Paola Renata Carboni nella sua spiritualità dagli scritto editi nel 1929. Note

Carboni Paola Renata (1908-1927). “Piccolo fiore” libro edito nell’anno1929 pp. 3-5

Profumo di fiori? Si: umili come la viola, candidi come il giglio, preziosi e soavi come la santità.

Ella stessa – una modesta giovane assurta improvvisamente e miracolosamente a discepola di S. Teresa del Bambin Gesù – ama definirsi: “ piccolo fiore prediletto da Gesù „.

Lasciate, dunque, che spandano il loro profumo i vivissimi petali che le caddero dal cuore, lungo il cammino, e che noi raccogliamo e insertiamo per volere della sorella prediletta – più per noi che per lei e offriamo in dono alle madri come monito, alle giovani come incitamento ed esempio.

Sfogliandoli, si vedrà che la formazione non è, poi, la risultante unica e sola dell’educazione: famigliare e dell’ambiente, ma che Dio sa raccogliere, quando vuole e come vuole, fiori e frutti abbondanti e vaghi da aridi solchi e tronchi scheletriti. Bella, ad ogni modo, la figura di questa giovane che, illuminata da Dio, ricostruisce la sua fede e s’infervora nel divino amore e spande in ogni dove, fascino di luci eteree e, nel martirio di pene diuturne, nello sprezzo di sé e degl’incanti delta aita, prega e confida, istruisce e consiglia, trascina, converte, s’offre e s’immola per i restii che non riesce a stenebrare. Vincerà? Ella lo afferma indubbiamente e ripetutamente, oltre i sospiri e le tacite lacrime, nell’espansione del cuore fremente, nelle divinazioni della fede robusta, negli ardori della carità, nei liberi voli della pietà, nell’ estasi sublime della prece pia. In ogni pagina – a cominciare dai cenni autobiografici, che stese per volere del suo padre spirituale – e, giù giù, nell’ epistolario abbondante ove sfoga l’animo e svela le luci della mente e i palpiti del cuore verginale alla sorella prediletta ed alle amiche; nell’invocazione a Santa Teresa, nel diario intimo delle pene e dette speranze e dell’ indomato amore – ordisce bellamente e riflette con sincerità l’intero e interno dramma della vita, che le fu spasimo e gloria, campo di lavoro e vittoria. L’amore eroico verso i genitori, la serena tranquillità che emerge da ogni prova, la sicurezza nel risolvere i problemi più ardui dell’ altrui vita, l’oblazione di sé, i muti colloqui con Dio acquistano continuo e crescente risalto, destano ammirazione, avvincendo II lettore, sforzandolo, più che al pianto, all’ imitazione. Così, ella – a distanza d’un anno dalla morte – vive più che mai, e l’opera indefessa di bene che compì, nella famiglia e nella scuola, a vantaggio di compagne ed umiche – a Grottazzolina, fra le pareti della casa paterna; a Fermo, ove trovò la luce dell’anima – non s’arresta, grazie a Dio, ma prosegue, si completa, trionfa ancora.

La sorella prediletta svela l’influenza innovatrice e salutarissima che Renata esercitò nella famiglia, un’amica ricorda le visioni e le rivelazioni ch’ ebbe ripetutamente da parte di S. Teresa del Bambin Gesù; la superiora dell’ Istituto Femminile S. Chiara di Fermo – ove insegnò per un anno intero – confessa: ” io mi sentii spinta ad invocarla, fin dalla morte, come mia piccola avvocata presso Colui che aveva tanto amato, ed oggi è per sua intercessione che domando delle grazie, sicura di ottenerle „.

E’ dunque la santità? Non sappiamo. Ma mentre parla, (il piccolo fiore spande il suo profumo) noi deponiamo non senza lacrime la penna, inchinandoci e pregando.

  1. 21-22

Non appena il raggio divino, penetrando nettamente, gettò sprazzi di vivida luce, Renata anelò subito di ascendere e fu un balzo deciso verso il Cielo. L’anima si inebriò di luce, di azzurro, sentì la nostalgia dei puri sconfinati orizzonti, dove avrebbe respirato l’atmosfera degli angeli di Dio.

“ Come mi è dolce, la sera – ella scrive – trattenermi qualche minuto alla finestra delta mia cameretta e godere il cielo stellato! Mi sento trasportala lassù, mi sento circondata dagli Angeli che cantano con me le lodi al Signore e mi sembra di appartenere già al Cielo „.

Ma si accorse subito, che presumere di poter fare senza guida, per arrivare alla perfezione, era lo stesso che affidarsi a un pessimo maestro, e suo studio principale fu di trovarsi una guida sicura, un consigliere illuminato a cui potersi affidare con filiale abbandono.

E non tardò molto a scoprirlo il Sacerdote per l’anima sua. Renata si lasciò plasmare con tutta docilità ed Egli riuscì a gettare in quel cuore le basi di una pietà così bella e disinvolta che era luce e profumo, e, sebbene dissimulata da una schietta giocondità, traspariva attraverso le sue angeliche sembianze, come raggio di sole, attraverso tersissimo cristallo.

Il Confessore era il suo confidente, il suo maestro, il suo Padre; a Lui con ingenuità infantile esponeva i dubbi, le aspirazioni, le intime lotte e dalla sua parola traeva incitamento per ascendere ancora, per sopportare ilare, serena i dolori del suo interno martirio. “ Come vorrei ancora dirle dell’ anima mia, confidarle tante piccole cose che sempre mi sfuggono e non lasciarle nulla all’ oscuro „.

Aveva per Lui una carità e venerazione profondissima e, man mano che apprezzava ed usufruiva del beneficio del suo ministero, gli pagava con ardenti preghiere un tributo spirituale di riconoscenza.

  1. 79-82

“ L’amicizia – scrive Sitato Pellico – è una fratellanza, e, nel suo più alto senso, è il bello ideale della fratellanza; è un accordo supremo di due o tre anime, non mai di molte, le quali son divenute necessarie l’una all’altra; le quali hanno trovato l’una nell’ altra la massima disposizione a capirsi, a giovarsi, a nobilmente interpetrarsi a spronarsi al bene.“

Ed era proprio così che Renata concepiva l’amicizia. Essa ne aveva poche di amiche, ma cercava con ogni mezzo che i loro cuori battessero all’unisono, specialmente in quello che era il suo più vivo tormento, nell’amor di Dio.

“ L’amore per Gesù, vedere amato Gesù, ecco la mia sete …. solo l’amore di Gesù mi ricolma di contentezza. E tu che sei la mia amica, tu devi diminuire la mia sete, con l’amarlo sinceramente, fortemente … Sii unita con me net Signore ed accetta ed offri, sopportando tutto con serenità e gioia.”

Renata voleva liete, santamente liete, le sue amiche e si spaventava quando di alcuna riceveva lettere di umor triste o le sapeva in preda alle malinconie. Oh! allora erano esortazioni, ammonizioni; appassionati, dolci richiami; erano magari tiratine di orecchi date con bel garbo, ma la sua parola, giunta a tempo opportuno, confortava, rinfrancava, liberava da una pericolosa situazione.

“ Qual’è la cagione delle tue sofferenze tanto grandi? Se non ne hai ragione, non devi far così; se ci fosse anche una ragione, si confida in Dio e si sta allegri …. Devi ricacciare indietro quelle gocce di pianto e sorridere, sorridere sempre. Se sapessi come è bello il sorriso!  Rallegra Gesù ‘e dà la pace. L’amicizia fedele, dice la S. Scrittura, è una valida protezione, è balsamo di vita e di immortalità „.

Tale fu sempre l’amicizia di Renata. Una sua amica così scrive di Lei: “ lo posso accertare che l’amicizia di Renata è “ stata per me l’ancora di salvezza, perché mi ha sempre distolto da qualunque risoluzione presa senza pensare al danno grave che poteva accadermi e, se non sono caduta talvolta in profondi precipizi, lo debbo a Lei che mi dava sempre saggi consigli ed esempi sublimi. Non nego che da principio fio dovuto lottare aspramente, ma, insieme alla mia cara Renata, tutto mi era dolce e caro, anche il soffrire e, quando mi trovavo insieme a Lei, non pensavo più a nulla che non fosse retto e santo „.

Un’ altra amica così si esprime : “ Renata fu per me la prima e più cara amica, “ perché al suo contatto il mio spirito si elevava senza sforzo verso ideali superiori           .Ebbi sempre modo di ammirare la sua modestia, il contegno sempre riservato, che rivelava un intimo contatto con Dio … Raramente rivelava la sua profonda formazione spirituale, ma quando vi si induceva faceva sentire tutta la santità della vita e si comprendeva quant’ era ardente in Lei il desiderio di giovare alle anime … La sua morte fu un gran dolore per me che mi sentii privata di uno dei più grandi aiuti spirituali.”

Come ben si vede, la sua non era un’amicizia fatta di simpatie e di sentimentalismo, ma di bontà, di generosità, di fermezza di animo; un’amicizia soda che aiuta alta pratica della virtù, al compimento del dovere. Renata avrebbe preferito perdere qualche amica che veder deviare l’amicizia, della quale aveva un concetto così nobile ed elevato. Ecco infatti ciò che, un giorno, scriveva ad una delle sue amiche più intime:

“ Vedi, io ti amo unicamente per il Signore e nel Signore e se, per il bene dell’ anima tua, dovessi sempre somministrarti delle medicine amare e fossi sicura che facendo così ti allontaneresti da me, preferirei vederti allontanare che far diversamente. Non è il mio bene che io cerco, ma il tuo, unicamente per te stessa; e se tu credi che questo non sia il nero bene, puoi benissimo rinunziarci; io non so amarti meglio …… “

Con l’amicizia così nobilmente intesa, Renata avvinceva le anime e man mano le abituava a quegli orizzonti tersi e luminosi, dei quali il suo spirito quotidianamente si beava, in un’atmosfera tutta celeste.

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L’AVARIZIA COME IDOLATRIA in Col 3,5 in uno scritto del docente biblista GABRIELE MIOLA

PLEONEXIA ETIS ESTIN EIDOLOLATRIA (Col 3,5) L’avarizia che è idolatria

di Gabriele Miola biblista docente all’Istituto Teologico di Fermo

<Nota che nel trascrivere si è usata la traduzione della Bibbia dell’anno 2007>

Il termine greco pleonexia è di chiara derivazione: pleon indica il ‘di più’ e il verbo echo = ‘avere, possedere’: la pleonexia è l’aver di più e la brama di aver di più di quanto uno abbia o possieda. Anche per il latino avaritia ha probabile derivazione da un aveo, che indica desiderio e bramosia smodati, ci porta al significato di cieco possesso e di gretto accaparramento delle cose per la voglia di avere.

Ai termini pleonexia-avaritia soggiace l’idea che nella vita dell’uomo c’è una giusta misura di possesso e un’idea di uguaglianza fondamentale tra tutti gli uomini; sorpassare questa giusta misura e creare disuguaglianze è frutto di violenza. È quello che connota il vocabolo ebraico besa la cui radice significa “tagliare”, tradotto con pleonexia-avaritia, cui soggiace l’idea di taglio violento, quindi di cupidigia e di lucro ingiusto. Ecco alcuni testi:

-Ger 22,17. II profeta contrappone la vita giusta e l’amministrazione di un potere a tutela dei poveri del re Giosia al lusso e alle ingiustizie del figlio Ioiakim e dice:  “I tuoi occhi e il tuo cuore, invece, non badano che al tuo interesse, (besa – pleonexia) a spargere sangue innocente, a commettere violenza e angherie”.

-Ab 2,9. Il profeta sulla base della legge morale che condanna l’arricchimento illecito, fratto di ingiustizie, lancia la maledizione divina contro la tracotanza del re e del popolo caldeo che sopprimono popolazioni intere; ma così – dice il profeta – distruggeranno se stessi!

“Guai a chi è avido di guadagni illeciti (bosea ‘ basa – pleonekton pleonexian)

un male per la sua casa

per mettere il nido in luogo alto…

Hai decretato il disonore alla tua casa;

hai soppresso popoli numerosi,

hai fatto del male contro te stesso”.

-Ez 22,27 denuncia le cause della distruzione di Gerusalemme e le vede non solo nella mancanza di fede in Jhwh e nel sincretismo religioso, ma anche nella avarizia dei suoi amministratori:

“I suoi capi in mezzo ad essa sono come lupi che dilaniano la preda, versano

il sangue, fanno perire la gente per turpi guadagni” (besoa‘ basa‘ – pleonexia pleonektosin)

-Sal 119,36. Il saggio che vive la profondità della legge di Jhwh e conosce le bramosie terrene del cuore dell’uomo, prega:

“Piega il mio cuore verso i tuoi insegnamenti,

e non verso la sete di guadagno” {besa ‘-pleonexia)

Da notare che in Prov. 1,19 lo stesso termine ebraico besa ‘ mentre da Aquila, Simmaco e Teodozione concordemente viene tradotto con pleonexia, nei LXX invece viene tradotto con asébeia che significa empietà. Troviamo già qui una indicazione chiara che l’avarizia è un rifiutare Dio e la sua legge (asébeia) per prostrarsi dinanzi alle cose come idoli (nota1).

Il tema dell’avarizia, del perseguimento della ricchezza e dell’attaccamento alle cose è molto sviluppato in tutto l’Antico Testamento nei suoi diversi aspetti. Ne richiamiamo alcuni:

-a).    L’avarizia, la venalità, l’attaccamento al denaro corrompono la giustizia e quindi distruggono la vita sociale. In Es 18,21 Mosè deve scegliere come giudici delle persone che odiano besa‘, cioè l’avarizia, la venalità (nota2).

Il tema dell’amministrazione della giustizia, l’ingiunzione ai giudici di non farsi corrompere dai potenti o da donativi e regali, la denuncia di fatti di ingiustizia in tribunale sono ricorrenti nei diversi libri dell’A.T. (cfr Es 23,8; Dt 16,19; 27,25; Am 6,6ss; 5,12 ; Is 1,23  (nota3); Ez 34,1-10 ecc.),

-b.    L’avarizia distrugge la vita umana nelle sue relazioni familiari e sociali. Nella sapienza dei diversi popoli e in tutte le letterature è stata descritta con ironia e disprezzo la figura dell’avaro per l’irrazionalità dei suoi atteggiamenti e la cecità dei suoi comportamenti. La letteratura sapienziale biblica più volte si sofferma su questa figura. In Pr. 15,27 ne viene sottolineata la perversione (nota4), ma soprattutto il Siracide descrive le contraddizioni dell’avaro e l’inaridimento della sua vita in 14,3-19. Citiamo solo dal Siracide 14,9:

“L’occhio dell’avaro non si accontenta della sua parte,

una malvagia ingiustizia gli inaridisce l’anima”.

Il Siracide in 31,1-11 arriva ad affermare che raramente le ricchezze sono esenti da ingiustizia e da avarizia:

“chi ama l’oro non sarà esente da colpa,

chi insegue il denaro ne (nota 5)sarà fuorviato (v.5)

e proclama veramente

“beato il ricco che si trova senza macchia

e che non corre dietro l’oro (v.8).

-c).   L’attaccamento alle cose e l’avarizia chiudono il cuore in un cieco orizzontalismo e rendono l’uomo incapace di vivere la vita coi suoi beni e valori. I beni della terra sono doni di Dio, l’attaccarsi ad essi fa dimenticare Dio come sorgente di ogni bene e perverte i valori della vita. Per questo la parenesi deuteronomista esorta a non dimenticare mai che quanto Israele ha avuto è dono di Dio:

“Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio” (Dt 8,12-14).

Qohelet dedica ampio spazio alla riflessione sui beni terreni dell’uomo (cfr 5,9- 6,12). Per Qohelet

“chi ama il denaro, non è mai si sazio di denaro” (5,9).

La filosofia della vita di Qohelet è quella del giusto equilibrio: essere avaro, affaticarsi per le ricchezze e non godere delle cose è cosa vuota, vana e stolta. È la condanna di Dio che pesa sull’avaro; per l’uomo avaro sarebbe stato meglio non esser nato (cfr 6,1-6). Per Qohelet il metro di misura delle cose è la morte, che relativizza ogni possesso (cfr 5,14), e in un orizzonte di vita che non travalica nell’eterno (3,19-21), riconosce che le cose sono date da Dio come dono per goderne e non per accumulare.

-d).   Besa-pleonexia-avaritia indicano non solo l’atto del possesso oltre la misura, ma anche la bramosia dell’avere che è senza limiti. La trasgressione della Torah, delle dieci parole, è sempre offesa al Dio dell’alleanza, ma l’attaccamento alle cose e la brama sconfinata del possedere portano l’uomo alla volontà di potenza e conseguentemente ad escludere Dio dalla propria vita e dalla storia in cui costruisce il proprio potere.

Il comandamento “non desidererai” (Es 20,17), nella sua valenza negativa (nota5) di possedere ciò che è di altri, esprime la radice di ogni male perché il desiderio senza misura è la molla di ogni agire perverso.

La terra e le cose sono date all’uomo (Gen 1.26.29;2,19) e l’uomo le possiede; la radice del male sta nell’avarizia, nell’avidità del possedere al di là del giusto limite così che si perverte il rapporto uomo-cose: queste prendono il sopravvento sull’uomo; allora non è più l’uomo a possedere le cose, ma le cose possiedono il desiderio dell’uomo e ne viene pervertito anche il rapporto tra persone.

Non a caso la tradizione deuteronomista conclude la Torah presso il Giordano con Israele che sta alle soglie della terra di Canaan, così che questa rimanga sempre come una terra promessa, come terra donata e mai posseduta in proprio, come eredità data da Dio al suo popolo (cfr.Es 15,17;Sal 47,5; 136,21s ecc.), quasi simbolo della vera eredità che è Dio stesso (cfr Sal 15,5). Non è a caso che la tradizione sacerdotale istituisca una legge, forse mai applicata, quella dell’anno giubilare (Lev. 25), in cui ogni cinquanta anni la proprietà della terra delle singole famiglie ritorni alle origini superando ogni accumulo o accorpamento che si possa essere giustamente o meno verificato negli anni, per ristabilire il senso vero del possesso come eredità data da Dio e non diritto dell’uomo.

Nella visione biblica infatti ultimo desiderio dell’uomo può essere solo il Dio dell’alleanza e della salvezza e la sua legge (cfr Sal 42,2; 63,2s; 84,3 ecc. Is 26,8 ecc.), ma quando l’uomo ha come termine del desiderio se stesso e le cose assolutizza la propria persona e si sostituisce a Dio. Lo jahwista vede la radice perversa di questo desiderio in Adam, che non si fida di Dio e prende il frutto desiderabile (nota6) per conoscere il bene e il male (Gen 3,5). L’avarizia o meglio l’avidità sconfinata delle cose o del potere acceca il cuore dell’uomo, allora l’idolatria invade il suo cuore facendogli dimenticare Dio, anzi ponendolo al di sopra di lui. Così avarizia e superbia coincidono: l’avarizia è il grembo o il supporto della superbia e la superbia è l’avidità senza limiti.

Quando Israele pone il suo desiderio nelle cose e pensa che siano i ba’alim, come forze divine della natura, a dargli, come dice Osea, grano, vino ed olio, argento e oro (Os 2,10-14; cfr anche Dt 8,11-18; Ez 16,37 ecc.), allora diventa idolatra. Un po’ come l’uomo di oggi che dimentico di Dio pensa di ricevere i suoi beni dalla scienza, dalla tecnologia, dalla economia, dalla politica ecc. e ne assolutizza il valore.

Quando la cupidigia, l’orizzonte del dominio terreno, l’orgia del potere diventa ‘ybris, volontà di potenza, che si pone come assoluto, allora la gloria di Dio mostra la nullità dei disegni degli uomini; quando i potenti della terra con tracotanza assoggettano popoli e si ergono ad arbitri della storia, accumulano ricchezze senza numero e per avidità schiacciano i poveri e gli umili, assolutizzano se stessi e pretendono onori divini, allora il Santo d’Israele, l’Unico, li abbatte dai troni e li travolge nella loro idolatria. È questa la teologia che esprime il libro dell’Esodo nei riguardi del Faraone, il Profeta Isaia contro Sennacherib di Assiria (Is 37,22-29), Ezechiele contro il re di Tiro (Ez 28,1-10), il libro di Daniele contro l’assolutismo di Antioco IV Epifane e dei regni ellenistici.

La loro stessa idolatria li perde, come un fuoco che consuma (cfr.Ez 28,18). Sono pagine e prospettive attuali contro ogni assolutismo di stato o pretesa di costruire una città senza Dio.

II

L’annuncio di Gesù incentrato sulla presenza del regno di Dio nell’oggi della storia e l’invito alla conversione costante per accoglierlo con animo aperto sono la via per leggere la vita dell’uomo e i suoi valori e per indirizzare il giusto “desiderio” dell’uomo.

