PERGAMENA DEL PAPA PIO II PER LA CONFRATERNITA DEL CORPO DI CRISTO A SERVIGLIANO 1562

Trascrizione di una pergamena di Servigliano dalla copia fattane da Pennesi Giuseppe circa l’anno 1895. Traduzione Tomassini. Digitazione di Vesprini Albino belmontese.

<PIO IV nel 1562 dicembre 4 concede privilegi ALLA CONFRATERNITA DEL CORPO DI CRISTO DI SERVIGLIANO>

Pio vescovo servo dei servi di Dio a perpetua memoria. La cura che per divina disposizione è affidata a noi, nonostante l’insufficienza dei nostri meriti, ci spinge e induce a vigilare e a dirigere in modo salutare ogni chiesa, specialmente quelli parrocchiali e volentieri favoriamo coloro che vogliono accrescere il culto divino per confortare spiritualmente i parrocchiani con la spirituale consolazione e in tali cose li sosteniamo con opportune concessioni. Già abbiamo riservato alla sede Apostolica di disporre e conferire tutti i benefici ecclesiastici, che abbiano o che non abbiano la cura delle anime, quando sono vacanti e in futuro lo saranno e abbiamo decretato d’ora in poi che non è valida, ma è nulla qualunque cosa che a questo riguardo capitasse sia tentata di fare da qualsiasi autorità consapevolmente o per ignoranza. Attualmente, la chiesa parrocchiale della pievania di San Marco del Castello di Servigliano nella diocesi di Fermo è stata riconsegnata per la rinuncia che ne ha fatto il diletto figlio Brancadoro Tornabuoni da Petritoli attuale rettore di essa e spontaneamente l’ha presentata alla Sede Apostolica nelle nostre mani e noi l’abbiamo accettata, pertanto questa è chiesa vacante al presente e nessun altro può disporne se non noi per la riserva decretata come già detto. Dato che è stata presentata a noi la richiesta da parte della Confraternita dei diletti confratelli in onore al sacratissimo Corpo di Cristo istituita canonicamente in detta chiesa (di San Marco) sollecitando che se noi uniamo, ammettiamo incorporiamo con la loro Confraternita tale chiesa certamente si riceverebbe un grande vantaggio con l’aiutare nelle necessità di questa Confraternita, senza causare alcun incomodo alla cura delle anime dei diletti figli <nostri> parrocchiani della stessa chiesa, e gli stessi confratelli forniranno con molto decoro i paramenti e le altre cose necessarie per il culto divino e la manterranno lodevolmente nel servizio divino. Da parte di questi confratelli che dichiarano che i frutti annessi, i redditi e i proventi di questa chiesa, secondo l’estimo comune, non superano il valore annuo di 500 ducati d’oro della Camera abbiamo ricevuto la supplica affinché questa chiesa fosse annessa e incorporata, unendola  alla loro Confraternita e la nostra benignità Apostolica si degnasse opportunamente provvedere a quanto detto; noi, pertanto, che già abbiamo voluto che i richiedenti i benefici ecclesiastici siano tenuti ad unirsi ad altri per una somma di valore annuo stimato come detto sopra, altrimenti l’unione non avrà valore, e sempre l’unione sia fatta convocando le parti interessate, siamo favorevoli alla predetta unione assolvendo con il presente atto che esegue tale unione da qualsivoglia condanna, scomunica, sospensione, interdetto e pena che siano stati inferti in qualsiasi modo e causa giuridica, se ce ne fossero per i predetti confratelli mentre concediamo la predetta Chiesa vacante sia nel modo predetto sia in altro modo, se per spontanea riconsegna del detto Brancadoro di altri presso la Curia Romana o fuori di questa presso un pubblico notaio con i testimoni, anche all’effetto della costituzione del Papa Giovanni XXII predecessore nostro che inizia “Esecrabile” per conseguire altro beneficio ecclesiastico vacante da qualsiasi autorità e la sua collazione, secondo i decreti del Concilio Lateranense è devoluta legittimamente a disposizione della Sede Apostolica, o riservata ad essa in qualsiasi modo speciale o generale, pur se esistesse una lite indecisa su ciò fra alcuni, purché in questo caso spetti a noi la decisione, pertanto con il presente atto vogliamo unire, annettere, incorporare tale chiesa alla stessa Confraternita con tutte le cose annesse, con i diritti e con le pertinenze a vigore dell’autorità apostolica. A questi confratelli, dunque, è lecito prendere possesso corporale di essa chiesa, dei diritti e delle pertinenze annessi, facendolo direttamente da sé o per mezzo di altri, con propria libera autorità e tenere, avere la rettoria e l’amministrazione di questa chiesa nei beni temporali e nei frutti, i redditi, proventi, diritti, sovvenzioni, emolumenti e in ogni cosa annessa che essi percepiscano, esigano, prelevino, recuperino, ed inoltre rivolgano questi all’uso e alla utilità della loro Confraternita e di questa chiesa per mezzo di uno o più cappellani, secondo il volere di essi confratelli con potere di porli, rimuoverli, secondo l’approvazione dell’ordinario <diocesano> del luogo in modo che siano approvati o rimossi nel servizio divino e nell’esercitare la cura delle anime dei parrocchiani, amministrando i divini sacramenti e prendendosi carico di ogni incombenza, senza chiedere in ciò la licenza dell’ordinario <diocesano>. Questi confratelli non possono essere rimossi mai, in alcun tempo, dal governare questa chiesa e dall’amministrarne i redditi e proventi ed altro come detto sopra, da parte di nessuna autorità, neanche Apostolica. Essi non debbono essere molestati né turbati, né impediti nel loro ruolo né per le offerte, le elemosine, i lasciti, i legati, le donazioni fatte al loro e a questa loro chiesa, in qualsiasi modo e cosa. La Chiesa stessa non può essere data legittimamente in commenda o in amministrazione ad alcun altro né può essere da alcuno richiesta, né praticarsi la provisione da alcuna autorità, né disporne. Gli annessi frutti, i redditi, i proventi, i diritti, le sovvenzioni, gli emolumenti, le offerte, le elemosine, i lasciti, i legati, i beni, le cose non possono essere governati, né amministrati altrimenti se non dai predetti confratelli e da chi essi a ciò deputano. E tutte le collazioni, le provisioni, le commende o altre disposizioni che in futuro fossero fatte in contrasto con il presente atto da parte nostra della sede Apostolica o da legati o anche dell’ordinario <diocesano> e qualora ciò capitasse siano atti senza conseguenza, né validità, di nessun valore giuridico, vani, inutili e qualsiasi giudice di qualsiasi autorità anche uditore delle causa del palazzo apostolico deve essere privo di potere di giudicare, interpretare, definire su ciò. Qualora in contrario si tentasse consapevolmente o ignorantemente da ora in seguito qualcosa, lo dichiariamo senza validità e nullo. Per volontà da noi già deliberata e secondo  il Concilio Lateranense ultimamente celebrato, le unioni perpetue di benefici non subiscono pregiudizi che capitasse lo per casi giuridici di proibizioni o di pia memoria o di editti apostolici, sinodali o di costituzioni speciali, ordini contrari o provvisioni fatte per benefici ecclesiastici o atti speciali e generali della Sede Apostolica, o dei suoi legati per interpretazione e al fine di inibizione, riserva, decreto o qualsiasi procedimento. Vogliamo che siano senza valore né effetto giuridico le lettere, i processi, le loro conseguenze che possano recare pregiudizio nel ricevere benefici come detto, neanche per privilegi, indulgenze, lettere apostoliche generali e speciali di qualsiasi tenore. Il loro valore è impedito in ogni modo, senza che abbiamo effetto e differiscano il presente atto. Ogni parola qui espresse sia tenuta valida per la provvisioni e l’unione e l’incorporazione di questa predetta Chiesa che non sia privata del dovuto rispetto e non sia negata la cura delle anime e siano sopportati i consueti oneri di questa chiesa in modo congruo. A nessun uomo è lecito contrastare con temerarietà né distruggere queste pagine con cui noi assolviamo, uniamo, annettiamo, incorporiamo per volontà e decreto. Se qualcuno presumerà di attentare ciò sappia che incorrerà nell’indignazione dell’onnipotente Dio e dei beati apostoli Pietro e Paolo.

Data a San Pietro nell’anno dell’incarnazione del signore 1562 nel giorno precedente alle 9 dicembre (4) nell’anno terzo del nostro pontificato.

PIO IV

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Pius Episcopus Servus Servorum Dei ad perpetuam rei memoriam.

