poi divenuto papa inviò da Loreto l’architetto Venturi a progettare la chiesa che risulta come quella Lauretana con la chiesina originaria incorporata nel vasto edificio e le cappelline laterali alla navata.

Per stabilire gli altari laterali si adoperarono in molti, a cominciare dai cavallari della zona montana che formavano una loro Confraternita e secondo l’uso avevano qui il sepolcro. Allevavano cavalli e facevao trasporti. Essi fecero dipingere le loro immagini a lato del primo altare. Altre famiglie ricche del circondario fecero creare altari e dipinti nei secoli 18º, 19º e 20º, con la protezione dei sommi pontefici. Pio IX concesse speciali indulgenze in occasione delle feste della Madonna e queste furono ampliate da Benedetto XV e da Pio XI che donò il magnifico Crocefisso.
Gli arcivescovi Fermani vennero qui in visita e in preghiera. L’arcivescovo Roberto Papiri, nativo di Montefortino, fece aprire la nuova strada alla fine del secolo 19º e sistemò gli argini del fiume Ambro e allargò lo spiazzale. Sempre nuovi interventi di pittori, lungo il corso dei secoli, tra cui Bonfini da Patrignone, e Malpiedi da San Ginesio e molti altri di cui alcuni dipinsero anche a Loreto. Ora si vanno completando alcuni dei riquadri delle cappelle a sinistra della navata, perché rimaste senza dipinti, mentre quelli sulla destra erano stati già completati.
D’intesa con il Direttore dei Beni Culturali diocesani, monsignor Germano Liberati, di felice memoria, il pittore Salvatore Tricarico, nativo della Basilicata ed ora a Milano, ha dato un prezioso apporto. Si era già fatto apprezzare per i dipinti del volto di Cristo e dell’Immacolata e di san Pio da Pietrelcina. Aveva dipinto anche i beati famosi come pellegrini venuti all’Ambro, come il beato Liberato da Loro, il beato Pietro da Amandola, la beata Maria Assunta Pallotta, San Serafino da Monte Granaro, San Giacomo della Marca. Ora è la volta di San Benedetto Giuseppe Labre, il pellegrino più famoso del mondo, ricordato anche presso la Madonna dell’Ambro.
Domenica 25 marzo monsignor Pietro Orazi, ordinario diocesano, benedice questo dipinto che completa il ciclo degli specchi vuoti dei pilastri, nel pomeriggio, celebrando la Santa Messa vespertina. È un omaggio alla Madonna che non si fa vincere in generosità. Già erano stati pubblicati sulla stampa i rallegramenti dei pellegrini, dei religiosi Cappuccini qui presenti, degli esperti e dei fedeli che sono venuti in pellegrinaggio con i sacerdoti e dei giovani che si sono compiaciuti di questi beati pellegrini come loro, considerati compagni di viaggio.
Sono quadri apposti al muro, ma le immagini sacre hanno valore per l’uso liturgico di devozione. Ringraziamo il pittore Salvatore Tricarico, apprezzato per queste e per altre opere, il celebrante monsignor Pietro Orazi, i Cappuccini della Rettoria della Madonna dell’Ambro e tutti i partecipanti sui quali sarà invocata la divina benedizione.

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BLASI MARIO PARROCO EVANGELIZZA – QUARTA DOMENICA AVVENTO ANNO C

Il Parroco don Mario Blasi evangelizza nella quarta domenica di Avvento anno C
(Lc 1, 39-48)
“Elisabetta esclamò a gran voce: Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo”.
Come può Elisabetta conoscere il mistero del concepimento di Maria se questo evento è ancora segreto? Elisabetta è ricolma dello Spirito di Dio e lo Spirito di Dio le ha fatto conoscere questa realtà. Riconosce Maria l’Amata da Dio e la Madre del Suo Signore.

Maria, dopo l’annuncio dell’Angelo, va in fretta alla casa di Elisabetta. E’ una ragazza gioiosa di servire una futura mamma anziana. L’Amore di Dio che ha nel cuore la spinge ad andare per aiutare chi è nel bisogno.
Maria è la vera credente. E’ la Madre della nostra fede.
Giunta nella casa di Elisabetta le rivolge il saluto. E’ un augurio di gioia, di pace e di salvezza. E’ un saluto di grazia. E’ un saluto che annuncia la presenza di Dio nella storia. E’ l’incontro di due figli: Gesù e Giovanni.
“Ha esultato di gioia “.
“Giovanni, nel seno della madre, riconosce Gesù nel seno della Madre. E’ un saluto di riconoscimento da parte dei due bambini non ancora nati: si incontrano e si riconoscono”.
La forza dell’Amore dello Spirito Santo entra nel cuore delle persone fin dal seno materno.
· · “Beata colei che ha creduto”.
Maria è il modello della beatitudine di ogni discepolo. La felicità di Maria non viene soltanto dal fatto che è Madre del Messia, ma dalla fede, dall’Amore di Dio che accoglie nel cuore. Ha piena e totale fiducia nella Parola di Dio. Crede e il Verbo di Dio si fa carne.
“La grandezza di Maria sta nell’essere discepola”. Maria non risponde ad Elisabetta che la chiama: “Tu sei la benedetta fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo”, ma eleva un inno di lode a Dio ed esalta il progetto di salvezza preparato dal Signore per tutti i popoli.
L’anima di Maria è immersa in Dio e lo loda con giubilo incontenibile.
Dio è la gioia e la salvezza di tutti.
“L’anima mia esulta in Dio mio Salvatore!”.

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BLASI MARIO PARROCO EVANGELIZZA con l’Immacolata Concezione Lc 1, 26- 38

Il parroco don Mario Blasi 8 DICEMBRE

IMMACOLATA CONCEZIONE DI MARIA (Lc.1,26-38)
“Non temere Maria,hai trovato grazia presso Dio “.
Il Figlio di Dio, la Parola che ha creato tutte le cose, diventa uno di noi. Egli entra nella storia degli uomini. Ha bisogno di una Madre per essere uno come noi.
Maria è chiamata a questa altissima e straordinaria missione. “Non temere”, dice l’Angelo: è il verbo che, nella Bibbia, indica la svolta dell’esistenza di una persona.
Maria è piena di grazia. Lei accoglie in ogni momento il dono di Dio in maniera completa. E’ la più bella creatura sempre ricolma dell’amore di Dio che salva. Dio la sceglie e le dona la grazia straordinaria che lei prontamente accoglie, per realizzare il progetto di salvezza di tutta l’umanità.
L’amore di Dio accolto è gratuito, è creativo, è trasformante. Maria si lascia sempre guidare con gioia dall’amore infinito di Dio. E’ disponibile alla chiamata divina e si dona con libertà gioiosa e piena.
“Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto “.
La grazia trasforma Maria in una creatura meravigliosa. Maria, liberamente, si mette a servizio completo di Dio e si affida totalmente a Lui. E’ gioioso il Suo abbandono alle esigenze del progetto di Dio.
La salvezza dell’umanità incomincia in Lei e con Lei. Maria è la nuova Eva. EVA E’ LA MADRE DEI VIVENTI, MARIA E’ LA MADRE DI TUTTI I REDENTI.
“Eccomi”. La Sua obbedienza dà inizio alla nostra salvezza. Eva, la Madre dei viventi, dà inizio alla storia dell’uomo che vive nel peccato. Maria, con il Suo “sì”, dà inizio alla storia della salvezza per tutti gli uomini.
Con Eva la morte, con Maria la vita! Siano rese grazie a Dio per questa straordinaria e singolarissima Donna!
“Resta con noi, Maria, con la tua purezza di Vergine, con la tua tenerezza di sposa, con il tuo amore di madre”.