Mt 6, 33 “Cercate, invece, prima di tutto, il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”.

sono le parole con cui Gesù termina nel vangelo di Matteo il discorso sulla Provvidenza che iniziava con l’asserto:

“Nessuno può servire a due padroni: perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e la ricchezza” (mammona) (6,24). (nota7)

Questa contrapposizione tra Dio e mammona è significativa. Mammona equivale sia a “denaro, patrimonio” sia a “guadagno, lucro ingiusto”. Questo termine nel N.T. ricorre solo tre volte, una in Matteo e due in Luca e sempre in bocca a Gesù . Alcuni filologi fanno derivare mammona dalla radice ’amari’ che indica ciò che è stabile, sicuro e solido e quindi ciò in cui si può avere fiducia: “mammona” sarebbe ciò in cui si pone fiducia, ciò in cui si pensa di trovare stabilità e nella lingua di Gesù, cioè nell’aramaico, mammona sostituisce il termine ebraico che abbiamo già più volte citato cioè besa‘ che è l’avarizia e l’illecito guadagno, come il greco pleonexia. (nota8)

Si può dire che Gesù vede in mammona il vero concorrente <avversario> di Dio: o si ha fede in Dio o si ha fede in mammona. Nel cuore dell’uomo cioè si decide la scelta per Dio o per mammona, per Dio o per le cose, si decide per la libertà del servizio a Dio o per la servitù al denaro; si decide per Dio o per gli idoli.

Vediamo che cosa comporta l’attaccamento a mammona-pleonexia:

-a).   l’avarizia fa perdere il senso della vita e dei suoi valori. Gesù ammonisce:

“Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia” {pleonexia) Lc 12,15. Gesù fa questa ammonizione nel contesto della controversia per l’eredità tra due fratelli: uno di questi aveva chiesto l’intervento giudiziale di Gesù e Gesù rifiuta dicendogli:

“O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?” e prende occasione per ammonire i presenti di guardarsi dalla pleonexia che è la vera causa di ogni lite, e rafforza il suo richiamo con la parabola del ricco che accumula beni in quantità, al quale però Dio dice:

“Stolto. Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?” (Lc 12, 20)

Nella vita c’è un primato ed è il primato di Dio e del suo regno ed in questo contesto Matteo pone il discorso di Gesù sulla Provvidenza (Mt 6,24-34); Luca

invece, più attento al concreto contrasto nella vita tra povertà e ricchezza, riporta lo stesso discorso nel contesto della vigilanza per la venuta del regno e nell’ammonimento sulla vera ricchezza che l’uomo deve portare davanti a Dio (Lc 12,13-40). Nella vita umana c’è un dilemma: o Dio o le cose; o s’imposta la vita di lavoro e di relazione sulla fiducia in Dio o si imposta sulla fiducia nelle cose. La prima scelta costruisce la vita, la seconda la distrugge

-b).   Nel contesto del discorso su mammona come riportato da Lc (cap.16), Gesù narra la parabola del ricco e di Lazzaro povero (vv. 19-31) per evidenziare qual è il vero uso che si deve fare delle ricchezze. Gesù chiama la ricchezza “disonesta” (v.9.11) perché vede già nella differente posizione sociale del ricco e di Lazzaro una ingiustizia di base a cui bisogna rimediare con il retto, intelligente uso di mammona. Il ricco della parabola non è stato scaltro come l’amministratore infedele, non ha saputo farsi amico Lazzaro per avere la vera ricchezza che conta davanti a Dio.

I farisei reagiscono all’insegnamento di Gesù, non con argomenti, ma beffandosi di lui perché, dice Luca, essi sono philoarghyroi (=avari, nota9). La risposta di Gesù è di quelle che penetra nelle profondità dei cuori ed esprime il giudizio incontrovertibile di Dio: il vostro è un cuore idolatra perché

“voi siete quelli che si ritengono giusti dinanzi agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini (cioè il denaro), davanti a Dio è abominevole”( Lc 16,14-15).

Non possiamo qui non richiamare un altro testo significativo di Luca. Al fariseo che aveva invitato Gesù a pranzo e che si era meravigliato che Gesù si fosse messo a tavola senza aver fatto prima le abluzioni secondo la “purità” farisaica, Gesù, colta la meraviglia sul volto di lui, gli mostra qual è la vera purità, dicendogli:

“date piuttosto in elemosina quel che c’è dentro (nel piatto), ed ecco, tutto per voi tutto sarà mondo” (Lc 11,37-41). La condivisione, che rifiuta ogni avarizia verso i fratelli, è la vera purità dinanzi a Dio. Per Gesù il problema è sempre quello del cuore: quando il cuore è impuro, da lì vengono le perversioni, le pleonexiai, ogni forma di avarizia (Cfr Mc 7,22).

-c).   La comunità dei discepoli di Gesù ha recepito l’insegnamento del Maestro e Luca ci presenta l’ideale della comunità cristiana descrivendo quella delle origini come una comunità che si è tenuta lontana da ogni pleonexia, che ha coltivato la comunione e la condivisione (cfr At 2,42-45; 4,32-37). Paolo per richiamare ai Corinzi la generosità verso i fratelli poveri di Gerualemme indica loro Gesù, che

“da ricco che era, si è fatto povero per voi” (2 Cor 8,9).

Per questo l’apostolo mette in guardia i credenti a tenersi lontani da ogni avarizia e ammonisce che gli avari non erediteranno il regno di Dio (Cfr 1 Cor 6,10; Ef 5,5). Paolo, che ha donato tutto se stesso per il vangelo, si offre come modello di vita, schivo da ogni avarizia e interesse privato (Cfr 1 Cor 9,12; Fil 4,17; At 20,33s ecc.), ma premuroso verso gli altri come una madre per i figli (1 Ts 2,5s). E le lettere paoline, presentando l’ideale del vescovo e del diacono, esigono che chi è chiamato a servire la Chiesa deve essere libero, distaccato dal denaro e non cupido di guadagni (1 Tm 3,3.8; Tt 1,7).

d).   Nella lettera ai Romani, quando Paolo fa il triste elenco delle colpe dei pagani, che, pur potendo conoscere Dio, non gli hanno dato gloria, li dice

“colmi di invidia, di omicidio, di lite, di frode, di malignità”

pleonexia, di avarizia, di cupidigia (Rom 1,21.29).

Paolo sa bene che nel mondo pagano ci sono tanti uomini giusti, distaccati dal denaro, perché sanno che la “auri sacra fames” (Virg. En. 3,56 sacra fame dell’oro) è all’origine di ogni perversione e sperimentano che, secondo il proverbio e la saggezza popolare, la philoarghyria o pleonexia è la radice di ogni male (cfr 1 Tm 6,10); ma Paolo sa pure che là dove non c’è Dio, l’uomo perde la mente (Rom 1,28) e, chiuso in un cieco orizzontalismo smarrisce il senso della vita, fa il male e approva chi lo compie (v.32).

La cupidigia allora diventa un cieco potere di dominio senza limite sulle cose e sulle persone. Quando nell’Apocalisse si descrive la caduta di Roma, Babilonia la grande, si dice che è finito il potere dell’oro e dei mercanti, che hanno fatto grande la città senza Dio, il cui potere e le cui ricchezze erano il loro dio (Ap 18-19).

L’opposizione posta da Gesù tra Dio e mammona è radicale.

È la stessa opposizione che c’è tra Dio e satana; mammona è lo stesso potere di satana, i regni e le cose del mondo sono in suo dominio. Dinanzi agli occhi di Gesù satana fa balenare in un istante la potenza dei regni e lo splendore delle cose chiedendogli di prostrarsi davanti a lui per poter avere la gloria del modo, ma Gesù lo respinge con la parola della fede:

“Il Signore, tuo Dio, adorerai, a lui solo renderai culto” (Lc 4, 5-8; Mt 4, 8-10).(nota10)

L’orizzonte delle cose è piatto e chiude quello aperto verso l’Altissimo, fa smarrire il senso della vita, fa delle cose un idolo, è fonte di ogni malanno e perversione: l’avarizia è veramente una idolatria (Col 3,5) e l’avaro nel suo attaccamento al denaro e alle cose è un idolatra (Ef 5,5).(nita11)

Si stabilisce così un circolo chiuso: la pleonexia porta all’asébeia, all’ empietà e l’asebeia trova la sua piena  espressione nella pleonexia, nella cupidigia delle cose e del potere.

 

NOTE

(1) La concordanza dei LXX di Hatch-Redpath alla voce pleonexia nota che il vocabolo ebraico besa’ viene più regolarmente tradotto con pleonexia da Aquila, Simmaco e Teodozione, che non dai LXX, che usano tradurre non letteralmente, ma a senso (cfr Is 56,11; 57,17 ecc.). Cfr lo studio di G. Delling su pleonexia in GLNT, Paideia, Brescia, 1975 voi. X, coi. 394-398.

(2) Aq. traduce besa ‘ con pleonexia, mentre i LXX traducono yperephania che significa “alterigia tracotanza”; la Bibbia CEI con “venalità”.

(3) Su questo tema e per il commento ad Is.1,23 cfr articolo precedente di R. Virgili su questa rivista pag. 11-28.

(4) Anche in questo passo il classico bosea‘ basa‘ del testo ebraico viene tradotto con pleonexia pleonekton da Simmaco e con doronlemptes cioè’ “avido di guadagni disonesti” dai LXX.

(5) Il verbo hamad, tradotto con epithimeo in greco, esprime per lo più valore negativo; per esprimere desiderio, amore verso Dio e i valori più alti per la vita si usano altri termini, ad esempio qawad, ‘ahab.

(6) Da notare che in Genesi 3, 6 si usa lo stesso verbo nehemed (desiderabile)come nel comandamento “non desiderare” (lo’ tahmod)

(7) Nel testo citato Mt 6,24; in Lc si trova due volte nel contesto degli ammonimenti sull’uso della ricchezza (mammona), dopo la parabola dell’amministratore infedele, Lc 16, 9.11. In questi vv. al termine “mammona” viene aggiunto l’aggettivo Ingiusto, disonesto”, quasi ad indicare che nella ricchezza c’è sempre unita una qualche ingiustizia.

(8) Sul significato di “mammona”  cfr la voce “mamonas” di F.HAUCK in GLNT, Paideia, Brescia 1970, vol. VI coll.1047-1054.

(9) “philoarghyroi” significa “amanti del denaro, avari”, e corrisponde alla espressione ebraica: bosea’ basa’ – pleonexia pleonectein che abbiamo esaminato, cfr F. HACK, a. c.

(10) Cfr commento in H. SCHURMANN, Il Vangelo di Luca. Brescia, Paideia, 1983 e in J. GNILKA, Il Vangelo di Matteo. Brescia, Paideia 1990

(11) Cfr commento ai passi in H. SCHLIER, La lettera agli Efesini, Brescia, Paideia, 1982; E. LOHSE, Le lettere ai Colossesi e a Filemone, Brscia, Paideia, 1987.

PLEONEXIA ETIS ESTIN EIDOLOLATRIA (Col 3,5) L’avarizia che è idolatria

di Gabriele Miola biblista docente all’Istituto Teologico di Fermo

<Nota che nel trascrivere si è usata la traduzione della Bibbia dell’anno 2007>

Il termine greco pleonexia è di chiara derivazione: pleon indica il ‘di più’ e il verbo echo = ‘avere, possedere’: la pleonexia è l’aver di più e la brama di aver di più di quanto uno abbia o possieda. Anche per il latino avaritia ha probabile derivazione da un aveo, che indica desiderio e bramosia smodati, ci porta al significato di cieco possesso e di gretto accaparramento delle cose per la voglia di avere.

Ai termini pleonexia-avaritia soggiace l’idea che nella vita dell’uomo c’è una giusta misura di possesso e un’idea di uguaglianza fondamentale tra tutti gli uomini; sorpassare questa giusta misura e creare disuguaglianze è frutto di violenza. È quello che connota il vocabolo ebraico besa la cui radice significa “tagliare”, tradotto con pleonexia-avaritia, cui soggiace l’idea di taglio violento, quindi di cupidigia e di lucro ingiusto. Ecco alcuni testi:

-Ger 22,17. II profeta contrappone la vita giusta e l’amministrazione di un potere a tutela dei poveri del re Giosia al lusso e alle ingiustizie del figlio Ioiakim e dice:  “I tuoi occhi e il tuo cuore, invece, non badano che al tuo interesse, (besa – pleonexia) a spargere sangue innocente, a commettere violenza e angherie”.

-Ab 2,9. Il profeta sulla base della legge morale che condanna l’arricchimento illecito, fratto di ingiustizie, lancia la maledizione divina contro la tracotanza del re e del popolo caldeo che sopprimono popolazioni intere; ma così – dice il profeta – distruggeranno se stessi!

“Guai a chi è avido di guadagni illeciti (bosea ‘ basa – pleonekton pleonexian)

un male per la sua casa

per mettere il nido in luogo alto…

Hai decretato il disonore alla tua casa;

hai soppresso popoli numerosi,

hai fatto del male contro te stesso”.

-Ez 22,27 denuncia le cause della distruzione di Gerusalemme e le vede non solo nella mancanza di fede in Jhwh e nel sincretismo religioso, ma anche nella avarizia dei suoi amministratori:

“I suoi capi in mezzo ad essa sono come lupi che dilaniano la preda, versano

il sangue, fanno perire la gente per turpi guadagni” (besoa‘ basa‘ – pleonexia pleonektosin)

-Sal 119,36. Il saggio che vive la profondità della legge di Jhwh e conosce le bramosie terrene del cuore dell’uomo, prega:

“Piega il mio cuore verso i tuoi insegnamenti,

e non verso la sete di guadagno” {besa ‘-pleonexia)

Da notare che in Prov. 1,19 lo stesso termine ebraico besa ‘ mentre da Aquila, Simmaco e Teodozione concordemente viene tradotto con pleonexia, nei LXX invece viene tradotto con asébeia che significa empietà. Troviamo già qui una indicazione chiara che l’avarizia è un rifiutare Dio e la sua legge (asébeia) per prostrarsi dinanzi alle cose come idoli (nota1).

Il tema dell’avarizia, del perseguimento della ricchezza e dell’attaccamento alle cose è molto sviluppato in tutto l’Antico Testamento nei suoi diversi aspetti. Ne richiamiamo alcuni:

-a).    L’avarizia, la venalità, l’attaccamento al denaro corrompono la giustizia e quindi distruggono la vita sociale. In Es 18,21 Mosè deve scegliere come giudici delle persone che odiano besa‘, cioè l’avarizia, la venalità (nota2).

Il tema dell’amministrazione della giustizia, l’ingiunzione ai giudici di non farsi corrompere dai potenti o da donativi e regali, la denuncia di fatti di ingiustizia in tribunale sono ricorrenti nei diversi libri dell’A.T. (cfr Es 23,8; Dt 16,19; 27,25; Am 6,6ss; 5,12 ; Is 1,23  (nota3); Ez 34,1-10 ecc.),

-b.    L’avarizia distrugge la vita umana nelle sue relazioni familiari e sociali. Nella sapienza dei diversi popoli e in tutte le letterature è stata descritta con ironia e disprezzo la figura dell’avaro per l’irrazionalità dei suoi atteggiamenti e la cecità dei suoi comportamenti. La letteratura sapienziale biblica più volte si sofferma su questa figura. In Pr. 15,27 ne viene sottolineata la perversione (nota4), ma soprattutto il Siracide descrive le contraddizioni dell’avaro e l’inaridimento della sua vita in 14,3-19. Citiamo solo dal Siracide 14,9:

“L’occhio dell’avaro non si accontenta della sua parte,

una malvagia ingiustizia gli inaridisce l’anima”.

Il Siracide in 31,1-11 arriva ad affermare che raramente le ricchezze sono esenti da ingiustizia e da avarizia:

“chi ama l’oro non sarà esente da colpa,

chi insegue il denaro ne (nota 5)sarà fuorviato (v.5)

e proclama veramente

“beato il ricco che si trova senza macchia

e che non corre dietro l’oro (v.8).

-c).   L’attaccamento alle cose e l’avarizia chiudono il cuore in un cieco orizzontalismo e rendono l’uomo incapace di vivere la vita coi suoi beni e valori. I beni della terra sono doni di Dio, l’attaccarsi ad essi fa dimenticare Dio come sorgente di ogni bene e perverte i valori della vita. Per questo la parenesi deuteronomista esorta a non dimenticare mai che quanto Israele ha avuto è dono di Dio:

“Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio” (Dt 8,12-14).

Qohelet dedica ampio spazio alla riflessione sui beni terreni dell’uomo (cfr 5,9- 6,12). Per Qohelet

“chi ama il denaro, non è mai si sazio di denaro” (5,9).

La filosofia della vita di Qohelet è quella del giusto equilibrio: essere avaro, affaticarsi per le ricchezze e non godere delle cose è cosa vuota, vana e stolta. È la condanna di Dio che pesa sull’avaro; per l’uomo avaro sarebbe stato meglio non esser nato (cfr 6,1-6). Per Qohelet il metro di misura delle cose è la morte, che relativizza ogni possesso (cfr 5,14), e in un orizzonte di vita che non travalica nell’eterno (3,19-21), riconosce che le cose sono date da Dio come dono per goderne e non per accumulare.

-d).   Besa-pleonexia-avaritia indicano non solo l’atto del possesso oltre la misura, ma anche la bramosia dell’avere che è senza limiti. La trasgressione della Torah, delle dieci parole, è sempre offesa al Dio dell’alleanza, ma l’attaccamento alle cose e la brama sconfinata del possedere portano l’uomo alla volontà di potenza e conseguentemente ad escludere Dio dalla propria vita e dalla storia in cui costruisce il proprio potere.

Il comandamento “non desidererai” (Es 20,17), nella sua valenza negativa (nota5) di possedere ciò che è di altri, esprime la radice di ogni male perché il desiderio senza misura è la molla di ogni agire perverso.

La terra e le cose sono date all’uomo (Gen 1.26.29;2,19) e l’uomo le possiede; la radice del male sta nell’avarizia, nell’avidità del possedere al di là del giusto limite così che si perverte il rapporto uomo-cose: queste prendono il sopravvento sull’uomo; allora non è più l’uomo a possedere le cose, ma le cose possiedono il desiderio dell’uomo e ne viene pervertito anche il rapporto tra persone.

Non a caso la tradizione deuteronomista conclude la Torah presso il Giordano con Israele che sta alle soglie della terra di Canaan, così che questa rimanga sempre come una terra promessa, come terra donata e mai posseduta in proprio, come eredità data da Dio al suo popolo (cfr.Es 15,17;Sal 47,5; 136,21s ecc.), quasi simbolo della vera eredità che è Dio stesso (cfr Sal 15,5). Non è a caso che la tradizione sacerdotale istituisca una legge, forse mai applicata, quella dell’anno giubilare (Lev. 25), in cui ogni cinquanta anni la proprietà della terra delle singole famiglie ritorni alle origini superando ogni accumulo o accorpamento che si possa essere giustamente o meno verificato negli anni, per ristabilire il senso vero del possesso come eredità data da Dio e non diritto dell’uomo.

Nella visione biblica infatti ultimo desiderio dell’uomo può essere solo il Dio dell’alleanza e della salvezza e la sua legge (cfr Sal 42,2; 63,2s; 84,3 ecc. Is 26,8 ecc.), ma quando l’uomo ha come termine del desiderio se stesso e le cose assolutizza la propria persona e si sostituisce a Dio. Lo jahwista vede la radice perversa di questo desiderio in Adam, che non si fida di Dio e prende il frutto desiderabile (nota6) per conoscere il bene e il male (Gen 3,5). L’avarizia o meglio l’avidità sconfinata delle cose o del potere acceca il cuore dell’uomo, allora l’idolatria invade il suo cuore facendogli dimenticare Dio, anzi ponendolo al di sopra di lui. Così avarizia e superbia coincidono: l’avarizia è il grembo o il supporto della superbia e la superbia è l’avidità senza limiti.

Quando Israele pone il suo desiderio nelle cose e pensa che siano i ba’alim, come forze divine della natura, a dargli, come dice Osea, grano, vino ed olio, argento e oro (Os 2,10-14; cfr anche Dt 8,11-18; Ez 16,37 ecc.), allora diventa idolatra. Un po’ come l’uomo di oggi che dimentico di Dio pensa di ricevere i suoi beni dalla scienza, dalla tecnologia, dalla economia, dalla politica ecc. e ne assolutizza il valore.