Pastoralis officii cura nobis meritis licet imparibus divina dis(positi)one commissa Nos excitat et inducit ut salubri ecclesiarum quarum(libet) presertim parochialium directioni invigilantes votis illis per que divinus in eis / cultus cum spirituali parochianorum (suorum) consolatione augeatur libenter annuamus eaque favoribus prosequamur opportunis; dudum siquidem omnia beneficia ecclesiastica cum cura et sine cura apud sedem apostolicam/ tunc vacantia et in antea vacatu(ra) collatione et dis(positio)ne nostre reservavimus/ decernentes ex tunc irritum et inane super his a quoqua quavis auctoritate scienter vel ignoranter contigeret attemptari /cum itaque postmodum parochia(lis) ecclesia plebania nuncupata sancti Marci castri Servigliani firmane diocesis per liberam resignationem dilecti filii Branchadori Tornabuoni de Patritulo / nuper ipsius ecclesie rectoris plebani nuncupati de illa quam tunc obtinebat in manibus nostris sponte factam et per nos admissam apud sedem predictam vacaverit et vacet ad presens nullusque de illa pre/ter nos hac vice disponere potuerit sive poterit reservatione et decreto obsistentibus supradictis, et sicut exhibita nobis nuper pro parte dilectorum filiorum confratrum  confraternitatis in honorem / sacratissimi Corporis Christi in dicta ecclesia canonice institute, petitio continebat si dicta ecclesia eidem confraternitati perpetuo uniretur annecteretur et incorporetur, ex hoc profecto/ confratribus ipsis quo dicte Confraternitatis necessitatibus subvenire possent magnum pararetur commodum nec propterea cura animarum dilectorum filiorum parrochianorum ipsius ecclesie aliquod pate/retur jncommodum verum ipsi confratres illam paramentis et aliis inibi divino cultui necessariis decentius fulcitam manutenerent eisque in divinis laudalabiter deserviri facerent; quare pro parte / dictorun confratrum asserentium dicte ecclesie et illi forsan annexorum fructus redditus et proventus quinquaginta ducatorum auri de camera secundum comune extimationem valorem annui non exce/dere nobis fuit humiliter supplicatum ut ecclesiam predictam eidem Confraternitati unire annectere et incorporare ac aliter in premissis oportune providere de benignitate apostolica dignaremur; nos igitur / qui dudum inter alia voluimus (quod) petentes beneficia ecclesiatica aliis uniri tene… (antur) munere verum illorum valorem annuum secundum extimationem predictam aliquin unio non valeret et / semper in unionibus commissio fi(at) ad partes vocatis quorum interesset eadem confratres et eorum singulis a quibusvis excommunicationis suspensioni et interdicti aliisque ecclesiasticis, sententiis, censuris et penis a / iure vel ab homine quavis occasione vel causa latis, si quibus quomodolibet innodati existunt, ad effectum presentium dumtaxat consequendum harum serie absolventes et absolutos fore censentes huismodi suppli/cationibus inclinati ecclesiam predictam sive premisso sive alio quovis modo aut ex alterius cuiuscumque persona seu per similem resignationem dicti Branchadori vel cuiusvis alterius de illa in / Romana Curia, vel extra eam etiam coram notario publico et testibus sponte factam aut constitutionem felicis recordationis Ioannis pape XXII predecessoris nostri que incipit Execrabilis vel / assecutionem alterius benefici ecclesiastici quavis auctoritate collati vacet etiam si tanto tempore vacaverit quod eius collatio, iuxta Lateranensis statuta Concilii ad sedem eandem legitime devoluta; ipsaque / ecclesia dispositioni apostolice speciali vel alias generaliter reservata, existat et super ea inter aliquos lis cuius statum presentibus haberi volumus pro expresso pendeat indecisa dummodo eius dispositivo ad nos hac / vice pertineat cum annexis huiusmodi ac omnibus iuribus et pertinentiis  sive eidem Confraternitati apostolica auctoritate tenore presentium perpetuo unimus annectimus et incorporamus; itaque liceat eisdem / confratribus per se vel alium seu alios corporalem possessionem ecclesie et annexorum, iuriumque et pertinentiarum predictarum propria auctoritate libera apprehendere et retinere nec non ipsam ecclesiam in temporalibus regere et gubernare ac …..   eique annexorum eorumdem fructus redditus proventus iura obventiones et emolumenta quecumque percipere exigere et levare ac recuperare, nec non in confrater/nitatis et ecclesie predictorum usus et utilitatem convertere ipsique ecclesia per Capellanum,  seu Capellanos, ad ipsorum confratrum nutum quoties eis videbitur, ponendum et amovendum seu ponendos et/ amovendos ac per loci ordinarium approbandum vel approbandos in divinis deserviri et curam animarum parochianorum huismodi exerceri illique ecclesiatica sacramenta ministrari nec non alia dicte / ecclesie incumbentia onere supportare facere eiusdem ordinarii loci vel cuiusvis alterius licentia desuper minime requisita; et insuper confratres predictos a dicta ecclesia illiusque /  regimine gubernio ac fructum redditum proventum et bonorum administratione aliisque premissis nullo unquam tempore etiam per eundem loci ordinarium vel alium seu alios/ quoscunque quamvis etiam apostolica (auctoritate) predicta fungentes amoveri vel super illis ac etiam ecclesia et Confraternitati predictis pro tempore quomodolibet factis  oblationibus eleemosinis relictis / legatis et donationibus pecun(iaris) bonorum et aliarum rerum quorumcunque impediri molestari inquietari vel perturbari ipsamque ecclesiam alicui in (legitimam) commendam seu administrationem concedi / seu per quosvis impetrari aut alias de illa quamvis auctoritate cuiquam provideri vel disponi nec non illius ac annexorum fructus et redditus proventus iura obventiones et emolumenta ac oblationes/ elemosinas relicta legata ac res et bona huismodi aliasque per dictos Confratres at eorum ad id deputatos recipi gubernari et administrari non posse neque debere ac quascumque / collationes provisiones commendas set alias dispositiones que in futurum de ecclesia et eius bonis predictis etiam per nos et sedem predictam vel eius legatos seu ipsum loci ordinarium / vel alium seu alios contra tenorem presentium fieri contigerit et quecumque pro tempore inde secuta irrita et inania nulliusque roboris vel momenti existere et sic in premissis omnibus et / singulis per quoscumque iudices quavis auctoritate fungentes etiam causarum palatii apostolici auditores sublata eius et eorum cuilibet quavis aliter iudicandi et interpretandi facultate et auctoritate / iudicari et diffiniri debere ac p…………….. si secus super his a quoquam quavis auctoritate scienter vel ignoranter attemptatum forsan esset hactenus vel in posterum attemptari contigerit / irritum et inane decernimus …. (presen?)tibus priori voluntate nostra predicta ad Lateranensis Concilii novisime celebrati uniones perpetuas nisi in  casibus a iure permissis fieri prohi/bentis nec non pie memorie ……….. etiam predecessoris nostri ac quibusvis  (aliis?) apostolicis nec non in  provincialibus et sinodalibus conciliis editis generalibus vel specialibus constitutionibus / et ordinationibus contrariis (quibucumque)   … si ali(…..) super provisionibus sibi factis ……  huismodi vel aliis beneficiis ecclesiaticis  in illis partibus speciales vel generales dicte sedis vel eius legatorum littera interpretarint etiam si per eas ad inhibitionem reservationem et decretum vel alias quomodolibet sit processum; quas quidem litteras et processus habitos per easdem ac inde secuta / quecumque ad ecclesiam predictam volumus non extendi sed null(ius)  <…momenti…> quoad assecutionem beneficiorum aliorum preiudicium generari; et quibuslibet aliis privilegiis indulgentiis et litteris apostolicis / generalibus et specialibus quorumcumque tenorum existant per que (partibus) non expressa vel totaliter non inserta effectus earum impediri valeat quomodolibet vel differri et de quibus quorumque totis / de verbo ad verbum habenda sit in nostri litteris mentio specialis provisio quod propter unionem annexionem et incorporationem huismodi ecclesia predicta debitis non fraudetur obsequiis et predicta / animarum cura in illa nullatenus neg…tur sed ipsius ecclesie congrue supportentur onera  consueta. Nulli ergo omnino hominum liceat hanc paginam nostre absolutionis unionis annexionis incorpo/rationis decreti et voluntatis infringere vel ei ausu temerario contraire. Si quis autem hoc attemptavere(!) presumpserit indignationem omnipotentis Dei ac beatorum Petri et Pauli apostolorum eius / se noverit incursurum.

Datum apud S. Petrum. Anno Incarnationis Domini millesimo quingentesimo sexagesimo secundo pridie Nonas decembres, Pontificatus Nostri anno tertio.

<digitazione di Albino Vesprini>

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LA SELVA DI CASALE a Chiarmonte è acquistata da Servigliano nel 1459. Pergamena serviglianese