Portaci con mano, guidaci sempre con amore!

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VAGNONI VINCENZO RIASSUME LA STORIA DEL CULTO DELLA MADONNA DEL PIANTO A FERMO

VAGNONI VINCENZO vicario generale nella Curia di Fermo racconta la Devozione alla
MADONNA DEL PIANTO
Il fatto storico che dette origine a questo speciale culto alla Madonna avvenne a Roma il 10 gennaio 1546. Due persone che da tempo si odiavano si incontrarono a faccia a faccia, in una delle vie meno frequentate di Roma. L’odio mortale ebbe il sopravvento e, poco dopo uno dei due uomini era a terra trafitto da un pugnale. Le persone che accorsero videro subito che da un’immagine della Madonna, dipinta nel muro, uscivano lacrime.
La fama del prodigio si diffuse subito e richiamò sul posto molti devoti per cui si rese necessario staccare dal muro l’immagine e trasferirla nella chiesa dedicata al Salvatore che, da quel momento prese il nome di chiesa della Madonna del Pianto.
A Saletto di Fermo
La fama del prodigio giunse anche a Fermo e la Confraternita di Saletto chiese di essere aggregata a quella sorta a Roma, per propagare anche nella nostra zona la devozione alla Madonna del Pianto. La bolla di aggregazione porta la data del 9 ottobre 1585 ma, per ottenere i favori di cui alla costituzione di Clemente Vili del 7 dicembre 1604, la Confraternita fu di nuovo aggregata con Atto del 22 giugno 1607.
Da tale epoca la Confraternita del SS. Crocefisso di Saletto aggiunse al suo nome quello della
” Madonna del Pianto”
Il rapido e quasi prodigioso sviluppo assunto dalla Confraternita fece ben presto sentire il bisogno di una nuova residenza, più centrale e più comoda, la scelta cadde sulla chiesa del SS. Crocefisso di Santa Chiara poco distante dalla chiesa di S. Francesco. Il trasferimento avvenne il 28 marzo 1609.
Il simulacro
Prima cura dei confratelli fu quella di avere un simulacro della Madonna del Pianto: ne commissionarono l’opera al recanatese Sebastiano Sebastiani. Il simulacro fu solennemente posto in venerazione nel 1914, come si riceva dai libri della Confraternita.
Da quel momento il culto prese uno sviluppo ancora maggiore. Una delle più belle manifestazioni si aveva ogni anno in occasione della visita che la Confraternita faceva a Loreto; il simulacro della Madonna veniva portato processionalmente da Fermo a Loreto con grande dimostrazione di devozione sia a Loreto che nelle cittadine attraversate entro e fuori la nostra archidiocesi.
LA NUOVA CHIESA
Trascorso appena mezzo secolo da che la Confraternita aveva preso possesso della chiesa del Crocifisso di S. Chiara, i fermani diedero inizio alla costruzione di una nuova più spaziosa chiesa, da principio si era pensato di trasferire il simulacro nella chiesa di S. Francesco, poi prevalse l’idea di costruirne una nuova. Nell’adunanza del 19 dicembre 1660 i confratelli deliberarono di acquistare la casa di un tal M. Filippo Romagnoli e, con le offerte ordinarie e straordinarie dei fedeli, vi costruirono la nuova chiesa che fu terminata in circa venti anni.
Il decreto dell’Arcivescovo Gualtieri che autorizza il trasferimento del simulacro della Madonna nella nuova chiesa reca la data del 7 aprile 1681.
Persecuzione religiosa
La devozione dei fedeli si dimostrò non solo con l’accorrere in gran numero a pregare nel santuario ma anche con l’offrire doni che permisero alla Confraternita di abbellire il santuario e compiere opere di bene a favore dei bisognosi.
Le leggi eversive del 3 luglio 1798 ingiunsero però alla Confraternita di consegnare «entro 24 ore» la nota dei beni posseduti dalla «soppressa Compagnia del Pianto» e, solo a condizione che non venissero fatte processioni in città e che le funzioni religiose si svolgessero sempre prima del suono dell’Ave Maria si permise la riapertura del santuario «attesa la particolare divozione del popolo fermano per la Santissima Madre» come si legge nella relazione del Prefetto al Ministro del Culto, Bovara.
Le persecuzioni religiose delle autorità politiche del tempo, servirono’ ad accrescere la divozione verso la Madonna da parte dei fedeli di tutta la diocesi. E la Madonna ricambiò l’amore dei figli con la sua materna protezione.
Incoronazione. Con bolla del 5 giugno 1843 il Capitolo Vaticano accolse la richiesta della Confraternita fermana decretando la solenne incoronazione del simulacro che fu compiuta, per delega, il 10 dicembre successivo dall’arcivescovo di Fermo, cardinal Filippo De Angelis.
La visita di Pio IX
Il 17 maggio 1851 il Sommo Pontefice Pio IX, in occasione della sua visita al santuario di Loreto, accogliendo l’istanza del card. De Angelis, venne a Fermo e sostò a pregare dinanzi all’immagine della Madonna del Pianto che per la circostanza era stata trasferita nella chiesa della Madonna del Carmine; del fatto si conserva memoria in una lapide posta, per disposizione del card. De Angelis, nella chiesa del Carmine.
Furto sacrilego
Nella notte del 30 gennaio 1877 un ignoto, approfittando dell’oscurità, trafugò la corona d’oro che cingeva il capo della Madonna, i preziosi ornamenti del simulacro e l’angelo d’argento che sorreggeva la città di Fermo.
In città e in diocesi si indissero preghiere di riparazione del sacrilego furto. Furono accolti i fondi necessari per la fusione della nuova corona che fu posta sul capo della Madonna il giorno 8 giugno 1878 dal card. Amilcare Malagola succeduto al card. De Angelis, quale arcivescovo di Fermo.
Altro furto si è avuto il 20 novembre 1961 da parte di ignoti. Nuova incoronazione il 1° Maggio 1962 per le mani di Sua Eminenza card. Fernando Cento.
Pellegrina
Questa, in brevissima sintesi, la storia della devozione nella nostra archidiocesi alla Madonna del Pianto. La storia, è logico, parla solo di fatti esterni, pubblici, ma tace perché li ignora, i grandi prodigi che tale devozione ha operato nel segreto delle coscienze.
Di tali fatti esterni ricordiamo, ancora i festeggiamenti del terzo centenario svoltisi nell’agosto del 1914; il grande Pellegrinaggio del venerato simulacro della Madonna in tutti i paesi dell’Archidiocesi negli anni 1948-1950; il solenne Settenario di predicazione, ogni anno, nel mese di gennaio; il solenne mese di maggio nella Basilica Metropolitana; il Congresso Mariano del 1951.
I ricordi del passato accendano sempre più la nostra devozione alla cara Madonna del Pianto!
Vincenzo Vagnoni