Quando la cupidigia, l’orizzonte del dominio terreno, l’orgia del potere diventa ‘ybris, volontà di potenza, che si pone come assoluto, allora la gloria di Dio mostra la nullità dei disegni degli uomini; quando i potenti della terra con tracotanza assoggettano popoli e si ergono ad arbitri della storia, accumulano ricchezze senza numero e per avidità schiacciano i poveri e gli umili, assolutizzano se stessi e pretendono onori divini, allora il Santo d’Israele, l’Unico, li abbatte dai troni e li travolge nella loro idolatria. È questa la teologia che esprime il libro dell’Esodo nei riguardi del Faraone, il Profeta Isaia contro Sennacherib di Assiria (Is 37,22-29), Ezechiele contro il re di Tiro (Ez 28,1-10), il libro di Daniele contro l’assolutismo di Antioco IV Epifane e dei regni ellenistici.

La loro stessa idolatria li perde, come un fuoco che consuma (cfr.Ez 28,18). Sono pagine e prospettive attuali contro ogni assolutismo di stato o pretesa di costruire una città senza Dio.

II

L’annuncio di Gesù incentrato sulla presenza del regno di Dio nell’oggi della storia e l’invito alla conversione costante per accoglierlo con animo aperto sono la via per leggere la vita dell’uomo e i suoi valori e per indirizzare il giusto “desiderio” dell’uomo.

Mt 6, 33 “Cercate, invece, prima di tutto, il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”.

sono le parole con cui Gesù termina nel vangelo di Matteo il discorso sulla Provvidenza che iniziava con l’asserto:

“Nessuno può servire a due padroni: perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e la ricchezza” (mammona) (6,24). (nota7)

Questa contrapposizione tra Dio e mammona è significativa. Mammona equivale sia a “denaro, patrimonio” sia a “guadagno, lucro ingiusto”. Questo termine nel N.T. ricorre solo tre volte, una in Matteo e due in Luca e sempre in bocca a Gesù . Alcuni filologi fanno derivare mammona dalla radice ’amari’ che indica ciò che è stabile, sicuro e solido e quindi ciò in cui si può avere fiducia: “mammona” sarebbe ciò in cui si pone fiducia, ciò in cui si pensa di trovare stabilità e nella lingua di Gesù, cioè nell’aramaico, mammona sostituisce il termine ebraico che abbiamo già più volte citato cioè besa‘ che è l’avarizia e l’illecito guadagno, come il greco pleonexia. (nota8)

Si può dire che Gesù vede in mammona il vero concorrente <avversario> di Dio: o si ha fede in Dio o si ha fede in mammona. Nel cuore dell’uomo cioè si decide la scelta per Dio o per mammona, per Dio o per le cose, si decide per la libertà del servizio a Dio o per la servitù al denaro; si decide per Dio o per gli idoli.

Vediamo che cosa comporta l’attaccamento a mammona-pleonexia:

-a).   l’avarizia fa perdere il senso della vita e dei suoi valori. Gesù ammonisce:

“Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia” {pleonexia) Lc 12,15. Gesù fa questa ammonizione nel contesto della controversia per l’eredità tra due fratelli: uno di questi aveva chiesto l’intervento giudiziale di Gesù e Gesù rifiuta dicendogli:

“O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?” e prende occasione per ammonire i presenti di guardarsi dalla pleonexia che è la vera causa di ogni lite, e rafforza il suo richiamo con la parabola del ricco che accumula beni in quantità, al quale però Dio dice:

“Stolto. Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?” (Lc 12, 20)

Nella vita c’è un primato ed è il primato di Dio e del suo regno ed in questo contesto Matteo pone il discorso di Gesù sulla Provvidenza (Mt 6,24-34); Luca

invece, più attento al concreto contrasto nella vita tra povertà e ricchezza, riporta lo stesso discorso nel contesto della vigilanza per la venuta del regno e nell’ammonimento sulla vera ricchezza che l’uomo deve portare davanti a Dio (Lc 12,13-40). Nella vita umana c’è un dilemma: o Dio o le cose; o s’imposta la vita di lavoro e di relazione sulla fiducia in Dio o si imposta sulla fiducia nelle cose. La prima scelta costruisce la vita, la seconda la distrugge

-b).   Nel contesto del discorso su mammona come riportato da Lc (cap.16), Gesù narra la parabola del ricco e di Lazzaro povero (vv. 19-31) per evidenziare qual è il vero uso che si deve fare delle ricchezze. Gesù chiama la ricchezza “disonesta” (v.9.11) perché vede già nella differente posizione sociale del ricco e di Lazzaro una ingiustizia di base a cui bisogna rimediare con il retto, intelligente uso di mammona. Il ricco della parabola non è stato scaltro come l’amministratore infedele, non ha saputo farsi amico Lazzaro per avere la vera ricchezza che conta davanti a Dio.

I farisei reagiscono all’insegnamento di Gesù, non con argomenti, ma beffandosi di lui perché, dice Luca, essi sono philoarghyroi (=avari, nota9). La risposta di Gesù è di quelle che penetra nelle profondità dei cuori ed esprime il giudizio incontrovertibile di Dio: il vostro è un cuore idolatra perché

“voi siete quelli che si ritengono giusti dinanzi agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini (cioè il denaro), davanti a Dio è abominevole”( Lc 16,14-15).

Non possiamo qui non richiamare un altro testo significativo di Luca. Al fariseo che aveva invitato Gesù a pranzo e che si era meravigliato che Gesù si fosse messo a tavola senza aver fatto prima le abluzioni secondo la “purità” farisaica, Gesù, colta la meraviglia sul volto di lui, gli mostra qual è la vera purità, dicendogli:

“date piuttosto in elemosina quel che c’è dentro (nel piatto), ed ecco, tutto per voi tutto sarà mondo” (Lc 11,37-41). La condivisione, che rifiuta ogni avarizia verso i fratelli, è la vera purità dinanzi a Dio. Per Gesù il problema è sempre quello del cuore: quando il cuore è impuro, da lì vengono le perversioni, le pleonexiai, ogni forma di avarizia (Cfr Mc 7,22).

-c).   La comunità dei discepoli di Gesù ha recepito l’insegnamento del Maestro e Luca ci presenta l’ideale della comunità cristiana descrivendo quella delle origini come una comunità che si è tenuta lontana da ogni pleonexia, che ha coltivato la comunione e la condivisione (cfr At 2,42-45; 4,32-37). Paolo per richiamare ai Corinzi la generosità verso i fratelli poveri di Gerualemme indica loro Gesù, che

“da ricco che era, si è fatto povero per voi” (2 Cor 8,9).

Per questo l’apostolo mette in guardia i credenti a tenersi lontani da ogni avarizia e ammonisce che gli avari non erediteranno il regno di Dio (Cfr 1 Cor 6,10; Ef 5,5). Paolo, che ha donato tutto se stesso per il vangelo, si offre come modello di vita, schivo da ogni avarizia e interesse privato (Cfr 1 Cor 9,12; Fil 4,17; At 20,33s ecc.), ma premuroso verso gli altri come una madre per i figli (1 Ts 2,5s). E le lettere paoline, presentando l’ideale del vescovo e del diacono, esigono che chi è chiamato a servire la Chiesa deve essere libero, distaccato dal denaro e non cupido di guadagni (1 Tm 3,3.8; Tt 1,7).

d).   Nella lettera ai Romani, quando Paolo fa il triste elenco delle colpe dei pagani, che, pur potendo conoscere Dio, non gli hanno dato gloria, li dice

“colmi di invidia, di omicidio, di lite, di frode, di malignità”

pleonexia, di avarizia, di cupidigia (Rom 1,21.29).

Paolo sa bene che nel mondo pagano ci sono tanti uomini giusti, distaccati dal denaro, perché sanno che la “auri sacra fames” (Virg. En. 3,56 sacra fame dell’oro) è all’origine di ogni perversione e sperimentano che, secondo il proverbio e la saggezza popolare, la philoarghyria o pleonexia è la radice di ogni male (cfr 1 Tm 6,10); ma Paolo sa pure che là dove non c’è Dio, l’uomo perde la mente (Rom 1,28) e, chiuso in un cieco orizzontalismo smarrisce il senso della vita, fa il male e approva chi lo compie (v.32).

La cupidigia allora diventa un cieco potere di dominio senza limite sulle cose e sulle persone. Quando nell’Apocalisse si descrive la caduta di Roma, Babilonia la grande, si dice che è finito il potere dell’oro e dei mercanti, che hanno fatto grande la città senza Dio, il cui potere e le cui ricchezze erano il loro dio (Ap 18-19).

L’opposizione posta da Gesù tra Dio e mammona è radicale.

È la stessa opposizione che c’è tra Dio e satana; mammona è lo stesso potere di satana, i regni e le cose del mondo sono in suo dominio. Dinanzi agli occhi di Gesù satana fa balenare in un istante la potenza dei regni e lo splendore delle cose chiedendogli di prostrarsi davanti a lui per poter avere la gloria del modo, ma Gesù lo respinge con la parola della fede:

“Il Signore, tuo Dio, adorerai, a lui solo renderai culto” (Lc 4, 5-8; Mt 4, 8-10).(nota10)

L’orizzonte delle cose è piatto e chiude quello aperto verso l’Altissimo, fa smarrire il senso della vita, fa delle cose un idolo, è fonte di ogni malanno e perversione: l’avarizia è veramente una idolatria (Col 3,5) e l’avaro nel suo attaccamento al denaro e alle cose è un idolatra (Ef 5,5).(nita11)

Si stabilisce così un circolo chiuso: la pleonexia porta all’asébeia, all’ empietà e l’asebeia trova la sua piena  espressione nella pleonexia, nella cupidigia delle cose e del potere.

 

NOTE

(1) La concordanza dei LXX di Hatch-Redpath alla voce pleonexia nota che il vocabolo ebraico besa’ viene più regolarmente tradotto con pleonexia da Aquila, Simmaco e Teodozione, che non dai LXX, che usano tradurre non letteralmente, ma a senso (cfr Is 56,11; 57,17 ecc.). Cfr lo studio di G. Delling su pleonexia in GLNT, Paideia, Brescia, 1975 voi. X, coi. 394-398.

(2) Aq. traduce besa ‘ con pleonexia, mentre i LXX traducono yperephania che significa “alterigia tracotanza”; la Bibbia CEI con “venalità”.

(3) Su questo tema e per il commento ad Is.1,23 cfr articolo precedente di R. Virgili su questa rivista pag. 11-28.

(4) Anche in questo passo il classico bosea‘ basa‘ del testo ebraico viene tradotto con pleonexia pleonekton da Simmaco e con doronlemptes cioè’ “avido di guadagni disonesti” dai LXX.

(5) Il verbo hamad, tradotto con epithimeo in greco, esprime per lo più valore negativo; per esprimere desiderio, amore verso Dio e i valori più alti per la vita si usano altri termini, ad esempio qawad, ‘ahab.

(6) Da notare che in Genesi 3, 6 si usa lo stesso verbo nehemed (desiderabile)come nel comandamento “non desiderare” (lo’ tahmod)

(7) Nel testo citato Mt 6,24; in Lc si trova due volte nel contesto degli ammonimenti sull’uso della ricchezza (mammona), dopo la parabola dell’amministratore infedele, Lc 16, 9.11. In questi vv. al termine “mammona” viene aggiunto l’aggettivo Ingiusto, disonesto”, quasi ad indicare che nella ricchezza c’è sempre unita una qualche ingiustizia.

(8) Sul significato di “mammona”  cfr la voce “mamonas” di F.HAUCK in GLNT, Paideia, Brescia 1970, vol. VI coll.1047-1054.

(9) “philoarghyroi” significa “amanti del denaro, avari”, e corrisponde alla espressione ebraica: bosea’ basa’ – pleonexia pleonectein che abbiamo esaminato, cfr F. HACK, a. c.

(10) Cfr commento in H. SCHURMANN, Il Vangelo di Luca. Brescia, Paideia, 1983 e in J. GNILKA, Il Vangelo di Matteo. Brescia, Paideia 1990

(11) Cfr commento ai passi in H. SCHLIER, La lettera agli Efesini, Brescia, Paideia, 1982; E. LOHSE, Le lettere ai Colossesi e a Filemone, Brscia, Paideia, 1987.

PLEONEXIA ETIS ESTIN EIDOLOLATRIA (Col 3,5) L’avarizia che è idolatria

di Gabriele Miola biblista docente all’Istituto Teologico di Fermo

<Nota che nel trascrivere si è usata la traduzione della Bibbia dell’anno 2007>

Il termine greco pleonexia è di chiara derivazione: pleon indica il ‘di più’ e il verbo echo = ‘avere, possedere’: la pleonexia è l’aver di più e la brama di aver di più di quanto uno abbia o possieda. Anche per il latino avaritia ha probabile derivazione da un aveo, che indica desiderio e bramosia smodati, ci porta al significato di cieco possesso e di gretto accaparramento delle cose per la voglia di avere.

Ai termini pleonexia-avaritia soggiace l’idea che nella vita dell’uomo c’è una giusta misura di possesso e un’idea di uguaglianza fondamentale tra tutti gli uomini; sorpassare questa giusta misura e creare disuguaglianze è frutto di violenza. È quello che connota il vocabolo ebraico besa la cui radice significa “tagliare”, tradotto con pleonexia-avaritia, cui soggiace l’idea di taglio violento, quindi di cupidigia e di lucro ingiusto. Ecco alcuni testi:

-Ger 22,17. II profeta contrappone la vita giusta e l’amministrazione di un potere a tutela dei poveri del re Giosia al lusso e alle ingiustizie del figlio Ioiakim e dice:  “I tuoi occhi e il tuo cuore, invece, non badano che al tuo interesse, (besa – pleonexia) a spargere sangue innocente, a commettere violenza e angherie”.

-Ab 2,9. Il profeta sulla base della legge morale che condanna l’arricchimento illecito, fratto di ingiustizie, lancia la maledizione divina contro la tracotanza del re e del popolo caldeo che sopprimono popolazioni intere; ma così – dice il profeta – distruggeranno se stessi!

“Guai a chi è avido di guadagni illeciti (bosea ‘ basa – pleonekton pleonexian)

un male per la sua casa

per mettere il nido in luogo alto…

Hai decretato il disonore alla tua casa;

hai soppresso popoli numerosi,

hai fatto del male contro te stesso”.

-Ez 22,27 denuncia le cause della distruzione di Gerusalemme e le vede non solo nella mancanza di fede in Jhwh e nel sincretismo religioso, ma anche nella avarizia dei suoi amministratori:

“I suoi capi in mezzo ad essa sono come lupi che dilaniano la preda, versano

il sangue, fanno perire la gente per turpi guadagni” (besoa‘ basa‘ – pleonexia pleonektosin)

-Sal 119,36. Il saggio che vive la profondità della legge di Jhwh e conosce le bramosie terrene del cuore dell’uomo, prega:

“Piega il mio cuore verso i tuoi insegnamenti,

e non verso la sete di guadagno” {besa ‘-pleonexia)

Da notare che in Prov. 1,19 lo stesso termine ebraico besa ‘ mentre da Aquila, Simmaco e Teodozione concordemente viene tradotto con pleonexia, nei LXX invece viene tradotto con asébeia che significa empietà. Troviamo già qui una indicazione chiara che l’avarizia è un rifiutare Dio e la sua legge (asébeia) per prostrarsi dinanzi alle cose come idoli (nota1).

Il tema dell’avarizia, del perseguimento della ricchezza e dell’attaccamento alle cose è molto sviluppato in tutto l’Antico Testamento nei suoi diversi aspetti. Ne richiamiamo alcuni:

-a).    L’avarizia, la venalità, l’attaccamento al denaro corrompono la giustizia e quindi distruggono la vita sociale. In Es 18,21 Mosè deve scegliere come giudici delle persone che odiano besa‘, cioè l’avarizia, la venalità (nota2).

Il tema dell’amministrazione della giustizia, l’ingiunzione ai giudici di non farsi corrompere dai potenti o da donativi e regali, la denuncia di fatti di ingiustizia in tribunale sono ricorrenti nei diversi libri dell’A.T. (cfr Es 23,8; Dt 16,19; 27,25; Am 6,6ss; 5,12 ; Is 1,23  (nota3); Ez 34,1-10 ecc.),

-b.    L’avarizia distrugge la vita umana nelle sue relazioni familiari e sociali. Nella sapienza dei diversi popoli e in tutte le letterature è stata descritta con ironia e disprezzo la figura dell’avaro per l’irrazionalità dei suoi atteggiamenti e la cecità dei suoi comportamenti. La letteratura sapienziale biblica più volte si sofferma su questa figura. In Pr. 15,27 ne viene sottolineata la perversione (nota4), ma soprattutto il Siracide descrive le contraddizioni dell’avaro e l’inaridimento della sua vita in 14,3-19. Citiamo solo dal Siracide 14,9:

“L’occhio dell’avaro non si accontenta della sua parte,

una malvagia ingiustizia gli inaridisce l’anima”.

Il Siracide in 31,1-11 arriva ad affermare che raramente le ricchezze sono esenti da ingiustizia e da avarizia:

“chi ama l’oro non sarà esente da colpa,

chi insegue il denaro ne (nota 5)sarà fuorviato (v.5)

e proclama veramente

“beato il ricco che si trova senza macchia

e che non corre dietro l’oro (v.8).

-c).   L’attaccamento alle cose e l’avarizia chiudono il cuore in un cieco orizzontalismo e rendono l’uomo incapace di vivere la vita coi suoi beni e valori. I beni della terra sono doni di Dio, l’attaccarsi ad essi fa dimenticare Dio come sorgente di ogni bene e perverte i valori della vita. Per questo la parenesi deuteronomista esorta a non dimenticare mai che quanto Israele ha avuto è dono di Dio:

“Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio” (Dt 8,12-14).

Qohelet dedica ampio spazio alla riflessione sui beni terreni dell’uomo (cfr 5,9- 6,12). Per Qohelet

“chi ama il denaro, non è mai si sazio di denaro” (5,9).

La filosofia della vita di Qohelet è quella del giusto equilibrio: essere avaro, affaticarsi per le ricchezze e non godere delle cose è cosa vuota, vana e stolta. È la condanna di Dio che pesa sull’avaro; per l’uomo avaro sarebbe stato meglio non esser nato (cfr 6,1-6). Per Qohelet il metro di misura delle cose è la morte, che relativizza ogni possesso (cfr 5,14), e in un orizzonte di vita che non travalica nell’eterno (3,19-21), riconosce che le cose sono date da Dio come dono per goderne e non per accumulare.

-d).   Besa-pleonexia-avaritia indicano non solo l’atto del possesso oltre la misura, ma anche la bramosia dell’avere che è senza limiti. La trasgressione della Torah, delle dieci parole, è sempre offesa al Dio dell’alleanza, ma l’attaccamento alle cose e la brama sconfinata del possedere portano l’uomo alla volontà di potenza e conseguentemente ad escludere Dio dalla propria vita e dalla storia in cui costruisce il proprio potere.

Il comandamento “non desidererai” (Es 20,17), nella sua valenza negativa (nota5) di possedere ciò che è di altri, esprime la radice di ogni male perché il desiderio senza misura è la molla di ogni agire perverso.

La terra e le cose sono date all’uomo (Gen 1.26.29;2,19) e l’uomo le possiede; la radice del male sta nell’avarizia, nell’avidità del possedere al di là del giusto limite così che si perverte il rapporto uomo-cose: queste prendono il sopravvento sull’uomo; allora non è più l’uomo a possedere le cose, ma le cose possiedono il desiderio dell’uomo e ne viene pervertito anche il rapporto tra persone.

Non a caso la tradizione deuteronomista conclude la Torah presso il Giordano con Israele che sta alle soglie della terra di Canaan, così che questa rimanga sempre come una terra promessa, come terra donata e mai posseduta in proprio, come eredità data da Dio al suo popolo (cfr.Es 15,17;Sal 47,5; 136,21s ecc.), quasi simbolo della vera eredità che è Dio stesso (cfr Sal 15,5). Non è a caso che la tradizione sacerdotale istituisca una legge, forse mai applicata, quella dell’anno giubilare (Lev. 25), in cui ogni cinquanta anni la proprietà della terra delle singole famiglie ritorni alle origini superando ogni accumulo o accorpamento che si possa essere giustamente o meno verificato negli anni, per ristabilire il senso vero del possesso come eredità data da Dio e non diritto dell’uomo.

Nella visione biblica infatti ultimo desiderio dell’uomo può essere solo il Dio dell’alleanza e della salvezza e la sua legge (cfr Sal 42,2; 63,2s; 84,3 ecc. Is 26,8 ecc.), ma quando l’uomo ha come termine del desiderio se stesso e le cose assolutizza la propria persona e si sostituisce a Dio. Lo jahwista vede la radice perversa di questo desiderio in Adam, che non si fida di Dio e prende il frutto desiderabile (nota6) per conoscere il bene e il male (Gen 3,5). L’avarizia o meglio l’avidità sconfinata delle cose o del potere acceca il cuore dell’uomo, allora l’idolatria invade il suo cuore facendogli dimenticare Dio, anzi ponendolo al di sopra di lui. Così avarizia e superbia coincidono: l’avarizia è il grembo o il supporto della superbia e la superbia è l’avidità senza limiti.