ANNO 1459. – IL COMUNE DI SERVIGLIANO ACQUISTA LA SELVA CASALE DI CHIARMONTE

In Dei nomine. Amen. Anno Domini millesimo quadragesimo quinquagesimo nono, inditione septima tempore sancti in Christo patris et domini nostri domini Pii divina providentia Pape secundi et die vigesima septima, mensis augusti. Nobilis vir Iacobus Ciccharelli de Nobilibus de castro Masse Comitatus civitatis Firmi non vi, non dolo, nec metu, ductus sed sua bona, plena, libera et spontanea voluntate ex certa scientia, et non per errorem, per se suosque heredes et successores iure proprio et in perpetuum dedit, vendidit tradidit et cessit et pleno iure concessit ser Ioanni Iacobi Rictii de castro Serviliani Comitatus eiusdem Marchie civitatis Firmi, sindico et sindicario nomine Comunis, hominum et universitatis dicti castri Serviliani a dicto Comune et homin(ibus), universitate in publico parlamento ad hunc actum spetialiter deputatum prout per manum ser Marini Bartolomei de Serviliano publici notarii inde rogati presentis, stipulantis  et recipientis nomine et vice dicti Comunis et hominum universitatis castri predicti Serviliani unam possessionem silvatam pro indivisa cum fundo Vaccharelli de dictis Nobilibus de Massa positam in territorio Claromontis in contrata “a lì de la selva de Casale” iuxta res eredis Antonuctii de Nobilibus de Massa ab uno latere; res ipsius venditoris et Francisce sue consortis et Antonii Massuctii de castro Belmontis a capite, et res Ecclesie sancti Angeli ab alio latere et alios fines vel si qua alia latera extistant dicte possessionis veriora reservata Ecclesia Sancti <Cataldi> in Casale cum omni sua iurisditione intra fossatu cum inde tenendi cum inde fructuandi possidenti et quicquid sibi ser Ioanni nomine quo supra deinceps placuerit perpetuo faciendi cum introitibus et exitibus et egressibus suis consuetis usque in vias publicas et vicinales cum omnibus et singulis que in predicto continent confines vel alios si qui forent veriores et cum omnibus et singulis que dicta res vendita habet in se, super se, ac in se et extra se cum omni iure, actione, usu seu acquisitione in ea vel pro ea res vendita aut ipsi rei vendite modo aliquo pertinentis seu expectantis, abdicando a se Iacobus venditor predictus dominium et proprietatem possessionis et in dictum emptorem liberaliter trasferendo. Quam possessionem  venditam prefatus Iacobus venditor predictus costituit se nomine dicti Ioannis emporis predicti precario nomine possidere donec possessionem dicte rei sic vendita dictus ser Ioannis quo supra accepit et intraverit corporalem dans et concedens Iacobus venditor predictus prefato ser Ioanni emptori predicto licentiam et liberam (aut) possessionem rei vendite intrandi sine acquisitione presentis alicui(us) iudicis sua propria auctoritate, possidendi usufructuandi et quicquid sibi ser Ioanni, nomine quo, supra deinceps placuerit in perpetuo faciendi et ad cautelam, istantiam, petitionem  ser Ioannis empori predicti, prefatus Iacobus venditor predictus (!) fecit constituit et ordinavit Sanctem Dominici Stefani de dicto castro Serviliani, presentem et acceptantem suum verum et legitimum procuratorem, factorem, certum nuptium specialem <vel> si quo alio nomine melius de iure dici et censeri poterit ad inducendum et ponendum dictum ser Ioannem emptorem predictum in veram vacuam corporalem possessionem dicte rei vendite, ipsamque tenendi forma presentis contractus, promittens prefatus Iacobus venditor ratum et firmum habere et tenere quicquid  per dictum suum procuratorem factum et procuratum fuerit in predictis et ipsum non revocare sub infrascripta pena et hoc pro pretio et nomine pretii quadraginta sex florenos ad rationem XL bologninis pro quolibet floreno. Quod pretium totum et integrum dictus Iacobus venditor in presentia mei notarii et testium subscriptorum habuit et recepit a predicto ser emptore predicto; de ipso quoque pretio toto Iacobus venditor predictus sponte per se suosque eredes et successores fecit predicto ser Ioanni stipolanti et recepenti nomine quo supra finalem et generalem quietationem, absolutionem, remissionem et factum de non ulterius petendo aliquid non agendo liberans absolvens dictum emptorem a dicta solutione per aquilianam stipulationem interpositam acceptilationem legitime subsecutam. Renuntians dictus venditor exeptioni non vendite possessionis et non habite et non recepti, non soluti non traditi non numerati pretii predicte et non facte quietationis de dicto pretio et exceptioni ultra dimidium iusti pretii et non celebrati dicti contractus, rei non sic vel aliter geste, omni ali(o) titulo de iure auxilio sibi in hoc facto competenti e competituro. Ac atiam promisit prefatus Iacobus venditor predictus sponte per se suosque heredes et successores, ser Ioanni scindico predicto stipulanti et recipienti nomine quo supra de dicta possessione vendita vel parte ipsius litem vel questionem non movere, nec moventi consentire, sed ipsam possessionem venditam promisit dictus Iacobus sponte per se suosque heredes et successores dicto ser Ioanni stpulanti, recipienti ut supra, legittime defendere autorizare disbrigare et in pace ponere contra omnen legitimam personam et universitatem omnibus iuris sumptibus et expensis tam in vincendo quam in perdendo et tam in agendo quam in defendendo, se iudem emptori dicti super evictionem in singulis omnibus solemniter obligans et in se et supra se recipere primum secundum iudicium statim litis mote vel movende sine aliqua acquisitione pacto et omnia et singula dapna et expressa que et quas fecerit et sustinuerit in curia et extra, sibi resicare et emendare pomisit Iacobus venditor predictus et credere suo simplici verbo sine iuramento aliquo vel alia probatione et in predicta vel aliquid predictorum per se, ver alium sive alios non facere, vel venire aliqua ratione vel tam de iure vel de facto sub pena duplici dicte (quie)tationis. Item promisit Iacobus venditor predictus dicto emptori recepenti ut supra de fraude, collusione quod ius et actionem, quod et quam habebat, in dicta re vendita nemini dedit, cessit, vendidit et concessit et si secus ullo tempore appareret, promisit dictus Iacobus venditor predictus dictum emptorem ementem nomine quo supra et bona iura habiturum pro pretio conservare indempnem, renuntians prefatus Iacobus venditor predicus beneficio velleien(s)is senatus consultus; epistule divi Adriani et omni alii titulo de iure auxilio sibi in hoc facto competenti et competituro sub pena supradicta et obliatione omnium suorum bonorum. Insuper dictus Iacobus venditor sponte iurat ad sancta Dei Evamgelia tactis scripturis cum manibus que dicta omnia et singula attendere et observare et in nullo contrafacere vel venire si qua ratione vel causa de iure vel de facto, sub iam dicta pena et virtute prestiti iuramenti

Actum in castro Serviliani Comitatus civitatis Firmi vel in coquina palatii Comunis dicti castri quod palatium positum est in dicto castro iusta plateam comunis et vias publicas a duobus lateribus et ad singulas; presentibus Massio Cicchi de castro Sancti Angeli Comitatus Firmi, Petro …….., Petro de castro Belmontis Comitatus Firmi, Sancte Dominici Stefani, Martino Cortecati et Masimo Scorani de dicto castro Serviliani, testibus ad predicta  habitis et vocatis et rogatis. Et ego Felix ser Angeli de terra Montis Fortini publicus imperiali auctoritate notarius atque iudex ordinarius nec non vicarius et offitialis dicti castri Serviliani predictis omnibus et singulis suprascriptis instrumenti a dictis presentibus subscripsi et publicavi signumque meum  apposui consuetum et quod remissam ut supra ad sexaginta quator bolognina (?) mea propria manu remisi quod per errorem omiseram. Signum mei Felicis notarii publici

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Pergamena trascritta da Don Giuseppe Pennesi nel 1895 circa.  Sintesi:

\\\ Servigliano acquista la Selva Casale di Chiaromonte.

Nell’anno 1459 al tempo del Papa Pio II il giorno 27 agosto a Servigliano il nobiluomo Jacopo Ceccarelli de’ Nobili del castello di Massa Fermana vendette in piena libertà e consapevolezza al sindaco del comune di Servigliano Gianni di Iacopo serviglianese nella riunione del parlamento di questo Comune una possessione con selva e con un fondo (rurale) di Vaccarrello dei Nobili di Massa, nel territorio di Chiaramonte in contrada “La selva di Casale” a confine con la proprietà di Antonuccio de’ Nobili da Massa, la proprietà del venditore anzidetto Iacopo, e di sua moglie Francesca, la proprietà di Antonio Massucci da Belmonte e della Chiesa della chiesa di Sant’Angelo, ad eccezione della chiesa di San <Cataldo> di Casale fino al fossato dandogli ogni autorità di proprietà, possesso, usufrutto e uso perpetuo. Il venditore Iacopo fece procura a Sante di Domenico di Stefano, serviglianese, per immettere al possesso corporale della proprietà venduta l’acquirente del Comune di serviglianese Gianni di Iacopo, con ogni cessione, sotto penalità del doppio del prezzo ricevuto pagato 46 fiorini a ragione di 40 bolognini per fiorino, e rinunciando ad ogni vertenza giuridica o eccezione su questo contratto. Il ricevente Gianni a nome del Comune di Servigliano rinuncia ad ogni lite. Il venditore Iacopo giura toccando i Vangeli di mantenere valida la vendita fatta. Redatto a Servigliano del Contado della città di Fermo nella Marca, nella cucina del palazzo di questo Comune presso la piazza comunale e le pubbliche vie. Presenti come testimoni richiesti Massio di Cecco, santangiolese, Pietro, belmontese, ed i tre serviglianesi: Sante di Domenico di Stefano; Marino di Cortecato e Massimo di Scorono. Notaio d’autorità imperiale Felice di ser Angelo da Montefortino, giudice e vicario ufficiale del Comune di Servigliano, con suo il sigillo messo.

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Olindo Pasqualetti docente latinista compone un’ode saffica per il Liceo classico Paolo VI a Fermo nel suo ventennio

latino e traduzione     LUDO LITTERARUM a PAUOLO SEXTO NOMEN CONSECUTO quaterna vitae lustra recolent

Nomen, ut felix foret omen, olim    \   cepit a Paulo schola nostra Sexto.

Huc iuventutis properant adire    \   undique flores.

Hic Dei clara praeeunte luce,   \    res vetustatis novitate miscens,

quisquis huc intrat, sine fraude discet   \    utile verum.

Dantis hic voces liquidas poetae,    \  hic sonos summi veteres Homeri,

et quod exculto canit ore vatis   \    Musa Maronis,

atque Platonis graviora dicta,    \   quidquid et tradit Paracelsus audit,

si quis accedit, numerosque discit    \   Pythagoreos,

Multa doctrinae patet hic supellex;    \    non obest umquam mora quin paretur;

si quis exoptat, satis est ut apta     \   ebibat aure.

Hic docent demum patienter,    \   algent, saepius sudant, opus ut magistri

conferant, ferme vacuam gerentes   \   aere crumenam;

hanc tamen sperant vigili iuventam    \   divitem cura fore litterarum,

quae licet ludat, satis eruditur;     \  Quid? Schola ludus.

Grande viginti spatium per annos     \   cessit aetatis, nova cum patere

coepit haec ornans pueros honesta    \   arte palaestra.

Quotquot his aulis aluere mentem,    \   quotquot has ipsas adeunt coluntque,

laude coniuncta memores quaterna   \       lustra frequentant.

\\Olyndus Pasqualetti scripsit ex agro Palmensi\\

ALLASCUOLA ” PAOLO VI ”  NEL SUO VENTENNIO  1988

Perché vi fosse donde trarre auspici,   \   di Paolo Sesto questa scuola ha il nome;

le giovinezze floride da lungi     \     corron qui leste.

Qui sotto il raggio di cristiana luce   \    ognuno, unendo con l’antico il nuovo,

entra ed apprende senza veli il vero   \      d’utile scienza:

la voce ascolta limpida di Dante,      \    l’antico accento del sublime Omero,

ode la colta Virgiliana Musa      \      dal dolce suono;

ode Platone e i suoi pensieri gravi    \     e quanto insegna Paracelso – ognuno

che qui s’accosta – e i teoremi impara      \     Pitagorei.

Qui si squaderna ricca la dottrina,    \     non v’è nessuna remora all’acquisto,

a chi la vuole con l’ascolto basta     \      che ravvicini.