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ADOLFO DE CAROLIS ARTISTA PITTORE INCISORE QUALITA’ nella rievocazione di Vincenzo Vagnoni da Montefiore dell’Aso

VAGNONI VINCENZO rievoca l’arte e i sentimenti di Adolfo De Carolis da Montefiore dell’Aso.

VINCENZO VAGNONI COMMEMORA ADOLFO DE CAROLIS A MONTEFIORE DELL’ASO L’8 GENNAIO 1974
NEL CENTENARIO DELLA NASCITA DEL GRANDE ARTISTA
È troppo naturale che a Montefiore ricordi il centenario della nascita di Adolfo De Carolis in questo tempio così ricco di memorie, così interessante ed attraente per opere d’arte, come la decorazione dell’antica abside con pitture di scuola giottesca-senese, il monumento ai genitori del card. Gentile Partino, quattrocentesco portale armonioso e l’elegante rifacimento dell’interno della chiesa in stile barocco facilmente eseguito dal bergamasco Interlenghi. Ma più che altro questa cerimonia liturgica viene giustificata dalla presenza delle spoglie dello stesso grande artista, racchiuse nel sarcofago eseguito su disegno dell’architetto. Luigi Morosini.
Adolfo De Carolis nasceva a Montefiore dell’Aso il 6 gennaio 1874. La famiglia oriunda da Cossignano si era trasferita a Montefiore per motivi professionali da parte del Padre che diveniva medico condotto in questo Comune.
Adolfo è rimasto sempre legato al “Natio Loco” di cui sentiva e gustava la magnifica poesia dei colli ubertosi e delle ridenti pianure. Spesso dalla spiaggia adriatica, ove si recava annualmente a ritemprate le forze e ad attingere nuove ispirazioni per la sua arte nella contemplazione del «Mare Amarissimo», risaliva verso le alture della sua piccola patria, forse a riconfortare lo spirito nel ricordo dei suoi anni migliori.
Quivi infatti aveva assaporato le serene gioie dell’infanzia, delle prime amicizie mai dimenticate; mentre la visione della natura, che si apriva in tutto il suo splendore al suo occhio di bimbo intelligente, aveva affinato certamente il suo spirito alle sublimi creazioni dell’arte. Egli avrà pertanto scolpito più che negli occhi, nel cuore il bel panorama che ammirava estatico della sua Montefiore negli anni della sua prima fanciullezza, la digradante distesa delle verdi colline che si rincorrono sino al mare, la vallata che dal monte Castello, ricco di pini e di annose querce, tra balse e dirupi, declina verso il fiume tortuoso, dal nome pieno di maliosa leggenda; e quei tramonti d’oro, che animano dei più strani riflessi luminosi i campi, i piccoli borghi arrampicati su l’erte lontane ed imponenti vette dei Sibillini. Forse fu il ricordo di tanta bellezza che lo mosse a sottoscrivere qualcuna delle sue mirabili xilografie, col motto che era un richiamo della sua piccola patria «Adolfo de Carolis da Montefiore» o con l’aggiunta di un fiore al suo nome. L’affetto alla famiglia, che aveva respirato di tra le pareti domestiche insieme alle aure balsamiche del suo paesello natio, egli custodì come un sacro deposito nel suo nobile cuore e gli fu guida ed impulso fecondo nel faticoso cammino dell’arte.
Il babbo per la sua formazione morale ed intellettuale in un primo momento l’aveva affidato al Rettore del Seminario di Ripatransone. Allora i Seminari erano quasi gli unici che potevano dare una cultura anche umanistica seria ed il Seminario di Ripatransone allora con tutto il corso ginnasiale liceale e teologico dava sicura garanzia di una seria preparazione al Sacerdozio come alla vita professionistica.
Per sincerità di carattere, non sentendosi chiamato alla vita ecclesiastica, prima si iscriveva al primo anno di scuola di pittura alla Accademia di Bologna, guadagnando poi una borsa di studio dal benemerito Sodalizio dei Piceni, trasmigrava a Roma, ed entrava nel gruppo “In arte libertas”, cui faceva capo Giovanni Costa, studiando al Museo Industriale. Perfezionava i suoi studi artistici a Firenze. Ma mentre ivi completava la sua formazione artistica, arricchiva la sua cultura attraverso le correnti letterarie di quel tempo.
In un articolo pubblicato su “L’Osservatore Romano” del 23 aprile 1913 si legge tra l’altro: «Il 4 gennaio (1903) usciva il primo numero del “Leonardo” fondato e diretto dallo stesso Papini con la collaborazione di G. A. Borgese, Giuseppe Prezzolini e Giovanni Vallati ed altri meno noti. Assiduo frequentatore e collaboratore di Palazzo Davanzati, dove era nata la rivista, era uno dei giovani più attenti alle nuove voci del secolo, Adolfo De Carolis, che pur essendo amico del D’Annunzio, del quale era solito illustrare le copertine ed i romanzi, piaceva a Papini per il suo “berrettuccio celliniano di peluscio” oltre che per il suo valore artistico… ».
«La sua esistenza — scriveva il prof. Guido Guida — si riassume nella fede e nel lavoro. Non un giorno della sua breve giornata fu consumato in cose inutili. La sua famiglia, che tanta eredità di luce ha avuto da Lui, gli diede il sorriso. Ancora i ritratti della sua indimenticabile compagna e dei suoi diletti figli, sono tra le cose più belle che da Lui ci vennero. Egli nella sua arte aveva raccolto il profondo amore di padre e di sposo».
Le sue prime opere sono di ispirazione preraffaellista orientata al rinascimento fiorentino con le opere del Ghirlandaio e del Botticelli.
Le “Castalidi” come pure “La donna alla fontana” sono del 1898, mentre “II concerto” risale al 1900. La seconda maniera dell’arte del De Carolis ha una ispirazione eminentemente michelangiolesca con l’influenza del Veronese e del Correggio.
