PAOLO VI PAPA MONTINI ricordato nel 1999 da mons. Gennaro Franceschetti arcivescovo di Fermo per il liceo ” Paolo VI “

IL PAPA MONTINI E GLI STUDENTI

Scritto dall’arcivescovo di Fermo GENNARO FRANCESCHETTI bresciano

Possono essere molte le motivazioni che giustificano l’intitolazione di una scuola a Papa Paolo VI. Un liceo classico, in particolare, ne presenta in abbondanza. Perché il primo motivo, di natura biografica, può essere ad esempio il fatto che il giovane Giovanni Battista Montini aveva frequentato, e con profitto, un Liceo classico come il Liceo “Cesare Arici” di Brescia, allora retto dai Padri Gesuiti.

Montini ne fu alunno dal 1911 al 1916, dopo avervi trascorso anche gli anni della Scuola elementare, media e del ginnasio inferiore. La salute cagionevole lo costrinse però ad una frequenza irregolare, tanto da doversi a un certo momento ritirare dalle lezioni in classe. In seguito si presentò a sostenere gli esami come privatista in un altro liceo bresciano. La preparazione conseguita in quegli anni restò come base della sua cultura generale, in tutte le fasi della sua vita; e non era un mistero, per chi lo conosceva e frequentava, l’amore che conservò per quella scuola e per le persone che la incarnavano.

A questa prima motivazione segue una seconda, di ordine più generale, che è legata alla particolare vicinanza di Montini al mondo e alle problematiche dei giovani, in particolare di quelli inseriti nella scuola e nell’Università.

Dal 1925 al 1933 infatti egli fu l’Assistente spirituale degli studenti universitari cattolici, raggruppati nella loro Federazione, la FUCI. Con loro il futuro Paolo VI trascorse momenti intensi di studio, di approfondimento spirituale, di svago ricreativo; soprattutto creò e cementò amicizie profonde, vere, destinate a durare una vita. Restano di quel periodo non solo gli scritti su volumi e riviste, ma anche delle belle fotografie che lo ritraggono sorridente in compagnia di giovani studenti, in occasione di Convegni e Congressi in varie parti d’Italia.

Il contatto col mondo della scuola venne particolarmente curato da Giovanni Battista Montini nel periodo dell’episcopato a Milano (1955-1963), quando ebbe modo di visitare licei e istituti di vario tipo e di incontrare molti docenti e studenti.

Fu dialogando con loro, in occasione della “Giornata della scuola”, celebrata il 12 gennaio 1963 a Milano, che egli esplicitò quello che intendeva come “uomo scolastico”: “L’uomo che opera per mettere in esercizio le sue facoltà implicite ed assopite, l’uomo che scopre se stesso e l’universo che gli sta d’intorno, l’uomo che si organizza per studiare, per imparare, per raggiungere la sua completa formazione, potremmo dire che è l’uomo scolastico, che si presenta al Signore, lo riconosce principio e fine della sua esistenza, e fa della religione la somma energia, la somma consolazione, la somma dignità della vita. E’ come un fiore che si apre al sole. ” (Discorsi e scritti milanesi, Istituto Paolo Vl – Studium, Brescia- Roma 1977, nr. 2120).

Naturalmente, nel periodo del suo pontificato romano (1963- 1978), i contatti diretti con gli studenti e i professori diminuirono, visti i nuovi e svariati impegni e pensieri che affollavano la mente di Paolo VI. Ma egli non si dimenticò del suo liceo bresciano, quell’Arici che volle incontrare in udienza con i docenti, gli studenti e i genitori nel 1968: e fu un incontro particolarmente affettuoso, intessuto di ricordi e di considerazioni.

Un terzo e ultimo motivo ci porta oggi ad associare facilmente il nome di Paolo VI a quello della scuola; ed è il suo rapporto con la cultura, col mondo degli intellettuali e degli artisti. Convinto, come era, che poeti e artisti siano i più profondi testimoni del loro tempo, Montini non temeva di preferire la loro testimonianza a quella di altre categorie professionali, anche specializzate nell’analisi della realtà contemporanea, come quelle dei tecnocrati, dei sociologi, dei politici.

Di conseguenza ci furono, negli anni milanesi prima e in quelli romani poi, i frequenti incontri, il dialogo e l’ascolto di diverse e significative voci della cultura contemporanea: basterà ricordare il solo nome del filosofo francese Jacques Maritain, così apprezzato e ascoltato da Montini, per sintetizzare questo fecondo rapporto dialogico con la cultura contemporanea. Un’ultima considerazione. La sicurezza del rapporto con gli intellettuali derivava a Paolo VI dalla sua formazione culturale, sostanziata di vaste e articolate letture, che l’avevano di conseguenza portato a consolidare le sue conoscenze letterarie, filosofiche, storiche, oltre che teologiche. Si trattava di letture e di acquisizioni culturali originate dalla scuola e poi possedute ininterrottamente per tutta la vita: tra queste merita un posto di rilievo il suo amore per Dante Alighieri. Il giovane Montini prima, e l’anziano Paolo VI poi, l’avevano fatto oggetto di una frequentazione assidua, e di amorevole condivisione interiore.

E’ appunto una serie di reminiscenze dantesche che ci porta in un’atmosfera di grande attualità, perché legate al motivo storico e spirituale del Giubileo. Infatti, nel 1975, nel corso dell’Anno Santo, Paolo VI si ricordò in diverse occasioni di quei passi della Divina Commedia che alludono al primo Giubileo della storia della Chiesa, quello voluto da Bonifacio VIII nel 1300. Ne è esempio “l’esercito molto” dei pellegrini in cammino verso San Pietro, da lui ricordato nell’apertura dell’anno giubilare, e che è tratto da un passo del XVIII canto Inferno; oppure la definizione che Montini stesso diede di Dante, come di colui che “ha interamente collocato il suo itinerario ultraterreno nella Settimana Santa dello stesso 1300”.

Memori dell’insegnamento di Paolo VI, possiamo anche noi ora, insieme a questa scuola <Liceo Paolo VI a Fermo>, metterci sulle sue orme ed avviarci, pellegrini, verso l’Anno Santo del 2000.Auguro, inoltre, ai genitori, ai docenti, agli studenti, a tutte le persone che si spendono per il Liceo “Paolo VI”, di saper guardare a Giovanni Battista Montini come a un modello di studioso e di maestro, e di maturare quella capacità di attenzione a “ogni uomo” e a “tutto l’uomo”, “in solidarietà”, indicata autorevolmente al mondo intero nell’Enciclica Populorum Progressio.

 

talla Divina Commedia che alludono al primo Giubileo della storia della Chiesa, quello voluto da Bonifacio VIII nel 1300. Ne è esempio “l’esercito molto” dei pellegrini in cammino verso San Pietro, da lui ricordato nell’apertura dell’anno giubilare, e che è tratto da un passo del XVIII canto Inferno; oppure la definizione che Montini stesso diede di Dante, come di colui che “ha interamente collocato il suo itinerario ultraterreno nella Settimana Santa dello stesso 1300”.

Memori dell’insegnamento di Paolo VI, possiamo anche noi ora, insieme a questa scuola <Liceo Paolo VI a Fermo>, metterci sulle sue orme ed avviarci, pellegrini, verso l’Anno Santo del 2000.Auguro, inoltre, ai genitori, ai docenti, agli studenti, a tutte le persone che si spendono per il Liceo “Paolo VI”, di saper guardare a Giovanni Battista Montini come a un modello di studioso e di maestro, e di maturare quella capacità di attenzione a “ogni uomo” e a “tutto l’uomo”, “in solidarietà”, indicata autorevolmente al mondo intero nell’Enciclica Populorum Progressio.

 

Iorozato e ascoltato da Montini, per sintetizzare questo fecondo rapporto dialogico con la cultura contemporanea. Un’ultima considerazione. La sicurezza del rapporto con gli intellettuali derivava a Paolo VI dalla sua formazione culturale, sostanziata di vaste e articolate letture, che l’avevano di conseguenza portato a consolidare le sue conoscenze letterarie, filosofiche, storiche, oltre che teologiche. Si trattava di letture e di acquisizioni culturali originate dalla scuola e poi possedute ininterrottamente per tutta la vita: tra queste merita un posto di rilievo il suo amore per Dante Alighieri. Il giovane Montini prima, e l’anziano Paolo VI poi, l’avevano fatto oggetto di una frequentazione assidua, e di amorevole condivisione interiore.

E’ appunto una serie di reminiscenze dantesche che ci porta in un’atmosfera di grande attualità, perché legate al motivo storico e spirituale del Giubileo. Infatti, nel 1975, nel corso dell’Anno Santo, Paolo VI si ricordò in diverse occasioni di quei passi della Divina Commedia che alludono al primo Giubileo della storia della Chiesa, quello voluto da Bonifacio VIII nel 1300. Ne è esempio “l’esercito molto” dei pellegrini in cammino verso San Pietro, da lui ricordato nell’apertura dell’anno giubilare, e che è tratto da un passo del XVIII canto Inferno; oppure la definizione che Montini stesso diede di Dante, come di colui che “ha interamente collocato il suo itinerario ultraterreno nella Settimana Santa dello stesso 1300”.

Memori dell’insegnamento di Paolo VI, possiamo anche noi ora, insieme a questa scuola <Liceo Paolo VI a Fermo>, metterci sulle sue orme ed avviarci, pellegrini, verso l’Anno Santo del 2000.Auguro, inoltre, ai genitori, ai docenti, agli studenti, a tutte le persone che si spendono per il Liceo “Paolo VI”, di saper guardare a Giovanni Battista Montini come a un modello di studioso e di maestro, e di maturare quella capacità di attenzione a “ogni uomo” e a “tutto l’uomo”, “in solidarietà”, indicata autorevolmente al mondo intero nell’Enciclica Populorum Progressio.

 

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NEPI ANTONIO ALUNNO POI DOCENTE AL LICEO CLASSICO PAOLO VI A FERMO ricordi

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<digitazione Vesprini Albino>

 

Vtor d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

Vati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

 

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CINTIO PROF. ALBERTO LICEO CLASSICO PAOLO VI FERMO trentennio di novità scientifiche

CINTIO.prof. Alberto scienziato docente 1974- 1982 TRENT’ANNI DEL LICEO “PAOLO VI”

Trent’anni sono passati dall’apertura dei liceo “Paolo VI” e trent’anni anche dalla mia laurea. Una generazione. L’impressione più grande e le riflessioni più profonde ti colpiscono quando entri in classe a metà settembre, dai un’occhiata ai cognomi dei nuovi alunni e scopri – ormai è un fenomeno che si ripete da qualche anno – che ci sono cognomi già …… “maneggiati”. Fai un primo appello, ti soffermi un po’ su quel cognome, scruti bene l’interessato/a, ritorni indietro con la memoria e in base al noto proverbio “qualis pater, talis filius”, (in senso fisico mendeliano s’intende!), ricostruisci volti già visti, episodi, storie e vicende di vita scolastica che erano in un cantuccio della memoria, completamente sommerse da volti, episodi, storie e vicende successive. E’ passata una generazione.

E che dire poi dei programmi che si svolgevano allora a confronto con quelli che si svolgono oggi? Qui è passata più di una generazione, perché nel campo scientifico le scoperte e le relative applicazioni sono state veramente tante. A malapena si riesce a star dietro a tutte le novità, le nuove problematiche, i nuovi ‘perché’ e i nuovi dubbi che le riviste scientifiche o i libri attuali ci presentano. Ricordo di aver letto che in questo secolo la ‘Vita media” di una teoria scientifica è di soli 6 mesi!

Nel primo capitolo del suo libro “Falsi Profeti: inganni ed errori nella scienza “ ( Ediz. Zanichelli 1991. Alexandel Kohn così si esprime:  “Quando un certa scienza attraverso u periodo di sviluppo in cui le leggi e i concetti chiaramente definiti sono generalmente accettati è difficile ingannare. Quando invece una scienza entra in un periodo di sviluppo in cui i concetti si trasformano, i modelli vecchi vengono meno ed altri nuovi modelli tentano di affermarsi, questo settore della scienza diventa più vulnerabili alle falsificazioni. L’obiettività diventa difficile perfino per gli specialisti. Una scienza in fase di rivoluzione stimola nuove ipotesi. In queste fasi di transizione ci sono coloro che hanno il coraggio di proporre disinteressatamente ipotesi poco popolare, ma ci sono anche gli opportunisti che non esitano a inquinare il campo con dati inventati o con risultati di esperimenti che non sono mai stati effettuati. In un ‘atmosfera di cambiamento e di trasformazione come quello che abbiamo visto negli ultimi decenni, non sono sporadici i casi di falsificazione e di contraffazione”.

A cavallo del secolo fervevano gli esperimenti sulle nuove radiazioni più o meno deviate da campi magnetici e di conseguenza, si susseguivano le teorie sulla costituzione dell’atomo. ‘Nell’ansia di fare verifiche e controprove vennero “scoperte” anche nuove radiazioni inesistenti, come i raggi N e i raggi mitogenetici. In tempi più recenti tutti ricordiamo le vicende legate alla fusione fredda, le grandi illusioni di avere tanta energia pulita a buon mercato e le tante… delusioni e smentite successive.

A questa visione un po’ pessimista o per lo meno deludente, almeno per chi guarda alla scienza come al santuario della verità, fa eco Federico Di Trocchio in “Le bugie della scienza: perché e come gli scienziati imbrogliano” (Mondadori 1993): “I grandi difficilmente imbrogliano per interesse personale e anche quando lo fanno salvaguardano sempre l’interesse della scienza, anzi quasi sempre le loro ‘truffe” costituiscono un contributo essenziale alla verità scientifica. Esistono insomma delle falsificazioni innocenti e quasi obbligatorie. Da Popper in poi sappiamo che l’unica cosa veramente certa che si possa dire a proposito di una teoria è che essa prima o poi verrà dimostrata falsa”.

A proposito di Popper vale la pena di citare un brano preso dal suo libro “Scienza e filosofia: problemi e scopi della scienza ” (ed. CED, Milano, 1998, pag. 145): “Così non solo la scienza, ma anche il singolo scienziato, comincia e finisce con i problemi e progredisce lottando con problemi: anche lo scienziato singolo, infatti, dovrebbe cominciare e finire col suo problema e lottare con esso.

Inoltre, mentre lotta, non solo imparerà a comprendere il problema, ma in effetti lo cambierà. La teoria della conoscenza – e specialmente la teoria della conoscenza scientifica – deve costantemente fare i conti con la minaccia di un paradosso, che può capitarci addosso quando entrino in collisione le due tesi seguenti.

Prima tesi: la nostra conoscenza è vasta e imponente. Non solo conosciamo innumerevoli dettagli e fatti provvisti di significato pratico, ma anche molte teorie e molte spiegazioni che ci permettono di penetrare, con sorprendente chiarezza, negli oggetti vivi e morti, compresi noi stessi e le società umane.

Seconda tesi: la nostra ignoranza è illimitata e opprimente. Ogni, nuovo pezzettino di conoscenza che acquistiamo serve ad aprirci gli occhi, una volta di più, sulla vastità della nostra ignoranza.

Entrambe queste tesi sono vere e la loro collisione caratterizza la nostra situazione conoscitiva. La tensione tra la nostra conoscenza e la nostra ignoranza è decisiva per  l’accrescimento della conoscenza: ispira il progresso della conoscenza e determina le frontiere, sempre avanzanti, della conoscenza La parola ‘‘problema” non è che un altro nome per questa tensione o, piuttosto, un nome che denota i diversi e svariati casi in cui questa, tensione si concreta. Un problema sorge, cresce e diventa significativo solo grazie al fallimento dei nostri tentativi di risolverlo: per metterla diversamente, il solo modo per arrivare a conoscere un problema è imparare dai nostri errori”. Non vorrei che queste brevissime citazioni in riflessioni portino gli ex alunni a dire: ma allora non è più vero quello che ci hanno insegnato, pure i nuovi a dire: non vale la pena di studiare così tanto perché tra 6 mesi queste teorie saranno tramontate! Voglio soltanto mettervi dinanzi a un scienza viva, come è vivo l’uomo nella sua curiosità e inventiva, capace di generare intuizioni e tecniche sempre nuove. Fin dai tempi preistorici la rondine appoggiato il suo nido sulla casa dell’uomo, ritornandovi ogni anno a primavera. Il nido è rimasto sempre lo stesso, mentre la casa dell’uomo è diventato un nido sempre più ampio ed accogliente. Mi sono divertito a confrontare i programmi di allora con quelli di oggi. Altro che l’evoluzione della casa dalla preistoria ad oggi! In alcune discipline sono duplicati o addirittura triplicati, ma le ore di lezione (guarda caso!) sono rimaste le stesse. Per cui oggi occorre fare in fretta e, nonostante il computer e le videocassette e libri a colori, alla fine… il programma rimane largamente incompiuto. Nemesi e gioia della nuova generazione!

I programmi che hanno subito un incremento maggiore sono quelli di biologia. Da una parte il microscopio elettronico, dall’altra lo sviluppo della biochimica, hanno permesso una conoscenza più approfondita dei processi metabolici, per cui il capitolo sulla cellula è diventato un trattato, senza parlare della glicofisi e della fotosintesi divise in tante fasi e catalizzate da una serie interminabile di enzimi dai nomi strani e complessi. Anche la genetica e la citogenetica, che allora erano quasi solo limitate alle leggi mendeliane, oggi si aprono a frontiere nuove e cariche di conseguenza, come la ingegneria genetica, il DNA ricombinante, le tecniche transgeniche, la clonazione con tutti i risvolti riguardanti la fecondazione assistita.

A coronamento di tutto questo oggi i testi scolastici parlano, ed è necessario, di bioetica perché questa “‘energia vitale” non sia lasciata alla mercé del primo sperimentatore o del primo politico. Che non succeda come per la energia, nucleare, ove la prima applicazione è stata una bomba atomica! Sempre valido a questo proposito il saggio “Evoluzione creatrice” (1907) di H. Bergson (1859-1941), in cui delinea una visione globale della realtà, raggiungibile solo attraverso l’intuizione.