Qui gl’insegnanti tra sudore e freddo   \    pazientemente tendono la mano,

sebbene spesso portino di lire      \    scarsa la borsa;

e tuttavia sperano che n’esca     \    di bel saper la gioventù fornita,

che forse è allegra, ma che s’erudisce;    già: ludo e scuola.

Trascorse un tempo lungo di ventennio    \     da che le porte questa scuola ha aperto

quale palestra che utile dottrina      \     offre agli alunni.

Or chi in quest’aule ristorò la mente,    \    chi nelle stesse torna, e chi ricorda,

in una sola memore e giuliva     \    lode qui viene.

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Il liceo classico ” Paolo VI ” a Fermo voluto dall’arcivescovo mons. Cleto Bellucci in una sua testimonianza del 1998

Testimonianza dell’arcivescovo di Fermo Cleto Bellucci promotore del    Liceo “ Paolo VI “

La volontà di mantenere in vita il Liceo “Paolo VI” fu un atto di speranza. I Seminari, in crisi educativa dal 1960, erano entrati negli anni ‘’70 anche in gravi difficoltà vocazionali. La crisi educativa era generata dalla forte esigenza dei giovani di anteporre il primato dell’esperienza all’approfondimento dei valori e delle convinzioni lungo cammini formativi e di impegno personale tesi a giungere a quella padronanza di sé, che è base per ogni autentica crescita nella libertà: prima sperimentare, poi ragionare.

La crisi vocazionale si evidenziava nella diminuzione di giovani disposti a fare un cammino di formazione per verificare l’eventuale disegno di Dio sulle loro persone, ed era generata da concause come la diffusione capillare, nel territorio, delle Scuole Medie, che rendevano meno necessario il Seminario come luogo di preparazione scolastica e di discernimento; la migrazione delle famiglie dalla campagna alla città; la crescente denatalità; il diminuito prestigio sociale del prete dinanzi alle prospettive offerte dalla società verso professioni sempre più varie e necessarie, nell’intenso ritmo espansivo di una nazione tesa ad industrializzarsi e raggiungere benessere e sicurezze. I Seminari minori dovettero rinunciare alle Scuole Medie; conseguentemente si rese sempre più difficile mantenere il Liceo. Per far fronte a questi problemi si era inventato il “Paolo VI”.

Far morire quest’esperienza? Non sentii di assumermi la responsabilità di rinunciare ad ogni possibilità di accogliere adolescenti disponibili ad un cammino di ricerca e formazione nel Liceo. Inoltre, già da qualche anno, mi giungevano forti preoccupazioni, da parte di molte famiglie, per la situazione in cui venivano a trovarsi i loro figli, nelle scuole pubbliche, costretti a seguire gli insegnamenti di professori più o meno dichiaratamente contrari alla cultura e alla vita cristiana.

Queste le ragioni che mi portarono alla decisione di non decretare la morte del “Paolo VI”, anzi di aprirlo anche ad alunni esterni, con la possibilità di non separare eventuali adolescenti accolti in Seminario dalla vivacità e dai problemi dei loro coetanei. Inoltre ogni struttura formativa che si chiude ha come conseguenza la perdita del personale insegnante, di acquisite esperienze, dell’utilizzo spesso irreversibile di strumenti ed ambienti adatti.

Non trovai pieno consenso presso elementi del laicato cattolico e del presbiterio. Spero che sia stato il Signore a darmi questa sicurezza e volontà nella decisione. Il Liceo “Paolo VI” è ancora una realtà viva <1999>, a servizio delle comunità ecclesiale e civile.

Nel lento spegnersi delle ‘scuole cattoliche’ spero ancora che una più viva coscienza (anche presso le nostre comunità ecclesiali) della libertà che devono avere le famiglie nelle scelte educative per i figli, e l’ingresso dell’Italia nell’Europa, convincano finalmente i responsabili della nostra Italia a creare le condizioni per una vera libertà nelle scelte, superando l’attuale costrizione alla “libertà pagata” oltre le normali tasse, a cui ci hanno condannato, sinora, sinistre atee e destre liberali-illiberali.

La Diocesi è riuscita a mantenere il Seminario, a dotarsi di un Istituto Superiore di Scienze Religiose, di una Facoltà Teologica, a qualificare un numero notevole di sacerdoti e laici per i vari insegnamenti, e può offrire Corsi specifici per aspiranti diaconi, per catechisti e per la ministerialità laicale. Non ho voluto rinunciare a queste strutture che qualificano una Diocesi, in quanto essa mantiene capacità grandi di servizio perché la comunità ecclesiale cresca nella conoscenza della fede, nell’esigenza della testimonianza, nella varietà dei ministeri.

Mi piace riportare le parole di Giovanni Paolo II per l’inaugurazione del Seminario di Benevento, nel luglio del 1990: “Il Seminario è il cuore della Chiesa locale. Da una parte esso esprime il presente di una Diocesi, costituendo come il punto di arrivo del lavoro svolto dalle parrocchie nei vari settori della pastorale giovanile, dell’insegnamento catechistico, dell’animazione religiosa delle famiglie, dall’altra, esso rappresenta un investimento per il futuro della Chiesa … Nessun dubbio che l’avvenire di ciascuna Chiesa sia legato al seminario proprio perché il progresso di tutto il popolo di Dio dipende dal numero dei sacerdoti.

Continuo a vedere nel Liceo “Paolo VI” una indispensabile realtà a servizio della Chiesa e della società. Può accogliere giovani ai quali viene indicata, l’esigenza di prolungare nel Seminario la preghiera e il discernimento per una specifica chiamata ad una offerta totale di sé per il Regno, e giovani che vogliano prepararsi alla vita, alle professioni, alla famiglia, alla società, con chiarezza di valori e piena coscienza della grandezza del loro cristianesimo e il coraggio, la forza, la gioia necessarie per questa straordinaria realtà.

Mi piace ricordare le parole di Mario Cuomo, l’italo-americano ex governatore dello Stato di New York, quando elenca le ragioni che lo hanno spinto a scegliere di formarsi nelle ‘scuole cattoliche’: “Perché offrivano una conoscenza addizionale, che serviva a dare significato e direzione all’esistenza. … I miei professori, oltre ad insegnarmi le materie del programma, mi hanno fatto capire che tutti gli uomini si trovano sulla terra per lo stesso motivo e con lo stesso fine. Dio ha creato il mondo, ma ha lasciato a noi il compito di migliorarlo, e in questo modo ci ha resi con-creatori della sua speranza.”

Ringrazio moltissimo gli insegnanti, sacerdoti e laici, che in questi anni hanno speso la loro vita per il migliore funzionamento di questa realtà che è della Chiesa locale. Le brevi parole non possono esprimere la pienezza della gratitudine che ho nel cuore e rendo quotidianamente concreta nell’intenso ricordo al Signore nella preghiera.                                                                  Mons. Cleto Bellucci

 

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PAOLO VI PAPA MONTINI ricordato nel 1999 da mons. Gennaro Franceschetti arcivescovo di Fermo per il liceo ” Paolo VI “

IL PAPA MONTINI E GLI STUDENTI

Scritto dall’arcivescovo di Fermo GENNARO FRANCESCHETTI bresciano

Possono essere molte le motivazioni che giustificano l’intitolazione di una scuola a Papa Paolo VI. Un liceo classico, in particolare, ne presenta in abbondanza. Perché il primo motivo, di natura biografica, può essere ad esempio il fatto che il giovane Giovanni Battista Montini aveva frequentato, e con profitto, un Liceo classico come il Liceo “Cesare Arici” di Brescia, allora retto dai Padri Gesuiti.

Montini ne fu alunno dal 1911 al 1916, dopo avervi trascorso anche gli anni della Scuola elementare, media e del ginnasio inferiore. La salute cagionevole lo costrinse però ad una frequenza irregolare, tanto da doversi a un certo momento ritirare dalle lezioni in classe. In seguito si presentò a sostenere gli esami come privatista in un altro liceo bresciano. La preparazione conseguita in quegli anni restò come base della sua cultura generale, in tutte le fasi della sua vita; e non era un mistero, per chi lo conosceva e frequentava, l’amore che conservò per quella scuola e per le persone che la incarnavano.

A questa prima motivazione segue una seconda, di ordine più generale, che è legata alla particolare vicinanza di Montini al mondo e alle problematiche dei giovani, in particolare di quelli inseriti nella scuola e nell’Università.

Dal 1925 al 1933 infatti egli fu l’Assistente spirituale degli studenti universitari cattolici, raggruppati nella loro Federazione, la FUCI. Con loro il futuro Paolo VI trascorse momenti intensi di studio, di approfondimento spirituale, di svago ricreativo; soprattutto creò e cementò amicizie profonde, vere, destinate a durare una vita. Restano di quel periodo non solo gli scritti su volumi e riviste, ma anche delle belle fotografie che lo ritraggono sorridente in compagnia di giovani studenti, in occasione di Convegni e Congressi in varie parti d’Italia.

Il contatto col mondo della scuola venne particolarmente curato da Giovanni Battista Montini nel periodo dell’episcopato a Milano (1955-1963), quando ebbe modo di visitare licei e istituti di vario tipo e di incontrare molti docenti e studenti.

Fu dialogando con loro, in occasione della “Giornata della scuola”, celebrata il 12 gennaio 1963 a Milano, che egli esplicitò quello che intendeva come “uomo scolastico”: “L’uomo che opera per mettere in esercizio le sue facoltà implicite ed assopite, l’uomo che scopre se stesso e l’universo che gli sta d’intorno, l’uomo che si organizza per studiare, per imparare, per raggiungere la sua completa formazione, potremmo dire che è l’uomo scolastico, che si presenta al Signore, lo riconosce principio e fine della sua esistenza, e fa della religione la somma energia, la somma consolazione, la somma dignità della vita. E’ come un fiore che si apre al sole. ” (Discorsi e scritti milanesi, Istituto Paolo Vl – Studium, Brescia- Roma 1977, nr. 2120).