Tutta la sua arte mirò così a ristabilire una continuità tra lo stile smagliante del Rinascimento e l’epoca contemporanea e questa sua nobile aspirazione lo tenne lontano dalla scuola estremista: cubismo, futurismo, impressionismo. Della sua quotidiana fatica di artista, lo ricordiamo per gli affreschi, dove la tenuità del colore è in contrasto col disegno possente, la decorazione del salone della prefettura di Ascoli Piceno eseguita dal ’16 al ’19; quella dell’Aula Magna della Sapienza di Pisa lavoro che va dal ’22 al ’24; e l’altra del Salone del Consiglio Provinciale di Arezzo, dove svolge il tema “II lavoro dei Campi”. Ma la creazione artistica che occupa, l’ultimo periodo della sua breve vita, sono gli affreschi eseguiti nella sala dei Quattromila a Bologna, dove vengono raffigurati “I Comuni”, “Il Cristianesimo”, “La Rinascita”, “Galli e Romani”, “La fondazione di Felsina”, “Re Enzo” i cui cartoni oggi sono esposti a Montefiore nella sala De Carolis. Lavoro questo che lo tenne impegnato dall’ 11 al ’28 anno della sua morte. Sono anche da ricordare i lavori eseguiti nella Cappella di San Ginesio dedicata ai Caduti e quelli della Cappella di S. Francesco nella Basilica di S. Antonio di Padova a Padova.
Ma non possiamo dimenticare come il suo nome sia indissolubilmente legato alla rinascita della xilografia in Italia. Cominciò incidendo per la “Figlia di Iorio” del D’Annunzio, per il quale aveva già disegnato costumi e scene, deliziosi legnetti di sapore cinquecentesco. Continuò ad illustrare numerose opere dall’Abruzzese, del quale fu amico, fra cui “La Fedra ed il “Notturno”. Poi sempre dando impulso alla decorazione del libro per lo Zanichelli “I classici Greci”, tradotti dal Romagnoli. Dell’opera sua di xilografo ricordiamo ancora i due forti e suggestivi “Autoritratti” (1904-1924) e il “Dantes Adriaticus” (1920) che ornava lo studio del Vittoriale, di cui un esemplare è nella sala municipale di Montefiore. Non mancarono numerosi discepoli e collaboratori, fra i quali merita di ricordare lo Spadini, Antonello Moroni, Diego Pattinelli e Bruno da Osimo.
L’Artista era anche il ricercatore entusiasta delle tradizioni, leggende, dei costumi della nostra terra marchigiana e particolarmente della provincia alla quale si gloriava di appartenere e per la quale affrescò il sontuoso palazzo del Governo di Ascoli Piceno. Di questa provincia conosceva i luoghi più pittoreschi, gli angoli più suggestivi, quasi lembi di terra librati nel cielo a specchio dell’Adriatico e ad essi la sua arte attinse senza posa i motivi supremi di bellezza. Tutta l’antica storia della terra picena tornava così alla mente pensosa; mentre fantasmi di pura luce gli illuminavano lo spirito nella sublime visione dell’arte.
E per un’anima talmente aperta alla luce, non poteva rimanere estranea la fonte della ispirazione cristiana. Egli sentì il Cristianesimo con francescana semplicità e l’arte sua toccò davvero nelle composizioni sacre e particolarmente nella illustrazione dell’epopea dantesca per la chiesa di S. Francesco di Ravenna, la sua piena maturità di artista. Basta rileggere la limpida sua relazione con cui accompagnava i suoi cartoni danteschi, per persuadersi della sua potenza creativa, del sublime lirismo che aveva saputo rilevare ed infondere in quei cartoni. «Mi parve che fosse necessario, Egli diceva, conservare in qualche modo l’unità e la simmetria dantesca, quasi che nelle pareti della grande navata, dovesse essere dovunque presente l’onnipotenza di Dio che in ogni parte impera. Bisognava che alla parete delle pene, fosse contrapposta quella della luce celeste che di fronte all’eterno dolore splendesse la rosa sempiterna, che tra l’inferno e il paradiso, corresse come un ponte il cammino graduale verso la perfezione e fosse rappresentata nel paradiso terrestre la processione mistica. Nell’abside l’Empireo, la Rosa dei Beati, dove nel mezzo sta Maria la Mediatrice, non solo per Dante, ma per tutti gli uomini, che solo per mezzo della Vergine possono aspirare a vedere Iddio». La visione dantesca, mirabile per la sua potenza estetica, non aveva distrutto la virtù creativa dell’artista, che anzi la ripensava e la riviveva nell’intimo dello spirito, per trarne nuove sublimi concezioni di bellezza.
Montefiore pertanto gioisce di avere dato all’arte una personalità così eccezionale. In Adolfo De Carolis, vede giustamente continuate le nobili tradizioni della sua gente modesta e dignitosa, semplice e fattiva. Tradizioni che risalgono ai tempi migliori della sua libera vita cittadina, quando nei secoli d’oro del medioevo, uno dei suoi più illustri figli, il Cardinale Gentile Partino, faceva risuonare glorioso il nome d’Italia e della sua piccola terra natale in Ungheria, ove in veste di ambasciatore supremo del pontefice di Roma risolveva una spinosa questione di successione al trono, e dettava con romana maestà, sapienti leggi, che ben presto entrarono far parte del CORPUS IURIS UNGARICI. Allora il montefiorano Gentile scrisse certamente una delle più interessanti pagine della storia del cardinalato e della stessa storia della Chiesa.
E questi due grandi figli, ha voluto Montefiore ricongiungere in un ricordo solo per perpetuarne i nomi ad incitamento ed esempio. Nel suo bel tempio francescano, che serba tante memorie dell’illustre Cardinale di fronte al monumento quattrocentesco, dalla linea maestosa ed austera, Montefiore ha voluto degnamente comporre le ceneri di Adolfo De Carolis, di questo meraviglioso artista del nostro tempo, che tanta poesia di luce e di colori trasse anche dalla sua terra natale, mai da lui negletta o dimenticata. Qui nella pace serena dalla morte, le glorie presenti e remote di Montefiore si riavvicinano in una sublime continuità ideale. VINCENZO VAGNONI

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VAGNONI VINCENZO DESCRIVE L’ANIMO DI ADOLFO DE CAROLIS ARTISTA DI MONTEFIORE DELL’ASO