Quando Israele pone il suo desiderio nelle cose e pensa che siano i ba’alim, come forze divine della natura, a dargli, come dice Osea, grano, vino ed olio, argento e oro (Os 2,10-14; cfr anche Dt 8,11-18; Ez 16,37 ecc.), allora diventa idolatra. Un po’ come l’uomo di oggi che dimentico di Dio pensa di ricevere i suoi beni dalla scienza, dalla tecnologia, dalla economia, dalla politica ecc. e ne assolutizza il valore.

Quando la cupidigia, l’orizzonte del dominio terreno, l’orgia del potere diventa ‘ybris, volontà di potenza, che si pone come assoluto, allora la gloria di Dio mostra la nullità dei disegni degli uomini; quando i potenti della terra con tracotanza assoggettano popoli e si ergono ad arbitri della storia, accumulano ricchezze senza numero e per avidità schiacciano i poveri e gli umili, assolutizzano se stessi e pretendono onori divini, allora il Santo d’Israele, l’Unico, li abbatte dai troni e li travolge nella loro idolatria. È questa la teologia che esprime il libro dell’Esodo nei riguardi del Faraone, il Profeta Isaia contro Sennacherib di Assiria (Is 37,22-29), Ezechiele contro il re di Tiro (Ez 28,1-10), il libro di Daniele contro l’assolutismo di Antioco IV Epifane e dei regni ellenistici.

La loro stessa idolatria li perde, come un fuoco che consuma (cfr.Ez 28,18). Sono pagine e prospettive attuali contro ogni assolutismo di stato o pretesa di costruire una città senza Dio.

II

L’annuncio di Gesù incentrato sulla presenza del regno di Dio nell’oggi della storia e l’invito alla conversione costante per accoglierlo con animo aperto sono la via per leggere la vita dell’uomo e i suoi valori e per indirizzare il giusto “desiderio” dell’uomo.

Mt 6, 33 “Cercate, invece, prima di tutto, il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”.

sono le parole con cui Gesù termina nel vangelo di Matteo il discorso sulla Provvidenza che iniziava con l’asserto:

“Nessuno può servire a due padroni: perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e la ricchezza” (mammona) (6,24). (nota7)

Questa contrapposizione tra Dio e mammona è significativa. Mammona equivale sia a “denaro, patrimonio” sia a “guadagno, lucro ingiusto”. Questo termine nel N.T. ricorre solo tre volte, una in Matteo e due in Luca e sempre in bocca a Gesù . Alcuni filologi fanno derivare mammona dalla radice ’amari’ che indica ciò che è stabile, sicuro e solido e quindi ciò in cui si può avere fiducia: “mammona” sarebbe ciò in cui si pone fiducia, ciò in cui si pensa di trovare stabilità e nella lingua di Gesù, cioè nell’aramaico, mammona sostituisce il termine ebraico che abbiamo già più volte citato cioè besa‘ che è l’avarizia e l’illecito guadagno, come il greco pleonexia. (nota8)

Si può dire che Gesù vede in mammona il vero concorrente <avversario> di Dio: o si ha fede in Dio o si ha fede in mammona. Nel cuore dell’uomo cioè si decide la scelta per Dio o per mammona, per Dio o per le cose, si decide per la libertà del servizio a Dio o per la servitù al denaro; si decide per Dio o per gli idoli.

Vediamo che cosa comporta l’attaccamento a mammona-pleonexia:

-a).   l’avarizia fa perdere il senso della vita e dei suoi valori. Gesù ammonisce:

“Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia” {pleonexia) Lc 12,15. Gesù fa questa ammonizione nel contesto della controversia per l’eredità tra due fratelli: uno di questi aveva chiesto l’intervento giudiziale di Gesù e Gesù rifiuta dicendogli:

“O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?” e prende occasione per ammonire i presenti di guardarsi dalla pleonexia che è la vera causa di ogni lite, e rafforza il suo richiamo con la parabola del ricco che accumula beni in quantità, al quale però Dio dice:

“Stolto. Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?” (Lc 12, 20)

Nella vita c’è un primato ed è il primato di Dio e del suo regno ed in questo contesto Matteo pone il discorso di Gesù sulla Provvidenza (Mt 6,24-34); Luca

invece, più attento al concreto contrasto nella vita tra povertà e ricchezza, riporta lo stesso discorso nel contesto della vigilanza per la venuta del regno e nell’ammonimento sulla vera ricchezza che l’uomo deve portare davanti a Dio (Lc 12,13-40). Nella vita umana c’è un dilemma: o Dio o le cose; o s’imposta la vita di lavoro e di relazione sulla fiducia in Dio o si imposta sulla fiducia nelle cose. La prima scelta costruisce la vita, la seconda la distrugge

-b).   Nel contesto del discorso su mammona come riportato da Lc (cap.16), Gesù narra la parabola del ricco e di Lazzaro povero (vv. 19-31) per evidenziare qual è il vero uso che si deve fare delle ricchezze. Gesù chiama la ricchezza “disonesta” (v.9.11) perché vede già nella differente posizione sociale del ricco e di Lazzaro una ingiustizia di base a cui bisogna rimediare con il retto, intelligente uso di mammona. Il ricco della parabola non è stato scaltro come l’amministratore infedele, non ha saputo farsi amico Lazzaro per avere la vera ricchezza che conta davanti a Dio.

I farisei reagiscono all’insegnamento di Gesù, non con argomenti, ma beffandosi di lui perché, dice Luca, essi sono philoarghyroi (=avari, nota9). La risposta di Gesù è di quelle che penetra nelle profondità dei cuori ed esprime il giudizio incontrovertibile di Dio: il vostro è un cuore idolatra perché

“voi siete quelli che si ritengono giusti dinanzi agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini (cioè il denaro), davanti a Dio è abominevole”( Lc 16,14-15).

Non possiamo qui non richiamare un altro testo significativo di Luca. Al fariseo che aveva invitato Gesù a pranzo e che si era meravigliato che Gesù si fosse messo a tavola senza aver fatto prima le abluzioni secondo la “purità” farisaica, Gesù, colta la meraviglia sul volto di lui, gli mostra qual è la vera purità, dicendogli:

“date piuttosto in elemosina quel che c’è dentro (nel piatto), ed ecco, tutto per voi tutto sarà mondo” (Lc 11,37-41). La condivisione, che rifiuta ogni avarizia verso i fratelli, è la vera purità dinanzi a Dio. Per Gesù il problema è sempre quello del cuore: quando il cuore è impuro, da lì vengono le perversioni, le pleonexiai, ogni forma di avarizia (Cfr Mc 7,22).

-c).   La comunità dei discepoli di Gesù ha recepito l’insegnamento del Maestro e Luca ci presenta l’ideale della comunità cristiana descrivendo quella delle origini come una comunità che si è tenuta lontana da ogni pleonexia, che ha coltivato la comunione e la condivisione (cfr At 2,42-45; 4,32-37). Paolo per richiamare ai Corinzi la generosità verso i fratelli poveri di Gerualemme indica loro Gesù, che

“da ricco che era, si è fatto povero per voi” (2 Cor 8,9).

Per questo l’apostolo mette in guardia i credenti a tenersi lontani da ogni avarizia e ammonisce che gli avari non erediteranno il regno di Dio (Cfr 1 Cor 6,10; Ef 5,5). Paolo, che ha donato tutto se stesso per il vangelo, si offre come modello di vita, schivo da ogni avarizia e interesse privato (Cfr 1 Cor 9,12; Fil 4,17; At 20,33s ecc.), ma premuroso verso gli altri come una madre per i figli (1 Ts 2,5s). E le lettere paoline, presentando l’ideale del vescovo e del diacono, esigono che chi è chiamato a servire la Chiesa deve essere libero, distaccato dal denaro e non cupido di guadagni (1 Tm 3,3.8; Tt 1,7).

d).   Nella lettera ai Romani, quando Paolo fa il triste elenco delle colpe dei pagani, che, pur potendo conoscere Dio, non gli hanno dato gloria, li dice

“colmi di invidia, di omicidio, di lite, di frode, di malignità”

pleonexia, di avarizia, di cupidigia (Rom 1,21.29).

Paolo sa bene che nel mondo pagano ci sono tanti uomini giusti, distaccati dal denaro, perché sanno che la “auri sacra fames” (Virg. En. 3,56 sacra fame dell’oro) è all’origine di ogni perversione e sperimentano che, secondo il proverbio e la saggezza popolare, la philoarghyria o pleonexia è la radice di ogni male (cfr 1 Tm 6,10); ma Paolo sa pure che là dove non c’è Dio, l’uomo perde la mente (Rom 1,28) e, chiuso in un cieco orizzontalismo smarrisce il senso della vita, fa il male e approva chi lo compie (v.32).

La cupidigia allora diventa un cieco potere di dominio senza limite sulle cose e sulle persone. Quando nell’Apocalisse si descrive la caduta di Roma, Babilonia la grande, si dice che è finito il potere dell’oro e dei mercanti, che hanno fatto grande la città senza Dio, il cui potere e le cui ricchezze erano il loro dio (Ap 18-19).

L’opposizione posta da Gesù tra Dio e mammona è radicale.

È la stessa opposizione che c’è tra Dio e satana; mammona è lo stesso potere di satana, i regni e le cose del mondo sono in suo dominio. Dinanzi agli occhi di Gesù satana fa balenare in un istante la potenza dei regni e lo splendore delle cose chiedendogli di prostrarsi davanti a lui per poter avere la gloria del modo, ma Gesù lo respinge con la parola della fede:

“Il Signore, tuo Dio, adorerai, a lui solo renderai culto” (Lc 4, 5-8; Mt 4, 8-10).(nota10)

L’orizzonte delle cose è piatto e chiude quello aperto verso l’Altissimo, fa smarrire il senso della vita, fa delle cose un idolo, è fonte di ogni malanno e perversione: l’avarizia è veramente una idolatria (Col 3,5) e l’avaro nel suo attaccamento al denaro e alle cose è un idolatra (Ef 5,5).(nita11)

Si stabilisce così un circolo chiuso: la pleonexia porta all’asébeia, all’ empietà e l’asebeia trova la sua piena  espressione nella pleonexia, nella cupidigia delle cose e del potere.

 

NOTE

(1) La concordanza dei LXX di Hatch-Redpath alla voce pleonexia nota che il vocabolo ebraico besa’ viene più regolarmente tradotto con pleonexia da Aquila, Simmaco e Teodozione, che non dai LXX, che usano tradurre non letteralmente, ma a senso (cfr Is 56,11; 57,17 ecc.). Cfr lo studio di G. Delling su pleonexia in GLNT, Paideia, Brescia, 1975 voi. X, coi. 394-398.

(2) Aq. traduce besa ‘ con pleonexia, mentre i LXX traducono yperephania che significa “alterigia tracotanza”; la Bibbia CEI con “venalità”.

(3) Su questo tema e per il commento ad Is.1,23 cfr articolo precedente di R. Virgili su questa rivista pag. 11-28.

(4) Anche in questo passo il classico bosea‘ basa‘ del testo ebraico viene tradotto con pleonexia pleonekton da Simmaco e con doronlemptes cioè’ “avido di guadagni disonesti” dai LXX.

(5) Il verbo hamad, tradotto con epithimeo in greco, esprime per lo più valore negativo; per esprimere desiderio, amore verso Dio e i valori più alti per la vita si usano altri termini, ad esempio qawad, ‘ahab.

(6) Da notare che in Genesi 3, 6 si usa lo stesso verbo nehemed (desiderabile)come nel comandamento “non desiderare” (lo’ tahmod)

(7) Nel testo citato Mt 6,24; in Lc si trova due volte nel contesto degli ammonimenti sull’uso della ricchezza (mammona), dopo la parabola dell’amministratore infedele, Lc 16, 9.11. In questi vv. al termine “mammona” viene aggiunto l’aggettivo Ingiusto, disonesto”, quasi ad indicare che nella ricchezza c’è sempre unita una qualche ingiustizia.

(8) Sul significato di “mammona”  cfr la voce “mamonas” di F.HAUCK in GLNT, Paideia, Brescia 1970, vol. VI coll.1047-1054.

(9) “philoarghyroi” significa “amanti del denaro, avari”, e corrisponde alla espressione ebraica: bosea’ basa’ – pleonexia pleonectein che abbiamo esaminato, cfr F. HACK, a. c.

(10) Cfr commento in H. SCHURMANN, Il Vangelo di Luca. Brescia, Paideia, 1983 e in J. GNILKA, Il Vangelo di Matteo. Brescia, Paideia 1990

(11) Cfr commento ai passi in H. SCHLIER, La lettera agli Efesini, Brescia, Paideia, 1982; E. LOHSE, Le lettere ai Colossesi e a Filemone, Brscia, Paideia, 1987.

PLEONEXIA ETIS ESTIN EIDOLOLATRIA (Col 3,5) L’avarizia che è idolatria

di Gabriele Miola biblista docente all’Istituto Teologico di Fermo

<Nota che nel trascrivere si è usata la traduzione della Bibbia dell’anno 2007>

Il termine greco pleonexia è di chiara derivazione: pleon indica il ‘di più’ e il verbo echo = ‘avere, possedere’: la pleonexia è l’aver di più e la brama di aver di più di quanto uno abbia o possieda. Anche per il latino avaritia ha probabile derivazione da un aveo, che indica desiderio e bramosia smodati, ci porta al significato di cieco possesso e di gretto accaparramento delle cose per la voglia di avere.

Ai termini pleonexia-avaritia soggiace l’idea che nella vita dell’uomo c’è una giusta misura di possesso e un’idea di uguaglianza fondamentale tra tutti gli uomini; sorpassare questa giusta misura e creare disuguaglianze è frutto di violenza. È quello che connota il vocabolo ebraico besa la cui radice significa “tagliare”, tradotto con pleonexia-avaritia, cui soggiace l’idea di taglio violento, quindi di cupidigia e di lucro ingiusto. Ecco alcuni testi:

-Ger 22,17. II profeta contrappone la vita giusta e l’amministrazione di un potere a tutela dei poveri del re Giosia al lusso e alle ingiustizie del figlio Ioiakim e dice:  “I tuoi occhi e il tuo cuore, invece, non badano che al tuo interesse, (besa – pleonexia) a spargere sangue innocente, a commettere violenza e angherie”.

-Ab 2,9. Il profeta sulla base della legge morale che condanna l’arricchimento illecito, fratto di ingiustizie, lancia la maledizione divina contro la tracotanza del re e del popolo caldeo che sopprimono popolazioni intere; ma così – dice il profeta – distruggeranno se stessi!

“Guai a chi è avido di guadagni illeciti (bosea ‘ basa – pleonekton pleonexian)

un male per la sua casa

per mettere il nido in luogo alto…

Hai decretato il disonore alla tua casa;

hai soppresso popoli numerosi,

hai fatto del male contro te stesso”.

-Ez 22,27 denuncia le cause della distruzione di Gerusalemme e le vede non solo nella mancanza di fede in Jhwh e nel sincretismo religioso, ma anche nella avarizia dei suoi amministratori:

“I suoi capi in mezzo ad essa sono come lupi che dilaniano la preda, versano

il sangue, fanno perire la gente per turpi guadagni” (besoa‘ basa‘ – pleonexia pleonektosin)

-Sal 119,36. Il saggio che vive la profondità della legge di Jhwh e conosce le bramosie terrene del cuore dell’uomo, prega:

“Piega il mio cuore verso i tuoi insegnamenti,

e non verso la sete di guadagno” {besa ‘-pleonexia)

Da notare che in Prov. 1,19 lo stesso termine ebraico besa ‘ mentre da Aquila, Simmaco e Teodozione concordemente viene tradotto con pleonexia, nei LXX invece viene tradotto con asébeia che significa empietà. Troviamo già qui una indicazione chiara che l’avarizia è un rifiutare Dio e la sua legge (asébeia) per prostrarsi dinanzi alle cose come idoli (nota1).

Il tema dell’avarizia, del perseguimento della ricchezza e dell’attaccamento alle cose è molto sviluppato in tutto l’Antico Testamento nei suoi diversi aspetti. Ne richiamiamo alcuni:

-a).    L’avarizia, la venalità, l’attaccamento al denaro corrompono la giustizia e quindi distruggono la vita sociale. In Es 18,21 Mosè deve scegliere come giudici delle persone che odiano besa‘, cioè l’avarizia, la venalità (nota2).

Il tema dell’amministrazione della giustizia, l’ingiunzione ai giudici di non farsi corrompere dai potenti o da donativi e regali, la denuncia di fatti di ingiustizia in tribunale sono ricorrenti nei diversi libri dell’A.T. (cfr Es 23,8; Dt 16,19; 27,25; Am 6,6ss; 5,12 ; Is 1,23  (nota3); Ez 34,1-10 ecc.),

-b.    L’avarizia distrugge la vita umana nelle sue relazioni familiari e sociali. Nella sapienza dei diversi popoli e in tutte le letterature è stata descritta con ironia e disprezzo la figura dell’avaro per l’irrazionalità dei suoi atteggiamenti e la cecità dei suoi comportamenti. La letteratura sapienziale biblica più volte si sofferma su questa figura. In Pr. 15,27 ne viene sottolineata la perversione (nota4), ma soprattutto il Siracide descrive le contraddizioni dell’avaro e l’inaridimento della sua vita in 14,3-19. Citiamo solo dal Siracide 14,9:

“L’occhio dell’avaro non si accontenta della sua parte,

una malvagia ingiustizia gli inaridisce l’anima”.

Il Siracide in 31,1-11 arriva ad affermare che raramente le ricchezze sono esenti da ingiustizia e da avarizia:

“chi ama l’oro non sarà esente da colpa,

chi insegue il denaro ne (nota 5)sarà fuorviato (v.5)

e proclama veramente

“beato il ricco che si trova senza macchia

e che non corre dietro l’oro (v.8).

-c).   L’attaccamento alle cose e l’avarizia chiudono il cuore in un cieco orizzontalismo e rendono l’uomo incapace di vivere la vita coi suoi beni e valori. I beni della terra sono doni di Dio, l’attaccarsi ad essi fa dimenticare Dio come sorgente di ogni bene e perverte i valori della vita. Per questo la parenesi deuteronomista esorta a non dimenticare mai che quanto Israele ha avuto è dono di Dio:

“Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio” (Dt 8,12-14).

Qohelet dedica ampio spazio alla riflessione sui beni terreni dell’uomo (cfr 5,9- 6,12). Per Qohelet

“chi ama il denaro, non è mai si sazio di denaro” (5,9).

La filosofia della vita di Qohelet è quella del giusto equilibrio: essere avaro, affaticarsi per le ricchezze e non godere delle cose è cosa vuota, vana e stolta. È la condanna di Dio che pesa sull’avaro; per l’uomo avaro sarebbe stato meglio non esser nato (cfr 6,1-6). Per Qohelet il metro di misura delle cose è la morte, che relativizza ogni possesso (cfr 5,14), e in un orizzonte di vita che non travalica nell’eterno (3,19-21), riconosce che le cose sono date da Dio come dono per goderne e non per accumulare.

-d).   Besa-pleonexia-avaritia indicano non solo l’atto del possesso oltre la misura, ma anche la bramosia dell’avere che è senza limiti. La trasgressione della Torah, delle dieci parole, è sempre offesa al Dio dell’alleanza, ma l’attaccamento alle cose e la brama sconfinata del possedere portano l’uomo alla volontà di potenza e conseguentemente ad escludere Dio dalla propria vita e dalla storia in cui costruisce il proprio potere.

Il comandamento “non desidererai” (Es 20,17), nella sua valenza negativa (nota5) di possedere ciò che è di altri, esprime la radice di ogni male perché il desiderio senza misura è la molla di ogni agire perverso.

La terra e le cose sono date all’uomo (Gen 1.26.29;2,19) e l’uomo le possiede; la radice del male sta nell’avarizia, nell’avidità del possedere al di là del giusto limite così che si perverte il rapporto uomo-cose: queste prendono il sopravvento sull’uomo; allora non è più l’uomo a possedere le cose, ma le cose possiedono il desiderio dell’uomo e ne viene pervertito anche il rapporto tra persone.

Non a caso la tradizione deuteronomista conclude la Torah presso il Giordano con Israele che sta alle soglie della terra di Canaan, così che questa rimanga sempre come una terra promessa, come terra donata e mai posseduta in proprio, come eredità data da Dio al suo popolo (cfr.Es 15,17;Sal 47,5; 136,21s ecc.), quasi simbolo della vera eredità che è Dio stesso (cfr Sal 15,5). Non è a caso che la tradizione sacerdotale istituisca una legge, forse mai applicata, quella dell’anno giubilare (Lev. 25), in cui ogni cinquanta anni la proprietà della terra delle singole famiglie ritorni alle origini superando ogni accumulo o accorpamento che si possa essere giustamente o meno verificato negli anni, per ristabilire il senso vero del possesso come eredità data da Dio e non diritto dell’uomo.