Naturalmente, nel periodo del suo pontificato romano (1963- 1978), i contatti diretti con gli studenti e i professori diminuirono, visti i nuovi e svariati impegni e pensieri che affollavano la mente di Paolo VI. Ma egli non si dimenticò del suo liceo bresciano, quell’Arici che volle incontrare in udienza con i docenti, gli studenti e i genitori nel 1968: e fu un incontro particolarmente affettuoso, intessuto di ricordi e di considerazioni.

Un terzo e ultimo motivo ci porta oggi ad associare facilmente il nome di Paolo VI a quello della scuola; ed è il suo rapporto con la cultura, col mondo degli intellettuali e degli artisti. Convinto, come era, che poeti e artisti siano i più profondi testimoni del loro tempo, Montini non temeva di preferire la loro testimonianza a quella di altre categorie professionali, anche specializzate nell’analisi della realtà contemporanea, come quelle dei tecnocrati, dei sociologi, dei politici.

Di conseguenza ci furono, negli anni milanesi prima e in quelli romani poi, i frequenti incontri, il dialogo e l’ascolto di diverse e significative voci della cultura contemporanea: basterà ricordare il solo nome del filosofo francese Jacques Maritain, così apprezzato e ascoltato da Montini, per sintetizzare questo fecondo rapporto dialogico con la cultura contemporanea. Un’ultima considerazione. La sicurezza del rapporto con gli intellettuali derivava a Paolo VI dalla sua formazione culturale, sostanziata di vaste e articolate letture, che l’avevano di conseguenza portato a consolidare le sue conoscenze letterarie, filosofiche, storiche, oltre che teologiche. Si trattava di letture e di acquisizioni culturali originate dalla scuola e poi possedute ininterrottamente per tutta la vita: tra queste merita un posto di rilievo il suo amore per Dante Alighieri. Il giovane Montini prima, e l’anziano Paolo VI poi, l’avevano fatto oggetto di una frequentazione assidua, e di amorevole condivisione interiore.

E’ appunto una serie di reminiscenze dantesche che ci porta in un’atmosfera di grande attualità, perché legate al motivo storico e spirituale del Giubileo. Infatti, nel 1975, nel corso dell’Anno Santo, Paolo VI si ricordò in diverse occasioni di quei passi della Divina Commedia che alludono al primo Giubileo della storia della Chiesa, quello voluto da Bonifacio VIII nel 1300. Ne è esempio “l’esercito molto” dei pellegrini in cammino verso San Pietro, da lui ricordato nell’apertura dell’anno giubilare, e che è tratto da un passo del XVIII canto Inferno; oppure la definizione che Montini stesso diede di Dante, come di colui che “ha interamente collocato il suo itinerario ultraterreno nella Settimana Santa dello stesso 1300”.

Memori dell’insegnamento di Paolo VI, possiamo anche noi ora, insieme a questa scuola <Liceo Paolo VI a Fermo>, metterci sulle sue orme ed avviarci, pellegrini, verso l’Anno Santo del 2000.Auguro, inoltre, ai genitori, ai docenti, agli studenti, a tutte le persone che si spendono per il Liceo “Paolo VI”, di saper guardare a Giovanni Battista Montini come a un modello di studioso e di maestro, e di maturare quella capacità di attenzione a “ogni uomo” e a “tutto l’uomo”, “in solidarietà”, indicata autorevolmente al mondo intero nell’Enciclica Populorum Progressio.

 

talla Divina Commedia che alludono al primo Giubileo della storia della Chiesa, quello voluto da Bonifacio VIII nel 1300. Ne è esempio “l’esercito molto” dei pellegrini in cammino verso San Pietro, da lui ricordato nell’apertura dell’anno giubilare, e che è tratto da un passo del XVIII canto Inferno; oppure la definizione che Montini stesso diede di Dante, come di colui che “ha interamente collocato il suo itinerario ultraterreno nella Settimana Santa dello stesso 1300”.

Memori dell’insegnamento di Paolo VI, possiamo anche noi ora, insieme a questa scuola <Liceo Paolo VI a Fermo>, metterci sulle sue orme ed avviarci, pellegrini, verso l’Anno Santo del 2000.Auguro, inoltre, ai genitori, ai docenti, agli studenti, a tutte le persone che si spendono per il Liceo “Paolo VI”, di saper guardare a Giovanni Battista Montini come a un modello di studioso e di maestro, e di maturare quella capacità di attenzione a “ogni uomo” e a “tutto l’uomo”, “in solidarietà”, indicata autorevolmente al mondo intero nell’Enciclica Populorum Progressio.

 

Iorozato e ascoltato da Montini, per sintetizzare questo fecondo rapporto dialogico con la cultura contemporanea. Un’ultima considerazione. La sicurezza del rapporto con gli intellettuali derivava a Paolo VI dalla sua formazione culturale, sostanziata di vaste e articolate letture, che l’avevano di conseguenza portato a consolidare le sue conoscenze letterarie, filosofiche, storiche, oltre che teologiche. Si trattava di letture e di acquisizioni culturali originate dalla scuola e poi possedute ininterrottamente per tutta la vita: tra queste merita un posto di rilievo il suo amore per Dante Alighieri. Il giovane Montini prima, e l’anziano Paolo VI poi, l’avevano fatto oggetto di una frequentazione assidua, e di amorevole condivisione interiore.

E’ appunto una serie di reminiscenze dantesche che ci porta in un’atmosfera di grande attualità, perché legate al motivo storico e spirituale del Giubileo. Infatti, nel 1975, nel corso dell’Anno Santo, Paolo VI si ricordò in diverse occasioni di quei passi della Divina Commedia che alludono al primo Giubileo della storia della Chiesa, quello voluto da Bonifacio VIII nel 1300. Ne è esempio “l’esercito molto” dei pellegrini in cammino verso San Pietro, da lui ricordato nell’apertura dell’anno giubilare, e che è tratto da un passo del XVIII canto Inferno; oppure la definizione che Montini stesso diede di Dante, come di colui che “ha interamente collocato il suo itinerario ultraterreno nella Settimana Santa dello stesso 1300”.

Memori dell’insegnamento di Paolo VI, possiamo anche noi ora, insieme a questa scuola <Liceo Paolo VI a Fermo>, metterci sulle sue orme ed avviarci, pellegrini, verso l’Anno Santo del 2000.Auguro, inoltre, ai genitori, ai docenti, agli studenti, a tutte le persone che si spendono per il Liceo “Paolo VI”, di saper guardare a Giovanni Battista Montini come a un modello di studioso e di maestro, e di maturare quella capacità di attenzione a “ogni uomo” e a “tutto l’uomo”, “in solidarietà”, indicata autorevolmente al mondo intero nell’Enciclica Populorum Progressio.

 

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NEPI ANTONIO ALUNNO POI DOCENTE AL LICEO CLASSICO PAOLO VI A FERMO ricordi

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<digitazione Vesprini Albino>

 

Vtor d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

Vati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

 

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CINTIO PROF. ALBERTO LICEO CLASSICO PAOLO VI FERMO trentennio di novità scientifiche

CINTIO.prof. Alberto scienziato docente 1974- 1982 TRENT’ANNI DEL LICEO “PAOLO VI”

Trent’anni sono passati dall’apertura dei liceo “Paolo VI” e trent’anni anche dalla mia laurea. Una generazione. L’impressione più grande e le riflessioni più profonde ti colpiscono quando entri in classe a metà settembre, dai un’occhiata ai cognomi dei nuovi alunni e scopri – ormai è un fenomeno che si ripete da qualche anno – che ci sono cognomi già …… “maneggiati”. Fai un primo appello, ti soffermi un po’ su quel cognome, scruti bene l’interessato/a, ritorni indietro con la memoria e in base al noto proverbio “qualis pater, talis filius”, (in senso fisico mendeliano s’intende!), ricostruisci volti già visti, episodi, storie e vicende di vita scolastica che erano in un cantuccio della memoria, completamente sommerse da volti, episodi, storie e vicende successive. E’ passata una generazione.

E che dire poi dei programmi che si svolgevano allora a confronto con quelli che si svolgono oggi? Qui è passata più di una generazione, perché nel campo scientifico le scoperte e le relative applicazioni sono state veramente tante. A malapena si riesce a star dietro a tutte le novità, le nuove problematiche, i nuovi ‘perché’ e i nuovi dubbi che le riviste scientifiche o i libri attuali ci presentano. Ricordo di aver letto che in questo secolo la ‘Vita media” di una teoria scientifica è di soli 6 mesi!

Nel primo capitolo del suo libro “Falsi Profeti: inganni ed errori nella scienza “ ( Ediz. Zanichelli 1991. Alexandel Kohn così si esprime:  “Quando un certa scienza attraverso u periodo di sviluppo in cui le leggi e i concetti chiaramente definiti sono generalmente accettati è difficile ingannare. Quando invece una scienza entra in un periodo di sviluppo in cui i concetti si trasformano, i modelli vecchi vengono meno ed altri nuovi modelli tentano di affermarsi, questo settore della scienza diventa più vulnerabili alle falsificazioni. L’obiettività diventa difficile perfino per gli specialisti. Una scienza in fase di rivoluzione stimola nuove ipotesi. In queste fasi di transizione ci sono coloro che hanno il coraggio di proporre disinteressatamente ipotesi poco popolare, ma ci sono anche gli opportunisti che non esitano a inquinare il campo con dati inventati o con risultati di esperimenti che non sono mai stati effettuati. In un ‘atmosfera di cambiamento e di trasformazione come quello che abbiamo visto negli ultimi decenni, non sono sporadici i casi di falsificazione e di contraffazione”.

A cavallo del secolo fervevano gli esperimenti sulle nuove radiazioni più o meno deviate da campi magnetici e di conseguenza, si susseguivano le teorie sulla costituzione dell’atomo. ‘Nell’ansia di fare verifiche e controprove vennero “scoperte” anche nuove radiazioni inesistenti, come i raggi N e i raggi mitogenetici. In tempi più recenti tutti ricordiamo le vicende legate alla fusione fredda, le grandi illusioni di avere tanta energia pulita a buon mercato e le tante… delusioni e smentite successive.