L’ANIMO DI ADOLFO DE CAROLIS Laboriosità, qualità artistica, cultura, amore alla patria, idealità cristiane.
Scritto da mons. VAGNONI Vincenzo attorno al 1950 anno in cui le spoglie dell’artista furono traslate dal Verano alla chiesa di S. Francesco di Montefiore, sua patria. Il De Carolis pittore, incisore, illustratore e fotografo ha creato molte opere \\\
Quando accostiamo una personalità nella pienezza del suo agire, facilmente ci illudiamo che quanto riesce ad attuare sia qualche cosa di spontaneo, che non costi alcuna fatica e sia venuto su per naturale sviluppo, senza che ci siano stati esercizio di volontà, contrarietà, lotte e vittorie.
Così possiamo aver pensato del nostro artista marchigiano, quando per trent’anni popolava i suoi cartoni di figure, le sue tele di colori e bulinava il legno come se fosse della cera.
Non si spiega De Carolis nella sua molteplice attività artistica solo col genio naturale, né solo con una assiduità di studio o con un metodo di eclettismo acquisito.
Ecco perché più che una rivisitazione della sua opera artistica, più che una rievocazione delle polemiche suscitate dalla sua attività, convenga meglio studiare De Carolis, per quanto possibile, nella sua struttura intima, nella profondità del suo animo, e nell’uso della sua vita, per meglio valorizzare la sua opera.
Penso che ogni forma d’arte che si rispetti e riesca ad affermarsi, nasce da un animo che intimamente viva, pensi e, fortemente amando, senta il bisogno di fantasticare forme ideali, e, nelle sue nobili passioni, gioisca e soffra. Senza questo credo che non possa nascere l’artista. Tutto ciò è strettamente personale, né può essere in qualche modo ripetuto.
Se l’artista può sentire ammirazione ed attrattiva per qualche genio, ne ammira ed inconsapevolmente ne assorbe quanto rientra nell’ambito del proprio sentire e concepire. Così quando i critici hanno preso a dire che De Carolis sia un prerafaellita, scolaro del Costa, del Burne e del Rossetti, o, nella seconda delle maniere, nipote di Michelangelo, penso che si sbagli sempre, in quanto De Carolis è inconfondibile per la sua personalità artistica, per il suo modo personale di concepire e di sentire:
Così non comprendo le altre critiche che vogliono confinare l’arte del De Carolis ad un’arte decorativa ornamentale di saloni per la figurazione e per il colorito, quando si hanno concezioni organiche quali quelle della decorazione del salone del Palazzo del Podestà in Bologna ed una efficacia di disegno ed anche di colorito, da far sembrare vivente la moltitudine di figure affrescate oltre che a Bologna anche a Padova, a Pisa e ad Arezzo, quando un’arte incarna un’idea, vivifica nobili passioni, alte forme di ideali ed è capace di eccitare l’ammirazione e suscitare sentimenti dall’artista vissuti, quest’arte ha colto nel segno, ha raggiunto il suo scopo, si impone alla stima e sfida il tempo.
Il suddividere il prodotto artistico in categorie, in maniere, per cui uno cerca più di ammirare il colorito che il disegno, la macchia più che il chiaroscuro, tutto ciò è modo di chi non arriva alle alte concezioni artistiche ed alla potenza dell’estrinsecazione.
Mi rendo ragione come l’arte del De Carolis ancora rimanga vivissima, come interpretazione della natura, specie della terra picena, come visione di una bellezza, e come rievocazione di grandi epoche storiche, sia come simbolismo del progresso e della civiltà.
A questo punto per assolvere il ruolo stabilito, è spontaneo che ci si domandi quali qualità naturali abbia posseduto il De Carolis.
Un grande amore alla propria terra.
Si nota che ha vissuto intensamente la sua infanzia nell’ambito degli affetti famigliari nella varietà del vasto orizzonte montefiorese, nella policromia delle aurore e dei tramonti, nel profumo dei pini e delle acacie abbondanti in quella terra. Sentiva il bisogno di risalire di anno in annoi quei colli, di ritornare al suo paese natio, di rivivere sentimenti, affetti e fantasie di fanciullo.-
E diveniva cultore della storia di queste nostre terre picene. Così scriveva nel 1923: “ Amor di terra natia mi riconduce sulle colline cuprensi. Ecco siedo presso l’aranceto di S. Andrea dinanzi al mare che mormora, mentre le nuvole passano sul cielo. Rivedo intorno le piante e i fiori, gli animali e gli uomini e le opere: ricalco la terra che ricopre i sepolcreti millenari. Questo pino giovinetto discende da quelli donde trasse con la bipenne i sostegni per farne la capanna l’umbro spoletano …… Lungo il lido tra le selve dei pini ardono le are della dea, la madre antica venuta dall’oriente (Cupra): e passano le grandi vele diomedee e forse liburniche. Sotto il velo delle apparenze mutevoli come le onde, vive eterna l’anima dei nostri padri: eroi venuti dall’Ellade, Achei astati, fondatori di civiltà, aratori, pastori.”
La sua mente pensosa in tal modo rievocava l’antica storia della sua terra, mentre la sua fantasia mutava in soggetto d’arte la bellezza e le armonie di quei luoghi.
Ardeva di fiamma pura per la sua famiglia
Attaccato fortemente ai suoi da cui aveva avuto origine, sentiva di dover vivere per i suoi. Scriveva Guido Guida: “La sua famiglia che tanta eredità di luce ha avuto da Lui, gli diede il sorriso. Ancora oggi i ritratti della sua indimenticabile compagna e dei suoi figli diletti, sono fra le cose più belle che da Lui ci vennero: egli aveva nella sua arte raccolto il profondo amore di padre e di sposo. Una delle sue più grandi preoccupazioni fu quella di lasciare ai suoi figli una vita dignitosa. Non potendo lasciare ricchezze, perché anima francescana, amava e praticava la povertà, lasciava ai suoi la rettitudine, la sua generosità.”
Angelo Conti così rende testimonianza alla sua probità e rettitudine morale: “ Visse modestamente, in un silenzioso raccoglimento, tra la famiglia e la scuola, lontano da ogni vanità, incapace d’orgoglio, lieto del successo degli altri, e d’una fede inestinguibile e d’un amore per l’arte, che lo rapiva al settimo cielo.. Sentiva ogni giorno più forte il disgusto per la mediocrità ufficiale che lo circondava.
Sopportava che le piccole persone delle cattedre e degli uffici del suo tempo pronunziassero il nome dei grandi artisti, osassero giudicare i filosofi e i poeti, si occupassero dei monumenti, mentre sappiamo che per quella gente l’arte, il pensiero, la virtù non possono avere significato. Chi non sa che in pieno regime massonico, la civile attività non poteva condurre se non a raggiungere gli onori ed aumentare i guadagni?
Chi pensava allora alla felicità della vita semplice, chi pensava ancora ad accettare, con gioia, il dolore, come un dono di Dio? Adolfo De Carolis era assai vicino ai pochi che così sentivano naturalmente e senza alcuna fatica; e faceva a Lui una grande pena gli ambiziosi che non aspirano ad altro, se non ad arrivare dove la morte li annullerà e senza che di essi rimanga traccia nella riconoscenza umana …
In mezzo a questi schiavi dell’egoismo, instancabili cercatori della ricchezza, il nostro pittore visse povero, contento della sua cattedra all’Istituto delle Belle Arti, degli affreschi che dipinse soltanto per la felicità di parlare al popolo d’Italia, dalle volte e dalle pareti dei palazzi pubblici, secondo le tradizioni della più bella pittura italiana.”
Proprio in questa rettitudine di vita per tale generosità d’animo, per tanta eredità d’affetti, abbiamo con molta gioia veduto la preoccupazione di molti nel dare una monumentale sepoltura alla salma dell’Artista, il bisogno di esaltare la sua mirabile figura da parte di una eletta schiera di discepoli ammiratori amici e la nota di mestizia da parte dei suoi famigliari.