Anche in fisica, astrofisica e chimica, raffermarsi della meccanica quantistica ha costituito un salto non solo quantitativo, ma soprattutto qualitativo e addirittura rivoluzionario.

Diceva Einstein che “il problema quantistico è così straordinariamente importante, e difficile, che dovrebbe essere al centro dell’attenzione di tutti”. E qui mi affido alla penna del prof. G. C. Ghirardi, ordinario di Istituzioni di Fisica teorica presso I’Università di Trieste, che ha scritto un affascinante quanto completo, chiaro ed esauriente libro sull’argomento: “Un’occhiata alle carte di Dio: gli interrogativi che la scienza moderna pone all’uomo” (Ed. Saggiatore, Milano, 1997’ pagg. 420). Riporto qui la prima pagina della introduzione.

“Il grande fisico e premio Nobel Isidor Isaac Rabi ha scritto una frase, a mio parere, estremamente significativa: “E’ un vero peccato che il grande pubblico non abbia alcuna possibilità di farsi un’idea della grande eccitazione, intellettuale ed emotiva, che accompagna le ricerche nei campi più avanzati detta fisica”. Questa asserzione risulta particolarmente appropriata allorché la si intenda riferita, alla teoria che sta alla base della moderna concezione scientifica del mondo, la meccanica quantistica, per almeno due motivi.

Innanzi tutto questa teoria, per varie ragioni che illustrerò ripetutamente in questo libro, non è riuscita a superare in modo significativo la stretta cerchia degli addetti ai lavori. Questo fatto risulta in una qualche misura stupefacente ove si tenga presente che la stragrande maggioranza delle più rilevanti innovazioni tecnologiche (nel bene e nel male) dei tempi recenti sono basate su effetti specificamente quantistici e che nuovi incredibili sviluppi si stanno già delineando. Un elenco anche parziale risulterebbe interminabile; basterà menzionare l’energia atomica e nucleare, i semiconduttori e molti altri recenti ritrovati. I nostri orologi digitali, il computer con cui sto scrivendo questo testo, e tanti altri strumenti che tutti usiamo ogni giorno sono stati resi possibili solo dalla più profonda conoscenza del reale che è nata dalla elaborazione di questa splendida teoria. Come vedremo, siamo alla soglia di nuovi sbalorditivi sviluppi: per la prima volta, utilizzando genuini effetti quantistica, disponiamo di un metodo assolutamente inviolabile per inviare messaggi cifrati e sembra sia imminente la realizzazione di un sogno ipotizzato alcuni anni fa dal premio Nobel  Richard Phillips Feynman, cioè la costruzione di computers quantomeccanici, che dovrebbero consentire un salto qualitativo nella tecnologia di questi strumenti, un salto oggi non ancora esattamente valutabile, ma certamente rivoluzionario. Il secondo motivo che rende auspicabile una più diffusa conoscenza degli elementi di base del nuovo formalismo deriva dalla estrema rilevanza concettuale e filosofica di questa grande conquista del pensiero contemporaneo.

Ciò rende ancor più sorprendente il fatto che mentre varie costruzioni teoriche siano filtrate e in una qualche misura siano diventate parte integrante del patrimonio culturale comune (basterà ricordare l’evoluzionismo darwiniano, la teoria dell’ereditarietà, la genetica e la teoria della relatività sia ristretta che generale), nulla di simile sia avvenuto per questa rivoluzione concettuale che caratterizza ormai da tre quarti di secolo la scienza moderna. Questa mancata assimilazione di un evento culturalmente straordinario risulta particolarmente seria e viene ad aggravare la tragica frattura, tipica dei tempi moderni, tra le cosiddette due culture, quella umanistica e quella scientifica. Infatti, uno degli aspetti più specifici della teoria consiste nel fatto che essa, più di ogni altro schema scientifico elaborato dall’uomo nel suo lungo cammino verso la comprensione del reale, pone dei problemi di notevole rilevanza e assolutamente peculiari sul pigino concettuale ed epistemologico e suscita degli interrogativi che non possono non interessare ogni persona che abbia curiosità, intellettuale, e che rendono assai appropriata una riflessione critica da parte di umanisti e filosofi”.

Prof. Alberto Cintio scienziato sacerdote

Liceo Classico Paolo VI Fermo      Docente di Scienze Naturali dall’anno scolastico 1974/75 al 1981/82

\\\\digitazione Albino Vesprini \\\\\

 

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CUPIDIO GIORGIO DOCENTE NEL LICEO PAOLO VI A FERMO (FM) 1968- 1999 ricordi

PROF. CUPIDIO D. GIORGIO docente al LICEO GINNASIO PAOLO VI

La nuova sede del Seminario Arcivescovile di Fermo, edificata ai piedi del colle Vissiano, periferia nord di Fermo in contrada Tirassegno, fu inaugurata con l’anno scolastico 1956/57. Essa accolse un gran numero di ragazzi e di giovani che frequentavano i corsi di studi di Ginnasio (5 anni), di Liceo (3 anni) e di teologia (5 anni) in scuole che erano allora “meramente private”.

In seguito i superiori e le autorità diocesane, nella loro sollecitudine di voler mettere tutti gli alunni nelle migliori condizioni di poter fare liberamente, senza condizionamenti di sorta, la loro scelta di vita, decisero di garantire i loro studi, e dunque il loro avvenire, facendo seguire ad essi itinerari di istruzione che, riconosciuti dallo Stato, assicuravano titoli di studio equipollenti a quelli degli alunni delle scuole statali. Come già era stato ottenuto per la Scuoia Media, si procedette ad inoltrare al Ministero della Pubblica Istruzione richiesta di “riconoscimento legale” del Liceo Ginnasio. Una volta che gli ispettori ebbero verificato l’esistenza di tutte le condizioni richieste dalla legge, tale riconoscimento venne accordato dal Ministero con Decreto del 30.5.68 per le classi IV Ginnasio e I Liceo, e con Decreto del 1.6.70 per le altre classi.

Il Liceo Ginnasio venne intitolato “Paolo VI” come atto di omaggio a questo Papa ed in ricordo di una sua graditissima visita al Seminario ed alla scuola, visita avvenuta un anno prima della sua elevazione al soglio pontificio, quando il card. Giovanni Battista Montini era Arcivescovo di Milano.

Nel frattempo correvano anni di profonda trasformazione nella vita sociale ed ecclesiale. L’innalzamento dell’obbligo scolastico, la riforma della Scuola Media, la sua istituzione anche nei centri minori, l’incipiente ‘secolarizzazione’ portano ad una consistente diminuzione del numero degli alunni ‘interni’ del Liceo “Paolo VI”.

Si poteva assistere indifferenti al venire meno di tale benemerita realtà culturale e formativa? Essa poteva vantare una plurisecolare tradizione (essendo stato fondato il Seminario di Fermo nella seconda metà del XVI secolo) e figure di docenti particolarmente significative; in essa si erano formati, insieme a tanti sacerdoti, moltissimi altri che nelle varie professioni della vita, sociale, come anche in campo culturale ed artistico, hanno saputo dare una buona prova di sé.

L’Arcivescovo di Fermo Mons. Cleto Bellucci volle che rimanesse e che accogliesse alunni ‘esterni’, ragazzi e ragazze. In tal modo il Liceo “Paolo VI” si mise a disposizione di quelle famiglie che volevano scegliere per i propri figli una seria preparazione culturale, un sereno ambiente educativo ed un orientamento di vita cristianamente ispirato.

Ciò è avvenuto ad iniziare dall’anno scolastico 1975/76. Da allora il Liceo “Paolo VI” prosegue il suo cammino, sempre in attesa che lo Stato, oltre che la legalità dei titoli di studio, riconosca anche la funzione e il servizio pubblico che essa svolge e la renda veramente “paritaria”, garantendo così alle famiglie una effettiva libertà di scelta.

In questi anni, come è proprio di una realtà scolastica che vuole essere stimolante per la crescita umana e culturale degli alunni, si sono realizzate molteplici iniziative, alcune delle quali vengono di seguito segnalate ed illustrate, per la loro particolare valenza e significato.

CELEBRAZIONE DEL BIMILLENARIO VIRGILIANO (aprile-maggio 1982). Essa si è articolata in due momenti:

* il primo, attuato in collaborazione con il Liceo classico st. “A. Caro”, il Liceo Scientifico “Calzecchi Onesti” e l’Istituto Magistrale legalmente riconosciuto “Bambin Gesù” di Fermo, ha offerto alle scuole e alla cittadinanza, nella Sala dei Ritratti del Comune di Fermo, una serie di conferenze sull’argomento, tenute da illustri docenti universitari.

* il secondo, consistente in un Concorso a premi indetto dal liceo “Paolo VI” per gli alunni delle scuole della provincia di Ascoli Piceno. La finalità di tale iniziativa è stata quella di sollecitare l’interesse per il grande poeta latino; dare, a quanti nella scuola ne illustrano o ne studiano la figura e l’opera, la possibilità di far conoscere la loro attività, partecipando così alle celebrazioni virgiliane che numerose si svolgevano in Italia e all’estero. Buona è stata l’accoglienza dell’iniziativa da parte dei docenti e degli alunni; ottima la risposta di cui fa fede il numero dei lavori pervenuti: n. 138 per il 2° ciclo delle Scuole Elementari, n. 78 per la Scuola Media, n. 21 per il biennio delle Scuole Superiori e n. 27 per l’Istituto d’Arte e il Liceo Artistico.

Tali lavori (disegni, composizioni pittoriche e plastiche) furono esposti in una Mostra nel Palazzo dei Priori di. Fermo e la premiazione avvenne con una pubblica manifestazione.

A questo proposito vale la pena di ricordare che ad un similare Concorso per studenti della provincia, bandito in contemporanea dal liceo Ginnasio st. “G. Leopardi” di S. Benedetto del Tronto, risultarono vincitori tre alunni del Liceo “Paolo VI” e precisamente: per il tema sull’Eneide di Virgilio (biennio):

1° premio, FORTUNA SONIA, 2° premio: CALCINARO TANIA.

Per il tema sul Bimillenario Virgiliano (triennio): 1° premio: LATTANZI LUCA.

ESPERIENZA DEL «MONTE ORE”

Per alcuni anni scolastici (dal 1975/76 al 1981/82) è stato realizzato un particolare tipo di sperimentazione didattica, il cosiddetto ‘‘Monte Ore” che può essere visto, ora, a distanza di tempo, come una anticipazione di quello che l’autonomia consentirà agli istituti scolastici e una risposta alla domanda di autogestione e di ampliamento degli interessi e dei campi di attività che proviene dai giovani.

Da dicembre ad aprile, al mattino, ogni settimana, venivano destinate due ore di lezione ad attività elettive, alle quali gli studenti, divisi in gruppi ma superando le distinzioni tra classi, si dedicavano da protagonisti, insieme ad un docente con funzione di assistente. Tali attività sono state, ad esempio: educazione musicale (canto, coro polifonico, audizione e studio dei vari generi di produzione musicale), educazione artistica (disegno, pittura, fotografia); ricerche ed approfondimenti su problematiche di attualità; giornalismo; cineforum.

Nel contempo in un pomeriggio della settimana si poteva ritornare a scuola per esercitazioni pratiche su pianoforte ed altri strumenti musicali, o per un corso pratico di dattilografia.

Il Coro polifonico dei Liceo “Paolo VI” partecipò il 25/4/80 al “1° CORESCANT MARCHE” Rassegna dei Cori Marchigiani, nel Teatro “Gentile” di Fabriano. L’attività del Coro polifonico permane tuttora.

SETTIMANA VERDE

Un’esperienza didattica sul territorio, una settimana di lezioni un po’ diversa, chiamata “verde” in voluta contrapposizione con il “bianco” di settimane organizzate all’insegna del consumismo e del “tutto compreso”. Un modo diverso, interessante e coinvolgente per iniziare l’anno scolastico nel mese di Settembre.

Ci si trasferisce a Montefortino, alle falde dei monti Sibillini: in montagna, certo, ma per studiare: una “sei-giorni” di scuola sul territorio. Tra gli obiettivi di questa iniziativa, riproposta ogni cinque anni, innanzitutto la socializzazione, ma anche un programma denso e specifico, a contatto con la gente e gli operatori del luogo: i rappresentanti del CAI, della ‘Comunità dei Sibillini’, del WWF, della ‘Lega Ambiente’, del ‘Dinos’ e della‘Fenice’ di Amandola. Si passa da lezioni sulla genesi, la stratigrafia, la tettonica dei Sibillini a quelle sulla flora e la fauna. Particolare attenzione viene riservata ai vari aspetti della storia e della civiltà di questo particolare habitat: religiosità, tradizioni popolari, folclore, urbanistica, arte. Tra una sfacchinata cerebrale e l’altra, scarponi da trekking e calzettoni di lana spessa ai piedi, ci si arrampica su per il Vettore, gettando uno sguardo verso il tenebroso lago di Pilato, o ci si inoltra nell’orrido della gola dell’Infernaccio, o si risale alle sorgenti dell’Ambro.

SPERIMENTAZIONE

*Fin dal 1975/76 è stato introdotto nelle classi ginnasiali l’insegnamento della Storia dell’arte come materia complementare. Si è voluto così fare in modo che gli alunni potessero studiare e conoscere il mondo e la civiltà antica contemporaneamente sotto tutti gli aspetti: linguaggio, letteratura, storia e arte.

* Frazionamento, anche nelle classi ginnasiali, della cattedra di Lettere in modo che impegnasse distinta- mente due docenti, uno per le Lettere Moderne, l’altro per le Lettere Classiche, anticipando così quello che normalmente avviene nelle classi di Liceo, facendo sì che le competenze e le professionalità specifiche dei docenti favorissero l’apprendimento da parte degli alunni.

* Con l’anno scolastico 1993/94 il Ministero della Pubblica Istruzione ha autorizzato un progetto di Sperimentazione (ex art, 3 DPR 419/74) che ha arricchito l’offerta formativa della scuola per gli alunni.

Tale sperimentazione infatti ha significato:

  1. l’introduzione di nuovi Programmi di Matematica e Informatica nelle classi IV e V Ginnasio, con innalzamento da 2 a 4 delle ore di lezione settimanali ad esse dedicato;
  2. la prosecuzione dello studio della Lingua e Civiltà Inglese nel triennio liceale, assegnando a questa disciplina due ore settimanali di lezione.

In tal modo la scuola ha aperto i programmi scolastici alle nuove esigenze degli alunni ed ai mutamenti della società. Viene infatti, almeno in parte, colmato il divario, prima fortemente sentito dai diplomati, nei confronti delle competenze che in campo scientifico i loro coetanei acquisivano in altri istituti e nei confronti delle incessanti innovazioni tecnologiche che la società informatizzata presenta; mentre vengono potenziati l’esercizio e il possesso di quello strumento così importante di comunicazione rappresentato oggi dell’Inglese.

*Questo aspetto dell’offerta formativa è stato di recente ulteriormente arricchito: con l’anno scolastico 1999/2000 è funzionante un’Aula Multimediale, con collegamento Internet.

RAPPORTO SCUOLA-FAMIGLIE

Il Liceo “Paolo VI” da quando ha aperto a tutti la possibilità di iscriversi ad esso, si è proposto come “comunità educante” che si  costruisce insieme, in stretta collaborazione tra insegnanti, studenti e genitori. Espressione e strumento di tale coinvolgimento non sono stati soltanto gli Organi Collegiali, presenti sin dall’inizio in tutte le loro modalità, ma particolarmente significativi sono stati e sono gli incontri periodici che si realizzano con le famiglie. E qui non si vuole soltanto far cenno ai colloqui individuali dei genitori con gli insegnanti per una valutazione personalizzata del processo educativo e scolastico dei singoli alunni, ma ad intere giornate trascorse insieme, due ogni anno: una nella fase iniziale dell’attività didattica, e l’altra al termine delle lezioni.

Tali giornate di incontro scuola-famiglie prevedono tempi sufficientemente ampi di stare insieme, compreso il pranzo, favorendo così una migliore conoscenza reciproca e possibilità di comunicazione. Inoltre, sollecitati dalle relazioni fatte da esperti dell’educazione e da operatori scolastici, attraverso un sereno dialogo ed un aperto confronto di idee, ci si aiuta scambievolmente nel difficile compito di educatori.

SPETTACOLO DI FINE ANNO SCOLASTICO

La giornata di incontro che si tiene al termine delle lezioni è sempre allietata, nel pomeriggio, da uno spettacolo interamente preparato e realizzato dagli studenti. Sono due ore di spettacolo in cui si alternano brani polifonici eseguiti con loro canti e musica moderni, scene tratte da opere di autori classici, riletture esilaranti di gite o attività didattiche, sketch, balletti e danze. L’intrattenimento è garantito, come anche la soddisfazione di vedere con quanta creatività e bravura gli alunni sanno animare spazi e tempi che, sia pur legati e scaturenti dalla vita scolastica, sono, nel linguaggio burocratico, definiti ‘extrascolastici’.

ASSOCIAZIONE EX ALUNNI

Il giorno 27 marzo 1999 si è ufficialmente costituita l’Associazione degli (ex) alunni del Liceo Ginnasio “Paolo VI”. Promotori e animatori di essa sono stati alunni che hanno conseguito la maturità negli anni più recenti e che hanno raccolto e concretizzato quella che era un’aspirazione ed un’esigenza sentita da tanti.

Il ‘logo’ scelto è “S O F I A”: conoscere le proprie origini per progettare un futuro ‘umano ’. Nel programma vengono indicate le finalità:

-Non troncare i ponti con il mondo umanistico. Molti hanno intrapreso facoltà universitarie diverse da Lettere-Filosofia e possono verosimilmente correre il ‘rischio’ di allontanarsi da una dimensione in cui affondano e si alimentano le nostre radici di uomini, di italiani e di europei.