A questa visione un po’ pessimista o per lo meno deludente, almeno per chi guarda alla scienza come al santuario della verità, fa eco Federico Di Trocchio in “Le bugie della scienza: perché e come gli scienziati imbrogliano” (Mondadori 1993): “I grandi difficilmente imbrogliano per interesse personale e anche quando lo fanno salvaguardano sempre l’interesse della scienza, anzi quasi sempre le loro ‘truffe” costituiscono un contributo essenziale alla verità scientifica. Esistono insomma delle falsificazioni innocenti e quasi obbligatorie. Da Popper in poi sappiamo che l’unica cosa veramente certa che si possa dire a proposito di una teoria è che essa prima o poi verrà dimostrata falsa”.

A proposito di Popper vale la pena di citare un brano preso dal suo libro “Scienza e filosofia: problemi e scopi della scienza ” (ed. CED, Milano, 1998, pag. 145): “Così non solo la scienza, ma anche il singolo scienziato, comincia e finisce con i problemi e progredisce lottando con problemi: anche lo scienziato singolo, infatti, dovrebbe cominciare e finire col suo problema e lottare con esso.

Inoltre, mentre lotta, non solo imparerà a comprendere il problema, ma in effetti lo cambierà. La teoria della conoscenza – e specialmente la teoria della conoscenza scientifica – deve costantemente fare i conti con la minaccia di un paradosso, che può capitarci addosso quando entrino in collisione le due tesi seguenti.

Prima tesi: la nostra conoscenza è vasta e imponente. Non solo conosciamo innumerevoli dettagli e fatti provvisti di significato pratico, ma anche molte teorie e molte spiegazioni che ci permettono di penetrare, con sorprendente chiarezza, negli oggetti vivi e morti, compresi noi stessi e le società umane.

Seconda tesi: la nostra ignoranza è illimitata e opprimente. Ogni, nuovo pezzettino di conoscenza che acquistiamo serve ad aprirci gli occhi, una volta di più, sulla vastità della nostra ignoranza.

Entrambe queste tesi sono vere e la loro collisione caratterizza la nostra situazione conoscitiva. La tensione tra la nostra conoscenza e la nostra ignoranza è decisiva per  l’accrescimento della conoscenza: ispira il progresso della conoscenza e determina le frontiere, sempre avanzanti, della conoscenza La parola ‘‘problema” non è che un altro nome per questa tensione o, piuttosto, un nome che denota i diversi e svariati casi in cui questa, tensione si concreta. Un problema sorge, cresce e diventa significativo solo grazie al fallimento dei nostri tentativi di risolverlo: per metterla diversamente, il solo modo per arrivare a conoscere un problema è imparare dai nostri errori”. Non vorrei che queste brevissime citazioni in riflessioni portino gli ex alunni a dire: ma allora non è più vero quello che ci hanno insegnato, pure i nuovi a dire: non vale la pena di studiare così tanto perché tra 6 mesi queste teorie saranno tramontate! Voglio soltanto mettervi dinanzi a un scienza viva, come è vivo l’uomo nella sua curiosità e inventiva, capace di generare intuizioni e tecniche sempre nuove. Fin dai tempi preistorici la rondine appoggiato il suo nido sulla casa dell’uomo, ritornandovi ogni anno a primavera. Il nido è rimasto sempre lo stesso, mentre la casa dell’uomo è diventato un nido sempre più ampio ed accogliente. Mi sono divertito a confrontare i programmi di allora con quelli di oggi. Altro che l’evoluzione della casa dalla preistoria ad oggi! In alcune discipline sono duplicati o addirittura triplicati, ma le ore di lezione (guarda caso!) sono rimaste le stesse. Per cui oggi occorre fare in fretta e, nonostante il computer e le videocassette e libri a colori, alla fine… il programma rimane largamente incompiuto. Nemesi e gioia della nuova generazione!

I programmi che hanno subito un incremento maggiore sono quelli di biologia. Da una parte il microscopio elettronico, dall’altra lo sviluppo della biochimica, hanno permesso una conoscenza più approfondita dei processi metabolici, per cui il capitolo sulla cellula è diventato un trattato, senza parlare della glicofisi e della fotosintesi divise in tante fasi e catalizzate da una serie interminabile di enzimi dai nomi strani e complessi. Anche la genetica e la citogenetica, che allora erano quasi solo limitate alle leggi mendeliane, oggi si aprono a frontiere nuove e cariche di conseguenza, come la ingegneria genetica, il DNA ricombinante, le tecniche transgeniche, la clonazione con tutti i risvolti riguardanti la fecondazione assistita.

A coronamento di tutto questo oggi i testi scolastici parlano, ed è necessario, di bioetica perché questa “‘energia vitale” non sia lasciata alla mercé del primo sperimentatore o del primo politico. Che non succeda come per la energia, nucleare, ove la prima applicazione è stata una bomba atomica! Sempre valido a questo proposito il saggio “Evoluzione creatrice” (1907) di H. Bergson (1859-1941), in cui delinea una visione globale della realtà, raggiungibile solo attraverso l’intuizione.

Anche in fisica, astrofisica e chimica, raffermarsi della meccanica quantistica ha costituito un salto non solo quantitativo, ma soprattutto qualitativo e addirittura rivoluzionario.

Diceva Einstein che “il problema quantistico è così straordinariamente importante, e difficile, che dovrebbe essere al centro dell’attenzione di tutti”. E qui mi affido alla penna del prof. G. C. Ghirardi, ordinario di Istituzioni di Fisica teorica presso I’Università di Trieste, che ha scritto un affascinante quanto completo, chiaro ed esauriente libro sull’argomento: “Un’occhiata alle carte di Dio: gli interrogativi che la scienza moderna pone all’uomo” (Ed. Saggiatore, Milano, 1997’ pagg. 420). Riporto qui la prima pagina della introduzione.

“Il grande fisico e premio Nobel Isidor Isaac Rabi ha scritto una frase, a mio parere, estremamente significativa: “E’ un vero peccato che il grande pubblico non abbia alcuna possibilità di farsi un’idea della grande eccitazione, intellettuale ed emotiva, che accompagna le ricerche nei campi più avanzati detta fisica”. Questa asserzione risulta particolarmente appropriata allorché la si intenda riferita, alla teoria che sta alla base della moderna concezione scientifica del mondo, la meccanica quantistica, per almeno due motivi.

Innanzi tutto questa teoria, per varie ragioni che illustrerò ripetutamente in questo libro, non è riuscita a superare in modo significativo la stretta cerchia degli addetti ai lavori. Questo fatto risulta in una qualche misura stupefacente ove si tenga presente che la stragrande maggioranza delle più rilevanti innovazioni tecnologiche (nel bene e nel male) dei tempi recenti sono basate su effetti specificamente quantistici e che nuovi incredibili sviluppi si stanno già delineando. Un elenco anche parziale risulterebbe interminabile; basterà menzionare l’energia atomica e nucleare, i semiconduttori e molti altri recenti ritrovati. I nostri orologi digitali, il computer con cui sto scrivendo questo testo, e tanti altri strumenti che tutti usiamo ogni giorno sono stati resi possibili solo dalla più profonda conoscenza del reale che è nata dalla elaborazione di questa splendida teoria. Come vedremo, siamo alla soglia di nuovi sbalorditivi sviluppi: per la prima volta, utilizzando genuini effetti quantistica, disponiamo di un metodo assolutamente inviolabile per inviare messaggi cifrati e sembra sia imminente la realizzazione di un sogno ipotizzato alcuni anni fa dal premio Nobel  Richard Phillips Feynman, cioè la costruzione di computers quantomeccanici, che dovrebbero consentire un salto qualitativo nella tecnologia di questi strumenti, un salto oggi non ancora esattamente valutabile, ma certamente rivoluzionario. Il secondo motivo che rende auspicabile una più diffusa conoscenza degli elementi di base del nuovo formalismo deriva dalla estrema rilevanza concettuale e filosofica di questa grande conquista del pensiero contemporaneo.

Ciò rende ancor più sorprendente il fatto che mentre varie costruzioni teoriche siano filtrate e in una qualche misura siano diventate parte integrante del patrimonio culturale comune (basterà ricordare l’evoluzionismo darwiniano, la teoria dell’ereditarietà, la genetica e la teoria della relatività sia ristretta che generale), nulla di simile sia avvenuto per questa rivoluzione concettuale che caratterizza ormai da tre quarti di secolo la scienza moderna. Questa mancata assimilazione di un evento culturalmente straordinario risulta particolarmente seria e viene ad aggravare la tragica frattura, tipica dei tempi moderni, tra le cosiddette due culture, quella umanistica e quella scientifica. Infatti, uno degli aspetti più specifici della teoria consiste nel fatto che essa, più di ogni altro schema scientifico elaborato dall’uomo nel suo lungo cammino verso la comprensione del reale, pone dei problemi di notevole rilevanza e assolutamente peculiari sul pigino concettuale ed epistemologico e suscita degli interrogativi che non possono non interessare ogni persona che abbia curiosità, intellettuale, e che rendono assai appropriata una riflessione critica da parte di umanisti e filosofi”.

Prof. Alberto Cintio scienziato sacerdote

Liceo Classico Paolo VI Fermo      Docente di Scienze Naturali dall’anno scolastico 1974/75 al 1981/82

\\\\digitazione Albino Vesprini \\\\\

 

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CUPIDIO GIORGIO DOCENTE NEL LICEO PAOLO VI A FERMO (FM) 1968- 1999 ricordi

PROF. CUPIDIO D. GIORGIO docente al LICEO GINNASIO PAOLO VI

La nuova sede del Seminario Arcivescovile di Fermo, edificata ai piedi del colle Vissiano, periferia nord di Fermo in contrada Tirassegno, fu inaugurata con l’anno scolastico 1956/57. Essa accolse un gran numero di ragazzi e di giovani che frequentavano i corsi di studi di Ginnasio (5 anni), di Liceo (3 anni) e di teologia (5 anni) in scuole che erano allora “meramente private”.