Ha avuto il gusto del bello, la potenza di una fantasia contenuta,
la facilità di una estrinsecazione vigorosa.
Ancora una volta mi permetto di citare una pagina di Angelo Conti che ci rivela come il Maestro sentisse la sua arte ed in qual modo entrasse nel suo animo l’altrui artistico lavoro.: “ Una mattina Egli mi aspettava sulla porta (dell’Accademia delle Belle Arti, vicina alla piazza San Marco, dove era allora il S. Matteo di Michelangelo) ed andammo subito a vedere la statua che esce dalla pietra … “Qui – mi diceva – assistiamo veramente alla nascita della forma”. La creazione avveniva davanti ai nostri occhi; l’informe diventava cosa viva e parlava nel potente linguaggio del genio. “Qual mistero è l’arte!” mi diceva Adolfo De Carolis. Intanto da quella figura, che sembrava spezzasse la roccia ed uscire alla vita, il giovane pittore aveva avuto il primo insegnamento: quello di tacere dinanzi al capolavoro, aspettando che il ritmo si svegliasse nel suo spirito.
Nulla nell’arte d’un altro artista può e deve entrare in noi: ma in noi, può davanti alle sue opere, nascere una vita nuova, vite innumerevoli come quelle che si destano nella nostra anima davanti all’alba, quando alla prima luce, sugli alberi gli uccelli cominciano piano a cantare. Cominciano piano; poi crescono i richiami e le voci si rispondono e il sole non è uscito ancora. Prima che spunti, è già nato in noi.
Che cosa passa dal sole negli uccellini che all’alba si svegliano e cantano? Niente altro che una vibrazione. Così, dal capolavoro entra nella nostra anima una voce che ci chiama e diventa, nella parte più profonda del nostro spirito, uno stato nuovo della nostra immaginazione. Ad ogni visione dell’opera perfetta, come davanti ai grandi spettacoli della natura, se siamo nel pieno possesso delle facoltà del pensiero, la vibrazione si rinnoverà in noi, e darà luogo ad altri ritmi, ad una sempre diversa ricchezza spirituale. Così davanti ad ogni alba o tramonto, i nostri occhi vedranno sempre lontananze non immaginate e non mai sognate armonie.”
Con questa descrizione sul modo di sentire l’arte si concepisce come il De Carolis si commovesse di fronte alla natura o davanti all’altrui capolavoro e sentisse il bisogno di una contemplazione profonda. Sopraggiungevano poi in Lui la riflessione, lo studio ed il sogno di una concezione artistica personale che lo tormentava sino alla gioia della estrinsecazione con i quadri da cavalletto col bianco e nero della xilografia o con gli affreschi delle grandi pareti.
Abbiamo voluto accennare, per comprender meglio l’artista, alle mirabili e caratteristiche doti avute dal naturale temperamento.
E’ doveroso ora aggiungere cosa egli abbia voluto aggiungere ai naturali doni con la sua volontà nella piena consapevolezza della sua potenza artistica.
Aveva una volontà ferrea: ha voluto lavorare per trenta anni in un modo veramente febbrile, si da esaurire in breve tempo le sue preziose energie. Metteva in pratica il detto dantesco: “Il perder tempo a chi più sa più spiace”. Persino nelle altezze delle armature, vicino alle volte che affrescava, trovava un angolo per il suo raccoglimento, per il suo studio. Amava la sua solitudine per essere pronto a fissare quella interna sollecitudine artistica, che era in lui fecondissima.
E quando s’accorse che il corpo non obbediva più prontamente, sentì più prepotente il bisogno del tempo che veniva a mancargli. Scrive Remigio Strinati: “ Il maestro era giù da parecchio tempo: viveva, più del consueto, appartato, e non possiamo dimenticare la contenuta desolazione del suo accento, quando rallegrandoci noi con lui del matrimonio della sua figliuola, ci rispose: “ Si, sono lieto, ma i figli che crescono, i figli che se ne vanno, significa che noi si cammina, che si scende, per non risalire più!”
Sentiva la dignità del maestro, la gioia dell’amicizia.
“Era titolare della Cattedra di decorazione nell’Istituto di Belle Arti a Roma: aveva una cattedra alla Scuola Industriale al Viale Manzoni: erano le sue lezioni, diciamo quelle cattedratiche; ché le altre, quelle che non nascono dall’esempio, quelle che sorgono da un sorriso, da una parola furono innumerevoli: lo sanno Diego Pettinelli, Bruno da Osimo, ed altri che piangono con noi il grande scomparso” (Strinati)
“Era modesto e buono, lavoratore instancabile,prodigo di consigli e di ammaestramenti ai giovani che lo consideravano come un maestro.
I calmi silenzi ed il sorriso dell’Artista incoraggiavano alla confidenza. Gli si diventava amici sin dalla prima ora della conoscenza, ma senza mai,anche dopo anni, perdere con Lui quel senso di riguardo attento e scrupoloso che serba all’amicizia il valore di una elevazione morale” (Orano).
Ebbe sete di una profonda cultura.
La sua cultura pari alla nobiltà della sua arte, era meravigliosa. E Bacchiani Alessandro dice che possedeva una cultura letteraria non frequente tra gli artisti, quasi tutti autodidatti. La consuetudine con i poeti come Gabriele D’Annunzio, Pascoli, Ettore Romagnoli ne aveva affinato il naturale gusto ed estesa la conoscenza dei grandi maestri, di modo che Egli riuscì scrittore efficacissimo, pur serbandosi, secondo l’indole propria, semplice e schietto.
Fortemente sentiva l’amor di Patria.
Non il semplice amore naturale per la propria terra, per il paese di nascita, che racchiude l’età più preziosa e bella, e suscita i fantasmi più vivi ed immaginosi ed i sentimenti più forti e delicati, quali quelli che nascono nell’ambiente della Famiglia; ma ha sentito l’amore per la sua Italia, con tutta la storia più volte millenaria, con tutte le sue glorie e le sue sciagure, con le bellezze della natura e dell’arte, con l’esuberanza della genialità come è sgorgata in Leonardo e Michelangelo, con le sue tradizioni di feste, e col suo patrimonio di scienza e di civiltà.
Non si spiegano altrimenti i suoi cicli pittorici di Ascoli , Pisa, Arezzo, Bologna.
Nell’agosto del 1907 invitato dagli Ascolani a chiudere la mostra dei disegni di Giuseppe Sacconi, porgeva auguri alla Patria nostra, parlando del Monumento a Vittorio.
Coltivò le cristiane idealità.
Lo afferma il Guida: “In una casa così benedetta, non poteva mancare il culto della nostra religione. Entrava nei giorni felici ( e furono molti nella vita semplice di Adolfo De Carolis) nello studio chiaro del Maestro il Cantico di san Francesco , l’amore agli uccelli, alla musica, ai libri dei poeti, alla beneficenza, alla moderazione: quel saper ricreare Dio in tutte le cose belle e buone …
Fu servo di Dio ai suoi piedi con la fronte rivolta all’azzurro che lo cinse in vita, lo accoglie nell’eternità. Anche Angelo Conti delinea De Carolis come anima religiosa, anzi in una lettera indirizzata a lui sente il bisogno di ringraziarlo per il bene ricevuto: “ La tua xilografia (aveva ricevuto in dono Dante Adriaticus ) è ormai vicino qui a me ed io m’inchino più volte al giorno a questa rappresentazione dell’estasi, dinanzi alla verità. Leggo adesso il Vangelo di san Giovanni e cerco anch’io la Via, la Verità e la Vita. Tu mi hai aiutato. Te ne rendo grazie”.
Bruno da Osimo, nell’incontro fortunato avuto con lui in occasione delle onoranze dell’Artista del 20 agosto <1928>, mi diceva con tanto piacere di avere incontrato qualche volta Adolfo uscire di chiesa dove si aveva fatto la Comunione ad invocare l’aiuto dall’alto per le sue concezioni artistiche.