-Creare un punto di incontro, per molti aspetti di “riscoperta”, con persone che hanno condiviso la stessa (dis)avventura: un’esperienza che ha segnato la propria formazione culturale e umana.

-Realizzare uno spazio di dialogo su alcuni temi fondanti e ineludibili per la persona umana: progetto di per sé arduo, oggi reso ancor più difficile da una imperante atmosfera di bombardamento informatico-informativo e di generale velocizzazione, che, oltre ad indubbi vantaggi, induce anche a non avere spazi o momenti di riflessione.”

Tale programma è stato presentato ed illustrato il 27 marzo 1999; sempre in quella occasione è stato steso ed approvato lo Statuto; dopo il saluto di S.E. l’Arcivescovo Mons. Gennaro Franceschetti, il prof. Enrico Manzoni, docente all’Università Cattolica di Milano e curatore degli scritti di papa Montini presso l’Istituto “Paolo VI” di Brescia, ha tenuto una interessante relazione su “Giovan Battista Montini: un sacerdote tra gli studenti”.

Anno 1999                                                        Prof. Don Giorgio

\\\\digitazione di Albino Vesprini\\\\

 

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Blasi Mario Parroco evangelizza Assunzione Maria anima e corpo

Risorta a vita immortale Maria Assunta con corpo trasformato

ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE (Lc. 1,39-56) 

“Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”

Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, ma Elisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Maria perché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

(da A.Maggi: “Non ancora Madonna”)

MARIA ASSUNTA IN CIELO

ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE (Lc. 1,39-56)

 

“Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”

Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, maElisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Mariaperché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

(da A.Maggi: “Non ancora Madonna”)

MARIA ASSUNTA IN CIELO

ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE (Lc. 1,39-56)

 

“Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”

Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, maElisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Mariaperché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

(da A.Maggi: “Non ancora Madonna”)

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ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE (Lc. 1,39-56)

 

“Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”

Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, maElisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Mariaperché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

(da A.Maggi: “Non ancora Madonna”)

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“Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”

Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, maElisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Mariaperché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

(da A.Maggi: “Non ancora Madonna”)

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“Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”

Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, maElisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Mariaperché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

(da A.Maggi: “Non ancora Madonna”)

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“Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”

Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, maElisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Mariaperché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

(da A.Maggi: “Non ancora Madonna”)

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“Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”

Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, maElisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Mariaperché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

(da A.Maggi: “Non ancora Madonna”)

MARIA ASSUNTA IN CIELO

ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE (Lc. 1,39-56)

 

“Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”

Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, maElisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Mariaperché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

(da A.Maggi: “Non ancora Madonna”)

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ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE (Lc. 1,39-56)

 

“Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”

Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, maElisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Mariaperché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

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MARIA ASSUNTA IN CIELO

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Blasi Mario Parroco annuncia Vangelo domenica XX tempo ordinario anno C . Luca 14,1 ss

Don Mario Blasi evangelizza

XXII TEMPO ORDINARIO   (Lc.14,7-14)

“Quando offri un pranzo o una cena non invitare i tuoi amici…”

Per entrare nel Regno di Dio è necessario diventare piccoli, bisognosi di tutto.

Chi si riconosce piccolo e debole davanti al Signore accoglie la Sua parola.

La Parola di Dio porta molto frutto se accolta in un cuore onesto e buono.

Chi è pieno di sé non entra nel Regno.

Gesù, in giorno di sabato, è invitato a casa di uno dei capi dei farisei. “Gesù è stato invitato sovente in casa dei farisei che lo hanno messo in guardia contro le insidie di Erode. (Alcuni farisei si avvicinarono a dirgli: “Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere” (Lc.13,3). Gesù è disposto a portare la salvezza anche a loro”.

Gesù entra nella casa del fariseo per partecipare al banchetto del sabato. “E’ un dovere dell’uomo in giorno di sabato mangiare e bere o di restare seduto e di studiare”. Gesù è l’invitato di onore e lo sguardo di tutti è su di Lui. Gli ospiti arrivano e si mettono a tavola. Gesù li osserva mentre tentano di occupare i primi posti, quelli più vicini al padrone di casa. Allora Gesù prende la parola e dà una regola di prudenza. “Non è prudente occupare il primo posto quandosi arriva per il pranzo. Potrebbe venire chi gode di maggiore reputazione; le persone più in vista arrivano all’ultimo momento!”.

Gesù si rivolge anche a colui che lo ha invitato. Il banchetto è espressione di un amore generoso! Non si deve invitare solo quelli che sono uniti da legami di amicizia, di parentela, di affinità perché essi potranno e vorranno restituire l’invito.

“L’invito non deve mai essere compensato con un altro invito, il  dono con un altro dono. Bisogna dare senza sperare niente in contraccambio. Il pasto deve significare un amore che attende la contropartita”.

“Sarai Beato”

E’ felice chi invita quelli che non possono ricambiare il dono ricevuto. Gesù esorta ad invitare i poveri: storpi, zoppi e ciechi, gli esclusi dalle cerimonie del tempio. Gesù accorda la Sua attenzione e il Suo Amore proprio a queste persone che sono le più povere dei poveri.

I benefattori di queste persone sono beati: Dio sarà la loro ricompensa.

«Su questa terra siamo di passaggio: tendiamo verso l’alto»

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Blasi Mario Parroco annuncio Vangelo domenica XXI tempo ordinario anni C . Luca 13 22 ss

XXI TEMPO ORDINARIO (Lc.13,22-30)

“Sforzatevi di entrare per la porta stretta”.

Mentre Gesù è in cammino per Gerusalemme, un tale gli chiede se sono pochi quelli che si salvano.

La risposta di Gesù non è teorica, ma pratica. Per Gesù è importante sapere quello che bisogna fare per trovarsi nel numero degli eletti. Bisogna sforzarsi di vivere con onestà: onesti nel lavoro e nei rapporti umani.

La regione misteriosa dell’aldilà, dove i giusti vivono dopo la morte, è paragonata ad una sala di banchetto, ma la porta di ingresso è stretta. Nessun ritardo è ammesso, nessuna esitazione è possibile. C’è calca e la porta è stretta. I ritardatari, quelli che non accettano subito il messaggio di amore di Gesù, possono rimanere fuori. La possibilità di entrare nella sala del banchetto svanisce.

E’ inutile allora bussare alla porta; è invano insistere: “Signore, aprici”

“Il Signore di casa… risponderà: “Non vi conosco, non so di dove siete”.

Ignorare l’origine di qualcuno significa non conoscerlo affatto.

Quelli rimasti fuori proclamano i titoli che ritengono più efficaci per ottenere di essere ammessi nella sala del banchetto. “I richiedenti, cioè i giudei, sono stati concittadini e familiari del Padrone di casa: “Abbiamo mangiato e bevuto alla tua presenza”.

Molti giudei del tempo di Gesù hanno ascoltato il messaggio di amore di Gesù, ma non lo hanno messo in pratica.

Anche oggi, per essere discepoli di Gesù, non basta avere la conoscenza del Suo messaggio, ma bisogna viverlo. Bisogna conoscerlo, amarlo e viverlo. Chi lo conosce  e non lo vive va verso la non-vita.

Via da me tutti voi che operate l’iniquità”.

La situazione  dei ritardatari è drammatica: essere davanti alla porta e non prendere parte al banchetto. E’ umiliante vedere nella sala persone gioiose, ed essere fuori “dove è pianto e stridore di denti”.

La via sicura che porta alla salvezza è quella della bontà accolta e ridonata.

Gesù avverte gli uomini di tutti i tempi: “La porta stretta, non diventi chiusa”.

Il cristiano conformi la propria condotta all’insegnamento di Gesù!

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Blasi Mario Parroco annuncia il Vangelo nella XX domenica tempo ordinario anno C Luca 12, 49

XX TEMPO ORDINARIO (Lc.12,49-57)

“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra”.

Gesù parla alla gente perché prenda una decisione di fronte al Suo messaggio. Il popolo deve capire i segni dei tempi.

Che fuoco è quello di Gesù? E’ il fuoco del Suo Amore.

Giovanni Battista aveva detto che Gesù avrebbe battezzato in Spirito Santo e fuoco. Il messaggio di Gesù provoca divisioni tra gli uomini: alcuni accettano e altri rifiutano. Dio dona pace a coloro che rispondono all’appello di amore di Gesù, ma la salvezza di Gesù non si realizza nell’uomo che non accoglie la Sua bontà.

La Buona Novella divide. Gesù non mette pace ma spada. Egli annuncia divisione all’interno di una famiglia: il padre e la madre da una parte e il figlio e la figlia dall’altra.

Gesù pensa già ad una situazione di persecuzione in cui i giovani hanno accolto il Vangelo mentre i loro genitori conservano la religione tradizionale.

La fede in Gesù comporta anche delle lacerazioni in famiglia. La pace che Gesù porta non è la facile tranquillità in  cui gli uomini sempre sognano di adagiarsi:  è la pace del Regno di Dio in cui si entra attraverso la croce.

Gesù esorta il Suo discepolo ad impegnarsi a camminare dietro di Lui e a rompere tutti i legami con il mondo della cattiveria.

Gesù è entrato nella gloria del Padre attraverso la passione, la morte e la Risurrezione. Ad ogni discepolo Gesù propone lo stesso percorso.

“La maestà del Figlio di Dio non nasconde la Sua umanità: né la Sua Passione, né l’ardore con cui è andato fino in fondo alla Sua missione. Questa umanità stessa è per lui oggi la forza e il modello del credente.

Credere in Gesù vuol dire sceglierlo per Signore, prendere posizione in questo mondo lacerato, tra la fede e la incredulità, fino a morirne come il Maestro”.

L’oggi della salvezza è iniziato con Gesù, chi lo accoglie con amore vive, chi non lo accoglie si incammina verso una vita non degna dell’uomo figlio di Dio.

 

LA LEGGE DEL SIGNORE    è la nostra gioia

CHI IMPARA A PREGARE IMPARA A VIVERE

sa è per lui oggi la forza e il modello del credente.

Credere in Gesù vuol dire sceglierlo per Signore, prendere posizione in questo mondo lacerato, tra la fede e la incredulità, fino a morirne come il Maestro”.

L’oggi della salvezza è iniziato con Gesù, chi lo accoglie con amore vive, chi non lo accoglie si incammina verso una vita non degna dell’uomo figlio di Dio.

 

LA LEGGE DEL SIGNORE

è la nostra gioia

CHI IMPARA A PREGARE IMPARA A VIVERE

XX TEMPO ORDINARIO (Lc.12,49-57)

“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra”.

Gesù parla alla gente perché prenda una decisione di fronte al Suo messaggio. Il popolo deve capire i segni dei tempi.

Che fuoco è quello di Gesù? E’ il fuoco del Suo Amore.

Giovanni Battista aveva detto che Gesù avrebbe battezzato in Spirito Santo e fuoco. Il messaggio di Gesù provoca divisioni tra gli uomini: alcuni accettano e altri rifiutano. Dio dona pace a coloro che rispondono all’appello di amore di Gesù, ma la salvezza di Gesù non si realizza nell’uomo che non accoglie la Sua bontà.

La Buona Novella divide. Gesù non mette pace ma spada. Egli annuncia divisione all’interno di una famiglia: il padre e la madre da una parte e il figlio e la figlia dall’altra.

Gesù pensa già ad una situazione di persecuzione in cui i giovani hanno accolto il Vangelo mentre i loro genitori conservano la religione tradizionale.

La fede in Gesù comporta anche delle lacerazioni in famiglia. La pace che Gesù porta non è la facile tranquillità in  cui gli uomini sempre sognano di adagiarsi:  è la pace del Regno di Dio in cui si entra attraverso la croce.

Gesù esorta il Suo discepolo ad impegnarsi a camminare dietro di Lui e a rompere tutti i legami con il mondo della cattiveria.

Gesù è entrato nella gloria del Padre attraverso la passione, la morte e la Risurrezione. Ad ogni discepolo Gesù propone lo stesso percorso.

“La maestà del Figlio di Dio non nasconde la Sua umanità: né la SuaPassione, né l’ardore con cui è andato fino in fondo alla Sua missione. Questa umanità stessa è per lui oggi la forza e il modello del credente.

Credere in Gesù vuol dire sceglierlo per Signore, prendere posizione in questo mondo lacerato, tra la fede e la incredulità, fino a morirne come il Maestro”.

L’oggi della salvezza è iniziato con Gesù, chi lo accoglie con amore vive, chi non lo accoglie si incammina verso una vita non degna dell’uomo figlio di Dio.

 

LA LEGGE DEL SIGNORE

è la nostra gioia

CHI IMPARA A PREGARE IMPARA A VIVERE

XX TEMPO ORDINARIO (Lc.12,49-57)

“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra”.

Gesù parla alla gente perché prenda una decisione di fronte al Suo messaggio. Il popolo deve capire i segni dei tempi.

Che fuoco è quello di Gesù? E’ il fuoco del Suo Amore.

Giovanni Battista aveva detto che Gesù avrebbe battezzato in Spirito Santo e fuoco. Il messaggio di Gesù provoca divisioni tra gli uomini: alcuni accettano e altri rifiutano. Dio dona pace a coloro che rispondono all’appello di amore di Gesù, ma la salvezza di Gesù non si realizza nell’uomo che non accoglie la Sua bontà.

La Buona Novella divide. Gesù non mette pace ma spada. Egli annuncia divisione all’interno di una famiglia: il padre e la madre da una parte e il figlio e la figlia dall’altra.

Gesù pensa già ad una situazione di persecuzione in cui i giovani hanno accolto il Vangelo mentre i loro genitori conservano la religione tradizionale.

La fede in Gesù comporta anche delle lacerazioni in famiglia. La pace che Gesù porta non è la facile tranquillità in  cui gli uomini sempre sognano di adagiarsi:  è la pace del Regno di Dio in cui si entra attraverso la croce.

Gesù esorta il Suo discepolo ad impegnarsi a camminare dietro di Lui e a rompere tutti i legami con il mondo della cattiveria.

Gesù è entrato nella gloria del Padre attraverso la passione, la morte e la Risurrezione. Ad ogni discepolo Gesù propone lo stesso percorso.

“La maestà del Figlio di Dio non nasconde la Sua umanità: né la SuaPassione, né l’ardore con cui è andato fino in fondo alla Sua missione. Questa umanità stessa è per lui oggi la forza e il modello del credente.

Credere in Gesù vuol dire sceglierlo per Signore, prendere posizione in questo mondo lacerato, tra la fede e la incredulità, fino a morirne come il Maestro”.

L’oggi della salvezza è iniziato con Gesù, chi lo accoglie con amore vive, chi non lo accoglie si incammina verso una vita non degna dell’uomo figlio di Dio.

 

LA LEGGE DEL SIGNORE

è la nostra gioia

CHI IMPARA A PREGARE IMPARA A VIVERE

XX TEMPO ORDINARIO (Lc.12,49-57)

“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra”.

Gesù parla alla gente perché prenda una decisione di fronte al Suo messaggio. Il popolo deve capire i segni dei tempi.

Che fuoco è quello di Gesù? E’ il fuoco del Suo Amore.

Giovanni Battista aveva detto che Gesù avrebbe battezzato in Spirito Santo e fuoco. Il messaggio di Gesù provoca divisioni tra gli uomini: alcuni accettano e altri rifiutano. Dio dona pace a coloro che rispondono all’appello di amore di Gesù, ma la salvezza di Gesù non si realizza nell’uomo che non accoglie la Sua bontà.

La Buona Novella divide. Gesù non mette pace ma spada. Egli annuncia divisione all’interno di una famiglia: il padre e la madre da una parte e il figlio e la figlia dall’altra.

Gesù pensa già ad una situazione di persecuzione in cui i giovani hanno accolto il Vangelo mentre i loro genitori conservano la religione tradizionale.

La fede in Gesù comporta anche delle lacerazioni in famiglia. La pace che Gesù porta non è la facile tranquillità in  cui gli uomini sempre sognano di adagiarsi:  è la pace del Regno di Dio in cui si entra attraverso la croce.

Gesù esorta il Suo discepolo ad impegnarsi a camminare dietro di Lui e a rompere tutti i legami con il mondo della cattiveria.

Gesù è entrato nella gloria del Padre attraverso la passione, la morte e la Risurrezione. Ad ogni discepolo Gesù propone lo stesso percorso.

“La maestà del Figlio di Dio non nasconde la Sua umanità: né la SuaPassione, né l’ardore con cui è andato fino in fondo alla Sua missione. Questa umanità stessa è per lui oggi la forza e il modello del credente.

Credere in Gesù vuol dire sceglierlo per Signore, prendere posizione in questo mondo lacerato, tra la fede e la incredulità, fino a morirne come il Maestro”.

L’oggi della salvezza è iniziato con Gesù, chi lo accoglie con amore vive, chi non lo accoglie si incammina verso una vita non degna dell’uomo figlio di Dio.

 

LA LEGGE DEL SIGNORE

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“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra”.

Gesù parla alla gente perché prenda una decisione di fronte al Suo messaggio. Il popolo deve capire i segni dei tempi.

Che fuoco è quello di Gesù? E’ il fuoco del Suo Amore.

Giovanni Battista aveva detto che Gesù avrebbe battezzato in Spirito Santo e fuoco. Il messaggio di Gesù provoca divisioni tra gli uomini: alcuni accettano e altri rifiutano. Dio dona pace a coloro che rispondono all’appello di amore di Gesù, ma la salvezza di Gesù non si realizza nell’uomo che non accoglie la Sua bontà.

La Buona Novella divide. Gesù non mette pace ma spada. Egli annuncia divisione all’interno di una famiglia: il padre e la madre da una parte e il figlio e la figlia dall’altra.

Gesù pensa già ad una situazione di persecuzione in cui i giovani hanno accolto il Vangelo mentre i loro genitori conservano la religione tradizionale.