In seguito i superiori e le autorità diocesane, nella loro sollecitudine di voler mettere tutti gli alunni nelle migliori condizioni di poter fare liberamente, senza condizionamenti di sorta, la loro scelta di vita, decisero di garantire i loro studi, e dunque il loro avvenire, facendo seguire ad essi itinerari di istruzione che, riconosciuti dallo Stato, assicuravano titoli di studio equipollenti a quelli degli alunni delle scuole statali. Come già era stato ottenuto per la Scuoia Media, si procedette ad inoltrare al Ministero della Pubblica Istruzione richiesta di “riconoscimento legale” del Liceo Ginnasio. Una volta che gli ispettori ebbero verificato l’esistenza di tutte le condizioni richieste dalla legge, tale riconoscimento venne accordato dal Ministero con Decreto del 30.5.68 per le classi IV Ginnasio e I Liceo, e con Decreto del 1.6.70 per le altre classi.

Il Liceo Ginnasio venne intitolato “Paolo VI” come atto di omaggio a questo Papa ed in ricordo di una sua graditissima visita al Seminario ed alla scuola, visita avvenuta un anno prima della sua elevazione al soglio pontificio, quando il card. Giovanni Battista Montini era Arcivescovo di Milano.

Nel frattempo correvano anni di profonda trasformazione nella vita sociale ed ecclesiale. L’innalzamento dell’obbligo scolastico, la riforma della Scuola Media, la sua istituzione anche nei centri minori, l’incipiente ‘secolarizzazione’ portano ad una consistente diminuzione del numero degli alunni ‘interni’ del Liceo “Paolo VI”.

Si poteva assistere indifferenti al venire meno di tale benemerita realtà culturale e formativa? Essa poteva vantare una plurisecolare tradizione (essendo stato fondato il Seminario di Fermo nella seconda metà del XVI secolo) e figure di docenti particolarmente significative; in essa si erano formati, insieme a tanti sacerdoti, moltissimi altri che nelle varie professioni della vita, sociale, come anche in campo culturale ed artistico, hanno saputo dare una buona prova di sé.

L’Arcivescovo di Fermo Mons. Cleto Bellucci volle che rimanesse e che accogliesse alunni ‘esterni’, ragazzi e ragazze. In tal modo il Liceo “Paolo VI” si mise a disposizione di quelle famiglie che volevano scegliere per i propri figli una seria preparazione culturale, un sereno ambiente educativo ed un orientamento di vita cristianamente ispirato.

Ciò è avvenuto ad iniziare dall’anno scolastico 1975/76. Da allora il Liceo “Paolo VI” prosegue il suo cammino, sempre in attesa che lo Stato, oltre che la legalità dei titoli di studio, riconosca anche la funzione e il servizio pubblico che essa svolge e la renda veramente “paritaria”, garantendo così alle famiglie una effettiva libertà di scelta.

In questi anni, come è proprio di una realtà scolastica che vuole essere stimolante per la crescita umana e culturale degli alunni, si sono realizzate molteplici iniziative, alcune delle quali vengono di seguito segnalate ed illustrate, per la loro particolare valenza e significato.

CELEBRAZIONE DEL BIMILLENARIO VIRGILIANO (aprile-maggio 1982). Essa si è articolata in due momenti:

* il primo, attuato in collaborazione con il Liceo classico st. “A. Caro”, il Liceo Scientifico “Calzecchi Onesti” e l’Istituto Magistrale legalmente riconosciuto “Bambin Gesù” di Fermo, ha offerto alle scuole e alla cittadinanza, nella Sala dei Ritratti del Comune di Fermo, una serie di conferenze sull’argomento, tenute da illustri docenti universitari.

* il secondo, consistente in un Concorso a premi indetto dal liceo “Paolo VI” per gli alunni delle scuole della provincia di Ascoli Piceno. La finalità di tale iniziativa è stata quella di sollecitare l’interesse per il grande poeta latino; dare, a quanti nella scuola ne illustrano o ne studiano la figura e l’opera, la possibilità di far conoscere la loro attività, partecipando così alle celebrazioni virgiliane che numerose si svolgevano in Italia e all’estero. Buona è stata l’accoglienza dell’iniziativa da parte dei docenti e degli alunni; ottima la risposta di cui fa fede il numero dei lavori pervenuti: n. 138 per il 2° ciclo delle Scuole Elementari, n. 78 per la Scuola Media, n. 21 per il biennio delle Scuole Superiori e n. 27 per l’Istituto d’Arte e il Liceo Artistico.

Tali lavori (disegni, composizioni pittoriche e plastiche) furono esposti in una Mostra nel Palazzo dei Priori di. Fermo e la premiazione avvenne con una pubblica manifestazione.

A questo proposito vale la pena di ricordare che ad un similare Concorso per studenti della provincia, bandito in contemporanea dal liceo Ginnasio st. “G. Leopardi” di S. Benedetto del Tronto, risultarono vincitori tre alunni del Liceo “Paolo VI” e precisamente: per il tema sull’Eneide di Virgilio (biennio):

1° premio, FORTUNA SONIA, 2° premio: CALCINARO TANIA.

Per il tema sul Bimillenario Virgiliano (triennio): 1° premio: LATTANZI LUCA.

ESPERIENZA DEL «MONTE ORE”

Per alcuni anni scolastici (dal 1975/76 al 1981/82) è stato realizzato un particolare tipo di sperimentazione didattica, il cosiddetto ‘‘Monte Ore” che può essere visto, ora, a distanza di tempo, come una anticipazione di quello che l’autonomia consentirà agli istituti scolastici e una risposta alla domanda di autogestione e di ampliamento degli interessi e dei campi di attività che proviene dai giovani.

Da dicembre ad aprile, al mattino, ogni settimana, venivano destinate due ore di lezione ad attività elettive, alle quali gli studenti, divisi in gruppi ma superando le distinzioni tra classi, si dedicavano da protagonisti, insieme ad un docente con funzione di assistente. Tali attività sono state, ad esempio: educazione musicale (canto, coro polifonico, audizione e studio dei vari generi di produzione musicale), educazione artistica (disegno, pittura, fotografia); ricerche ed approfondimenti su problematiche di attualità; giornalismo; cineforum.

Nel contempo in un pomeriggio della settimana si poteva ritornare a scuola per esercitazioni pratiche su pianoforte ed altri strumenti musicali, o per un corso pratico di dattilografia.

Il Coro polifonico dei Liceo “Paolo VI” partecipò il 25/4/80 al “1° CORESCANT MARCHE” Rassegna dei Cori Marchigiani, nel Teatro “Gentile” di Fabriano. L’attività del Coro polifonico permane tuttora.

SETTIMANA VERDE

Un’esperienza didattica sul territorio, una settimana di lezioni un po’ diversa, chiamata “verde” in voluta contrapposizione con il “bianco” di settimane organizzate all’insegna del consumismo e del “tutto compreso”. Un modo diverso, interessante e coinvolgente per iniziare l’anno scolastico nel mese di Settembre.

Ci si trasferisce a Montefortino, alle falde dei monti Sibillini: in montagna, certo, ma per studiare: una “sei-giorni” di scuola sul territorio. Tra gli obiettivi di questa iniziativa, riproposta ogni cinque anni, innanzitutto la socializzazione, ma anche un programma denso e specifico, a contatto con la gente e gli operatori del luogo: i rappresentanti del CAI, della ‘Comunità dei Sibillini’, del WWF, della ‘Lega Ambiente’, del ‘Dinos’ e della‘Fenice’ di Amandola. Si passa da lezioni sulla genesi, la stratigrafia, la tettonica dei Sibillini a quelle sulla flora e la fauna. Particolare attenzione viene riservata ai vari aspetti della storia e della civiltà di questo particolare habitat: religiosità, tradizioni popolari, folclore, urbanistica, arte. Tra una sfacchinata cerebrale e l’altra, scarponi da trekking e calzettoni di lana spessa ai piedi, ci si arrampica su per il Vettore, gettando uno sguardo verso il tenebroso lago di Pilato, o ci si inoltra nell’orrido della gola dell’Infernaccio, o si risale alle sorgenti dell’Ambro.

SPERIMENTAZIONE

*Fin dal 1975/76 è stato introdotto nelle classi ginnasiali l’insegnamento della Storia dell’arte come materia complementare. Si è voluto così fare in modo che gli alunni potessero studiare e conoscere il mondo e la civiltà antica contemporaneamente sotto tutti gli aspetti: linguaggio, letteratura, storia e arte.

* Frazionamento, anche nelle classi ginnasiali, della cattedra di Lettere in modo che impegnasse distinta- mente due docenti, uno per le Lettere Moderne, l’altro per le Lettere Classiche, anticipando così quello che normalmente avviene nelle classi di Liceo, facendo sì che le competenze e le professionalità specifiche dei docenti favorissero l’apprendimento da parte degli alunni.

* Con l’anno scolastico 1993/94 il Ministero della Pubblica Istruzione ha autorizzato un progetto di Sperimentazione (ex art, 3 DPR 419/74) che ha arricchito l’offerta formativa della scuola per gli alunni.

Tale sperimentazione infatti ha significato:

  1. l’introduzione di nuovi Programmi di Matematica e Informatica nelle classi IV e V Ginnasio, con innalzamento da 2 a 4 delle ore di lezione settimanali ad esse dedicato;
  2. la prosecuzione dello studio della Lingua e Civiltà Inglese nel triennio liceale, assegnando a questa disciplina due ore settimanali di lezione.

In tal modo la scuola ha aperto i programmi scolastici alle nuove esigenze degli alunni ed ai mutamenti della società. Viene infatti, almeno in parte, colmato il divario, prima fortemente sentito dai diplomati, nei confronti delle competenze che in campo scientifico i loro coetanei acquisivano in altri istituti e nei confronti delle incessanti innovazioni tecnologiche che la società informatizzata presenta; mentre vengono potenziati l’esercizio e il possesso di quello strumento così importante di comunicazione rappresentato oggi dell’Inglese.