Ed è abituale nelle sue lettere l’invocazione o il suo ringraziamento a Dio. Dopo la vittoria nel concorso per affrescare le pareti della chiesa di san Francesco in Ravenna, così si esprime: “Urania mi ha aiutato, siano rese grazie al cielo, questo è stato un atto di umiltà e spero che mi varrà per il futuro: Signore non sono degno” questa è stata la mia preghiera dopo l’annunzio”.
In una lettera mostra un delicato sentimento in occasione della festa del santo Natale: “Finisco di provare questo santino (incideva l’immagine di san Francesco) e te la mando perché ti sia di qualche consolazione nel santo Natale. Così mi preparo alla grande immagine, per la quale ancora: Non sum dignus “ ed inviando copia delle illustrazioni dei Fioretti così chiude la lettera: “E che il Creatore di tutte le Creature ti protegga dalla superbia. Pax et bonum “.
D’altra parte la sua bontà, la sua modestia, la sua rettitudine e generosità, non le so comprendere che come frutto di un ambiente rischiarato e riscaldato da tradizione eminentemente cristiana. Tutto quanto è stato detto sopra viene vivacemente confermato dalla sua produzione artistica religiosa.
In questo genere di arte non troviamo semplicemente le risorse delle abilità acquisite e della naturale genialità: il soggetto viene studiato e rivissuto per poi essere eternato nelle più alte espressioni dell’arte. Lo constateremo quando si riporterà un brano della illustrazione da Lui fatta al progetto presentato per la decorazione della chiesa di san Francesco in Ravenna.
Riesce il nostro artista a provocare in noi, con la sua arte religiosa il senso di pietà, uno stato mistico dell’unione dell’anima con Dio? Il Conti a tal proposito scrive: “ Penso con profonda commozione alla sua opera, che credo fra le ultime, se non l’ultima: il Crocefisso di San Ginesio. Il fondo sembra ispirato da una miniatura medioevale, mentre la figura di Gesù esprime l’apparire della forma nell’età che si rinnova. In mezzo ai cartigli scritti e al canto dell’antica preghiera, il corpo del Martire è trasfigurato dal nuovo sentimento religioso, che non sa rinunziare alla linea della bellezza. Il gesto del Dio che perdona, pare rivolto al pittore che si raccomanda alla sua misericordia, come se quella fosse l’estrema sua ora. Si pensa, col sonetto di Michelangelo a quell’Amor divino “ch’aperse, a prender noi, ‘n croce le braccia” .
C’è stato qualcuno, il quale ha fatto obbiezione per l’arte religiosa del De Carolis, quasi che non gli competa il titolo di artista cristiano e ci sono stati altri che mal sanno spiegare un’arte cristiana con un’altra che voglion definire paganeggiante.
Già si è risposto alla prima forma di critica. Quanto alla seconda, penso che il presentare, come scrive Paolo Orano, l’immagine delle creature possenti e floride, mascolinità dall’ampio torace, tipi della casa feconda, della gente contadina robusta tenace, della razza sana ed eroica, non sia paganesimo, come credo che non sia paganesimo il sognare un’umanità perfetta, che possa ordinatamente godere dei beni della vita e della terra.
E’ certo che nell’arte religiosa il De Carolis presenta diversi aspetti. Mentre nei Fioretti rispecchia così chiaramente la ingenua semplicità, negli episodi della vita di san Francesco, nella Basilica del santo a Padova, raggiunge un’ineffabilità espressiva affidata a un sentimento religioso, in quadri storico religiosi fa prevalere la sua concezione più meditata, più storico ontologica a seconda del soggetto: come nella posa della prima pietra di san Petronio o nel trionfo del Cristianesimo dove in tre piani si affacciano la chiesa discente, docente e trionfante.
Ma dove De Carolis fa vedere la sua completa profonda concezione cristiana e la sua commossa adesione ad essa è nella relazione con cui accompagna i cartoni danteschi per la decorazione della chiesa di san Francesco in Ravenna. Qui si colgono tanto la sua potenza creativa, come il suo sublime lirismo: “ Mi parve che fosse necessario – egli scriveva – conservare in qualche modo l’unità e la simmetria dantesche, quasi che nelle pareti della grande navata, dovesse essere dovunque presente l’onnipotenza di Dio, che in ogni parte impera. Bisognava che alla parte delle pene fosse contrapposta quella della luce celeste, che di fronte all’eterno dolore splendesse la rosa sempiterna, che tra l’inferno ed il paradiso corresse come sopra un ponte il cammino graduale verso la perfezione e fosse rappresentata nel Paradiso terrestre la processione mistica. Nell’abside l’Empireo, la rosa del Beati, dove nel mezzo sta Maria la Mediatrice, non solo per Dante, ma per tutti gli uomini, che solo per mezzo della Vergine possono aspirare a vedere Iddio”.
Peccato che questa concezione artistica non sia stata fissata dal suo sicuro pennello nella chiesa di san Francesco. Allora avremmo avuto la gara di tre Geni in tre piani diversi: san Tommaso d’Aquino con la sua Summa Teologica; Dante con la Divina Commedia; De Carolis con i suoi affreschi.
Quando si arriva a queste altezze e potenzialità, ci si domanda come mai De Carolis, che ha raggiunto forme così complesse ed organiche di arte, abbia avuto volontà e trovato tempo per coltivare la xilografia.
Essa è un’arte delle più difficili: ha a sua disposizione poco spazio, fornito dal legno del bosso, come pennello una sgorbia, come colore il semplice bianco e nero. Come raggiungere l’espressività artistica? Solo i sicuri di sé, coloro che hanno il disegno preciso, potenzialità fantastica, sicurezza e padronanza di mano, costoro riescono. Prendono la superficie di bosso quasi foglio di carta, dove fissare un sogno d’arte.
L’avere coltivato la xilografia ed averla portata ad altezze artistiche, tutto ciò depone per la potenza di arte del De Carolis. Lo Strinati conviene nello stesso concetto: “Il disegno regge tutta l’opera del De Carolis: largo potentissimo disegno, dagli sprazzi michelangioleschi, conca argine, forma e fantasia epiche, a rievocazioni non periture. Forse fu codesta padronanza, di cui aveva coscienza piena, che determinò in Lui il culto del bianco e nero nella esclusiva espressione xilografica.
Penso che dopo questa rievocazione più psicologica che storica di Adolfo De Carolis, possiamo meglio comprenderlo come uomo e come artista e meglio possiamo rispondere alla domanda che sorge spontanea: “ Tramonterà questa stella dell’arte, Adolfo De Carolis?”
Non si può immaginare. C’è dinanzi una personalità alta per nobiltà di sentire e di agire: c’è un cuore che si è consumato per l’amore della sua arte, della sua famiglia, della sua terra. Ci sono le eloquenti opere che parlano di Lui, dalle chiese, dalla sale, dai quadri, dai legni, dai libri. C’è il culto di amore e di ammirazione da parte dei suoi di famiglia, dei suoi discepoli, dei suoi ammiratori ed amici.
Anche Michele Biancole, critico esigente, che ha fatto le sue riserve sull’arte del De Carolis, quando, alla conclusione di una commemorazione chiude il suo dire, deve pur confessare quanto segue: “ De Carolis assorbì nel suo spirito squisitamente eclettico tutti i motivi dell’arte e della poesia del suo tempo.
Realismo ingenuo, allegorismo anglo- costiano, titanismo michelangiolesco, storicismo poetizzato, primitivismo religioso costituiscono gli schemi della sua personalità, che sfugge ad ogni definizione assoluta, ma che nell’analisi scopre lati bellissimi di temperamento re d’intelletto, tali che l’arte italiana può registrarli ed esaltarli”.
Altro articolo che lo stesso mons. Vincenzo Vagnoni scrisse per “La Voce delle Marche”
“ Montefiore dell’Aso: Stanno per avere inizio le manifestazioni celebrative del 1974 concittadino pittore e scrittore Adolfo De Carolis nel primo centenario della nascita”, nell’anno centenario della nascita dell’artista.