Nella visione biblica infatti ultimo desiderio dell’uomo può essere solo il Dio dell’alleanza e della salvezza e la sua legge (cfr Sal 42,2; 63,2s; 84,3 ecc. Is 26,8 ecc.), ma quando l’uomo ha come termine del desiderio se stesso e le cose assolutizza la propria persona e si sostituisce a Dio. Lo jahwista vede la radice perversa di questo desiderio in Adam, che non si fida di Dio e prende il frutto desiderabile (nota6) per conoscere il bene e il male (Gen 3,5). L’avarizia o meglio l’avidità sconfinata delle cose o del potere acceca il cuore dell’uomo, allora l’idolatria invade il suo cuore facendogli dimenticare Dio, anzi ponendolo al di sopra di lui. Così avarizia e superbia coincidono: l’avarizia è il grembo o il supporto della superbia e la superbia è l’avidità senza limiti.

Quando Israele pone il suo desiderio nelle cose e pensa che siano i ba’alim, come forze divine della natura, a dargli, come dice Osea, grano, vino ed olio, argento e oro (Os 2,10-14; cfr anche Dt 8,11-18; Ez 16,37 ecc.), allora diventa idolatra. Un po’ come l’uomo di oggi che dimentico di Dio pensa di ricevere i suoi beni dalla scienza, dalla tecnologia, dalla economia, dalla politica ecc. e ne assolutizza il valore.

Quando la cupidigia, l’orizzonte del dominio terreno, l’orgia del potere diventa ‘ybris, volontà di potenza, che si pone come assoluto, allora la gloria di Dio mostra la nullità dei disegni degli uomini; quando i potenti della terra con tracotanza assoggettano popoli e si ergono ad arbitri della storia, accumulano ricchezze senza numero e per avidità schiacciano i poveri e gli umili, assolutizzano se stessi e pretendono onori divini, allora il Santo d’Israele, l’Unico, li abbatte dai troni e li travolge nella loro idolatria. È questa la teologia che esprime il libro dell’Esodo nei riguardi del Faraone, il Profeta Isaia contro Sennacherib di Assiria (Is 37,22-29), Ezechiele contro il re di Tiro (Ez 28,1-10), il libro di Daniele contro l’assolutismo di Antioco IV Epifane e dei regni ellenistici.

La loro stessa idolatria li perde, come un fuoco che consuma (cfr.Ez 28,18). Sono pagine e prospettive attuali contro ogni assolutismo di stato o pretesa di costruire una città senza Dio.

II

L’annuncio di Gesù incentrato sulla presenza del regno di Dio nell’oggi della storia e l’invito alla conversione costante per accoglierlo con animo aperto sono la via per leggere la vita dell’uomo e i suoi valori e per indirizzare il giusto “desiderio” dell’uomo.

Mt 6, 33 “Cercate, invece, prima di tutto, il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”.

sono le parole con cui Gesù termina nel vangelo di Matteo il discorso sulla Provvidenza che iniziava con l’asserto:

“Nessuno può servire a due padroni: perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e la ricchezza” (mammona) (6,24). (nota7)

Questa contrapposizione tra Dio e mammona è significativa. Mammona equivale sia a “denaro, patrimonio” sia a “guadagno, lucro ingiusto”. Questo termine nel N.T. ricorre solo tre volte, una in Matteo e due in Luca e sempre in bocca a Gesù . Alcuni filologi fanno derivare mammona dalla radice ’amari’ che indica ciò che è stabile, sicuro e solido e quindi ciò in cui si può avere fiducia: “mammona” sarebbe ciò in cui si pone fiducia, ciò in cui si pensa di trovare stabilità e nella lingua di Gesù, cioè nell’aramaico, mammona sostituisce il termine ebraico che abbiamo già più volte citato cioè besa‘ che è l’avarizia e l’illecito guadagno, come il greco pleonexia. (nota8)

Si può dire che Gesù vede in mammona il vero concorrente <avversario> di Dio: o si ha fede in Dio o si ha fede in mammona. Nel cuore dell’uomo cioè si decide la scelta per Dio o per mammona, per Dio o per le cose, si decide per la libertà del servizio a Dio o per la servitù al denaro; si decide per Dio o per gli idoli.

Vediamo che cosa comporta l’attaccamento a mammona-pleonexia:

-a).   l’avarizia fa perdere il senso della vita e dei suoi valori. Gesù ammonisce:

“Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia” {pleonexia) Lc 12,15. Gesù fa questa ammonizione nel contesto della controversia per l’eredità tra due fratelli: uno di questi aveva chiesto l’intervento giudiziale di Gesù e Gesù rifiuta dicendogli:

“O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?” e prende occasione per ammonire i presenti di guardarsi dalla pleonexia che è la vera causa di ogni lite, e rafforza il suo richiamo con la parabola del ricco che accumula beni in quantità, al quale però Dio dice:

“Stolto. Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?” (Lc 12, 20)

Nella vita c’è un primato ed è il primato di Dio e del suo regno ed in questo contesto Matteo pone il discorso di Gesù sulla Provvidenza (Mt 6,24-34); Luca

invece, più attento al concreto contrasto nella vita tra povertà e ricchezza, riporta lo stesso discorso nel contesto della vigilanza per la venuta del regno e nell’ammonimento sulla vera ricchezza che l’uomo deve portare davanti a Dio (Lc 12,13-40). Nella vita umana c’è un dilemma: o Dio o le cose; o s’imposta la vita di lavoro e di relazione sulla fiducia in Dio o si imposta sulla fiducia nelle cose. La prima scelta costruisce la vita, la seconda la distrugge

-b).   Nel contesto del discorso su mammona come riportato da Lc (cap.16), Gesù narra la parabola del ricco e di Lazzaro povero (vv. 19-31) per evidenziare qual è il vero uso che si deve fare delle ricchezze. Gesù chiama la ricchezza “disonesta” (v.9.11) perché vede già nella differente posizione sociale del ricco e di Lazzaro una ingiustizia di base a cui bisogna rimediare con il retto, intelligente uso di mammona. Il ricco della parabola non è stato scaltro come l’amministratore infedele, non ha saputo farsi amico Lazzaro per avere la vera ricchezza che conta davanti a Dio.

I farisei reagiscono all’insegnamento di Gesù, non con argomenti, ma beffandosi di lui perché, dice Luca, essi sono philoarghyroi (=avari, nota9). La risposta di Gesù è di quelle che penetra nelle profondità dei cuori ed esprime il giudizio incontrovertibile di Dio: il vostro è un cuore idolatra perché

“voi siete quelli che si ritengono giusti dinanzi agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini (cioè il denaro), davanti a Dio è abominevole”( Lc 16,14-15).

Non possiamo qui non richiamare un altro testo significativo di Luca. Al fariseo che aveva invitato Gesù a pranzo e che si era meravigliato che Gesù si fosse messo a tavola senza aver fatto prima le abluzioni secondo la “purità” farisaica, Gesù, colta la meraviglia sul volto di lui, gli mostra qual è la vera purità, dicendogli:

“date piuttosto in elemosina quel che c’è dentro (nel piatto), ed ecco, tutto per voi tutto sarà mondo” (Lc 11,37-41). La condivisione, che rifiuta ogni avarizia verso i fratelli, è la vera purità dinanzi a Dio. Per Gesù il problema è sempre quello del cuore: quando il cuore è impuro, da lì vengono le perversioni, le pleonexiai, ogni forma di avarizia (Cfr Mc 7,22).

-c).   La comunità dei discepoli di Gesù ha recepito l’insegnamento del Maestro e Luca ci presenta l’ideale della comunità cristiana descrivendo quella delle origini come una comunità che si è tenuta lontana da ogni pleonexia, che ha coltivato la comunione e la condivisione (cfr At 2,42-45; 4,32-37). Paolo per richiamare ai Corinzi la generosità verso i fratelli poveri di Gerualemme indica loro Gesù, che

“da ricco che era, si è fatto povero per voi” (2 Cor 8,9).

Per questo l’apostolo mette in guardia i credenti a tenersi lontani da ogni avarizia e ammonisce che gli avari non erediteranno il regno di Dio (Cfr 1 Cor 6,10; Ef 5,5). Paolo, che ha donato tutto se stesso per il vangelo, si offre come modello di vita, schivo da ogni avarizia e interesse privato (Cfr 1 Cor 9,12; Fil 4,17; At 20,33s ecc.), ma premuroso verso gli altri come una madre per i figli (1 Ts 2,5s). E le lettere paoline, presentando l’ideale del vescovo e del diacono, esigono che chi è chiamato a servire la Chiesa deve essere libero, distaccato dal denaro e non cupido di guadagni (1 Tm 3,3.8; Tt 1,7).

d).   Nella lettera ai Romani, quando Paolo fa il triste elenco delle colpe dei pagani, che, pur potendo conoscere Dio, non gli hanno dato gloria, li dice

“colmi di invidia, di omicidio, di lite, di frode, di malignità”

pleonexia, di avarizia, di cupidigia (Rom 1,21.29).

Paolo sa bene che nel mondo pagano ci sono tanti uomini giusti, distaccati dal denaro, perché sanno che la “auri sacra fames” (Virg. En. 3,56 sacra fame dell’oro) è all’origine di ogni perversione e sperimentano che, secondo il proverbio e la saggezza popolare, la philoarghyria o pleonexia è la radice di ogni male (cfr 1 Tm 6,10); ma Paolo sa pure che là dove non c’è Dio, l’uomo perde la mente (Rom 1,28) e, chiuso in un cieco orizzontalismo smarrisce il senso della vita, fa il male e approva chi lo compie (v.32).

La cupidigia allora diventa un cieco potere di dominio senza limite sulle cose e sulle persone. Quando nell’Apocalisse si descrive la caduta di Roma, Babilonia la grande, si dice che è finito il potere dell’oro e dei mercanti, che hanno fatto grande la città senza Dio, il cui potere e le cui ricchezze erano il loro dio (Ap 18-19).

L’opposizione posta da Gesù tra Dio e mammona è radicale.

È la stessa opposizione che c’è tra Dio e satana; mammona è lo stesso potere di satana, i regni e le cose del mondo sono in suo dominio. Dinanzi agli occhi di Gesù satana fa balenare in un istante la potenza dei regni e lo splendore delle cose chiedendogli di prostrarsi davanti a lui per poter avere la gloria del modo, ma Gesù lo respinge con la parola della fede:

“Il Signore, tuo Dio, adorerai, a lui solo renderai culto” (Lc 4, 5-8; Mt 4, 8-10).(nota10)

L’orizzonte delle cose è piatto e chiude quello aperto verso l’Altissimo, fa smarrire il senso della vita, fa delle cose un idolo, è fonte di ogni malanno e perversione: l’avarizia è veramente una idolatria (Col 3,5) e l’avaro nel suo attaccamento al denaro e alle cose è un idolatra (Ef 5,5).(nita11)

Si stabilisce così un circolo chiuso: la pleonexia porta all’asébeia, all’ empietà e l’asebeia trova la sua piena  espressione nella pleonexia, nella cupidigia delle cose e del potere.

 

NOTE

(1) La concordanza dei LXX di Hatch-Redpath alla voce pleonexia nota che il vocabolo ebraico besa’ viene più regolarmente tradotto con pleonexia da Aquila, Simmaco e Teodozione, che non dai LXX, che usano tradurre non letteralmente, ma a senso (cfr Is 56,11; 57,17 ecc.). Cfr lo studio di G. Delling su pleonexia in GLNT, Paideia, Brescia, 1975 voi. X, coi. 394-398.

(2) Aq. traduce besa ‘ con pleonexia, mentre i LXX traducono yperephania che significa “alterigia tracotanza”; la Bibbia CEI con “venalità”.

(3) Su questo tema e per il commento ad Is.1,23 cfr articolo precedente di R. Virgili su questa rivista pag. 11-28.

(4) Anche in questo passo il classico bosea‘ basa‘ del testo ebraico viene tradotto con pleonexia pleonekton da Simmaco e con doronlemptes cioè’ “avido di guadagni disonesti” dai LXX.

(5) Il verbo hamad, tradotto con epithimeo in greco, esprime per lo più valore negativo; per esprimere desiderio, amore verso Dio e i valori più alti per la vita si usano altri termini, ad esempio qawad, ‘ahab.

(6) Da notare che in Genesi 3, 6 si usa lo stesso verbo nehemed (desiderabile)come nel comandamento “non desiderare” (lo’ tahmod)

(7) Nel testo citato Mt 6,24; in Lc si trova due volte nel contesto degli ammonimenti sull’uso della ricchezza (mammona), dopo la parabola dell’amministratore infedele, Lc 16, 9.11. In questi vv. al termine “mammona” viene aggiunto l’aggettivo Ingiusto, disonesto”, quasi ad indicare che nella ricchezza c’è sempre unita una qualche ingiustizia.

(8) Sul significato di “mammona”  cfr la voce “mamonas” di F.HAUCK in GLNT, Paideia, Brescia 1970, vol. VI coll.1047-1054.

(9) “philoarghyroi” significa “amanti del denaro, avari”, e corrisponde alla espressione ebraica: bosea’ basa’ – pleonexia pleonectein che abbiamo esaminato, cfr F. HACK, a. c.

(10) Cfr commento in H. SCHURMANN, Il Vangelo di Luca. Brescia, Paideia, 1983 e in J. GNILKA, Il Vangelo di Matteo. Brescia, Paideia 1990

(11) Cfr commento ai passi in H. SCHLIER, La lettera agli Efesini, Brescia, Paideia, 1982; E. LOHSE, Le lettere ai Colossesi e a Filemone, Brscia, Paideia, 1987.

PLEONEXIA ETIS ESTIN EIDOLOLATRIA (Col 3,5) L’avarizia che è idolatria

di Gabriele Miola biblista docente all’Istituto Teologico di Fermo

<Nota che nel trascrivere si è usata la traduzione della Bibbia dell’anno 2007>

Il termine greco pleonexia è di chiara derivazione: pleon indica il ‘di più’ e il verbo echo = ‘avere, possedere’: la pleonexia è l’aver di più e la brama di aver di più di quanto uno abbia o possieda. Anche per il latino avaritia ha probabile derivazione da un aveo, che indica desiderio e bramosia smodati, ci porta al significato di cieco possesso e di gretto accaparramento delle cose per la voglia di avere.

Ai termini pleonexia-avaritia soggiace l’idea che nella vita dell’uomo c’è una giusta misura di possesso e un’idea di uguaglianza fondamentale tra tutti gli uomini; sorpassare questa giusta misura e creare disuguaglianze è frutto di violenza. È quello che connota il vocabolo ebraico besa la cui radice significa “tagliare”, tradotto con pleonexia-avaritia, cui soggiace l’idea di taglio violento, quindi di cupidigia e di lucro ingiusto. Ecco alcuni testi:

-Ger 22,17. II profeta contrappone la vita giusta e l’amministrazione di un potere a tutela dei poveri del re Giosia al lusso e alle ingiustizie del figlio Ioiakim e dice:  “I tuoi occhi e il tuo cuore, invece, non badano che al tuo interesse, (besa – pleonexia) a spargere sangue innocente, a commettere violenza e angherie”.

-Ab 2,9. Il profeta sulla base della legge morale che condanna l’arricchimento illecito, fratto di ingiustizie, lancia la maledizione divina contro la tracotanza del re e del popolo caldeo che sopprimono popolazioni intere; ma così – dice il profeta – distruggeranno se stessi!

“Guai a chi è avido di guadagni illeciti (bosea ‘ basa – pleonekton pleonexian)

un male per la sua casa

per mettere il nido in luogo alto…

Hai decretato il disonore alla tua casa;

hai soppresso popoli numerosi,

hai fatto del male contro te stesso”.

-Ez 22,27 denuncia le cause della distruzione di Gerusalemme e le vede non solo nella mancanza di fede in Jhwh e nel sincretismo religioso, ma anche nella avarizia dei suoi amministratori:

“I suoi capi in mezzo ad essa sono come lupi che dilaniano la preda, versano

il sangue, fanno perire la gente per turpi guadagni” (besoa‘ basa‘ – pleonexia pleonektosin)

-Sal 119,36. Il saggio che vive la profondità della legge di Jhwh e conosce le bramosie terrene del cuore dell’uomo, prega:

“Piega il mio cuore verso i tuoi insegnamenti,

e non verso la sete di guadagno” {besa ‘-pleonexia)

Da notare che in Prov. 1,19 lo stesso termine ebraico besa ‘ mentre da Aquila, Simmaco e Teodozione concordemente viene tradotto con pleonexia, nei LXX invece viene tradotto con asébeia che significa empietà. Troviamo già qui una indicazione chiara che l’avarizia è un rifiutare Dio e la sua legge (asébeia) per prostrarsi dinanzi alle cose come idoli (nota1).

Il tema dell’avarizia, del perseguimento della ricchezza e dell’attaccamento alle cose è molto sviluppato in tutto l’Antico Testamento nei suoi diversi aspetti. Ne richiamiamo alcuni:

-a).    L’avarizia, la venalità, l’attaccamento al denaro corrompono la giustizia e quindi distruggono la vita sociale. In Es 18,21 Mosè deve scegliere come giudici delle persone che odiano besa‘, cioè l’avarizia, la venalità (nota2).

Il tema dell’amministrazione della giustizia, l’ingiunzione ai giudici di non farsi corrompere dai potenti o da donativi e regali, la denuncia di fatti di ingiustizia in tribunale sono ricorrenti nei diversi libri dell’A.T. (cfr Es 23,8; Dt 16,19; 27,25; Am 6,6ss; 5,12 ; Is 1,23  (nota3); Ez 34,1-10 ecc.),

-b.    L’avarizia distrugge la vita umana nelle sue relazioni familiari e sociali. Nella sapienza dei diversi popoli e in tutte le letterature è stata descritta con ironia e disprezzo la figura dell’avaro per l’irrazionalità dei suoi atteggiamenti e la cecità dei suoi comportamenti. La letteratura sapienziale biblica più volte si sofferma su questa figura. In Pr. 15,27 ne viene sottolineata la perversione (nota4), ma soprattutto il Siracide descrive le contraddizioni dell’avaro e l’inaridimento della sua vita in 14,3-19. Citiamo solo dal Siracide 14,9:

“L’occhio dell’avaro non si accontenta della sua parte,

una malvagia ingiustizia gli inaridisce l’anima”.

Il Siracide in 31,1-11 arriva ad affermare che raramente le ricchezze sono esenti da ingiustizia e da avarizia:

“chi ama l’oro non sarà esente da colpa,

chi insegue il denaro ne (nota 5)sarà fuorviato (v.5)

e proclama veramente

“beato il ricco che si trova senza macchia

e che non corre dietro l’oro (v.8).

-c).   L’attaccamento alle cose e l’avarizia chiudono il cuore in un cieco orizzontalismo e rendono l’uomo incapace di vivere la vita coi suoi beni e valori. I beni della terra sono doni di Dio, l’attaccarsi ad essi fa dimenticare Dio come sorgente di ogni bene e perverte i valori della vita. Per questo la parenesi deuteronomista esorta a non dimenticare mai che quanto Israele ha avuto è dono di Dio:

“Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio” (Dt 8,12-14).

Qohelet dedica ampio spazio alla riflessione sui beni terreni dell’uomo (cfr 5,9- 6,12). Per Qohelet

“chi ama il denaro, non è mai si sazio di denaro” (5,9).

La filosofia della vita di Qohelet è quella del giusto equilibrio: essere avaro, affaticarsi per le ricchezze e non godere delle cose è cosa vuota, vana e stolta. È la condanna di Dio che pesa sull’avaro; per l’uomo avaro sarebbe stato meglio non esser nato (cfr 6,1-6). Per Qohelet il metro di misura delle cose è la morte, che relativizza ogni possesso (cfr 5,14), e in un orizzonte di vita che non travalica nell’eterno (3,19-21), riconosce che le cose sono date da Dio come dono per goderne e non per accumulare.

-d).   Besa-pleonexia-avaritia indicano non solo l’atto del possesso oltre la misura, ma anche la bramosia dell’avere che è senza limiti. La trasgressione della Torah, delle dieci parole, è sempre offesa al Dio dell’alleanza, ma l’attaccamento alle cose e la brama sconfinata del possedere portano l’uomo alla volontà di potenza e conseguentemente ad escludere Dio dalla propria vita e dalla storia in cui costruisce il proprio potere.

Il comandamento “non desidererai” (Es 20,17), nella sua valenza negativa (nota5) di possedere ciò che è di altri, esprime la radice di ogni male perché il desiderio senza misura è la molla di ogni agire perverso.