La fede in Gesù comporta anche delle lacerazioni in famiglia. La pace che Gesù porta non è la facile tranquillità in  cui gli uomini sempre sognano di adagiarsi:  è la pace del Regno di Dio in cui si entra attraverso la croce.

Gesù esorta il Suo discepolo ad impegnarsi a camminare dietro di Lui e a rompere tutti i legami con il mondo della cattiveria.

Gesù è entrato nella gloria del Padre attraverso la passione, la morte e la Risurrezione. Ad ogni discepolo Gesù propone lo stesso percorso.

“La maestà del Figlio di Dio non nasconde la Sua umanità: né la SuaPassione, né l’ardore con cui è andato fino in fondo alla Sua missione. Questa umanità stessa è per lui oggi la forza e il modello del credente.

Credere in Gesù vuol dire sceglierlo per Signore, prendere posizione in questo mondo lacerato, tra la fede e la incredulità, fino a morirne come il Maestro”.

L’oggi della salvezza è iniziato con Gesù, chi lo accoglie con amore vive, chi non lo accoglie si incammina verso una vita non degna dell’uomo figlio di Dio.

 

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“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra”.

Gesù parla alla gente perché prenda una decisione di fronte al Suo messaggio. Il popolo deve capire i segni dei tempi.

Che fuoco è quello di Gesù? E’ il fuoco del Suo Amore.

Giovanni Battista aveva detto che Gesù avrebbe battezzato in Spirito Santo e fuoco. Il messaggio di Gesù provoca divisioni tra gli uomini: alcuni accettano e altri rifiutano. Dio dona pace a coloro che rispondono all’appello di amore di Gesù, ma la salvezza di Gesù non si realizza nell’uomo che non accoglie la Sua bontà.

La Buona Novella divide. Gesù non mette pace ma spada. Egli annuncia divisione all’interno di una famiglia: il padre e la madre da una parte e il figlio e la figlia dall’altra.

Gesù pensa già ad una situazione di persecuzione in cui i giovani hanno accolto il Vangelo mentre i loro genitori conservano la religione tradizionale.

La fede in Gesù comporta anche delle lacerazioni in famiglia. La pace che Gesù porta non è la facile tranquillità in  cui gli uomini sempre sognano di adagiarsi:  è la pace del Regno di Dio in cui si entra attraverso la croce.

Gesù esorta il Suo discepolo ad impegnarsi a camminare dietro di Lui e a rompere tutti i legami con il mondo della cattiveria.

Gesù è entrato nella gloria del Padre attraverso la passione, la morte e la Risurrezione. Ad ogni discepolo Gesù propone lo stesso percorso.

“La maestà del Figlio di Dio non nasconde la Sua umanità: né la SuaPassione, né l’ardore con cui è andato fino in fondo alla Sua missione. Questa umanità stessa è per lui oggi la forza e il modello del credente.

Credere in Gesù vuol dire sceglierlo per Signore, prendere posizione in questo mondo lacerato, tra la fede e la incredulità, fino a morirne come il Maestro”.

L’oggi della salvezza è iniziato con Gesù, chi lo accoglie con amore vive, chi non lo accoglie si incammina verso una vita non degna dell’uomo figlio di Dio.

 

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“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra”.

Gesù parla alla gente perché prenda una decisione di fronte al Suo messaggio. Il popolo deve capire i segni dei tempi.

Che fuoco è quello di Gesù? E’ il fuoco del Suo Amore.

Giovanni Battista aveva detto che Gesù avrebbe battezzato in Spirito Santo e fuoco. Il messaggio di Gesù provoca divisioni tra gli uomini: alcuni accettano e altri rifiutano. Dio dona pace a coloro che rispondono all’appello di amore di Gesù, ma la salvezza di Gesù non si realizza nell’uomo che non accoglie la Sua bontà.

La Buona Novella divide. Gesù non mette pace ma spada. Egli annuncia divisione all’interno di una famiglia: il padre e la madre da una parte e il figlio e la figlia dall’altra.

Gesù pensa già ad una situazione di persecuzione in cui i giovani hanno accolto il Vangelo mentre i loro genitori conservano la religione tradizionale.

La fede in Gesù comporta anche delle lacerazioni in famiglia. La pace che Gesù porta non è la facile tranquillità in  cui gli uomini sempre sognano di adagiarsi:  è la pace del Regno di Dio in cui si entra attraverso la croce.

Gesù esorta il Suo discepolo ad impegnarsi a camminare dietro di Lui e a rompere tutti i legami con il mondo della cattiveria.

Gesù è entrato nella gloria del Padre attraverso la passione, la morte e la Risurrezione. Ad ogni discepolo Gesù propone lo stesso percorso.

“La maestà del Figlio di Dio non nasconde la Sua umanità: né la SuaPassione, né l’ardore con cui è andato fino in fondo alla Sua missione. Questa umanità stessa è per lui oggi la forza e il modello del credente.

Credere in Gesù vuol dire sceglierlo per Signore, prendere posizione in questo mondo lacerato, tra la fede e la incredulità, fino a morirne come il Maestro”.

L’oggi della salvezza è iniziato con Gesù, chi lo accoglie con amore vive, chi non lo accoglie si incammina verso una vita non degna dell’uomo figlio di Dio.

 

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“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra”.

Gesù parla alla gente perché prenda una decisione di fronte al Suo messaggio. Il popolo deve capire i segni dei tempi.

Che fuoco è quello di Gesù? E’ il fuoco del Suo Amore.

Giovanni Battista aveva detto che Gesù avrebbe battezzato in Spirito Santo e fuoco. Il messaggio di Gesù provoca divisioni tra gli uomini: alcuni accettano e altri rifiutano. Dio dona pace a coloro che rispondono all’appello di amore di Gesù, ma la salvezza di Gesù non si realizza nell’uomo che non accoglie la Sua bontà.

La Buona Novella divide. Gesù non mette pace ma spada. Egli annuncia divisione all’interno di una famiglia: il padre e la madre da una parte e il figlio e la figlia dall’altra.

Gesù pensa già ad una situazione di persecuzione in cui i giovani hanno accolto il Vangelo mentre i loro genitori conservano la religione tradizionale.

La fede in Gesù comporta anche delle lacerazioni in famiglia. La pace che Gesù porta non è la facile tranquillità in  cui gli uomini sempre sognano di adagiarsi:  è la pace del Regno di Dio in cui si entra attraverso la croce.

Gesù esorta il Suo discepolo ad impegnarsi a camminare dietro di Lui e a rompere tutti i legami con il mondo della cattiveria.

Gesù è entrato nella gloria del Padre attraverso la passione, la morte e la Risurrezione. Ad ogni discepolo Gesù propone lo stesso percorso.

“La maestà del Figlio di Dio non nasconde la Sua umanità: né la SuaPassione, né l’ardore con cui è andato fino in fondo alla Sua missione. Questa umanità stessa è per lui oggi la forza e il modello del credente.

Credere in Gesù vuol dire sceglierlo per Signore, prendere posizione in questo mondo lacerato, tra la fede e la incredulità, fino a morirne come il Maestro”.

L’oggi della salvezza è iniziato con Gesù, chi lo accoglie con amore vive, chi non lo accoglie si incammina verso una vita non degna dell’uomo figlio di Dio.

 

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“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra”.

Gesù parla alla gente perché prenda una decisione di fronte al Suo messaggio. Il popolo deve capire i segni dei tempi.

Che fuoco è quello di Gesù? E’ il fuoco del Suo Amore.

Giovanni Battista aveva detto che Gesù avrebbe battezzato in Spirito Santo e fuoco. Il messaggio di Gesù provoca divisioni tra gli uomini: alcuni accettano e altri rifiutano. Dio dona pace a coloro che rispondono all’appello di amore di Gesù, ma la salvezza di Gesù non si realizza nell’uomo che non accoglie la Sua bontà.

La Buona Novella divide. Gesù non mette pace ma spada. Egli annuncia divisione all’interno di una famiglia: il padre e la madre da una parte e il figlio e la figlia dall’altra.

Gesù pensa già ad una situazione di persecuzione in cui i giovani hanno accolto il Vangelo mentre i loro genitori conservano la religione tradizionale.

La fede in Gesù comporta anche delle lacerazioni in famiglia. La pace che Gesù porta non è la facile tranquillità in  cui gli uomini sempre sognano di adagiarsi:  è la pace del Regno di Dio in cui si entra attraverso la croce.

Gesù esorta il Suo discepolo ad impegnarsi a camminare dietro di Lui e a rompere tutti i legami con il mondo della cattiveria.

Gesù è entrato nella gloria del Padre attraverso la passione, la morte e la Risurrezione. Ad ogni discepolo Gesù propone lo stesso percorso.

“La maestà del Figlio di Dio non nasconde la Sua umanità: né la SuaPassione, né l’ardore con cui è andato fino in fondo alla Sua missione. Questa umanità stessa è per lui oggi la forza e il modello del credente.

Credere in Gesù vuol dire sceglierlo per Signore, prendere posizione in questo mondo lacerato, tra la fede e la incredulità, fino a morirne come il Maestro”.

L’oggi della salvezza è iniziato con Gesù, chi lo accoglie con amore vive, chi non lo accoglie si incammina verso una vita non degna dell’uomo figlio di Dio.

 

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“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra”.

Gesù parla alla gente perché prenda una decisione di fronte al Suo messaggio. Il popolo deve capire i segni dei tempi.

Che fuoco è quello di Gesù? E’ il fuoco del Suo Amore.

Giovanni Battista aveva detto che Gesù avrebbe battezzato in Spirito Santo e fuoco. Il messaggio di Gesù provoca divisioni tra gli uomini: alcuni accettano e altri rifiutano. Dio dona pace a coloro che rispondono all’appello di amore di Gesù, ma la salvezza di Gesù non si realizza nell’uomo che non accoglie la Sua bontà.

La Buona Novella divide. Gesù non mette pace ma spada. Egli annuncia divisione all’interno di una famiglia: il padre e la madre da una parte e il figlio e la figlia dall’altra.

Gesù pensa già ad una situazione di persecuzione in cui i giovani hanno accolto il Vangelo mentre i loro genitori conservano la religione tradizionale.

La fede in Gesù comporta anche delle lacerazioni in famiglia. La pace che Gesù porta non è la facile tranquillità in  cui gli uomini sempre sognano di adagiarsi:  è la pace del Regno di Dio in cui si entra attraverso la croce.

Gesù esorta il Suo discepolo ad impegnarsi a camminare dietro di Lui e a rompere tutti i legami con il mondo della cattiveria.

Gesù è entrato nella gloria del Padre attraverso la passione, la morte e la Risurrezione. Ad ogni discepolo Gesù propone lo stesso percorso.

“La maestà del Figlio di Dio non nasconde la Sua umanità: né la SuaPassione, né l’ardore con cui è andato fino in fondo alla Sua missione. Questa umanità stessa è per lui oggi la forza e il modello del credente.

Credere in Gesù vuol dire sceglierlo per Signore, prendere posizione in questo mondo lacerato, tra la fede e la incredulità, fino a morirne come il Maestro”.

L’oggi della salvezza è iniziato con Gesù, chi lo accoglie con amore vive, chi non lo accoglie si incammina verso una vita non degna dell’uomo figlio di Dio.

 

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DON GIOVANNI BOSCO E LA DIOCESI DI FERMO note storiche di don GERMANO LIBERATI

Don Bosco  e la sua opera nell’ Archidiocesi di Fermo

Brevi note storiche a cura di Germano Liberati (1939- 2010) in occasione del centenario della morte di Don Bosco

e del 25° di erezione della Parrocchia di S. Giovanni Bosco a Molini – Girola di Fermo. 31 Gennaio 1988

PRESENTAZIONE FATTA DALL’ARCIVESCOVO FERMANO MONS. CLETO BELLUCCI.

Sono lieto di esprimere alcuni pensieri su questo numero unico che la Parrocchia di S. Giovanni Bosco di Fermo vuole pubblicare per onorare l’anno centenario della morte del Santo. Me ne parlò la prima volta il mio parroco, un santo Sacerdote di Ancona: Mons. Antonio Gioia.

Avevo appena dieci anni. Forse lo aveva conosciuto, certamente ne era affascinato e portava nel cuore lo stesso amore ai ragazzi e ai giovani: il primo oratorio ad Ancona fu fondato da lui. Mi invitò ad entrare in Seminario, e cercava di farmi capire la missione sacerdotale col narrarmi gli amori caratteristici di Don Bosco: il Cristo, la Madonna, i giovani, i poveri, le missioni.

Nei lunghi anni del Seminario la vita del Santo ha riacceso più volte la fiamma della vocazione nei momenti di dubbio e incertezza. Quante e quante volte la sera si andava a letto sereni e ritemprati dalla lettura dei “sogni” di Don Bosco che il Padre Spirituale ci leggeva per darci la buona notte.

Negli anni indimenticabili passati al Seminario di Chieti, i due santi sulla cui vita si cercava di illuminare e temprare l’animo dei giovani alla sequela del Cristo, erano Don Bosco e il Curato d’Ars.

Sto rileggendo in questi giorni la vita del Santo. Auguro di rileggerla ai sacerdoti, ai genitori, ai giovani.

Vi troveranno speranza contro ogni sconforto, chiarezza di idee, amore, coraggio, tenacia e gioia nell’educazione cristiana dei ragazzi e dei giovani; il calore dell’amicizia, della vita comunitaria, dell’aiuto reciproco, la forza dell’amore.

Mons. Cleto Bellucci        Arcivescovo di Fermo

LIBERATI DON GERMANO – INTRODUZIONE – Il centenario della morte di S. Giovanni Bosco, che si sta celebrando con manifestazioni, convegni, pubblicazioni e culminerà con la visita del Papa a Torino, è un’occasione per riproporre eventi, offrire ritrattazioni e approfondimenti di temi specifici.

Se ormai in sede di storia generale la figura del Santo emerge assai chiara, molto resta da fare alla storia locale, la quale, avendo il duplice scopo sia di contestualizzare tempi e luoghi di per sé circoscritti, sia di offrire occasioni integrative alla visione d’insieme, ha la possibilità di cogliere aspetti e rapporti volti a sostanziare la sintesi generale sull’Uomo e il suo tempo. Pertanto quando mi è stato proposto di riesaminare i legami intercorsi tra Don Bosco, Fermo e i suoi Vescovi, mi sono prefisso con nuovi apporti, un “aggiornamento” della pubblicazione del 1930, contestualizzando fatti ed eventi di per sé non avulsi da situazioni più generali e l’integrazione dei cinquant’anni successivi a tale data.

Altre fonti sono state esplorate, altre testimonianze sono state raccolte; la visione si è arricchita ed ha assunto maggiore articolazione. Ne è scaturito il presente opuscolo costituito da due parti ben distinte. Innanzitutto la prima e più ampia, che è quella intesa a ricostruire e vagliare i vari eventi e la molteplicità dei rapporti di Fermo sia con Don Bosco che la Pia Società di S. Francesco di Sales; la seconda, meno ampia, ma preziosa, consistente in una silloge di documenti editi ed inediti. L’apparato di note ricco e, per quanto possibile, preciso, suffraga e documenta affermazioni e interpretazioni.

Spero ne risulti uno “spaccato”, sia pur modesto, ma sufficientemente preciso e vivo di storia locale, proprio là ove essa travalica luoghi e tempi circoscritti e si volge a legami più vasti e più generali.

Liberati don Germano

IL CARD. DE ANGELIS E DON BOSCO

La storia dei rapporti tra la Diocesi di Fermo e Don Bosco inizia in un momento politico assai difficile e delicato. Siamo nel 1860. Lo Stato Pontificio, dopo l’invasione militare piemontese era passato in gran parte sotto le autorità del Regno Sabaudo.  A Fermo, occupata militarmente il 21 settembre, perché il trapasso fosse netto e definitivo, onde sopire presunte “nostalgie” o comunque affinché il clero e i laici più influenti fossero posti a tacere di fronte al fatto compiuto, il più grave ostacolo era rappresentato dal Cardinale Arcivescovo. La ferma e decisa presa di posizione del Card. Filippo De Angelis, come già al tempo della Repubblica Romana, non fu gradita: si vide in lui, non tanto un difensore dei diritti della Chiesa, ma un retrogrado ed un pericoloso ribelle alle autorità piemontesi e se ne decretò il confino, o come si diceva allora, il domicilio coatto.

Il 28 settembre fu comunicato il provvedimento firmato dal Gen. Fanti ed il Cardinale due ore dopo lasciava Fermo e raggiungeva Torino.   Il sistema di “decapitare” le strutture religiose e talora amministrative dello Stato Pontificio apparve allora al governo Piemontese come il miglior modo per garantire un trapasso giuridico-istituzionale senza danni, opposizioni e presunti pericoli.

Il Card. De Angelis, una volta giunto a Torino, prese alloggio presso la Casa dei PP. Lazzaristi, detti della Missione. Ma l’arrivo del Cardinale non fu né incognito né privo di risonanze. Torino era ancora capitale del Regno, nell’impero politico incontrastato di Cavour, con una massoneria e un anticlericalismo diffusi e potenti. Tuttavia anni addietro ed in quelle circostanze, voci di sacerdoti integerrimi e santi si erano levate contro leggi e costume tendenti ad una laicizzazione progressiva della società. La formula Cavouriana “libera chiesa in libero stato” era, nonostante l’apparente apertura libertaria, subdola ed ambigua: si voleva ridurre la comunità cristiana ad esprimersi esclusivamente nel privato e nelle chiese, emarginata dalle istituzioni e fuori da ogni possibilità di presenza educativa.

Lo Statuto Albertino, il Codice Napoleonico, le leggi Siccardi erano la testimonianza più patente di una certa intolleranza religiosa. Le voci dei Vescovi di Torino e di sacerdoti come Don Cafasso, Don Cottolengo e soprattutto Don Bosco, si erano chiaramente alzate e la loro opera umanitaria aveva cercato di ricuperare spazi che le istituzioni civili, per incapacità ed insensibilità, non riuscivano a capire e soprattutto perché la gente, profondamente cristiana, non era disposta a farsi strappare.