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Coperture in legno sopra tombe nelle necropoli. Archeologia. Interpretazioni.

Archeo. Copertura in legno su tombe protostoriche. Fori a terra e resti di pali di legno da interpretare. Sopra la sede di giacenza dell’estinto si può ipotizzare una copertura sopraelevata in legno, come elemento ornamentale con funzioni di onore, riservatezza, fascino in vario stile di geometria spaziale. La sovrastruttura era retta da pilastrini, pali di legno di cui si riscontrano i fori nel suolo.
La tomba cosiddetta “cappuccina” è un tipo di sepoltura costruita accostando a doppio spiovente coppie di tegole, ottenendo così una struttura a sezione triangolare detta poi a capanna. A volte nel vertice del triangolo e ai lati erano sistemate tegole. In uno degli stili è possibile che due pali facessero parte di un monumento a baldacchino, composto da colonne lignee che sostenevano una copertura o tetto, costruito per proteggere sepolture di una certa rilevanza.
Diverso è il riscontro di corpi entro cassa lignea interrata.

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BLASI MARIO PARROCO EVANGELIZZA – terza domenica di avvento anno C

Terza domenica di Avvento anno C – Blasi Mario Parroco
“Le folle interrogavano Giovanni dicendo: che cosa dobbiamo fare?”. Giovanni Battista, uomo povero e austero, annuncia un battesimo di penitenza, cioè di morte al peccato. Tutti accorrono a lui per cambiare vita. Solo i sacerdoti, gli scribi e i farisei e i maestri della legge non vanno.
La salvezza è un dono dell’amore di Dio; è un dono per tutti, ma chiede di essere accolto. Il Vangelo è un annuncio gioioso che deve entrare nel cuore. Il dono della salvezza esige però che si pongano azioni concrete di conversione della vita per trasformare la società dove il bene dell’uomo sia posto al di sopra di ogni legge.
I soldati e i pubblicani, considerati persone impure e disprezzate da tutti, vanno. Vogliono cambiare vita per ottenere la salvezza.
Il Battista dà a tutti una risposta. I pubblicani si devono attenere alle tariffe stabilite; i soldati non devono maltrattare né estorcere nulla a nessuno, si devono accontentare delle loro paghe.
Giovanni Battista opera in una società in cui molte persone vivono in condizioni disumane: non hanno né vestiti né nutrimento sufficienti. Egli esorta tutti a condividere i beni perché ogni uomo deve avere il necessario per vivere con dignità.
Quando nel mondo tante persone non hanno il necessario per vivere, la società del benessere deve essere messa radicalmente in questione.
Giovanni Battista chiede che sia donato ciò che non è necessario. Tutti devono avere i beni materiali per trascorrere i giorni con dignità. Ogni uomo è chiamato a condividere con amore ciò che è e ciò che possiede.
“Lui battezzerà in Spirito Santo e fuoco “. Il Messia ha il compito di immergere l’uomo nella vita divina. Con la forza del Suo Spirito d’amore, dona all’uomo la condizione divina e toglie dal cuore tutte quelle realtà di male che lo rendono schiavo.
L’uomo è chiamato a vivere come figlio di Dio Padre per imitarlo nella Sua bontà. Ogni uomo è chiamato a vivere in armonia con Dio, con i suoi simili e con tutto il creato. Deve creare una sinfonia di rapporti per la gioia di tutti.
“Gioisci, figlia di Sion, esulta Israele, e rallegrati con tutto il cuore. Re d’Israele è il Signore in mezzo a te!”.

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