La terra e le cose sono date all’uomo (Gen 1.26.29;2,19) e l’uomo le possiede; la radice del male sta nell’avarizia, nell’avidità del possedere al di là del giusto limite così che si perverte il rapporto uomo-cose: queste prendono il sopravvento sull’uomo; allora non è più l’uomo a possedere le cose, ma le cose possiedono il desiderio dell’uomo e ne viene pervertito anche il rapporto tra persone.

Non a caso la tradizione deuteronomista conclude la Torah presso il Giordano con Israele che sta alle soglie della terra di Canaan, così che questa rimanga sempre come una terra promessa, come terra donata e mai posseduta in proprio, come eredità data da Dio al suo popolo (cfr.Es 15,17;Sal 47,5; 136,21s ecc.), quasi simbolo della vera eredità che è Dio stesso (cfr Sal 15,5). Non è a caso che la tradizione sacerdotale istituisca una legge, forse mai applicata, quella dell’anno giubilare (Lev. 25), in cui ogni cinquanta anni la proprietà della terra delle singole famiglie ritorni alle origini superando ogni accumulo o accorpamento che si possa essere giustamente o meno verificato negli anni, per ristabilire il senso vero del possesso come eredità data da Dio e non diritto dell’uomo.

Nella visione biblica infatti ultimo desiderio dell’uomo può essere solo il Dio dell’alleanza e della salvezza e la sua legge (cfr Sal 42,2; 63,2s; 84,3 ecc. Is 26,8 ecc.), ma quando l’uomo ha come termine del desiderio se stesso e le cose assolutizza la propria persona e si sostituisce a Dio. Lo jahwista vede la radice perversa di questo desiderio in Adam, che non si fida di Dio e prende il frutto desiderabile (nota6) per conoscere il bene e il male (Gen 3,5). L’avarizia o meglio l’avidità sconfinata delle cose o del potere acceca il cuore dell’uomo, allora l’idolatria invade il suo cuore facendogli dimenticare Dio, anzi ponendolo al di sopra di lui. Così avarizia e superbia coincidono: l’avarizia è il grembo o il supporto della superbia e la superbia è l’avidità senza limiti.

Quando Israele pone il suo desiderio nelle cose e pensa che siano i ba’alim, come forze divine della natura, a dargli, come dice Osea, grano, vino ed olio, argento e oro (Os 2,10-14; cfr anche Dt 8,11-18; Ez 16,37 ecc.), allora diventa idolatra. Un po’ come l’uomo di oggi che dimentico di Dio pensa di ricevere i suoi beni dalla scienza, dalla tecnologia, dalla economia, dalla politica ecc. e ne assolutizza il valore.

Quando la cupidigia, l’orizzonte del dominio terreno, l’orgia del potere diventa ‘ybris, volontà di potenza, che si pone come assoluto, allora la gloria di Dio mostra la nullità dei disegni degli uomini; quando i potenti della terra con tracotanza assoggettano popoli e si ergono ad arbitri della storia, accumulano ricchezze senza numero e per avidità schiacciano i poveri e gli umili, assolutizzano se stessi e pretendono onori divini, allora il Santo d’Israele, l’Unico, li abbatte dai troni e li travolge nella loro idolatria. È questa la teologia che esprime il libro dell’Esodo nei riguardi del Faraone, il Profeta Isaia contro Sennacherib di Assiria (Is 37,22-29), Ezechiele contro il re di Tiro (Ez 28,1-10), il libro di Daniele contro l’assolutismo di Antioco IV Epifane e dei regni ellenistici.

La loro stessa idolatria li perde, come un fuoco che consuma (cfr.Ez 28,18). Sono pagine e prospettive attuali contro ogni assolutismo di stato o pretesa di costruire una città senza Dio.

II

L’annuncio di Gesù incentrato sulla presenza del regno di Dio nell’oggi della storia e l’invito alla conversione costante per accoglierlo con animo aperto sono la via per leggere la vita dell’uomo e i suoi valori e per indirizzare il giusto “desiderio” dell’uomo.

Mt 6, 33 “Cercate, invece, prima di tutto, il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”.

sono le parole con cui Gesù termina nel vangelo di Matteo il discorso sulla Provvidenza che iniziava con l’asserto:

“Nessuno può servire a due padroni: perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e la ricchezza” (mammona) (6,24). (nota7)

Questa contrapposizione tra Dio e mammona è significativa. Mammona equivale sia a “denaro, patrimonio” sia a “guadagno, lucro ingiusto”. Questo termine nel N.T. ricorre solo tre volte, una in Matteo e due in Luca e sempre in bocca a Gesù . Alcuni filologi fanno derivare mammona dalla radice ’amari’ che indica ciò che è stabile, sicuro e solido e quindi ciò in cui si può avere fiducia: “mammona” sarebbe ciò in cui si pone fiducia, ciò in cui si pensa di trovare stabilità e nella lingua di Gesù, cioè nell’aramaico, mammona sostituisce il termine ebraico che abbiamo già più volte citato cioè besa‘ che è l’avarizia e l’illecito guadagno, come il greco pleonexia. (nota8)

Si può dire che Gesù vede in mammona il vero concorrente <avversario> di Dio: o si ha fede in Dio o si ha fede in mammona. Nel cuore dell’uomo cioè si decide la scelta per Dio o per mammona, per Dio o per le cose, si decide per la libertà del servizio a Dio o per la servitù al denaro; si decide per Dio o per gli idoli.

Vediamo che cosa comporta l’attaccamento a mammona-pleonexia:

-a).   l’avarizia fa perdere il senso della vita e dei suoi valori. Gesù ammonisce:

“Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia” {pleonexia) Lc 12,15. Gesù fa questa ammonizione nel contesto della controversia per l’eredità tra due fratelli: uno di questi aveva chiesto l’intervento giudiziale di Gesù e Gesù rifiuta dicendogli:

“O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?” e prende occasione per ammonire i presenti di guardarsi dalla pleonexia che è la vera causa di ogni lite, e rafforza il suo richiamo con la parabola del ricco che accumula beni in quantità, al quale però Dio dice:

“Stolto. Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?” (Lc 12, 20)

Nella vita c’è un primato ed è il primato di Dio e del suo regno ed in questo contesto Matteo pone il discorso di Gesù sulla Provvidenza (Mt 6,24-34); Luca

invece, più attento al concreto contrasto nella vita tra povertà e ricchezza, riporta lo stesso discorso nel contesto della vigilanza per la venuta del regno e nell’ammonimento sulla vera ricchezza che l’uomo deve portare davanti a Dio (Lc 12,13-40). Nella vita umana c’è un dilemma: o Dio o le cose; o s’imposta la vita di lavoro e di relazione sulla fiducia in Dio o si imposta sulla fiducia nelle cose. La prima scelta costruisce la vita, la seconda la distrugge

-b).   Nel contesto del discorso su mammona come riportato da Lc (cap.16), Gesù narra la parabola del ricco e di Lazzaro povero (vv. 19-31) per evidenziare qual è il vero uso che si deve fare delle ricchezze. Gesù chiama la ricchezza “disonesta” (v.9.11) perché vede già nella differente posizione sociale del ricco e di Lazzaro una ingiustizia di base a cui bisogna rimediare con il retto, intelligente uso di mammona. Il ricco della parabola non è stato scaltro come l’amministratore infedele, non ha saputo farsi amico Lazzaro per avere la vera ricchezza che conta davanti a Dio.

I farisei reagiscono all’insegnamento di Gesù, non con argomenti, ma beffandosi di lui perché, dice Luca, essi sono philoarghyroi (=avari, nota9). La risposta di Gesù è di quelle che penetra nelle profondità dei cuori ed esprime il giudizio incontrovertibile di Dio: il vostro è un cuore idolatra perché

“voi siete quelli che si ritengono giusti dinanzi agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini (cioè il denaro), davanti a Dio è abominevole”( Lc 16,14-15).

Non possiamo qui non richiamare un altro testo significativo di Luca. Al fariseo che aveva invitato Gesù a pranzo e che si era meravigliato che Gesù si fosse messo a tavola senza aver fatto prima le abluzioni secondo la “purità” farisaica, Gesù, colta la meraviglia sul volto di lui, gli mostra qual è la vera purità, dicendogli:

“date piuttosto in elemosina quel che c’è dentro (nel piatto), ed ecco, tutto per voi tutto sarà mondo” (Lc 11,37-41). La condivisione, che rifiuta ogni avarizia verso i fratelli, è la vera purità dinanzi a Dio. Per Gesù il problema è sempre quello del cuore: quando il cuore è impuro, da lì vengono le perversioni, le pleonexiai, ogni forma di avarizia (Cfr Mc 7,22).

-c).   La comunità dei discepoli di Gesù ha recepito l’insegnamento del Maestro e Luca ci presenta l’ideale della comunità cristiana descrivendo quella delle origini come una comunità che si è tenuta lontana da ogni pleonexia, che ha coltivato la comunione e la condivisione (cfr At 2,42-45; 4,32-37). Paolo per richiamare ai Corinzi la generosità verso i fratelli poveri di Gerualemme indica loro Gesù, che

“da ricco che era, si è fatto povero per voi” (2 Cor 8,9).

Per questo l’apostolo mette in guardia i credenti a tenersi lontani da ogni avarizia e ammonisce che gli avari non erediteranno il regno di Dio (Cfr 1 Cor 6,10; Ef 5,5). Paolo, che ha donato tutto se stesso per il vangelo, si offre come modello di vita, schivo da ogni avarizia e interesse privato (Cfr 1 Cor 9,12; Fil 4,17; At 20,33s ecc.), ma premuroso verso gli altri come una madre per i figli (1 Ts 2,5s). E le lettere paoline, presentando l’ideale del vescovo e del diacono, esigono che chi è chiamato a servire la Chiesa deve essere libero, distaccato dal denaro e non cupido di guadagni (1 Tm 3,3.8; Tt 1,7).

d).   Nella lettera ai Romani, quando Paolo fa il triste elenco delle colpe dei pagani, che, pur potendo conoscere Dio, non gli hanno dato gloria, li dice

“colmi di invidia, di omicidio, di lite, di frode, di malignità”

pleonexia, di avarizia, di cupidigia (Rom 1,21.29).

Paolo sa bene che nel mondo pagano ci sono tanti uomini giusti, distaccati dal denaro, perché sanno che la “auri sacra fames” (Virg. En. 3,56 sacra fame dell’oro) è all’origine di ogni perversione e sperimentano che, secondo il proverbio e la saggezza popolare, la philoarghyria o pleonexia è la radice di ogni male (cfr 1 Tm 6,10); ma Paolo sa pure che là dove non c’è Dio, l’uomo perde la mente (Rom 1,28) e, chiuso in un cieco orizzontalismo smarrisce il senso della vita, fa il male e approva chi lo compie (v.32).

La cupidigia allora diventa un cieco potere di dominio senza limite sulle cose e sulle persone. Quando nell’Apocalisse si descrive la caduta di Roma, Babilonia la grande, si dice che è finito il potere dell’oro e dei mercanti, che hanno fatto grande la città senza Dio, il cui potere e le cui ricchezze erano il loro dio (Ap 18-19).

L’opposizione posta da Gesù tra Dio e mammona è radicale.

È la stessa opposizione che c’è tra Dio e satana; mammona è lo stesso potere di satana, i regni e le cose del mondo sono in suo dominio. Dinanzi agli occhi di Gesù satana fa balenare in un istante la potenza dei regni e lo splendore delle cose chiedendogli di prostrarsi davanti a lui per poter avere la gloria del modo, ma Gesù lo respinge con la parola della fede:

“Il Signore, tuo Dio, adorerai, a lui solo renderai culto” (Lc 4, 5-8; Mt 4, 8-10).(nota10)

L’orizzonte delle cose è piatto e chiude quello aperto verso l’Altissimo, fa smarrire il senso della vita, fa delle cose un idolo, è fonte di ogni malanno e perversione: l’avarizia è veramente una idolatria (Col 3,5) e l’avaro nel suo attaccamento al denaro e alle cose è un idolatra (Ef 5,5).(nita11)

Si stabilisce così un circolo chiuso: la pleonexia porta all’asébeia, all’ empietà e l’asebeia trova la sua piena  espressione nella pleonexia, nella cupidigia delle cose e del potere.

 

NOTE

(1) La concordanza dei LXX di Hatch-Redpath alla voce pleonexia nota che il vocabolo ebraico besa’ viene più regolarmente tradotto con pleonexia da Aquila, Simmaco e Teodozione, che non dai LXX, che usano tradurre non letteralmente, ma a senso (cfr Is 56,11; 57,17 ecc.). Cfr lo studio di G. Delling su pleonexia in GLNT, Paideia, Brescia, 1975 voi. X, coi. 394-398.

(2) Aq. traduce besa ‘ con pleonexia, mentre i LXX traducono yperephania che significa “alterigia tracotanza”; la Bibbia CEI con “venalità”.

(3) Su questo tema e per il commento ad Is.1,23 cfr articolo precedente di R. Virgili su questa rivista pag. 11-28.

(4) Anche in questo passo il classico bosea‘ basa‘ del testo ebraico viene tradotto con pleonexia pleonekton da Simmaco e con doronlemptes cioè’ “avido di guadagni disonesti” dai LXX.

(5) Il verbo hamad, tradotto con epithimeo in greco, esprime per lo più valore negativo; per esprimere desiderio, amore verso Dio e i valori più alti per la vita si usano altri termini, ad esempio qawad, ‘ahab.

(6) Da notare che in Genesi 3, 6 si usa lo stesso verbo nehemed (desiderabile)come nel comandamento “non desiderare” (lo’ tahmod)

(7) Nel testo citato Mt 6,24; in Lc si trova due volte nel contesto degli ammonimenti sull’uso della ricchezza (mammona), dopo la parabola dell’amministratore infedele, Lc 16, 9.11. In questi vv. al termine “mammona” viene aggiunto l’aggettivo Ingiusto, disonesto”, quasi ad indicare che nella ricchezza c’è sempre unita una qualche ingiustizia.

(8) Sul significato di “mammona”  cfr la voce “mamonas” di F.HAUCK in GLNT, Paideia, Brescia 1970, vol. VI coll.1047-1054.

(9) “philoarghyroi” significa “amanti del denaro, avari”, e corrisponde alla espressione ebraica: bosea’ basa’ – pleonexia pleonectein che abbiamo esaminato, cfr F. HACK, a. c.

(10) Cfr commento in H. SCHURMANN, Il Vangelo di Luca. Brescia, Paideia, 1983 e in J. GNILKA, Il Vangelo di Matteo. Brescia, Paideia 1990

(11) Cfr commento ai passi in H. SCHLIER, La lettera agli Efesini, Brescia, Paideia, 1982; E. LOHSE, Le lettere ai Colossesi e a Filemone, Brscia, Paideia, 1987.

PLEONEXIA ETIS ESTIN EIDOLOLATRIA (Col 3,5) L’avarizia che è idolatria

di Gabriele Miola biblista docente all’Istituto Teologico di Fermo

<Nota che nel trascrivere si è usata la traduzione della Bibbia dell’anno 2007>

Il termine greco pleonexia è di chiara derivazione: pleon indica il ‘di più’ e il verbo echo = ‘avere, possedere’: la pleonexia è l’aver di più e la brama di aver di più di quanto uno abbia o possieda. Anche per il latino avaritia ha probabile derivazione da un aveo, che indica desiderio e bramosia smodati, ci porta al significato di cieco possesso e di gretto accaparramento delle cose per la voglia di avere.

Ai termini pleonexia-avaritia soggiace l’idea che nella vita dell’uomo c’è una giusta misura di possesso e un’idea di uguaglianza fondamentale tra tutti gli uomini; sorpassare questa giusta misura e creare disuguaglianze è frutto di violenza. È quello che connota il vocabolo ebraico besa la cui radice significa “tagliare”, tradotto con pleonexia-avaritia, cui soggiace l’idea di taglio violento, quindi di cupidigia e di lucro ingiusto. Ecco alcuni testi:

-Ger 22,17. II profeta contrappone la vita giusta e l’amministrazione di un potere a tutela dei poveri del re Giosia al lusso e alle ingiustizie del figlio Ioiakim e dice:  “I tuoi occhi e il tuo cuore, invece, non badano che al tuo interesse, (besa – pleonexia) a spargere sangue innocente, a commettere violenza e angherie”.

-Ab 2,9. Il profeta sulla base della legge morale che condanna l’arricchimento illecito, fratto di ingiustizie, lancia la maledizione divina contro la tracotanza del re e del popolo caldeo che sopprimono popolazioni intere; ma così – dice il profeta – distruggeranno se stessi!

“Guai a chi è avido di guadagni illeciti (bosea ‘ basa – pleonekton pleonexian)

un male per la sua casa

per mettere il nido in luogo alto…

Hai decretato il disonore alla tua casa;

hai soppresso popoli numerosi,

hai fatto del male contro te stesso”.

-Ez 22,27 denuncia le cause della distruzione di Gerusalemme e le vede non solo nella mancanza di fede in Jhwh e nel sincretismo religioso, ma anche nella avarizia dei suoi amministratori:

“I suoi capi in mezzo ad essa sono come lupi che dilaniano la preda, versano

il sangue, fanno perire la gente per turpi guadagni” (besoa‘ basa‘ – pleonexia pleonektosin)

-Sal 119,36. Il saggio che vive la profondità della legge di Jhwh e conosce le bramosie terrene del cuore dell’uomo, prega:

“Piega il mio cuore verso i tuoi insegnamenti,

e non verso la sete di guadagno” {besa ‘-pleonexia)

Da notare che in Prov. 1,19 lo stesso termine ebraico besa ‘ mentre da Aquila, Simmaco e Teodozione concordemente viene tradotto con pleonexia, nei LXX invece viene tradotto con asébeia che significa empietà. Troviamo già qui una indicazione chiara che l’avarizia è un rifiutare Dio e la sua legge (asébeia) per prostrarsi dinanzi alle cose come idoli (nota1).

Il tema dell’avarizia, del perseguimento della ricchezza e dell’attaccamento alle cose è molto sviluppato in tutto l’Antico Testamento nei suoi diversi aspetti. Ne richiamiamo alcuni:

-a).    L’avarizia, la venalità, l’attaccamento al denaro corrompono la giustizia e quindi distruggono la vita sociale. In Es 18,21 Mosè deve scegliere come giudici delle persone che odiano besa‘, cioè l’avarizia, la venalità (nota2).

Il tema dell’amministrazione della giustizia, l’ingiunzione ai giudici di non farsi corrompere dai potenti o da donativi e regali, la denuncia di fatti di ingiustizia in tribunale sono ricorrenti nei diversi libri dell’A.T. (cfr Es 23,8; Dt 16,19; 27,25; Am 6,6ss; 5,12 ; Is 1,23  (nota3); Ez 34,1-10 ecc.),

-b.    L’avarizia distrugge la vita umana nelle sue relazioni familiari e sociali. Nella sapienza dei diversi popoli e in tutte le letterature è stata descritta con ironia e disprezzo la figura dell’avaro per l’irrazionalità dei suoi atteggiamenti e la cecità dei suoi comportamenti. La letteratura sapienziale biblica più volte si sofferma su questa figura. In Pr. 15,27 ne viene sottolineata la perversione (nota4), ma soprattutto il Siracide descrive le contraddizioni dell’avaro e l’inaridimento della sua vita in 14,3-19. Citiamo solo dal Siracide 14,9:

“L’occhio dell’avaro non si accontenta della sua parte,

una malvagia ingiustizia gli inaridisce l’anima”.

Il Siracide in 31,1-11 arriva ad affermare che raramente le ricchezze sono esenti da ingiustizia e da avarizia:

“chi ama l’oro non sarà esente da colpa,

chi insegue il denaro ne (nota 5)sarà fuorviato (v.5)

e proclama veramente

“beato il ricco che si trova senza macchia

e che non corre dietro l’oro (v.8).

-c).   L’attaccamento alle cose e l’avarizia chiudono il cuore in un cieco orizzontalismo e rendono l’uomo incapace di vivere la vita coi suoi beni e valori. I beni della terra sono doni di Dio, l’attaccarsi ad essi fa dimenticare Dio come sorgente di ogni bene e perverte i valori della vita. Per questo la parenesi deuteronomista esorta a non dimenticare mai che quanto Israele ha avuto è dono di Dio:

“Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio” (Dt 8,12-14).

Qohelet dedica ampio spazio alla riflessione sui beni terreni dell’uomo (cfr 5,9- 6,12). Per Qohelet

“chi ama il denaro, non è mai si sazio di denaro” (5,9).

La filosofia della vita di Qohelet è quella del giusto equilibrio: essere avaro, affaticarsi per le ricchezze e non godere delle cose è cosa vuota, vana e stolta. È la condanna di Dio che pesa sull’avaro; per l’uomo avaro sarebbe stato meglio non esser nato (cfr 6,1-6). Per Qohelet il metro di misura delle cose è la morte, che relativizza ogni possesso (cfr 5,14), e in un orizzonte di vita che non travalica nell’eterno (3,19-21), riconosce che le cose sono date da Dio come dono per goderne e non per accumulare.