Naturale fu dunque l’incontro tra due anime che, sia pur in contesti differenti, avevano di mira il bene dei fedeli e soffrivano per la libertà della Chiesa. L’incontro ci fu. Non sappiamo se sollecitato dal Card. De Angelis o di libera iniziativa di Don Giovanni Bosco.

Era l’aprile del 1861, quando Don Bosco varcava la soglia della Casa dei Lazzaristi per incontrarsi con il Cardinale. La vita in quei giorni trascorsi a Torino era stata per il Cardinale una vera e propria prigionia, parte per le restrizioni, parte per una sua presa di posizione, per cui non era mai uscito dalla Casa dove era ospitato, considerandosi prigioniero [Annali della Società Salesiana, vol 1°, p. 103]. Alla segregazione si aggiunga la sofferenza morale per la lontananza dalla sua Diocesi per la quale si era sempre prodigato con grande zelo pastorale. Questo era, ad un di presso, lo stato d’animo del Cardinale.

Che cosa si dissero in quell’incontro i due non ci è dato saperlo, al di fuori dell’aneddotica che è anch’essa veritiera perché parte dalla infinita trama degli eventi, sogni e fatti curiosi di cui è intessuta la vita di Don Bosco [- Riportiamo alcuni tratti di quel curioso e significativo dialogo: ” Sua Eminenza gli disse: – Mi racconti qualcosa da tenermi allegro.” . -Le racconterò un sogno.-

“Volentieri, sentiamo.”  “Don Bosco cominciò a narrargli quanto sopra abbiamo descritto, però con maggiori particolarità e riflessioni; ma quando fu al “lago di sangue” il Cardinale si faceva serio e malinconico. Allora D. Bosco troncò il racconto dicendo:  -Fin qui !- “Vada avanti!  gli disse il Cardinale. -Fin qui e basta – concluse D. Bosco e prese a discorrere di fatti ameni.” (LEMOYNE, Memorie di don Bosco, vol. VI, p. 881].

E’ certo comunque che fu un incontro che mise di fronte due uomini che già si conoscevano per fama. Entrambi si saranno confidati le loro pene e le loro difficoltà, entrambi avranno fatto ricorso alla speranza cristiana che non delude perché legata alla provvidenza divina. Il fatto è che questa visita non fu unica, segno quindi di un affiatamento che si era instaurato; e Don Bosco, in quei lunghi sei anni che il Cardinale restò a Torino, tornò a incontrarlo più volte, portando con sé altri sacerdoti suoi collaboratori, come Don Francesia e Don Berto [” La seconda testimonianza è del Cardinal De Angelis, Arcivescovo di Fermo, che, condotto in prigione a Torino durante i rivolgimenti politici del 1860, era stato relegato per sei anni nella casa dei Lazzaristi, dove aveva stretto relazione con Don Bosco, solito a visitarlo senza temere le ire dei malevoli” [ivi].

Durante quelle visite il Cardinale si interessava “vivamente delle cose dell’Oratorio a segno che, con chiunque gliene parlasse, si mostrava premuroso di sapere tutto ciò che riguardava il suo buon andamento. Il Servo di Dio [Don Bosco] lo aveva lungamente intrattenuto sulle grazie che Maria SS. concedeva ai suoi giovinetti, e come talvolta loro svelasse il futuro. E l’Eminentissimo lo ascoltava con infantile semplicità e più volte lo pregò a dirgli qualche cosa sopra il suo avvenire” [ibidem vol. VIII, p. 523]. Da questa frequentazione in amicizia e stima reciproche nacque una particolare condiscendenza e disponibilità da parte del Presule verso l’opera Salesiana e grande fiducia da parte di Don Bosco, che avranno in seguito notevoli ri- percussioni. In altri termini, gli incontri torinesi costituirono l’inizio di quei rapporti tra opera salesiana e Fermo che hanno avuto propagginazioni fino ad oggi.

A Torino i rapporti tra i due ebbero termine alla fine del 1866. Il Ministro Bettino Ricasoli in due successive circolari [2 ottobre e 15 novembre], aveva consentito ai vescovi che durante l’annessione piemontese si erano o rifugiati a Roma o erano stati confinati, di ritornare alle loro sedi.

Don Bosco un giorno prima che la seconda circolare fosse pubblicata, era andato a far visita al Cardinale. Tra loro avvenne un dialogo che il cronista salesiano riassume in questi termini:

“-Ebbene, Don Bosco, gli disse l’Eminentissimo appena lo vide; sapete qualcosa del mio avvenire?

-Prepari i bauli, Eminenza, perché presto potrà ritornare a Fermo.

-Ritornare a Fermo? Ora? Con questa guerra che si muove al clero?

-Eppure è cosi, la Madonna l’ha detto ad un nostro giovane. -Ebbene, quando sarò libero, voglio recarmi subito dove mi chiama il dovere, ma prima passerò all’Oratorio per restituirle le visite e testificare la mia gratitudine alla Madonna”

[L’accenno “alla guerra contro il clero”  trova documentazione nelle stesse Memorie: “L’odio contro il clero, invece di placarsi dopo tante sevizie, pareva si accentuasse con rabbia speciale in un certo partito del Parlamento, e qualche deputato voleva proporre una legge con cui si obbligassero i Preti a deporre la veste talare e ad andar vestiti come laici. Tutto accennava a nuove persecuzioni, quindi appariva sempre più lontana ogni speranza di liberazione del Cardinale”. (ivi)].

E la previsione si avverò: dopo qualche giorno, giunse al Cardinale l’avviso di poter tornare alla sua sede vescovile . Un solo giorno si fermò ancora a Torino e solo per fare alcune visite di cortesia e per il dovere di ricambiare1 l’affetto e la stima a Don Bosco.

“Il 23 novembre [I866]…fu solenne e giocondo per i giovani dell’Oratorio. Celebrata la s. Messa alla Consolata, egli scese a Valdocco e saliva allo studio dove Don Francesia lesse una bella poesia all’Apostolo che per l’amor di Dio e per fedeltà al Vicario di Gesù Cristo aveva sofferto così lunga detenzione.

A SUA EMINENZA REVERENDISSIMA IL CARDINALE FILIPPO DE ANGELIS ARCIVESCOVO DI FERMO

I GIOVANI DELL’ ORATORIO DI S. FRANCESCO DI SALES FESTOSI PEL SUO RITORNO IN DIOCESI DOPO SEI ANNI D’ESILIO NEL DÌ CHE LI VISITAVA 23 NOVEMBRE 1866 DI SEMPRE CARA E RICONOSCENTE RIMEMBRANZA                                                          ODE

Angiol di Fermo, oh giubila!

Schiudi a letizia il cuore,

ecco il tuo piede è libero

del carcere all’ orrore,

e alfin in mezzo ai teneri

bramosi figli tuoi

che tempo già t’aspettano

lieto tornar or puoi.

 

Quando quel pio che regola

in queste sacre mura

ci ricordò gli aneliti

dell’alma tua secura

quanta speranza, o Presule,

di rivederti un dì,

e di baciar la porpora

che tanto onor sortì.

E allora in calde lacrime,

presso ai sacrati altari

pensammo alli tuoi gemiti

a’ tuoi dolori amari,

e lieti sempre e trepidi

fummo nel supplicar

Lui che incatena il turbine

Lui che acquieta il mar.

Tergi il mio pianto, allegrati,

depon la negra vesta,

o Fermo, e il sacro tempio

d’oro e di fior si vesta.

Ecco … ritorna l’Angiolo

che ti rapì il dolor,

Iddio pietoso all’Orfana

ridona il suo Pastor.

Oh quante volte al tacito

morir d’un lento giorno

andasti in ala rapida

alla tua Chiesa attorno

per consolar quei trepidi

figli, che nel dolor

piangenti al ciel chiamavano

il loro pio Pastor.

Se alla città del Tevere

ti porterà il desìo

dove sereno domina

e siede il nono Pio,

digli che a Lui sacrarono

eterna la lor fe’

più di ottocento giovani

che vedi qui al tuo pie’.

 

L’Eminentissimo Porporato parlò a tutti con grande spirito di bontà, dicendo che quel mattino aveva pregato anche per loro, avendo essi pregato per lui perché potesse tornar presto alla sua diocesi: e li assicurò che andando a Roma non avrebbe mancato di far parola di loro al S. Padre, mentre dal canto suo li avrebbe sempre aiutati secondo le sue forze. In fine, a due a due, i giovani si appressarono a baciargli l’anello. Don Bosco stava al suo fianco…Dall’Oratorio passò a visitare il Cottolengo e il giorno dopo partì per Fermo ” [ivi pp. 524-525].

Ritornato a Fermo, il Cardinale non accantonò quella amicizia, sia per alcune sollecitazioni da parte di Don Bosco stesso, sia per una intrinseca consapevolezza del valore dell’esperienza vissuta a Torino. Ai fedeli della Diocesi nella prima lettera pastorale così scriveva: “Ci piace ricordare quel provvidenziale Oratorio di giovani affidato alla speciale protezione di S. Francesco di Sales e della Gran Vergine Ausiliatrice, creato e sostenuto dallo zelo di un povero prete”.

Anche altri vescovi inclini verso l’opera di Don Bosco, desiderando una sua visita in Diocesi si raccomandavano al Card. De Angelis perché interponesse verso il Santo i suoi buoni uffici. Valga per tutti quanto Mons. Rota Vescovo di Guastalla scriveva il 25.2.1867: “Ho subito scritto a Sua Eminenza il Card. Arcivescovo di Fermo pregandolo che comandi a Don Bosco di venire a Guastalla” (LEMOYNE, VIII, p. 695).

Nel frattempo tuttavia il fondatore dell’Oratorio Salesiano aveva premura che la S. Sede riconoscesse la sua Pia Società e si rivolgeva ai vescovi suoi estimatori ed al corrente della sua opera, perché gli rilasciassero lettere commendatizie in proposito. Ma la corrispondenza con il Card. De Angelis andò ben oltre negli anni 1867-68. Non solo a lui Don Bosco si rivolgeva per ottenere lettere commendatizie ma addirittura perché personalmente interponesse Ì suoi buoni uffici a Roma; un ulteriore segno della intimità e confidenza che esisteva tra i due.

E quando Don Bosco personalmente nel 1867 si recò a Roma a questo scopo, colse l’occasione per far visita al Cardinale venendo a Fermo.

DON BOSCO A FERMO

Non abbiamo dati per stabilire se la visita avvenne su iniziativa di Don Bosco che così voleva personalmente perorare la sua causa presso il Card. Arcivescovo o l’invito gli fosse stato rivolto dal Porporato per il desiderio di rivederlo e così ricambiare in qualche modo le attenzioni ricevute a Torino.

Era partito da Roma in compagnia di Don Francesia la sera del 26 febbraio e dopo una notte di viaggio, era giunto a Fermo nella tarda mattinata. Alle 10,30 si presentava al Cardinale in Episcopio che lo accoglieva con “grande gioia”.

[Il giorno stesso dell’arrivo a Fermo, Don Francesia, che accompagnava don Bosco, scrive ad un amico in questi termini: “Fermo, 27 febbraio 1867 – -Carissimo sig. Cavaliere, Ieri sera soltanto abbiamo lasciato Roma e dopo felice, se non lieto, viaggio siamo arrivati a Fermo. Abbiamo incontrato sua Eminenza; sta bene; il suo segretario e gli altri di sua famiglia, tutti bene, e ci accolsero colle feste più belle e care…” (Op. cit. p. 708 ).].

La permanenza di Don Bosco a Fermo, in quella che fu l’unica visita, durò un giorno e mezzo ed è assai agevole ricostruirne il programma. Per tutto il giorno 27 febbraio egli si trattenne con il Cardinale che lo ospitò: del resto cose da dirsi ne avevano in abbondanza [rievocare ricordi passati, ragguagli, consigli e richieste di Don Bosco circa la Società Salesiana per la quale si stava adoperando onde ottenere la approvazione pontificia]. Non bisogna inoltre escludere qualche altra visita ed incontro: il Cardinale certamente si sarà premurato di presentare al Santo sacerdoti e laici più autorevoli [Don Pellegrino Tofoni era il segretario in compagnia con il cardinale a Torino]. E per il mattino dopo, quale incontro più significativo e costruttivo se non quello con gli alunni del Seminario? Il Cardinale avrà pensato che un incontro dei suoi giovani aspiranti al sacerdozio con un sacerdote così zelante e un educatore così perspicace e incisivo fosse la maniera migliore di approfittare di una tale presenza.

Il 28 febbraio, infatti, Don Bosco, al mattino, si recò al Seminario, allora a pochi passi dall’Episcopio, e incontrò la comunità nella celebrazione liturgica, al termine della quale parlò ai giovani. Un testimone qualificato e attento, il futuro Cardinale Svampa, così riassume quell’omelia: “Ci parlò come parla un padre ai suoi figlioli, non nella sublimità del sermone, ma nel manifestare lo spirito il giorno stesso dell’arrivo a Fermo, Don Francesia, che accompagnava don Bosco, scrive ad un amico in questi termini: “Fermo, 27 febbraio 1867 – -Carissimo sig. Cavaliere, Ieri sera soltanto abbiamo lasciato Roma e dopo felice, se non lieto, viaggio siamo arrivati a Fermo. Abbiamo incontrato sua Eminenza; sta bene; il suo segretario e gli altri di sua famiglia, tutti bene, e ci accolsero colle feste più belle e care…” (Memorie-cit., Vol. VIII, p. 708 ). … due cose ci raccomandò specialmente: la devozione a Gesù Sacramentato e la devozione alla nostra cara Madre celeste” [Bollettino salesiano, 1907]. Del resto chi non vede come i due temi siano quelli ricorrenti nell’insegnamento e nella pedagogia di Don Bosco? Dunque, un discorso perfettamente in linea con la sua fede e il suo zelo sacerdotale.

A DON GIOVANNI BOSCO

   Salve, Giovanni, Oh! il giubilo

figlio di caldo affetto,

oh! il gaudio e la letizia

di cui ci esulta il petto

   or che il dolce e amabile

sembiante tuo miriamo,

ora che un bacio imprimere

sulla tua man possiamo.

   Più volte del tuo giungere

volò tra noi la fama,

di te più volte vivida

si accese in cuor la brama,

   ed ecco alfin s’appagano

i desideri ardenti:

alfin ci è dato scorgerti

ci è dato udir tuoi accenti.

   Siccome in notte placida

bella è a mirar la luna

in cui candore argenteo,

almo splendor s’aduna,

   come di varii e fulgidi

color l’iri s’abbella,

qual sorge dall’oceano

ridente amica stella,

   così soave e amabile

ne appare il tuo sorriso,

in cui la luce splendere

veggiam del Paradiso.

   Dunque gradisci il giubilo,

figlio di caldo affetto,

gradisci la letizia

di cui ci esulta il petto.

   e in sul partir, deh! a’ pargoli

sorridi e benedici:

non chieggon più, ché renderli

può questo sol felici

           Domenico Svampa

 

L’incontro con i seminaristi si prolungò oltre, attraverso la visita alle sei camerate in cui erano divisi secondo l’età e l’avanzamento negli studi. In quegli incontri settoriali, il clima e la formalità del primo impatto dovettero certo essere superati da una maggior confidenza di dialogo ed una atmosfera di festa più spontanea e aperta. In ciascuna camerata un componente indirizzò a Don Bosco un saluto, in versi, come allora era d’uso in tutte le scuole umanistiche. Il Santo rispondeva in ogni caso, parlava con qualche singolo, rivolgeva domande; l’incontro si concludeva con la sua benedizione.

Nel pomeriggio Don Bosco, accingendosi alla partenza, consegnò al Card. De Angelis una copia del suo volume La Storia d’Italia” con dedica autografa nella quale ricorre l’espressione: “Cordialissimo omaggio dell’autore”, a testimoniare l’intimità e familiarità di rapporti esistenti fra i due. E come se ce ne fosse bisogno, ulteriore prova si può ritrovare al momento in cui tra gli ultimi saluti il Cardinale chiese e, dopo schermaglie e insistenze, ottenne di essere benedetto dal Santo.

[Questo significativo episodio della Benedizione è narrato nelle fonti salesiane: Memorie cit., Vol.VII, p. 712.

All’ora della partenza il Card. De Angelis si inginocchiò per terra e pregò don Bosco a benedirlo; ma il Venerabile si gettò anch’egli in ginocchio davanti al Cardinale. Questi continuava:

-Sono vecchio, non ci vedremo più su questa terra: D. Bosco mi benedica!

-Io benedirlo!? Io povero prete? Mai più!

– Oh si che mi benedirà!

-Ma come? io povero pretazzuolo benedire un Cardinale, un Vescovo, un Principe?  Tocca a Lei benedir me!

– Quando è cosi, vede D. Bosco quella borsa? – e gliel’additava – E’ poca cosa, ma se mi benedice gliela dono per la sua Chiesa; altrimenti no!