*Questo aspetto dell’offerta formativa è stato di recente ulteriormente arricchito: con l’anno scolastico 1999/2000 è funzionante un’Aula Multimediale, con collegamento Internet.

RAPPORTO SCUOLA-FAMIGLIE

Il Liceo “Paolo VI” da quando ha aperto a tutti la possibilità di iscriversi ad esso, si è proposto come “comunità educante” che si  costruisce insieme, in stretta collaborazione tra insegnanti, studenti e genitori. Espressione e strumento di tale coinvolgimento non sono stati soltanto gli Organi Collegiali, presenti sin dall’inizio in tutte le loro modalità, ma particolarmente significativi sono stati e sono gli incontri periodici che si realizzano con le famiglie. E qui non si vuole soltanto far cenno ai colloqui individuali dei genitori con gli insegnanti per una valutazione personalizzata del processo educativo e scolastico dei singoli alunni, ma ad intere giornate trascorse insieme, due ogni anno: una nella fase iniziale dell’attività didattica, e l’altra al termine delle lezioni.

Tali giornate di incontro scuola-famiglie prevedono tempi sufficientemente ampi di stare insieme, compreso il pranzo, favorendo così una migliore conoscenza reciproca e possibilità di comunicazione. Inoltre, sollecitati dalle relazioni fatte da esperti dell’educazione e da operatori scolastici, attraverso un sereno dialogo ed un aperto confronto di idee, ci si aiuta scambievolmente nel difficile compito di educatori.

SPETTACOLO DI FINE ANNO SCOLASTICO

La giornata di incontro che si tiene al termine delle lezioni è sempre allietata, nel pomeriggio, da uno spettacolo interamente preparato e realizzato dagli studenti. Sono due ore di spettacolo in cui si alternano brani polifonici eseguiti con loro canti e musica moderni, scene tratte da opere di autori classici, riletture esilaranti di gite o attività didattiche, sketch, balletti e danze. L’intrattenimento è garantito, come anche la soddisfazione di vedere con quanta creatività e bravura gli alunni sanno animare spazi e tempi che, sia pur legati e scaturenti dalla vita scolastica, sono, nel linguaggio burocratico, definiti ‘extrascolastici’.

ASSOCIAZIONE EX ALUNNI

Il giorno 27 marzo 1999 si è ufficialmente costituita l’Associazione degli (ex) alunni del Liceo Ginnasio “Paolo VI”. Promotori e animatori di essa sono stati alunni che hanno conseguito la maturità negli anni più recenti e che hanno raccolto e concretizzato quella che era un’aspirazione ed un’esigenza sentita da tanti.

Il ‘logo’ scelto è “S O F I A”: conoscere le proprie origini per progettare un futuro ‘umano ’. Nel programma vengono indicate le finalità:

-Non troncare i ponti con il mondo umanistico. Molti hanno intrapreso facoltà universitarie diverse da Lettere-Filosofia e possono verosimilmente correre il ‘rischio’ di allontanarsi da una dimensione in cui affondano e si alimentano le nostre radici di uomini, di italiani e di europei.

-Creare un punto di incontro, per molti aspetti di “riscoperta”, con persone che hanno condiviso la stessa (dis)avventura: un’esperienza che ha segnato la propria formazione culturale e umana.

-Realizzare uno spazio di dialogo su alcuni temi fondanti e ineludibili per la persona umana: progetto di per sé arduo, oggi reso ancor più difficile da una imperante atmosfera di bombardamento informatico-informativo e di generale velocizzazione, che, oltre ad indubbi vantaggi, induce anche a non avere spazi o momenti di riflessione.”

Tale programma è stato presentato ed illustrato il 27 marzo 1999; sempre in quella occasione è stato steso ed approvato lo Statuto; dopo il saluto di S.E. l’Arcivescovo Mons. Gennaro Franceschetti, il prof. Enrico Manzoni, docente all’Università Cattolica di Milano e curatore degli scritti di papa Montini presso l’Istituto “Paolo VI” di Brescia, ha tenuto una interessante relazione su “Giovan Battista Montini: un sacerdote tra gli studenti”.

Anno 1999                                                        Prof. Don Giorgio

\\\\digitazione di Albino Vesprini\\\\

 

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Blasi Mario Parroco evangelizza Assunzione Maria anima e corpo

Risorta a vita immortale Maria Assunta con corpo trasformato

ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE (Lc. 1,39-56) 

“Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”

Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, ma Elisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Maria perché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

(da A.Maggi: “Non ancora Madonna”)

MARIA ASSUNTA IN CIELO

ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE (Lc. 1,39-56)

 

“Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”

Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, maElisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Mariaperché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

(da A.Maggi: “Non ancora Madonna”)

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“Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”

Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, maElisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Mariaperché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

(da A.Maggi: “Non ancora Madonna”)

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Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, maElisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Mariaperché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

(da A.Maggi: “Non ancora Madonna”)

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“Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”

Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, maElisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Mariaperché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

(da A.Maggi: “Non ancora Madonna”)

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“Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”

Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, maElisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Mariaperché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

(da A.Maggi: “Non ancora Madonna”)

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“Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”

Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, maElisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Mariaperché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

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“Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”

Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, maElisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Mariaperché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

(da A.Maggi: “Non ancora Madonna”)

MARIA ASSUNTA IN CIELO

ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE (Lc. 1,39-56)

 

“Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”

Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, maElisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Mariaperché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

(da A.Maggi: “Non ancora Madonna”)

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“Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”

Maria assunta in Cielo è il frutto della redenzione compiuta da Gesù.

Maria anticipa la gloria dei redenti e di tutta la creazione.

In mezzo alle delusioni e le sofferenze del tempo presente la festa dell’ Assunta invita tutti a guardare Maria come segno di sicura speranza.

Maria, dopo l’Annunciazione, va dalla sua parente Elisabetta, che attende un bambino, per servirla.

L’incontro delle due donne è pervaso di gioia. Maria entra nella casa di Zaccaria e saluta Elisabetta; è il saluto di felicità, di benedizione e di pace. Il luogo dell’incontro con Dio non è più il tempio: Maria è il Tempio di Dio.

Maria, entrando nella casa di Zaccaria, non saluta Zaccaria, maElisabetta. “L’affronto che Maria fa a Zaccaria è grave. Lei avrebbe dovuto dirigere il suo saluto prima al padrone di casa, il sacerdote Zaccaria, e poi alla moglie. Maria ignora Zaccaria.

Lei è portatrice dello Spirito e questo non può essere comunicato al sacerdote che è rimasto incredulo e sordo alla voce del Signore.

Quel che accomuna le due donne, l’anziana e la giovane, è che in entrambe palpita una nuova vita. Per questo il saluto non coinvolge il sacerdote, chiuso alla novità e refrattario alla speranza, ma solo le due donne, la Vergine e la sterile, quelle che contro ogni speranza e aspettativa, si sono aperte alla vita”.

“Nel saluto, Maria ha trasmesso la sua esperienza, palpitante di una nuova vita, a Elisabetta e questa, che sta vivendo le stesse emozioni vitali, è stata colmata dallo Spirito: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bimbo sussultò nel suo grembo ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo”.

“L’esperienza dello Spirito rende Elisabetta profetessa e come tale si rivolge a Maria, che non la vede più come la sua parente, ma la riconosce e la benedice come madre del suo Signore, cioè l’atteso Messia”.

“Elisabetta termina la sua benedizione proclamando “BEATA” Mariaperché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

La grandezza di Maria sta nella sua fedenel credere alle parole del Signore, parole che non rimangono pie promesse o astratte speranze, ma che con la collaborazione degli uomini diventano stimolo di un radicale cambiamento della storia”.

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Blasi Mario Parroco annuncia Vangelo domenica XX tempo ordinario anno C . Luca 14,1 ss

Don Mario Blasi evangelizza

XXII TEMPO ORDINARIO   (Lc.14,7-14)

“Quando offri un pranzo o una cena non invitare i tuoi amici…”

Per entrare nel Regno di Dio è necessario diventare piccoli, bisognosi di tutto.

Chi si riconosce piccolo e debole davanti al Signore accoglie la Sua parola.

La Parola di Dio porta molto frutto se accolta in un cuore onesto e buono.

Chi è pieno di sé non entra nel Regno.

Gesù, in giorno di sabato, è invitato a casa di uno dei capi dei farisei. “Gesù è stato invitato sovente in casa dei farisei che lo hanno messo in guardia contro le insidie di Erode. (Alcuni farisei si avvicinarono a dirgli: “Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere” (Lc.13,3). Gesù è disposto a portare la salvezza anche a loro”.

Gesù entra nella casa del fariseo per partecipare al banchetto del sabato. “E’ un dovere dell’uomo in giorno di sabato mangiare e bere o di restare seduto e di studiare”. Gesù è l’invitato di onore e lo sguardo di tutti è su di Lui. Gli ospiti arrivano e si mettono a tavola. Gesù li osserva mentre tentano di occupare i primi posti, quelli più vicini al padrone di casa. Allora Gesù prende la parola e dà una regola di prudenza. “Non è prudente occupare il primo posto quandosi arriva per il pranzo. Potrebbe venire chi gode di maggiore reputazione; le persone più in vista arrivano all’ultimo momento!”.

Gesù si rivolge anche a colui che lo ha invitato. Il banchetto è espressione di un amore generoso! Non si deve invitare solo quelli che sono uniti da legami di amicizia, di parentela, di affinità perché essi potranno e vorranno restituire l’invito.

“L’invito non deve mai essere compensato con un altro invito, il  dono con un altro dono. Bisogna dare senza sperare niente in contraccambio. Il pasto deve significare un amore che attende la contropartita”.

“Sarai Beato”

E’ felice chi invita quelli che non possono ricambiare il dono ricevuto. Gesù esorta ad invitare i poveri: storpi, zoppi e ciechi, gli esclusi dalle cerimonie del tempio. Gesù accorda la Sua attenzione e il Suo Amore proprio a queste persone che sono le più povere dei poveri.

I benefattori di queste persone sono beati: Dio sarà la loro ricompensa.

«Su questa terra siamo di passaggio: tendiamo verso l’alto»

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