-d).   Besa-pleonexia-avaritia indicano non solo l’atto del possesso oltre la misura, ma anche la bramosia dell’avere che è senza limiti. La trasgressione della Torah, delle dieci parole, è sempre offesa al Dio dell’alleanza, ma l’attaccamento alle cose e la brama sconfinata del possedere portano l’uomo alla volontà di potenza e conseguentemente ad escludere Dio dalla propria vita e dalla storia in cui costruisce il proprio potere.

Il comandamento “non desidererai” (Es 20,17), nella sua valenza negativa (nota5) di possedere ciò che è di altri, esprime la radice di ogni male perché il desiderio senza misura è la molla di ogni agire perverso.

La terra e le cose sono date all’uomo (Gen 1.26.29;2,19) e l’uomo le possiede; la radice del male sta nell’avarizia, nell’avidità del possedere al di là del giusto limite così che si perverte il rapporto uomo-cose: queste prendono il sopravvento sull’uomo; allora non è più l’uomo a possedere le cose, ma le cose possiedono il desiderio dell’uomo e ne viene pervertito anche il rapporto tra persone.

Non a caso la tradizione deuteronomista conclude la Torah presso il Giordano con Israele che sta alle soglie della terra di Canaan, così che questa rimanga sempre come una terra promessa, come terra donata e mai posseduta in proprio, come eredità data da Dio al suo popolo (cfr.Es 15,17;Sal 47,5; 136,21s ecc.), quasi simbolo della vera eredità che è Dio stesso (cfr Sal 15,5). Non è a caso che la tradizione sacerdotale istituisca una legge, forse mai applicata, quella dell’anno giubilare (Lev. 25), in cui ogni cinquanta anni la proprietà della terra delle singole famiglie ritorni alle origini superando ogni accumulo o accorpamento che si possa essere giustamente o meno verificato negli anni, per ristabilire il senso vero del possesso come eredità data da Dio e non diritto dell’uomo.

Nella visione biblica infatti ultimo desiderio dell’uomo può essere solo il Dio dell’alleanza e della salvezza e la sua legge (cfr Sal 42,2; 63,2s; 84,3 ecc. Is 26,8 ecc.), ma quando l’uomo ha come termine del desiderio se stesso e le cose assolutizza la propria persona e si sostituisce a Dio. Lo jahwista vede la radice perversa di questo desiderio in Adam, che non si fida di Dio e prende il frutto desiderabile (nota6) per conoscere il bene e il male (Gen 3,5). L’avarizia o meglio l’avidità sconfinata delle cose o del potere acceca il cuore dell’uomo, allora l’idolatria invade il suo cuore facendogli dimenticare Dio, anzi ponendolo al di sopra di lui. Così avarizia e superbia coincidono: l’avarizia è il grembo o il supporto della superbia e la superbia è l’avidità senza limiti.

Quando Israele pone il suo desiderio nelle cose e pensa che siano i ba’alim, come forze divine della natura, a dargli, come dice Osea, grano, vino ed olio, argento e oro (Os 2,10-14; cfr anche Dt 8,11-18; Ez 16,37 ecc.), allora diventa idolatra. Un po’ come l’uomo di oggi che dimentico di Dio pensa di ricevere i suoi beni dalla scienza, dalla tecnologia, dalla economia, dalla politica ecc. e ne assolutizza il valore.

Quando la cupidigia, l’orizzonte del dominio terreno, l’orgia del potere diventa ‘ybris, volontà di potenza, che si pone come assoluto, allora la gloria di Dio mostra la nullità dei disegni degli uomini; quando i potenti della terra con tracotanza assoggettano popoli e si ergono ad arbitri della storia, accumulano ricchezze senza numero e per avidità schiacciano i poveri e gli umili, assolutizzano se stessi e pretendono onori divini, allora il Santo d’Israele, l’Unico, li abbatte dai troni e li travolge nella loro idolatria. È questa la teologia che esprime il libro dell’Esodo nei riguardi del Faraone, il Profeta Isaia contro Sennacherib di Assiria (Is 37,22-29), Ezechiele contro il re di Tiro (Ez 28,1-10), il libro di Daniele contro l’assolutismo di Antioco IV Epifane e dei regni ellenistici.

La loro stessa idolatria li perde, come un fuoco che consuma (cfr.Ez 28,18). Sono pagine e prospettive attuali contro ogni assolutismo di stato o pretesa di costruire una città senza Dio.

II

L’annuncio di Gesù incentrato sulla presenza del regno di Dio nell’oggi della storia e l’invito alla conversione costante per accoglierlo con animo aperto sono la via per leggere la vita dell’uomo e i suoi valori e per indirizzare il giusto “desiderio” dell’uomo.

Mt 6, 33 “Cercate, invece, prima di tutto, il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”.

sono le parole con cui Gesù termina nel vangelo di Matteo il discorso sulla Provvidenza che iniziava con l’asserto:

“Nessuno può servire a due padroni: perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e la ricchezza” (mammona) (6,24). (nota7)

Questa contrapposizione tra Dio e mammona è significativa. Mammona equivale sia a “denaro, patrimonio” sia a “guadagno, lucro ingiusto”. Questo termine nel N.T. ricorre solo tre volte, una in Matteo e due in Luca e sempre in bocca a Gesù . Alcuni filologi fanno derivare mammona dalla radice ’amari’ che indica ciò che è stabile, sicuro e solido e quindi ciò in cui si può avere fiducia: “mammona” sarebbe ciò in cui si pone fiducia, ciò in cui si pensa di trovare stabilità e nella lingua di Gesù, cioè nell’aramaico, mammona sostituisce il termine ebraico che abbiamo già più volte citato cioè besa‘ che è l’avarizia e l’illecito guadagno, come il greco pleonexia. (nota8)

Si può dire che Gesù vede in mammona il vero concorrente <avversario> di Dio: o si ha fede in Dio o si ha fede in mammona. Nel cuore dell’uomo cioè si decide la scelta per Dio o per mammona, per Dio o per le cose, si decide per la libertà del servizio a Dio o per la servitù al denaro; si decide per Dio o per gli idoli.

Vediamo che cosa comporta l’attaccamento a mammona-pleonexia:

-a).   l’avarizia fa perdere il senso della vita e dei suoi valori. Gesù ammonisce:

“Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia” {pleonexia) Lc 12,15. Gesù fa questa ammonizione nel contesto della controversia per l’eredità tra due fratelli: uno di questi aveva chiesto l’intervento giudiziale di Gesù e Gesù rifiuta dicendogli:

“O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?” e prende occasione per ammonire i presenti di guardarsi dalla pleonexia che è la vera causa di ogni lite, e rafforza il suo richiamo con la parabola del ricco che accumula beni in quantità, al quale però Dio dice:

“Stolto. Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?” (Lc 12, 20)

Nella vita c’è un primato ed è il primato di Dio e del suo regno ed in questo contesto Matteo pone il discorso di Gesù sulla Provvidenza (Mt 6,24-34); Luca

invece, più attento al concreto contrasto nella vita tra povertà e ricchezza, riporta lo stesso discorso nel contesto della vigilanza per la venuta del regno e nell’ammonimento sulla vera ricchezza che l’uomo deve portare davanti a Dio (Lc 12,13-40). Nella vita umana c’è un dilemma: o Dio o le cose; o s’imposta la vita di lavoro e di relazione sulla fiducia in Dio o si imposta sulla fiducia nelle cose. La prima scelta costruisce la vita, la seconda la distrugge

-b).   Nel contesto del discorso su mammona come riportato da Lc (cap.16), Gesù narra la parabola del ricco e di Lazzaro povero (vv. 19-31) per evidenziare qual è il vero uso che si deve fare delle ricchezze. Gesù chiama la ricchezza “disonesta” (v.9.11) perché vede già nella differente posizione sociale del ricco e di Lazzaro una ingiustizia di base a cui bisogna rimediare con il retto, intelligente uso di mammona. Il ricco della parabola non è stato scaltro come l’amministratore infedele, non ha saputo farsi amico Lazzaro per avere la vera ricchezza che conta davanti a Dio.

I farisei reagiscono all’insegnamento di Gesù, non con argomenti, ma beffandosi di lui perché, dice Luca, essi sono philoarghyroi (=avari, nota9). La risposta di Gesù è di quelle che penetra nelle profondità dei cuori ed esprime il giudizio incontrovertibile di Dio: il vostro è un cuore idolatra perché

“voi siete quelli che si ritengono giusti dinanzi agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini (cioè il denaro), davanti a Dio è abominevole”( Lc 16,14-15).

Non possiamo qui non richiamare un altro testo significativo di Luca. Al fariseo che aveva invitato Gesù a pranzo e che si era meravigliato che Gesù si fosse messo a tavola senza aver fatto prima le abluzioni secondo la “purità” farisaica, Gesù, colta la meraviglia sul volto di lui, gli mostra qual è la vera purità, dicendogli:

“date piuttosto in elemosina quel che c’è dentro (nel piatto), ed ecco, tutto per voi tutto sarà mondo” (Lc 11,37-41). La condivisione, che rifiuta ogni avarizia verso i fratelli, è la vera purità dinanzi a Dio. Per Gesù il problema è sempre quello del cuore: quando il cuore è impuro, da lì vengono le perversioni, le pleonexiai, ogni forma di avarizia (Cfr Mc 7,22).

-c).   La comunità dei discepoli di Gesù ha recepito l’insegnamento del Maestro e Luca ci presenta l’ideale della comunità cristiana descrivendo quella delle origini come una comunità che si è tenuta lontana da ogni pleonexia, che ha coltivato la comunione e la condivisione (cfr At 2,42-45; 4,32-37). Paolo per richiamare ai Corinzi la generosità verso i fratelli poveri di Gerualemme indica loro Gesù, che

“da ricco che era, si è fatto povero per voi” (2 Cor 8,9).

Per questo l’apostolo mette in guardia i credenti a tenersi lontani da ogni avarizia e ammonisce che gli avari non erediteranno il regno di Dio (Cfr 1 Cor 6,10; Ef 5,5). Paolo, che ha donato tutto se stesso per il vangelo, si offre come modello di vita, schivo da ogni avarizia e interesse privato (Cfr 1 Cor 9,12; Fil 4,17; At 20,33s ecc.), ma premuroso verso gli altri come una madre per i figli (1 Ts 2,5s). E le lettere paoline, presentando l’ideale del vescovo e del diacono, esigono che chi è chiamato a servire la Chiesa deve essere libero, distaccato dal denaro e non cupido di guadagni (1 Tm 3,3.8; Tt 1,7).

d).   Nella lettera ai Romani, quando Paolo fa il triste elenco delle colpe dei pagani, che, pur potendo conoscere Dio, non gli hanno dato gloria, li dice

“colmi di invidia, di omicidio, di lite, di frode, di malignità”

pleonexia, di avarizia, di cupidigia (Rom 1,21.29).

Paolo sa bene che nel mondo pagano ci sono tanti uomini giusti, distaccati dal denaro, perché sanno che la “auri sacra fames” (Virg. En. 3,56 sacra fame dell’oro) è all’origine di ogni perversione e sperimentano che, secondo il proverbio e la saggezza popolare, la philoarghyria o pleonexia è la radice di ogni male (cfr 1 Tm 6,10); ma Paolo sa pure che là dove non c’è Dio, l’uomo perde la mente (Rom 1,28) e, chiuso in un cieco orizzontalismo smarrisce il senso della vita, fa il male e approva chi lo compie (v.32).

La cupidigia allora diventa un cieco potere di dominio senza limite sulle cose e sulle persone. Quando nell’Apocalisse si descrive la caduta di Roma, Babilonia la grande, si dice che è finito il potere dell’oro e dei mercanti, che hanno fatto grande la città senza Dio, il cui potere e le cui ricchezze erano il loro dio (Ap 18-19).

L’opposizione posta da Gesù tra Dio e mammona è radicale.

È la stessa opposizione che c’è tra Dio e satana; mammona è lo stesso potere di satana, i regni e le cose del mondo sono in suo dominio. Dinanzi agli occhi di Gesù satana fa balenare in un istante la potenza dei regni e lo splendore delle cose chiedendogli di prostrarsi davanti a lui per poter avere la gloria del modo, ma Gesù lo respinge con la parola della fede:

“Il Signore, tuo Dio, adorerai, a lui solo renderai culto” (Lc 4, 5-8; Mt 4, 8-10).(nota10)

L’orizzonte delle cose è piatto e chiude quello aperto verso l’Altissimo, fa smarrire il senso della vita, fa delle cose un idolo, è fonte di ogni malanno e perversione: l’avarizia è veramente una idolatria (Col 3,5) e l’avaro nel suo attaccamento al denaro e alle cose è un idolatra (Ef 5,5).(nita11)

Si stabilisce così un circolo chiuso: la pleonexia porta all’asébeia, all’ empietà e l’asebeia trova la sua piena  espressione nella pleonexia, nella cupidigia delle cose e del potere.

 

NOTE

(1) La concordanza dei LXX di Hatch-Redpath alla voce pleonexia nota che il vocabolo ebraico besa’ viene più regolarmente tradotto con pleonexia da Aquila, Simmaco e Teodozione, che non dai LXX, che usano tradurre non letteralmente, ma a senso (cfr Is 56,11; 57,17 ecc.). Cfr lo studio di G. Delling su pleonexia in GLNT, Paideia, Brescia, 1975 voi. X, coi. 394-398.

(2) Aq. traduce besa ‘ con pleonexia, mentre i LXX traducono yperephania che significa “alterigia tracotanza”; la Bibbia CEI con “venalità”.

(3) Su questo tema e per il commento ad Is.1,23 cfr articolo precedente di R. Virgili su questa rivista pag. 11-28.

(4) Anche in questo passo il classico bosea‘ basa‘ del testo ebraico viene tradotto con pleonexia pleonekton da Simmaco e con doronlemptes cioè’ “avido di guadagni disonesti” dai LXX.

(5) Il verbo hamad, tradotto con epithimeo in greco, esprime per lo più valore negativo; per esprimere desiderio, amore verso Dio e i valori più alti per la vita si usano altri termini, ad esempio qawad, ‘ahab.

(6) Da notare che in Genesi 3, 6 si usa lo stesso verbo nehemed (desiderabile)come nel comandamento “non desiderare” (lo’ tahmod)

(7) Nel testo citato Mt 6,24; in Lc si trova due volte nel contesto degli ammonimenti sull’uso della ricchezza (mammona), dopo la parabola dell’amministratore infedele, Lc 16, 9.11. In questi vv. al termine “mammona” viene aggiunto l’aggettivo Ingiusto, disonesto”, quasi ad indicare che nella ricchezza c’è sempre unita una qualche ingiustizia.

(8) Sul significato di “mammona”  cfr la voce “mamonas” di F.HAUCK in GLNT, Paideia, Brescia 1970, vol. VI coll.1047-1054.

(9) “philoarghyroi” significa “amanti del denaro, avari”, e corrisponde alla espressione ebraica: bosea’ basa’ – pleonexia pleonectein che abbiamo esaminato, cfr F. HACK, a. c.

(10) Cfr commento in H. SCHURMANN, Il Vangelo di Luca. Brescia, Paideia, 1983 e in J. GNILKA, Il Vangelo di Matteo. Brescia, Paideia 1990

(11) Cfr commento ai passi in H. SCHLIER, La lettera agli Efesini, Brescia, Paideia, 1982; E. LOHSE, Le lettere ai Colossesi e a Filemone, Brscia, Paideia, 1987.

 

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Al santuario della Madonna dell’Ambro in Montefortino (FM) vennero pellegrini anche santi e beati

SANTI PELLEGRINI AL SANTUARIO DELLA MADONNA DELL’AMBRO

A MONTEFORTINO (FM)

E’ stato detto che i santuari, specialmente Mariani, sono delle oasi spirituali, grandi stazioni di ristoro, dislocate lungo le direttrici della lunga marcia dell’uomo verso la patria celeste, una tappa d’obbligo per tutte le anime assetate di grazia e di fede.

Se è così i santi, anime più sensibili e generose, pensiamo che abbiano sentito fortemente in ogni tempo il richiamo del santuario. Per quanto riguarda il santuario della Madonna dell’Ambro, le fonti storiche segnalano la venuta di cinque santi: beato Liberato da Loro Piceno; san Serafino da Montegranaro; san Benedetto Giuseppe Labre; il beato Antonio di Amandola e la beata Maria Assunta Pallottola da Force.

Il beato Liberato (1260) rampollo illustre dei conti Brunforte feudatari di Loro Piceno, trascorse l’intera sua vita tra i boschi dei monti di Sarnano, nel silenzio, nella preghiera e nella mortificazione. È facile immaginarlo unirsi ai numerosi pellegrinaggi che la popolazione di Sarnano organizzava periodicamente al santuario.

La venuta di san Serafino da Montegranaro (1540-1604) all’Ambro fu determinata da una circostanza particolare che troviamo descritta nella sua biografia. Tra i vari uffici, tutti umili, come quello di ortolano, di questuante e di cuoco, egli di tanto in tanto aveva quello di compagno dei padri predicatori popolari. Un giorno uno di questi teneva la Quaresima a comunanza, una cittadina confinante con la località dell’Ambro. Non sembrò vero al santo di approfittare dell’occasione per correre a venerare la Regina del suo cuore. Il cronista narra che, mentre stava a pregare con intenso fervore, alzando gli occhi si accorse che la statua era coperta di polvere; allora salì sull’altare e preso un panno, cominciò a pulire, ma non durò a lungo perché ben presto cadde in estasi.

Se c’è un santo che all’Ambro possiamo dire sia stato di casa questo è il beato Antonio Migliorati (1355-1450), sacerdote agostiniano. Nato e vissuto a un tiro di schioppo dal santuario, è da supporre che fin da bambino si sia recato a trovare la Madre celeste. Il suo primo biografo, il Palmieri, non ha dubbi sui ripetuti pellegrinaggi del santo all’Ambro durante gli anni della sua permanenza nel convento di Amandola.

Dove non è arrivato pellegrinando per santuari San Benedetto Giuseppe Labre (1748-1783), il “santo della strada”? Non conosciamo con certezza la data della sua visita, ma che questa ci sia stata non ci sono dubbi. Un valente storico di amandola, il Treggiari, scrive: «io stesso ho inteso dire da un vecchio sacerdote di qui, morto nel 1868, all’età di 83 anni, e diceva di aver inteso dire da altri vecchi, che il beato Giuseppe Labre pellegrino abbia visitato questo santuario dell’Ambro».

La beata Maria Assunta Pallotta (1878-1905), nativa di Force, a 18 anni entrò nell’Istituto delle Suore Francescane di Maria e trascorse la maggior parte della sua breve esistenza all’estero. Le sue visite al santuario risalgono agli anni della prima giovinezza e sono testimoniate dai parenti.

Fra’  Alfonso Schiaroli.

<Nota del redattore: anche di San Giacomo della Marca si ha notizia certa del suo passaggio tra i paesi dei monti Sibillini e per ricordare sei santi e beati che sono considerati modello per i pellegini all’Ambro, lo stesso Fra’ Alfonso Schiaroli ha cercato il pittore Salvatore Tricarico che ha dipinto sei pannelli con le lororispettive  immagini a conforto dei fedeli>.

 

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LE FAMIGLIE DI SERVILIO A FALERIO PICENO IN DUE LAPIDI

Famiglie della GENTE DEI SERVILIO VENUTA DAL LAZIO a Falerio Piceno

… Un’epigrafe latina:

“ Fidei Augustae Sacrum Caius Servilius Aper VIII Vir(orum) Augustalis Pro Honore De Sua Pecunia Fecit Indulgentia Serviliae Bassillae Patronae et Clodiae Quarti Filiae Priscae Filiae Eius

Traduzione: <sacro alla fedeltà dell’Augusto \ Caio Serviglio Apro degli otto uomini augustali fece ad onore con sua moneta per favorire Servilia Bassilla patrona e Claudia figlia di Quarto Prisca di lui figlia>

…          Altra epigrafe di Falerio Piceno:

“Dis Manibus Serviliae Felicissimae Coniugi”

<Agli Dei Mani per SERVILIA coniuge felicissima>

 

“Dis Manibus Serviliae Felicissimae Coniugi”

<Agli Dei Mani per SERVILIA coniuge felicissima>

Famiglie della GENTE DEI SERVILIO VENUTA DAL LAZIO a Falerio Piceno

… Un’epigrafe latina:

“ Fidei Augustae Sacrum Caius Servilius Aper VIII Vir(orum) Augustalis Pro Honore De Sua Pecunia Fecit Indulgentia Serviliae Bassillae Patronae et Clodiae Quarti Filiae Priscae Filiae Eius

Traduzione: <sacro alla fedeltà dell’Augusto \ Caio Serviglio Apro degli otto uomini augustali fece ad onore con sua moneta per favorire Servilia Bassa patrona e Claudia figlia di Quarto Prisca di lui figlia>

…          Altra epigrafe di Falerio Piceno:

“Dis Manibus Serviliae Felicissimae Coniugi”

<Agli Dei Mani per SERVILIA coniuge felicissima>

 

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Martino Bonfini dipingeva al santuario dell’Ambro di Montefortino (FM). Stdio id Giuseppe Santarelli

I DISPINTI DI MARTINO BONFINI originario di Patrignone di Montalto Marche negli anni 1610-1611 ispirandosi alle pitture del santuario di Loreto

Studio di Giuseppe Santarelli

Prima della conclusione della nuova Chiesa del Venturi, i Deputati del Comune di Montefortino affida­rono a Martino Bonfini da Patrignone (AP) la pittura della Cappella, eseguita a olio su muro nel 1610-11, dandogli, a lavoro compiuto, 300 fiorini.