Don Bosco pensò alquanto e poi concluse:

-Quando è cosi, io la benedico. Vostra Eminenza della mia benedizione non ne ha bisogno, mentre io invece ho bisogno dei suoi denari. ]

In questa visita, sia pur fugace, si possono tuttavia individuare  componenti importanti e feconde. Per Don Bosco questo ulteriore attestato di stima era importante in quel momento di impasse. [Il Cardinale fermano il 7 ottobre 1867 fu nominato Camerlengo di Santa Romana Chiesa acquistando maggior “peso” a Roma. Se si tiene conto della visita a Fermo e della successiva lunga e frequente corrispondenza epistolare, si può agevolmente pensare che quando nel 1869 la P. Società Salesiana ottenne l’approvazione provvisoria, gran parte del merito sia proprio del Cardinal De Angelis nell’approvazione dell’Istituto: ne sono testimonianza i successivi contatti epistolari intrattenuti con il Cardinale in cui emergono soprattutto due fondamentali preoccupazioni di Don Bosco. Innanzitutto il fatto che la Società Salesiana, che ormai si stava espandendo in Piemonte ed in altre parti d’Italia, aveva necessità di un riconoscimento pontificio e il Cardinale, proprio per la stima che godeva presso Pio IX, era il migliore interprete e patrocinatore. Inoltre, proprio per questo riconoscimento non ancora ottenuto, Don Bosco che era preoccupato della formazione dei suoi chierici, era costretto a sottostare ai regolamenti del Seminario di Torino e, dopo le recenti disposizioni dell’Arcivescovo, forse sarebbe stato costretto anche a dover far loro frequentare il Seminario: regolamento e ambiente assai lontani dalle visioni pedagogiche del Santo. Su questi problemi vertono le lettere di Don Bosco che nel Cardinale trovava sempre un caro amico e confidente ed un saggio consigliere [18].

Per Fermo, la visita fu seme che produrrà i suoi frutti negli anni successivi, con un contatto sempre più stretto con la Società Salesiana e soprattutto per la progressiva applicazione pastorale dell’attività degli Oratori per incontrare ed educare i giovani.

IL “SALESIANO” CARD. DOMENICO SVAMPA

Il Cardinal Domenico Svampa era nato a Montegranaro il 13 giugno 1851. Compì gli studi prima al Seminario di Fermo e poi al Seminario Pio  di Roma conseguendo la laurea in filosofia, teologia e in diritto. Ordinato Sacerdote fu insegnante nel Seminario di Fermo e poi ottenne la cattedra di diritto all1 Apollinare di Roma. Nel 1887 fu nominato vescovo di Forlì: Il 18maggio del 1894 Leone XIII lo elevava alla porpora cardinalizia, destinandolo alla sede di Bologna, poco più che quarantenne. Vi moriva il 10 agosto 1907.

Era ancora convittore quando nel Seminario di Fermo era venuto don Bosco e toccò a lui, durante la visita alla camerata S. Luigi”, indirizzare il saluto a nome di tutti. Lo fece in poesia, con una graziosa se pur scolastica composizione, mettendo in evidenza la fama di lui ormai giunta anche a Fermo ed esprimendo la gioia dell’incontro. La lirica si concludeva con una appassionata richiesta:

” E in sul partir, deh! a’ pargoli sorridi e benedici: non chieggon più, che renderli può questo sol felici”.

E n’ebbe assai di più il giovinetto Svampa dal Santo, come le Memorie di Don Bosco annotano: “un alunno della camerata di S. Luigi leggevagli e consegnavagli una poesia con la propria firma…il Venerabile disse una parolina all’orecchio e diede uno sguardo affettuoso e una piccola medaglia al caro poeta”. Il giovinetto, divenuto poi sacerdote, successivamente Vescovo di Forlì e di lì promosso con la porpora cardinalizia alla prestigiosa sede di Bologna, appena quarantenne, nel 1894, mostrò di non aver dimenticato quell’incontro che forse aveva segnato la sua vita.

Già dalla sede di Forlì intratteneva regolari rapporti epistolari con il successore di Don Bosco, Don Rua; e, nel settembre 1894, in procinto di partire per la nuova sede emiliana, gli scriveva: “Io spero che Don Bosco dal paradiso mi guardi come uno dei suoi figli e che mi darà a Bologna la sospiratissima consolazione di vedere impiantata una sua opera per la salvezza dei poveri figli del popolo” [Bollettino del Santuario del santuario del S. Cuore, nov. 1897].

Don Bosco si era recato più volte a Bologna, ma non risulta che avesse mai trattato per impiantare una sua casa in quella città. E toccò proprio all’animo salesiano del Card. Svampa vedere realizzata questa iniziativa. Ma affinché la presenza salesiana potesse essere efficace, occorreva preparare il terreno e proprio l’anno successivo al suo arrivo, il Cardinale si adoperò per organizzare proprio a Bologna il primo Congresso dei Cooperatori Salesiani. Si svolse nell’aprile del 1895 e dall’apertura dei lavori, il Cardinale, ricordando la venerazione per Don Bosco, si abbandona alle memorie ed esprime speranze: “Per me, mi sia consentito il dirlo, la memoria e la venerazione profonda che sento per Don Bosco e per l’opera sua è antica, perché si riannoda ai miei primi anni. Incominciò da quando, appena trilustre, ebbi la fortuna di incontrarmi con quell’uomo straordinario, ne intesi la calda parola, ricevetti dalle sue mani la S. Eucarestia, la S. Benedizione, e fui regalato di una piccola medaglia che tuttora porto al petto” [LEMOYNE, VIII, 711].

Questa straordinaria testimonianza del Pastore di Bologna mosse Don Rua ad adoperarsi per aprire la prima casa salesiana, affidandola alla prestigiosa personalità di Don Carlo Viglietti, ex-segretario di Don Bosco; l’Oratorio fu aperto nei locali detti di S. Carlino; il nuovo Istituto, fuori porta Galliera, fu inaugurato nel 1899. Ma il Cardinale non era pago di questa presenza e promosse addirittura la costruzione di un santuario dedicato al S. Cuore, ché coltivava l’aspirazione di fare del capoluogo emiliano un centro di diffusione della devozione al Sacro Cuore di Gesù. Nel discorso, in occasione della posa della prima pietra, il 14 giugno 1901, così il Card. Svampa affermò: “L’Istituto Salesiano ed il tempio del S. Cuore realizzano nei mio pensiero un passo avanti nel progresso del bene; sono quasi il segnale di una nuova alleanza fra il cielo e la terra nella diocesi bolognese” [La città di Bologna si presentava “laica”].

Il Card. Svampa non poté vedere conclusa la sua opera, che fu inaugurata dal suo successore, il Card. Giacomo Della Chiesa [futuro Papa Benedetto XV]. Tuttavia il 3 giugno 1903, festa del Sacro Cuore, il Cardinale consacrava la cripta affidandone l’ufficiatura ai Salesiani. In quella cripta verrà poi tumulata la sua salma [1912] – e vi riposa ancora – alcuni anni dopo la sua morte avvenuta nel 1907.

DON BOSCO NEI RICORDI DI ALCUNI ALUNNI DEL SEMINARIO DI FERMO

La visita di Don Bosco, se ebbe particolare incisività nell’allora convittore Domenico Svampa, non certo restò indifferente e insignificante per altri alunni del Seminario, in quel suo vagare la mattina del 28 febbraio nelle camerate del Seminario.

Nel 1930, in occasione della Beatificazione del sacerdote di Valdocco, furono raccolte alcune testimonianze, quelle di ex seminaristi ancora vivi, sacerdoti e non. In tutte c’è una concordanza di accenti, di ricordi e di momenti particolarmente significativi di quella visita ed ancor vivi nella loro memoria di uomini ormai avanti negli anni. E ciò che più colpisce, è che questa concordanza si riscontra sia in quelli che giunsero al sacerdozio che in quelli che scelsero la vita laicale.

Mons. Jaffei, Vescovo di Forlì, così si esprime: “Lo accogliemmo con entusiasmo, felicissimi di conoscere personalmente l’illustre educatore della gioventù, del quale conoscevamo libri di letture e di scuola” [Numdero unico: Il beato don Bosco. Fermo 1930].

Gli fa eco Mons. Occhioni che mostra, all’età di ottantuno anni, avere vivissima la memoria, quasi fotografica, di quell’incontro: “Vi giunse accompagnato da un correligioso e si fermò nel mezzo del camerone, mentre noi festanti ci stringevamo intorno alla sua persona. Teneva le mani conserte, gli occhi e la testa bassi. Da un superiore venne invitato a visitare l’ambiente quindi seguì un breve indirizzo letto dall’alunno Francesco Astorri…”.

Analoga la testimonianza di laici. Al Prof. Serafino Alessandrini, allora alunno del Seminario, quando il Santo giunse nella camerata “S. Giuseppe”, toccò il compito di offrire il suo saluto poetico. E negli ultimi anni della sua vita [morì nel 1927], a chi gli chiedeva di quell’incontro, rispondeva che “gli sembrava di vederlo ancora ascoltare la poesia e chiederne, con un movimento dell’indice, il manoscritto al giovane autore”.

Nel 1915, nel centenario della nascita del Santo, sempre in rapporto alla visita nel Seminario di cui era stato testimone, tenne il discorso commemorativo e le sue parole, proprio perché di un laico, suscitarono entusiasmo e commozione.

Ma nella memoria di tutti i testimoni, in genere, ciò che colpisce è il vivo ricordo di quell’incontro che si contorna di particolari, di per sé marginali, ma che nel loro complesso costituiscono il carattere di una impronta indelebile.

“Dopo le iterate e festose accoglienze dei superiori e degli alunni – è Mons. Jaffei che precisa – l’amabilità di Don Bosco si compiacque di percorrere tutto il Seminario per trovarci nelle singole camerate, donandoci una medaglia a ciascuno e ne aveva in un borsellino, anche per i suoi figli di Torino. Ci dissero che sotto la mano distributrice di Don Bosco si moltiplicassero”.

E dal ricordo di ciò che avvenne nella camerata “S. Giuseppe”, nella memoria di Mons. Occhioni emerge un’altra figura di rilievo tra i giovani seminaristi del tempo, oltre al già menzionato Card. Svampa: “…..  quindi seguì un breve indirizzo letto dall’alunno Francesco Astorri di Campofilone, che chiudeva implorando la Santa Benedizione. Questa benedizione certo scese copiosissima – è ancora Mons. Occhioni che commenta – su chi aveva presentato l’indirizzo. Lo rese infatti privilegiato innanzi a Dio, giacché fu cristiano tutto d’un pezzo, ottimo padre di famiglia, cui corrisposero egregiamente i figliuoli; lo rese pure privilegiato innanzi agli uomini perché l’Astorri riuscì ottimo Ingegnere Idraulico stimato e venerato”.

Come si vede, a distanza di anni, quel piccolo seme era ancora rigoglioso di frutti.

MONS. CASTELLI E LE CELEBRAZIONI PER LA BEATIFICAZIONE DI DON BOSCO

Nel 1929, al termine del processo canonico, Don Bosco veniva dal Papa Pio XI elevato agli onori degli altari e proclamato Beato. Tra le innumerevoli celebrazioni e commemorazioni della sua persona, anche a Fermo si pensò di ricordare il nuovo Beato proprio per il legame con la Diocesi, con il Seminario e soprattutto con l’Arcivescovo di quel tempo, il Card. Filippo De Angelis. Patrocinatore dell’iniziativa fu l’Arcivescovo Mons. Carlo Castelli il quale per strani ed insondabili fili provvidenziali, aveva anche lui, ancor giovinetto, conosciuto Don Bosco ed ora Presule di quella Diocesi che nel Card. De Angelis e nel Card. Svampa era apparsa tanto legata al Sacerdote di Valdocco.

La testimonianza di Mons. Castelli di quell’incontro col Santo è viva e nitida nei contorni, per cui è bene lasciare a lui stesso la parola: “Lo conobbi personalmente. E’ questa un’altra grande grazia che mi fece il Signore, della quale, come di tutte le altre lo ringrazio di cuore.

Nel 1883, ero suddiacono, fatti i bagni di mare ad Alassio nel grande Collegio che ivi tengono i Salesiani, nel ritorno volli passare a Torino, precisamente per vedere Don Bosco, ed ottenerne la Benedizione. Vi giunsi la vigilia del suo genetliaco che si festeggiava il 15 di agosto. L’indomani Don Bosco avrebbe raggiunto il suo sessantanovesimo anno. Accolto con molta benevolenza dai figli di Don Bosco, la sera ebbi la fortuna di ascoltare il discorsetto che egli, d. Bosco, soleva fare ai suoi figli sotto il portico aperto del grande cortile prima che si coricassero, di baciargli la mano e di averne la prima benedizione. L’indomani mi volli confessare da lui, potei parlargli con molta confidenza, che la dava a tutti; e la sera partecipai ad un’accademia [intrattenimento, n. d. r.], ben riuscita, data dai Salesiani in onore del loro amato Padre. Poesie, canti, bande, discorsetti: una vera festa di famiglia … Prima di partire potei ancora parlare con Don Bosco nel suo studiolo, su al secondo piano, in fondo al ballatoio. Quanta bontà in quell’uomo! Quanta semplicità nelle parole, nel gesto, in tutto. Mi benedisse, mi confortò e mi assicurò che nonostante i disturbi di stomaco che pativo quella mattina, avrei fatto buon viaggio, e che giunto a Milano mi sarei sentito benissimo come di fatto avvenne.

Altre due volte ebbi la ventura di conferire con Don Bosco, e sempre ne ebbi l’impressione di parlare con un Santo: semplicità, affabilità, cordialità, sempre il sorriso sulle labbra; mai dimostrava stanchezza, noia, fretta, sempre la massima calma come se non avesse avuto a far altro che parlare con me! E lui aveva affari con tutto il mondo!”[ivi]. Proprio questo affetto per i Salesiani e Don Bosco fu la spinta che nel 1930 a Fermo si indicessero celebrazioni per il nuovo Beato. Si svolsero dal 29 maggio al 1 giugno e l’organizzazione fu affidata ai superiori, agli insegnanti e agli alunni del Seminario. Il triduo solenne si svolse nella attigua chiesa del Carmine, con largo concorso di fedeli; la predicazione fu affidata all’ “illustre predicatore Mons. A. Crocetti” di Ancona.

il primo giugno la solenne celebrazione: alle 7 la messa dell’Arcivescovo Mons. Castelli con la partecipazione della “gioventù studentesca” della città; alle 10,30 la messa solenne con assistenza pontificale.

Il clou della manifestazione si raggiunse al pomeriggio in Seminario, con inizio alle ore 17: furono scoperti il busto e la lapide commemorativa della visita di Don Bosco al Seminario nel 1867, cui seguì una solenne “accademia” musicale-letteraria, nella quale il discorso commemorativo fu tenuto dal Comm. C. Ossicini di Milano [Va sottolineata l’iniziativa di radunare la “gioventù studentesca” di Fermo, cui si aggiunsero i giovani di A.C. della Diocesi. Siamo infatti negli anni difficili, dopo la Conciliazione, in cui il Governo Italiano e il Partito Fascista si stavano scagliando contro le associazioni cattoliche. Una manifestazione giovanile di questo genere rappresentava un atto di coraggio ed una risposta].

Una particolare sottolineatura merita la lapide dettata in latino da Mons. Giovanni Cicconi, noto umanista e storico [34],

ANNO CHRISTIANO MDCCCLXVII \ III KAL. MARTIAS \ JOANNES BOSCO

FUIT HOSPES APUD V. E. \ CARD. PHILIPPIM DE ANGELIS ARCHIEP. PRINC. N.

SEMINARIUM H. MAGNIS EXCEPTUS LAETITIIS \ OPTATISSIMO ADSPECTU SUO MONESTAVIT

ALUMNOS AD VIRTUTEM SANCTISSIMIS VERBIS \ COHORTATUS EST

NUNC AUCTUS HONORE COELITUM BEATORUM \ VOLENS PROPITIUS USQUE ADSIT

MAGISTER BONUS ET CUSTOS \ AN. MCMXXX

Nella traduzione italiana suona ad un dipresso così:

= NELL’ANNO DELL’ERA CRISTIANA 1867 \ IL 28 FEBBRAIO \ GIOVANNI BOSCO \ OSPITE A FERMO DEL CARD. FILIPPO DE ANGELIS \ ARCIV. E PRINCIPE NOSTRO \ FU ACCOLTO CON GRANDE GIOIA \ ONORO’ QUESTO SEMINARIO \ CON LA SUA PRESENZA TANTO DESIDERATA \ ESORTO’ CON SANTE PAROLE ISPIRATE GLI ALUNNI ALLA VIRTÙ’ \ANNO 1930 \ ORA INNALZATO ALL’ONORE DEI CELESTI BEATI \ CONDISCENDENDO ANCORA PROPIZIO \ SIA PRESENTE COME BUON MAESTRO E CUSTODE =

Ma quel che più conta, le celebrazioni furono accompagnate. dalla pubblicazione di un fascicolo dal titolo “Il Beato Giova Bosco – omaggio del Ven. Seminario Arc.le di Fermo”, in data giugno 1930. Al di là di un sistema storiografico forse ora superato, quanto indulgente all’aneddotica e privo di quel contesto storico religioso in cui i fatti locali prendono consistenza e significato, lavoro si presenta ricco di spunti, abbondante nella documentazione testimonianza significativa di entusiasmo e coscienza di un legame che a distanza di decenni era ancor vivo e profondo. Le attestazioni stesse di alcuni tra coloro che furono un tempo i giovani seminaristi che Don Bosco aveva incontrato nel lontano 1867, stupisco il lettore di oggi, e contribuiscono a delineare un quadro assai interessante e prezioso per lo storico.

A dare il significato globale del lavoro possono essere utili alcune espressioni di Mons. Castelli poste in prima pagina con presentazione del fascicolo commemorativo: “Don Bosco fu qui Fermo; si ricorda ancora con vera compiacenza il suo incontro col nostro Venerando Card. De Angelis, e si leggono con commozione le lettere che Don Bosco scriveva a lui per avere consigli ed appoggio in merito alla fondazione della Società Salesiana: egli ebbe per noi, figli di Alessandro e Filippo un particolare affetto che dimostrò anche quando il Card. Arcivescovo fu deportato Torino”.

L’ARCIVESCOVO MONS. PERINI E I SALESIANI IN DIOCESI

Nonostante i legami che avevano unito la diocesi a Don Bosco, le successive celebrazioni e lo spirito e la “formazione” salesiani di alcuni suoi vescovi, i Salesiani, come presenza attiva nella vita diocesana, non vi erano ancora. A fare questo ultimo passo e a rinvigorire anche altri aspetti dello spirito di Don Bosco, toccò a Mons. Norberto Perini, negli anni dell’immediato dopo guerra. Egli volle con ferma convinzione i Salesiani in Diocesi. Le motivazioni di questa sua scelta vanno ricercate sia nei personali legami di affetto che il presule aveva con la Società Salesiana, sia nelle particolari condizioni socio-politiche e religiose di alcuni centri della nostra Diocesi.

Mons. Perini prima di entrare nel Seminario Ambrosiano era stato alunno al Ginnasio presso l’Istituto Salesiano “S. Ambrogio” di Milano con grande profitto scolastico, riuscendo sempre tra i premiati: erano i lontani anni 1901-1904. Questo Istituto era stato fondato nel 1897, appena nove anni dopo la morte di Don Bosco, e diretto da Don Lorenzo Saluzzo che fin da ragazzo era cresciuto all’Oratorio di Don Bosco e con lui aveva fatto le prime esperienze di sacerdote salesiano. Vi si doveva respirare dunque un’aria autentica di spiritualità salesiana quale Don Bosco l’aveva ispirata. Certo, per il ragazzo che veniva dalla provincia [Carpiano], fu un motivo di forte ripensamento e soprattutto di maturazione interiore. In quella esperienza il giovane Norberto Perini maturerà la sua decisione sacerdotale come del resto egli stesso confida in una sua lettera al superiore dell’Istituto, nel 1954: “Ricordo sempre con piacere e alcune volte con commozione l’Istituto dove ho trascorso i primi anni di Ginnasio e dove si è chiarita la mia Vocazione al sacerdozio” [Lettera dell’arc. Perini 25.III.1954]. La confidenza citata è suffragata dal suo successivo comportamento, secondo quanto ricorda Don Alfonso Minonzio: “Quando ero ragazzo, tra il 1931 e il ’35, ho .sentito Mons. Perini, prima rettore a Tradate e poi prevosto a Busto [Arsizio], perché nelle visite all’Istituto parlava a noi ragazzi; ricordo poi la visita che volle fare appena divenuto vescovo [di Fermo] come atto di riconoscenza perché amava Don Bosco e ricordava con affetto i Salesiani che aveva conosciuto da ragazzo. Lo vidi l’ultima volta a Rho: accompagnavo il direttore don Franzetti e altri confratelli per un atto di omaggio e di gratitudine per chi amava tanto Don Bosco e questo Istituto” [D. A. Minonzio 29.XII.1987].

Il suo stesso fresco ed agile volumetto dedicato ai giovani “L’Età Fiorita” sprigiona più d’uno dei principi pedagogici di Don Bosco e fa costante riferimento allo spirito salesiano. E ispirata alla pedagogia salesiana fu anche la rivista “Catechesi” che egli ancor sacerdote, insieme a Don Montalbetti [futuro vescovo di Reggio C.] fondò e diresse tanto che, dopo qualche anno di cessata pubblicazione, fu rilevata dai Salesiani ed edita ancor oggi per i tipi della ELLE Di Ci.

Quando venne a Fermo, nel 1942, notò la mancanza di questa presenza: ma non erano quelli i tempi propizi per una iniziativa che potesse sopperirvi.

Alcuni fenomeni socio-politici che hanno caratterizzato il dopo guerra nella nostra Diocesi, sono stati allora il segno che questa impresa si dovesse realizzare. Negli anni della ricostruzione i centri costieri hanno visto una fortissima immigrazione, duplicando e triplicando il numero di abitanti. Occorrevano interventi pastorali più precisi e più decisi per tenere il passo con i fenomeni in corso. Tra questi centri, Porto Civitanova era quello che maggiormente aveva urgenza di una nuova sistemazione parrocchiale e di una più incisiva pastorale giovanile. Infatti la città era la più industrializzata della zona e presentava i maggiori squilibri sociali, urbanistici e ideologici. Il Vescovo se ne era interessato e soprattutto aveva fatto qualche tentativo per ovviarvi. Ma non bastava. Da più parti, laici soprattutto, avevano chiesto un intervento più preciso e più radicale. “Mi permetto di interessarmi a questa situazione tremenda pensando all’avvenire dei miei tre figli e di tutta l’Italia e oso chiedere un aiuto effettivo per questi nostri figli…” si legge in una delle numerose petizioni [40]. Le richieste erano precise: “occorrono circoli cattolici, ricreativi, teatrini, cinema, sale di lettura, il posto dove questi giovani possano passare ore di svago ….” [Lettera di S. P. 14.XII.1950].

Di fronte a queste denunce accorate e richieste pressanti, niente di più opportuno che rivolgersi ai Salesiani, esperti e accorti educatori di giovani. Il problema era però duplice: la ricerca di un’area adatta ed adeguata e l’opera di convincimento da compiersi presso i superiori dell’Istituto.

Si pensò subito al Santuario di S. Marone, con la casa annessa che fungeva allora da rettoria. Si trovava, in quegli anni, in una zona quasi suburbana, collegata al centro e attigua alla zona industriale. In più era zona prevista di sviluppo urbano e quindi destinata a crescere. Mancava tuttavia un’area sufficiente per le strutture ricreative e di accoglienza dei giovani. A fianco della chiesa v’era un terreno agricolo appartenente alla tenuta del Principe Napoleone Bonaparte, già previsto come area fabbricabile. Mons. Perini prese personalmente contratti con il Principe che si dichiarò disposto ad una donazione purché fossero rispettati gli scopi e la destinazione di essa.

Le trattative si conclusero a metà del 1950 ed un’area dì 20.000 mq. fu ceduta alla Diocesi che avrebbe provveduto a destinarla per opere di assistenza giovanile. Nel frattempo, vista la ben avviata trattativa per l’area, l’Arcivescovo incaricò Mons. Emilio Del Bianco di prendere contatti con l’Ispettoria Salesiana “Adriatica”, allora con sede a Macerata. Una fitta corrispondenza e forse anche contatti personali portarono ad una felice conclusione.

I Salesiani chiedevano precisazioni; il Vescovo faceva rispondere con chiarezza e decisione: “E’ desiderio dell’Ecc. Presule che i Salesiani a Porto Civitanova abbiano a creare una loro opera completa, cominciando con oratorio per la gioventù… e quanto altro si riterrà opportuno per la educazione cristiana della gioventù operaia”. [Lettera 7.X.1950].

Si giunse così alla “Convenzione tra l’Archidiocesi di Fermo e l’Ispettoria Salesiana Adriatica” stipulata il 4 aprile 1951. I Salesiani presero così possesso della casa è della chiesa di S. Marone il 1 settembre 1951.

Successivamente, con Decreto arcivescovile del 25.5.1952, la Rettoria fu elevata a parrocchia con un suo proprio territorio. Nel frattempo crescevano le strutture dell’opera educativa dei figli di Don Bosco che portavano lo spirito del Fondatore nella città più popolosa e articolata della Diocesi.

LA PARROCCHIA E LA CHIESA DI S. GIOVANNI BOSCO A MOLINI-GIROLA DI FERMO

Anche l’attività di Mons. Perini che si proiettò in tutta la Diocesi nella ridefinizione delle parrocchie, nella costruzione di nuove chiese, per far fronte ai nuovi insediamenti ed alle nuove proiezioni urbanistiche dei maggiori centri, ebbe presente il Sacerdote di Valdocco. Mancavano in Diocesi una chiesa ed una parrocchia a lui dedicate. Pertanto, quando nell’area ora denominata Molini-Girola, in seguito alla crescente urbanizzazione, si fece sentire la necessità’ di una parrocchia autonoma, l’Arcivescovo operò uno stralcio di territorio dalla parrocchia urbana di S. Lucia e con Decreto del 7 marzol962 eresse una nuova parrocchia.

E’ curioso e nello stesso tempo sintomatico notare come il Decreto di erezione stilato dalla Cancelleria Arcivescovile parli di contrada Girola di Fermo con la chiesa del Sacro Cuore di Gesù eretta a Parrocchia. Ma poi nella domanda inviata al Ministero dell’Interno in data 3.10.1962 si legge: “Il sottoscritto Arcivescovo di Fermo chiede…. venga riconosciuto agli effetti civili il Decreto di Erezione della nuova Parrocchia di “San Giovanni Bosco” con sede nella chiesa del S. Cuore, in contrada Girola nel territorio di Fermo, emesso in data 7 marzo 1962″.

Era avvenuto che nel tempo intercorso tra l’emissione del Decreto di erezione e l’inoltro della pratica per il riconoscimento civile era maturata nell’animo di Mons. Perini la decisione di intestare la nuova parrocchia a S. Giovanni Bosco e di costruire la chiesa omonima nel territorio della nuova parrocchia, ma in contrada Molini di Tenna, dove già funzionava come centro di culto uno dei capannoni dell’industria conciaria SACOMAR s. p. a. dei Fratelli Santori, capannone che, per la sua ampiezza e ubicazione, per oltre sette anni assolse in pratica la funzione di chiesa parrocchiale. Il Decreto di riconoscimento civile, firmato dal Presidente della Repubblica Antonio Segni, porta la data del 22 marzo 1963. L’attività pastorale della nuova parrocchia ebbe inizio il 13 ottobre 1963 con l’ingresso del primo Parroco, il Sac. Giuseppe Paci.

Per quanto riguarda la nuova chiesa parrocchiale bastino questi brevi accenni: nel 1967 fu acquistata dall’Opera Pia Ospedale di Fermo l’area di circa 6.000 mq. strutture ricreative e di accoglienza dei giovani. A fianco della chiesa vi era un terreno agricolo appartenente alla tenuta del Principe Napoleone Bonaparte, già previsto come area fabbricabile. Mons. Perini prese personalmente contratti con il Principe che si dichiarò disposto ad una donazione purché fossero rispettati gli scopi e la destinazione di essa.

Le trattative si conclusero a metà del 1950 ed un’area di 20.000 mq. fu ceduta alla Diocesi che avrebbe provveduto a destinarla per opere di assistenza giovanile. Nel frattempo, vista la ben avviata trattativa per l’area, l’Arcivescovo incaricò Mons. Emilio Del Bianco di prendere contatti con l’Ispettoria Salesiana “Adriatica”, allora con sede a Macerata. Una fitta corrispondenza e forse anche contatti personali portarono ad una felice conclusione.

I Salesiani chiedevano precisazioni; il Vescovo faceva rispondere con chiarezza e decisione: “E’ desiderio dell’Eco. Presule che i Salesiani a Porto Civitanova abbiano a creare una loro opera completa, cominciando con oratorio per la gioventù… e quanto altro si riterrà opportuno per la educazione cristiana della gioventù operaia”.

Si giunse cosi alla “Convenzione tra l’Archidiocesi di Fermo e l’Ispettoria Salesiana Adriatica” stipulata il 4 aprile 1951. I Salesiani presero così possesso della casa è della chiesa di S. Marone il 1 settembre 1951.

Successivamente, con Decreto arcivescovile del 25.5.1952, la Rettoria fu elevata a parrocchia con un suo proprio territorio. Nel frattempo crescevano le strutture dell’opera educativa dei figli di Don Bosco che portavano lo spirito del Fondatore nella città più popolosa e articolata della Diocesi.

La progettazione della chiesa e annessa casa parrocchiale fu affidata personalmente da Mons. Perini all’Arch. Sac. Gaetano Banfi di Saronno, che si era offerto di eseguirlo gratuitamente in segno di riconoscenza all’Arcivescovo che lo aveva accolto nel Seminario e lo aveva ordinato sacerdote incardinandolo nell’Archi- diocesi di Fermo.

I lavori di costruzione furono aggiudicati, in seguito a gara d’appalto, all’Impresa Edile Mazzoni Basilio e Figli di Porto S. Giorgio. Il 17 novembre 1968 Mons. Perini pose la Prima Pietra del nuovo complesso parrocchiale e per la prima volta celebrò la S. Messa nella nuova chiesa, ancora incompleta, il 30 agosto 1970, amministrando la S. Cresima a 27 ragazzi della parrocchia.

L’Arcivescovo Mons. Ernesto Civardi, allora Segretario della S. Congregazione dei Vescovi, oggi Cardinale, la consacrava il 1 maggio 1974. Mons. Perini, nonostante gli 86 anni e gli acciacchi, volle essere presente e concelebrò stando quasi sempre seduto a lato dell’altare, ma si notava sul suo volto la gioia e la soddisfazione di vedere ormai completamente realizzata, dopo oltre 10 anni, un’opera da lui tanto vivamente desiderata.

Mons. Cleto Bellucci, allora Amministratore Apostolico della Archidiocesi, non poté essere presente perché costretto ad un ricovero ospedaliero per un grave incidente automobilistico occorsogli pochi giorni prima, ma lo fu spiritualmente con la preghiera e l’offerta delle sue sofferenze.

Quattro targhe di rame, poste all’ingresso della chiesa nella Pasqua 1982, sintetizzano la storia dell’ultimo omaggio di devozione filiale a S. Giovanni Bosco di Mons. Norberto Perini.

vanni Bosco è tutta conservata nell’Archivio Storico dell’Archidiocesi di Fermo.

46- Alla nota n. 34 dopo “Aula Magna” si aggiunga: “posto al di sopra di una lapide con iscrizione latina dettata dall’illustre latinista mons. Tommaso Mariucci, della Segreteria di Stato di Sua Santità”

 

<Poesia di un alunno dell’oratorio di don Bosco>

 

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+++++++++++++++++++ Questa digitazione dell’opera è di VESPRINI ALBINO

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CAMPO DEI PRIGIONERI DI GUERRA E CENTRO RACCOLTA PROFUGHI A SERVIGLIANO

TESTO DI GIUSEPPE ORESTE VIOZZI (1890- 1966) arciprete a Servigliano

IL CAMPO « PRIGIONIERI DI GUERRA »

Un fatto che dal 1915 fino al 1955, ha portato la piccola cittadina di Servigliano al primo piano della notorietà internazionale, è stato il « Campo prigionieri di Guerra » e successivamente « Centro Raccolta Profughi »,

Il 24 maggio 1915, quando già fin dall’agosto del 1914, divampava feroce la guerra, fra diverse nazioni d’Europa, l’Italia entra anch’essa in guerra contro l’Austria Ungheria, mentre nell’agosto successivo la dichiara alla Turchia, alla Germania, ed ai paesi dello scacchiere balcanico. In tal modo tutta l’Europa è in conflitto, schierata in due parti. E’ la cosiddetta Prima Guerra Mondiale 1914-1919. Non è nostro compito accennare qui, anche sommariamente, a questo complesso e tragico avvenimento dei primi anni del ventesimo secolo. Ne parla la storia. Crediamo però conveniente mandare alla memoria il ricordo del « Campo Prigionieri » appunto perché esso ha relazione con Servigliano.

Non ci consta il motivo: se per disposizioni superiori o se per iniziativa di qualche influente personaggio della vita locale, che intendeva dare incremento al modesto paese; anche a Servigliano venne costruito un grande accampamento per accogliere gli eventuali prigionieri di guerra.

Il luogo scelto fu la immediata periferia del paese stesso, lato mezzogiorno, lungo la via per Amandola. Furono espropriati, a diversi privati, circa tre ettari di terreno, e vi si costruirono più di 40 baracche in legno, ognuna dell’ampiezza di 500-600 metri quadrati, oltre a tutti gli altri numerosi locali per servizi ed alloggi dei militari di vigilanza al Campo. Le baracche erano capaci di ospitare circa 10.000 prigionieri, ma tale numero non sembra sia stato mai raggiunto.

Ad ogni modo, a meno di un anno dallo scoppio della guerra, le costruzioni e relative attrezzature erano ultimate, e nell’agosto del 1916, vi affluirono i prigionieri. Il primo Comandante del Campo fu il Ten. Colonnello Cav. Antonio Simoni da Firenze.

Fra i Sacerdoti incaricati all’assistenza religiosa dei prigionieri, crediamo segnalare il Sac. Marcello Mimmi, Vice-Parroco di una Parrocchia di Bologna, poi Rettore del Seminario Interregionale di quella città, in seguito Vescovo di Crema, quindi Arcivescovo di Bari, poi Cardinale Arcivescovo di Napoli ed in fine Segretario della S. Congregazione Concistoriale, e morto a Roma nel 1962.

I prigionieri furono generalmente di nazionalità austro-ungarica, turchi, serbi, ecc. Anche le religioni professate erano diverse. Durante il funzionamento del Campo, ve ne morirono ventidue per malattie varie.

I loro cadaveri furono sepolti nel Cimitero comunale del paese. Di essi soltanto uno, cioè il Ten. Colonnello Gergò Vittorio de Kormand, oriundo da Budapest, venne riesumato ed il 17 ottobre 1925, fu trasportato in Ungheria, mentre i resti di tutti gli altri, durante una esumazione generale delle salme del settore, vennero deposti, nella tomba comune, senza nessun segno di riconoscimento. Il Campo fu sgomberato definitivamente e chiuso per tutti, nel mese di. dicembre del 1919.

Così aveva termine la prima parte, diciamo, della storia di questo Campo, che nello spazio di tre anni, tante miserie e tante lacrime aveva visto degli infelici prigionieri di quella guerra che innumerevoli distruzioni di uomini e di cose portò in tutto il mondo: milioni di morti e di mutilati; miliardi, senza fine, di danni.

Questo costituì la prima guerra mondiale che il grande pontefice Papa Benedetto XV, che la seguì e la visse, giustamente chiamò: «Una inutile strage». Tutti gli eventi che seguirono, vicini e lontani, diedero piena ragione al grande Papa, che però in un primo momento, dalla massoneria internazionale venne ingiustamente dichiarato « disfattista ». Era allora la parola usata, per indicare, coloro che in fatto di guerra non la pensavano come i Capi, anche se questi avessero pieno torto.

Come abbiamo detto, alla fine del 1919 venne definitivamente chiuso, pur rimanendo tutta la sua attrezzatura intatta e in assetto di piena funzionalità.

Nel 1935 il demanio dello Stato che ne deteneva la proprietà tentò di vendere tutto il Campo, ma non vi furono acquirenti, dimodoché ne cedette, a basso prezzo, una parte, al Dopolavoro Comunale (Ente ricreativo creato dal fascismo), che rivendendolo, ci attrezzò locali in paese, ed in parte lo destinò a un vasto campo sportivo. Nelle baracche rimaste il Governo sistemò un deposito di materiale bellico e cannoni, che poi vennero inviati nella guerra di Spagna (1938-1939).

Nel 1940 era già scoppiata la seconda guerra mondiale ed anche l’Italia (insieme con Germania, Austria Ungheria, ecc. contro l’America, Inghilterra ecc.) entrava in guerra nel giugno del 1940. E così, nel dicembre di questo anno, la parte rimasta libera del Campo, venne in fretta riattivata alla meglio, per accogliere nuovamente prigionieri di guerra. Infatti il 5 gennaio 1941 fu riaperto ufficialmente, con l’arrivo del Corpo di Guarnigione. Nel febbraio successivo, arriva il primo nucleo di prigionieri di guerra, Greci, ed in pochi mesi si raggiunge il numero di 3.000.

Il 27 luglio dello stesso anno, inviato dalla Santa Sede, si reca in visita ufficiale al Campo, S. E. Rev.ma Mons. Borgoncini Duca, Nunzio Apostolico presso il Regno d’Italia. Fu naturalmente accolto con tutti gli onori dovuti al suo grado, molto festeggiato anche dai prigionieri, quantunque appena 10% fossero di religione cattolica, ed il rimanente « ortodossi », o di altre religioni. Parlò loro in lingua francese, conosciuta dalla quasi totalità. A nome del santo Padre lasciò vari doni e somme di denaro per miglioramento «rancio».

Erano molto disciplinati e perciò trattati con molta umanità, nessuna misura di rigore fu presa nei loro riguardi. L’assistenza religiosa, in un primo tempo, veniva disimpegnata dall’Arciprete Parroco del luogo Don Oreste Viozzi, ed anche tutti gli “ortodossi” assistevano alla “celebrazione della santa Messa. Nel mese di giugno 1941, venne in paese, quale internato politico un « Pope », Sacerdote ortodosso, Rettore della chiesa ortodossa a Napoli. Allora la assistenza per gli Ortodossi, venne fatta dal Pope stesso, mentre per i cattolici, continuò il Parroco don Viozzi.

Entro il mese di dicembre, sempre dello stesso anno 1941, il Campo si vuota dei prigionieri greci, i quali vengono in parte rimpatriati, altri inviati a lavorare in Sardegna ed un forte contingente viene mandato nel Campo di Cairo Montenotte, in provincia di Savona.

ARRIVANO I PRIGIONIERI DELLE NAZIONI ALLEATE

Rimasto dunque libero il campo, con la partenza dei prigionieri greci, esso viene subito preparato, per accogliere i prigionieri delle Nazioni alleate (Inglesi, Americani, ecc.). I primi contingenti arrivarono nel febbraio del 1942. In seguito, complessivamente, raggiunsero il numero di circa 2.000. Di essi appena il 10% erano cattolici, e altri Protestanti. Nei primi mesi l’assistenza religiosa (cui prendevano parte solamente i cattolici) era svolta dall’Arciprete Parroco del luogo. Il 26 marzo poi, inviato dal Ministero della Guerra, viene il rev. p. Antonio da Persiceto (Bologna) Minore Cappuccino, che era stato per 25 anni Missionario nell’India inglese, ed incaricato colà della assistenza religiosa ai militari dell’Inghilterra di stanza in quella colonia.

Il 6 settembre pure del 1942, accolto con gli onori dovuti al suo grado, è in visita ufficiale al Campo, S. E. mons. Antonio Giordani, Vescovo della G.I.L. (Organizzazione giovanile creata dal Fascismo) che amministra la Cresima a 12 prigionieri convertitisi alla religione cattolica.

Il 17 dicembre, sempre del 1942, inviato dalla S. Sede, il Campo ha l’onore di ricevere, per la seconda volta, in visita ufficiale, S. E. rev.ma Mons. Borgoncini Duca. Anche questa volta, l’accoglienza è entusiasta, pure da parte dei protestanti che costituiscono il 90%. Bel gruppo. Essi ne riportano una grandissima impressione, specialmente per i suoi modi gentili, cordiali, e (diciamo noi che eravamo presenti alla scena) quasi familiari. A nome del santo Padre, lascia in dono, due maestose fisarmoniche, strumento musicale particolarmente gradito agli inglesi. Questa volta il Nunzio parla in italiano e la traduzione in lingua inglese è fatta contemporaneamente dal Cappellano P. Antonio da Persiceto.

Da questo tempo la vita del Campo si svolge più o meno normale (eccetto i tentativi di … fuga, da parte di alcuni prigionieri), fino alla data dell’armistizio, del settembre 1943. I prigionieri subivano frequenti cambi, ma erano sempre: Americani, Inglesi, e dell’Isola di Cipro.

Avvenuto l’armistizio dell’Italia, con gli Alleati, i circa 2.000 prigionieri, nella notte del 14 settembre 1943, temendo, da un momento all’altro, l’arrivo delle truppe Tedesche, che dal Sud risalivano verso il Nord, si dispersero nelle campagne e paesi vicini, ed ivi rimasero nascosti fino alla completa liberazione, ossia fino al 14 giugno 1944. Nelle famiglie coloniche, in modo speciale, essi trovarono cordiale e generosa ospitalità, in parte poi ricompensata alla fine della guerra.

Intanto alcuni militari di Reparti Tedeschi, prendono possesso del Campo e nei giorni 3-4-5 ottobre asportano parecchie centinaia di pacchi, appartenenti ai prigionieri inglesi. Due civili italiani (marito e moglie) che tentano di prendere anch’essi del materiale, vi trovano la morte, da parte dei Tedeschi stessi, ormai padroni del campo.

Verso la fine di ottobre, sempre del 1943, vengono raccolte nel campo, alcune decine di Ebrei, qui internati, che nel mese di dicembre raggiungono il numero di circa 200. In questi giorni fa loro visita S.E. Mons. Norberto Perini, Arcivescovo di Fermo, che li conforta con la parola, e lascia in dono una certa somma di denaro.

Ai principi del 1944; nel mese di Febbraio, vi vengono internati circa 300 maltesi-tripolini, che insieme ad altri 4.000, da circa 2 anni, si trovano in Italia, provenienti da Tripoli. Questi, quantunque emigrati da secoli dall’isola di Malta, loro patria di origine, tenevano ancora la cittadinanza inglese, nonostante che nella lingua, nella religione (esemplari cattolici) e nello spirito, si sentissero veramente italiani. Erano divisi in circa 70 famiglie, con componenti di ogni età.

A mano a mano che il fronte di guerra, avanza verso di noi, in questa primavera affluiscono al Campo, ogni giorno, altri Ebrei, e parecchi Cinesi. Il 3 maggio, alle ore 22,30, il campo viene bombardato da un aereo di ignota nazione. Si seppe, più tardi che esso era inglese, ed aveva sorvolato il campo, per dare l’allarme e mettere lo scompiglio, e far in modo che gli Ebrei si dessero alla fuga, essendo imminente l’arrivo di automezzi tedeschi, per prelevarli e farli uccidere. Fra gli internati di Tripoli, si ha un morto ed alcuni feriti. Dopo questo fatto tutti fuggono dal campo, e gli Ebrei, a conoscenza forse del loro pericolo, si rifugiano nei luoghi circostanti.

Al mattino del 4 maggio, parecchi automezzi tedeschi sono dinanzi al Campo, per caricare gli Ebrei dei quali parleremo tra poco. Una settimana dopo, tutti indistintamente, debbono rientrare al Campo. Il 4 giugno Mons. Norberto Perini, Arcivescovo di Fermo, fa nuovamente una visita al campo ed amministra la santa Cresima a circa 13 bambini, maltesi- tripolini.

In questo stesso pomeriggio, giunge la notizia, che i Tedeschi hanno lasciato libera Roma. Dal 14 al 18 giugno, giorni di ansia e trepidazione per tutti, a causa del passaggio delle truppe tedesche, che si ritirano verso il nord. Fuga dei giovani; verso le campagne, tentata requisizione di bestiame e generi, ostruzione delle strade, nascondimenti di apparecchi radio per ascoltare clandestinamente le notizie degli avvenimenti che precipitano verso l’epilogo.

La grande piazza del paese è letteralmente occupata, per tre o quattro giorni, dai grandi automezzi tedeschi, che hanno posto i loro Uffici nel Palazzo Comunale. Ciò nonostante la popolazione si mantiene calma e non tenta nessuna inutile reazione, perciò non si verificarono incidenti di rilievo, mentre indisturbati transitavano automezzi, cavalli e truppa, affluendo dalla strada di S. Vittoria, e da Amandola, dirigendosi verso l’interno, via Macerata, Foligno, e oltre.

Un solo caso deplorevole ed inumano è da ricordare: l’uccisione dell’ebreo Schlaf Jesael Isidor, barbaramente trucidato ad un Km. da Servigliano, lungo la strada Matenana, per il solo motivo che venne riconosciuto di razza ebraica.

Il monumentale ponte sul Tenna, in precedenza preparato e minato, sotto gli occhi dei cittadini, è fatto saltare la sera del 19 giugno, alle ore 21,30, per quasi un terzo dei suoi 15 pilastri, dalle truppe tedesche disordinatamente in ritirata, verso il nord.

Una grande emozione, in quella storica sera di giugno, invase tutti gli spettatori, che finalmente si sentirono liberi e sicuri. La guerra per noi era finita!

Unici internati, rimasti nel Campo, erano i maltesi-tripolini, che dopo un naturale sbandamento avvenuto anche per loro, il 22 giugno rientrano nelle loro baracche ed il 17 luglio, su più di 30 automezzi, vengono trasportati a Bari e da qui imbarcati per la loro Tripoli d’Africa.

Così il Campo ritorna nuovamente semideserto, custodito da un minuscolo Corpo militare di guardia; ma questo silenzio è di breve durata, perché sarà presto riattivato e si denominerà «Centro raccolta profughi».

IL CENTRO RACCOLTA PROFUGHI CIVILI

Il Campo, nella avanzata primavera del 1945, cioè a neppure un anno dalla partenza degli ultimi internati di guerra, viene frettolosamente ed alla meglio riadattato. Intanto, sia in questo, come nelle case del paese, arrivano circa 800 militari Polacchi, per un corso di addestramento, e vi rimangono per più di un anno. Hanno anche il loro Cappellano, ed officiano, alla domenica, nella chiesa parrocchiale.

Il giorno 3 settembre 1945, nuovamente si ripopola e si rianima per essere Centro Raccolta Profughi. Arrivano circa 1300 profughi dalla Slovenia (Jugoslavia) e precisamente della Diocesi di Lubiana. Sono persone di ogni età, qualcuno anche novantenne e di ogni categoria sociale, ma nella maggioranza operai e contadini. Sono con essi cinquanta Sacerdoti cattolici. Si trovano sotto la protezione e l’assistenza della Organizzazione internazionale U.N.R.A.

Il motivo della loro fuga dalla patria, è la persecuzione religiosa e politica, ingaggiata dal Comunismo, specie per opera del dittatore « Tito ». Sono tutti esemplari cattolici e per i primi 6 mesi, i 50 Sacerdoti, celebrano tutti, ogni giorno, la santa Messa, nella chiesa parrocchiale, poi adattano a cappella una baracca del Campo, ed una metà celebra lì. Istituiscono anche una scuola, o Seminario, per i loro giovani. Tale scuola viene ufficialmente riconosciuta dagli Alleati.

Alcuni di questi Sacerdoti si prestano per le confessioni e predicazione, data la conoscenza che parecchi avevano della lingua italiana, essendo delle vicinanze di Trieste e Gorizia. Il 17 novembre del 1945, S. E. Mons. Norberto Perini Arcivescovo di Fermo, si reca in visita al Centro Profughi., intrattenendosi in lunga conversazione specialmente con i 50 Sacerdoti. Dai Registri parrocchiali si nota che numerosi furono i Battesimi dei bambini sloveni qui nati, come anche i matrimoni celebrati, ma sempre tra gli sloveni medesimi.

Siamo così al 1946, ed il 24 maggio di questo anno, è ancora una volta, al Centro Profughi, S. E. Mons. Arcivescovo che, nella baracca adibita a Cappella, amministra la S. Cresima a circa 30 bambini e bambine e rivolge agli sloveni un nobile discorso, che viene simultaneamente tradotto da un loro Sacerdote, in lingua slovena. E’ doveroso notare come fra detti Sacerdoti, ve ne fossero parecchi competentissimi in musica sacra, disegno ed altre arti liberali.

Il 1 luglio 1946, lasciano Servigliano gli 800 militari polacchi, essendo terminato il loro corso di addestramento.

Anche i profughi sloveni si preparano a partire: il 24 luglio 1946, tutti, con i 50 Sacerdoti, vengono, sempre dagli Alleati, trasferiti al Campo Profughi di Senigallia (Ancona). Da qui, dopo appena un anno, come ci risulta, partono per la Repubblica Argentina, ove fondano una loro colonia; colà i Sacerdoti assistono anche i fedeli del luogo.

Un’altra volta il centro profughi rimane abbandonato e deserto. Si intuisce però che presto verranno altri « inquilini » ad abitarlo. Intanto si procede a sommarie disinfezioni e restauri, ed appena ad un anno dal trasferimento degli Sloveni, il Centro si ripopola di nuovo.

Il 20 settembre 1947, nelle baracche, restaurate alla meglio, cominciano ad affluire altri profughi. D’ora in avanti, e per quasi 8 anni, essi saranno tutti italiani, o di provincie già appartenente all’Italia!

I primi arrivati in numero di circa 300, provenivano dalla Dalmazia, Venezia Giulia, Istria, Fiume. Negli anni successivi vennero dalla Tripolitania, Etiopia, e altrove.  Tutte quelle colonie, che una volta erano sotto I’Italia, in forza del trattato di pace, dopo la seconda guerra mondiale, ritornarono ai loro vecchi padroni; perciò molti italiani, spontaneamente o costretti, rimpatriarono.

Dato che nella quasi totalità si trattava di operai e coloni, trasferiti sotto il fascismo nell’Africa orientale, ed avendo dovuto lasciare improvvisamente i modesti averi e le proprie attività, colà avviate, si riscontrava in tutti una grande miseria materiale, ma specialmente morale e religiosa. Nel Campo avevano l’assistenza dal Governo italiano, prima in natura, poi in denaro. Nel Comune avevano « anagrafe » speciale ed erano ammessi al voto, nelle varie circostanze che vi capitavano.

L’assistenza religiosa era disimpegnata da un Sacerdote, nominato da S. E. Mons. Arcivescovo, che una prima volta si recò per una visita la sera del 30 settembre 1947, inaugurando nella circostanza il servizio di altoparlanti nella Chiesa parrocchiale.

In otto anni, passarono dai 40 ai 50 mila profughi che gradatamente venivano immessi nella vita civile e nelle varie attività della nostra nazione. Fino al 1955, la vita del Centro Profughi si svolge su questa alternativa di profughi che vengono e profughi che vanno. Dai registri parrocchiali si rileva che numerosi battesimi furono amministrati ai bambini ivi nati, parecchi furono i matrimoni celebrati, fra i profughi stessi e non pochi furono, in detti anni, i deceduti, per cause diverse.

Li 11 luglio 1955, tornandovi, S. E. Mons. Arcivescovo amministra la S. Cresima ai 28 bambini dei profughi e nella loro Cappella celebra la S. Messa. In questa estate del 1955, gli «arrivi» si stanno esaurendo, mentre le «partenze » sono accelerate: il Centro si sta «sfollando» e nell’ottobre di quell’anno, esso è definitivamente vuoto, per cui venne ufficialmente chiuso.

 

PER 40 ANNI SI UDIRONO LINGUE DIVERSE

Anche il Centro Raccolta Profughi ha concluso definitivamente e speriamo per sempre, la sua attività. A noi che abbiamo visto, ed almeno spiritualmente, vissuto questa tragedia morale del Campo si impone una conclusione a queste note di cronaca.

Dai prigionieri della prima guerra mondiale (1915-1918), a quelli della successiva (1940-1944), alle migliaia di internati politici, ed agli altrettanti profughi civili stranieri ed italiani, succedutesi nel lungo arco di tempo di 40 anni, quante lingue diverse hanno udito le annose baracche; quanti sospiri e quante lacrime, nelle interminabili notti insonni, al pensiero dei parenti lontani, oltre i monti, oltre i mari, a migliaia di chilometri!

Qui si vedevano morire, senza lo sguardo e la carezza materna, sopra una nuda branda da campo, e sepolti in una fossa comune … che non era quella della propria Patria, del proprio paese nativo, ove dormivano i loro cari! «Sunt lacrimae rerum…» anche le cose piangono…!

Orgoglio … ambizione … pazzie … di Capi, portano a quella abominevole cosa che è la Guerra, inutile strage di popoli e nazioni! Tutte queste brutte cose …sono dette ai posteri dal Campo prigionieri e Profughi di Servigliano, ed insieme ad esso dai tanti e tanti altri d’Italia fino ai più tragici, più disumani, ed obbrobriosi di Europa, e del mondo in guerra…! Il mondo ha perduto la coscienza e l’idea delle leggi divine della umana fratellanza.

<1966> Scriviamo queste note e questi ricordi a 12 anni di distanza dalla chiusura definitiva di questo Campo. Le attrezzature tutte in legno, dopo 40 anni, abbandonate a se stesse, stanno subendo la sorte del tempo, che tutto distrugge. Forse presto il cumulo di dolorosi e tragici ricordi sarà tutto raso al suolo, e ritornerà a rifiorirvi la vita e l’umano lavoro. Queste cose le abbiamo volute scrivere a ricordo del passato, e ad ammaestramento dei posteri … lontani!

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