Sulla formazione artistica di Martino, membro di una nota famiglia di pittori e di ebanisti, fra cui spiccò soprattutto lo scultore in legno Desiderio (1576- 1634), si hanno pochissime notizie. Sembra che abbia appreso i primi rudimenti dell’arte pittorica da Giacomo Bonfini, ritenuto suo zio, ma è più certo che poi abbia approfondito i suoi studi ad Ascoli Piceno, dove era operoso il fertile Nicola Filotesio,

detto Cola dell’Amatrice, di cui, a detta di quasi tutti gli studiosi, “fu tardo discepolo”.

C’è chi lo dice anche sensibile all’influsso di Vincenzo Pagani di Monterubbiano (1490-1568), attivissimo nel Piceno, ma i raccordi stilistici scoraggiano una simile ipotesi. Altri lo dicono alunno di Carlo Allegretti di Monteprandone, di Pietro Gaia, di origine veneta, di Simone De Magistris da Caldarola e, verso il 1610, del versatilissimo Andrea Lilli, anconetano.

Ma il Bonfini fu attento anche ad altri artisti, suoi contemporanei, attivi nel Piceno, con l’occhio fisso ora al Ridolfi, ora al Boscoli e ora al Pomarancio, capace di attingere un suo lin­guaggio pittorico nella inquieta

temperie manieristica del suo tempo.

L’attività del Bonfini è stata abbastanza intensa, intercalata anche con la sua occupazione di esperto ebanista. Da giovane dipinse per la Confraternita del SS. Sacramento del suo paese, della quale fu Priore; poi attese al ciclo dell’Ambro nel 1610-11, il più impegnativo; quindi, nel 1622, eseguì per il Comune di Ripatransone un dipinto raffigurante S. Isidoro e S. Filippo, per il quale ebbe il bel compenso di 50 fiorini. Si ignora l’anno della sua morte, anche se qualcuno cerca di fissarla al 1635, senza però un documento certo.

Il ciclo mariano dell’Ambro è senz’altro il capolavoro del Bonfini pittore. Egli, come l’architetto Venturi, guardò al Santuario di Loreto, perché si può agevolmente supporre che si sia ispirato, non solo al rivestimento marmoreo della Santa Casa, dove sono scolpite scene della vita della Madonna, tra statue di Sibille e di Profeti, ma anche e forse più ancora agli affreschi di Cristoforo Roncalli, detto il Pomarancio, eseguiti poco prima (1605-1610) nella Sala del Tesoro, raffiguranti anch’essi storie della Vergine tra Sibille e Profeti, con festoni, in stucco, opimi di frutta e fiori, affreschi che ebbero una immediata e vasta risonanza in tutte le Marche. A Loreto poté vedere anche gli affreschi, su tema mariano, di Federico Zuccari, eseguiti nella Cappella dei Duchi di Urbino tra il 1582-83.

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IL SANTUARIO DELLA MADONNA DELL’AMBRO. Studio di Fra’ Alfonso Schiaroli

ALL’AMBRO DI MONTEFORTINO L’ANTICHISSIMO SANTUARIO MARIANO

Studio di Fra’ Alfonso Schiaroli

Lo storico ascolano Mons. Giuseppe Fabiani ha definito il Santuario dell’Ambro:” Il più antico Santuario delle Marche”. La tradizione fa risalire le sue origini al Mille. “Nel mese di Maggio del Mille, la Vergine SS.ma, cinta di straordinario splendore, apparve all’umile pastorella Santina, muta fin dalla nascita. La fanciulla ottenne il dono della parola in premio delle preghiere ed offerte di fiori silvestri che ogni giorno faceva all’immagine della Madonna, posta nella cavità di un faggio”. Secondo questa tradizione, la Madonna avrebbe chiesto alla pastorella: “Dammi una pecorella”. Lei, come prime parole, avrebbe risposto: ”Vado a domandarlo al babbo”. Alla pastorella poi la celeste Madre avrebbe raccomandato di andare dai sacerdoti di Montefortino, esortandoli a costruire in quel luogo una chiesa.

L’apparizione della Madonna

L’apparizione mariana con da guarigione di Santina si intreccia con altre tradizioni. Una di esse narra che il Santuario sorse piccolo ad opera di una potente famiglia feudataria del luogo, quale ex-voto per una grazia ricevuta. Un’altra chiama in causa i monaci della vicina abbazia dei Santi Vincenzo e Anastasio, che avrebbero edificato la chiesetta di S. Maria in Amaro per comodità delle popolazioni della vallata … Sono forse tre momenti di una stessa tradizione.

Documento di grande interesse per il Santuario è una pergamena, un tempo esistente, ma letta e sunteggiata dallo storico fortinese Leopardo Leopardi, dove si parla di una cospicua donazione di terre, fatta nel 1073 in suo favore: 1042 modioli di terra (pari a 160 ettari) da parte dei signori di Castel Manardo. Il fatto ci suggerisce due considerazioni ben comprensibili: che il santuario doveva avere una certa notorietà e importanza e che doveva essere sorto qualche decennio prima per opera dei monaci farfensi, cioè proprio verso il Mille, come vuole la tradizione.

Il monaco Pietro rettore

Dopo un secolo dalla storica donazione, forse non effettuata, avvenne un altro episodio giuridico d’interesse locale storico. E’ detto che nell’anno 1185 i feudatari di Castel Vecchio, conti Bonifazi, col consenso del vesco­vo di Fermo, nominarono il monaco Pietro di S. Maria di Amaro, rettore di S. Maria in Staterano!

Tale concessione fu ratificata con nuovo atto il 10 ottobre 1195, dalle stesse persone. Vi si apprende che l’eremita Pietro doveva avere la sua residenza stabile all’Ambro, veniva beneficiato di alcune decime, ma si riservavano il diritto di un canone annuo “di due prosciutti” e l’ospitalità per tre giorni all’anno. Il duplice atto giuridico ci fa supporre con fondamento che il Santuario non era più una sperduta chiesa montana, ma assumeva la fisionomia di vero santuario con custode stabile.

I ladri pentiti

L a storia del Santuario riferisce che nel 1235 certi signorotti lo spogliarono dei suoi beni, ma poi si pentirono e restituirono tutto all’abate Giovanni dell’abbazia dei santi Vincenzo e Anastasio. Rettore e priore di quel tempo era un cappellano di nome Matteo, e ciò conferma che il Santuario godeva della presenza di una comunità di monaci alla dipendenza del sovrastante monastero. Detto monastero dei benedettini farfensi dei Santi Vincenzo e Anastasio si impegnò per lunghi anni a mantenere un rettore-priore al Santuario. Ne fa fede un documento del 1290 e 1299.

Il comune di Montefortino negli anni 1302 e 1318 comprò alcune terre di famiglie nobili di castel Manardo e di Castel Vetice e quindi si assicurò il giuspatronato sul santuario dell’Ambro, di cui i fortinesi si fecero custodi devoti e quasi gelosi fino ad ampliarne la chiesa e il romitorio.

Lo sviluppo del santuario

Così il piccolo Santuario ha registrato uno sviluppo lento, ma costante. Questo è dovuto all’immagine miracolosa della Madonna che vi era venerata. Secondo una memoria del secolo XVI, all’Ambro accorre­vano devoti “dall’intera Marca Fermana e dai limitrofi paesi dell’Umbria”. Nel 1562 i fortinesi presero l’importante decisione di sostituire la vecchia immagine della Madonna, forse consunta, con una statua policroma, raffigurante la Vergine seduta in trono col Bambino sulle ginocchia, come è ora venerata. Al suo arrivo ebbe un’accoglienza molto festosa.

Fin dai primi anni del secolo XVI fu ventilato il progetto di un nuovo e più vasto tempio per accogliere i pellegrini che arriva­vano sempre più numerosi. Il progetto non fu eseguito perché le offerte venivano rivolte ad altri scopi “non pii”.  Ci fu anche un periodo di quasi abbandono del Santuario nel 1439, per la partenza sia dall’abbazia che dal Santuario dei monaci benedettini, che erano stati assidui custodi fin dalle origini.

Nei 50 anni di permanenza dal 1521 al 1572 all’eremo di S. Leonardo e al vicino Palazzetto di Vetice dei Camaldolesi, fu assistito da loro.

Chi risanò la situazione di stasi fu il cardinal Felice Peretti, vescovo di Fermo e poi papa Sisto V. Egli visitò il santuario, constatando gli abusi, e nel 1775 emanò una Bolla con la quale disponeva il passaggio di questo Santuario al capitolo della cattedrale di Fermo con l’obbligo di curarne la decorosa ufficiatura per mezzo di un sacerdote cappellano stabile.

La premura degli arcivescovi di Fermo verso il Santuario, si espresse in vari modi. L’arcivescovo Zanettini in visita nel santuario, resosi conto della entità delle offerte, stabilì che fossero raccolte e ben custodite e si procedesse alla fabbrica del nuovo tempio. Si iniziò col costruire la parte absidale quale cappella della Madonna.

Terminata nel 1602, vi fu trasferitala venerata immagine dalla vecchia cappella che era situata quasi al centro della chiesa. Agli inizi del 1600 i fortinesi, per avere una bella nuova chiesa, si rivolsero al celebre architetto della S. Casa di Loreto, l’urbinate Ventura Venturi di Lattanzio e i lavori iniziarono nel 1603.

Superate molte difficoltà, nel 1610 era compiuta la parte principale che costò sei mila scudi. Negli anni 1610-11 il pittore Martino Bonfini decorò la cappella della Madonna. Il pittore ginesino Domenico Malpiedi curò invece la decorazione delle cappelle. L’afflusso dei pellegrini continuò con ritmo costante. Lo storico Colucci attesta che allo scadere del secolo custodivano il “ bel tempio della Beata Vergine dell’Ambro due eremiti “stanziati” nel Santuario.

Lo stesso autore definisce il luogo: “Asilo ove la Marca e l’Umbria non cessano di recare i loro voti alla divina Signora”

Nel secolo XIX il flusso dei devoti si intensificò. Il cappellano don Domenico Viceré, che vi fu rettore dal 1837 al 1897, nel 1875 scriveva al capitolo metropolitano di Fermo:” È un fatto che la devozione verso questa S. Immagine di Maria SS.ma dell’Ambro abbia aumentato tanto da formare la meraviglia comune, tanto che nei mesi primaverili è tanta la copia dei devoti che accorrono che bene spesso insufficiente se ne rende la chiesa”.

In una sbiadita foto degli ultimi anni del XIX secolo si vede la chiesa dell’Ambro, robusta nelle sue mura intonacate di bianco, con la porta e il sovrastante finestrone, quasi vigilata a dieci metri dal rustico romitorio, in attesa di migliori eventi.

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L’IMMAGINE DELLA MADONNA CON BAMBINO NEL SANTUARIO DELL’AMBRO A MONTEFORTINO DI FERMO – STUDIO DI GIUSEPPE SANTARELLI

L’IMMAGINE DFELLA MADONNA ALL’AMBRO –

Studio di Giuseppe Santarelli –

Fin dal 1503 i fortinesi avevano in animo di costruire una più ampia e decorosa Chiesa che, sarebbe stata realizzata solo oltre un secolo dopo. Nel 1562, però, essi presero una decisione importante: quella di sostituire la vecchia immagine della Madonna, forse consunta e disfatta, con una statua di terracotta policroma, raffigurante la Vergine seduta col Bambino sulle ginocchia, tuttora venerata.

La cerimonia del trasporto della statua fu solennissima. Vi intervennero i Priori di Montefortino, che invitarono per la circostanza i loro colleghi di Sarnano, ai quali offrirono una lauta colazione, costata ben 12 scudi. Vi furono anche i musici (“trombetti”), ai quali andarono solo 2 scudi.

La statua è alta m. 1,20 e pesa due quintali e mezzo. Precedentemente vi si venerava un’immagine di cui si è perduta la memoria, tanto che non è possibile appurare nemmeno se fosse dipinta su muro, su legno o, più improbabilmente, su tela. Escluderei quest’ultima ipotesi, giacché l’uso della tela si è affer­mato nelle nostre regioni solo nei secoli XV-XVI, mentre il dipinto in questione, data l’eccezionale antichità di questo Santuario, potrebbe essere stato realizzato nei secoli XIII-XIV, se non prima. Non si sa purtroppo da chi e a chi sia stata ordinata la statua, per cui è necessario procedere per congetture stilistiche, circa la sua prove­nienza e la sua epoca.

Anzitutto le contraddizioni si riferiscono alla materia, perché, mentre il Cicconi la dice “in terra cotta”, altri la considerano di “marmo” o di “pietra”. In verità, gli ultimi accertamenti conferma­no quanto scrive il Cicconi.

Le perplessità maggiori permangono sullorigine e sullo stile del gruppo scultoreo. Dovendosi scartare l’ipotesi del Cicconi, che pensa a “qualche artista di scuola romana” per una supposta ma improbabile analogia di questa statua con quella della «Madonna del Parto» nella chiesa romana di S. Agostino, dovuta a Jacopo Tatti, detto il S ansovino (1486- 1570), sono del parere che vada ripensata anche la valutazione stilistica di B. Molajoli e P. Rotondi, i quali assegnano genericamente la scultura all’ “arte marchigiana del secolo XV”, e lo ripetono in seguito gli altri.

Sarei, invece, dell’avviso di ascrivere la statua alla scuola feconda e splendida di Silvestro dell’Aquila, detto l’Ariscola (1504), autore del superbo mausoleo di S. Bernardino da Siena nella omonima basilica dell’Aquila, il quale ebbe valorosi discepoli, come il nipote Angelo Arischia e Saturnino Gatti.

Un rapido raffronto tra la Madonna col Bambino, anch’essa in terra cotta policroma, collocata nella terza cappella a destra della suddetta Basilica, opera dello stesso Silvestro o, secondo altri, del suo discepolo  S. Gatti, può confermarlo, non solo per le figure della Madonna, ambedue solenni e pensose, dal manto ugualmente infiorettato, ma anche e soprattutto per le immagini del Bambino, tutti e due in vivace atteggiamento, seduti sul ginocchio destro della Vergine, con analogo gestire delle piccole e tornite braccia e con la quasi identica posa delle gambine, liberamente abbandonate.

Lo stato di conservazione della statua dell’Ambro appare migliore, specie nei colori più scintillanti, anche perché quella aquilana ha sofferto danni durante un terremoto del 1703.

Per tali considerazioni, sarei propenso ad assegnare il piccolo capolavoro del Santuario dell’Ambro alla scuola abruzzese  dell’ultimo scorcio del secolo XV o dei primissimi anni del secolo XVI, così sensibile ai canoni rinascimentali e anche così attenta alla sua mirabile tradizione statuaria, facendo uno specifico rife­rimento all’area culturale Silvestro dell’Aquila.

Non si dimentichi che il Santuario dell’Ambro è in una Provincia limitrofa con la Regione Abruzzese.

Fino a poco dopo il 1910 la statua era ricoperta da una veste di seta con filetti d’oro e da un ampio manto, come appare da vecchie fotografie. L’ultima veste fu donata nel 1872 dai fratelli Filippo e Antonio Serafini, i quali offrirono anche una vetrina di pregevoli cristalli, posta dinanzi al simulacro. Poi fu lo stesso Antonio Serafini, con felice intuito, d’intesa con l’autorità competente, a proporre che la statua venisse liberata dalla veste e fosse restituita allo splendore della sua vivida policromia. L’attuale cristallo della vetrina è dono di O. Granalli (1951).

Il baldacchino, in legno intagliato e indorato, entro cui è col­locata la statua, è fatto risalire al tempo della decorazione della Cappella (1610-11) e dal Cicconi viene attribuito a un anonimo artista romano.

Sarei, invece, dell’opinione di assegnare questo ornato ligneo allo stesso Martino Bonfini, il quale, oltre che pittore, fu anche abile intagliatore, come attestano due suoi altari in legno, scolpiti e indorati, l’uno per la Chiesa di S. Agostino (1607) e l’altro per la Chiesa di S. Cristoforo di Ascoli Piceno.

 

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Miola Gabriele biblista presenta i SALMI preghiera dell’Alleanza divina

MIOLA Gabriele,    I SALMI

<Nel trascrivere la traduzione del salmi è del 2007: Iahvé = il Signore>

Tra tutti i libri dell’AT. il salterio è quello che la Chiesa mette più di frequente nelle mani dei fedeli. Da sempre infatti, e specialmente dopo la riforma liturgica del concilio Vaticano II, la preghiera ufficiale della Chiesa è ricchissima di preghiere salmodiche.

In questa introduzione alla comprensione dei salmi, toccheremo i seguenti punti: nome, divisione, genere letterario dei salmi. Approfondiremo poi l’origine, il contenuto e il genere dei seguenti gruppi di salmi: gli inni di lode; canti di supplica e di ringraziamento, individuali e collettivi; salmi regali; salmi di Sion e processionali; infine salmi storici e sapienziali. Concluderemo questa trattazione con una breve riflessione sui salmi come preghiera del popolo dell’antica e della nuova alleanza, da « leggere » ormai in Cristo e nella sua Chiesa.

  1. Nome, divisione, genere letterario

L’insieme dei salmi viene indicato nella bibbia ebraica con il nome di sefer tehillim (libro delle lodi o inni), oppure semplicemente con tehillim (lodi, inni, canti). In greco il nome è biblos psalmòn (Lc. 20,42; Atti 1,20) o semplicemente psalmói (Lc. 24,44), da cui il latino e l’italiano libro dei salmi o salmi. Per sé, tanto il nome ebraico come quello greco non rispondono al contenuto del libro, perché le composizioni di cui consta il salterio non sono tutte canti di lode e inni, ma vi sono anche, anzi sono la maggioranza, suppliche e lamentazioni, salmi regali, storici, sapienziali, ecc.

All’interno del salterio — che comprende 150 salmi — si trovano gruppi minori, e questo ci fa capire che l’intero salterio è il risultato di un insieme di collezioni che erano prima indipendenti e che più tardi sono state raccolte insieme. Oggi però è impossibile poter stabilire un criterio con cui determinare come questi canti e preghiere sono stati riuniti insieme.

Salta all’occhio anzitutto una divisione che forma all’interno del salterio cinque gruppi (Sal. 1-41; 42-72; 73-89; 90-106; 107-150), scanditi da un ritornello o meglio da una dossologia, che suona, di poco variata, così:

Sia benedetto il Signore, Dio d’Israele,

da sempre e per sempre. Amen, amen.

(41,14; cf. 71,19;89,52; 106,48; 150,6).

Di questa divisione non si riesce a trovare un motivo né nel contenuto, né nella forma, né nell’autore. Forse è una divisione puramente formale; si è voluto cioè dividere il salterio in cinque libri sul modello della Torah, senza con questo voler porre un rapporto di contenuto o altro con i libri del Pentateuco…,

E’ più facile, invece, rintracciare nell’insieme dei salmi collezioni minori preesistenti, che accostano insieme salmi vicini per contenuto, forma, autore, oppure collezioni liturgiche.

Un lettore attento si accorge presto di una particolarità, dovuta all’uso che si fa nei salmi del nome proprio di Dio, Iahvé, e del nome comune Elohim o El. Nel primo libro (Sal. 3-41) c’è preponderanza del nome Iahvé; nel secondo e parte del terzo (Sal. 42—83) prevale invece nettamente il nome Elohim; nel resto del salterio (84-150), si fa uso quasi esclusivamente del tetragramma sacro IHVH, cioè Iahvéh.

Si è pensato così a due raccoglitori o a due redattori: uno iahvista, che avrebbe raccolto i salmi 2-41.84-150, ed uno elohista, che avrebbe messo insieme la collezione 42-83.

All’interno poi di queste due grandi divisioni troviamo raccolte minori, i In quella elohista troviamo gruppi di salmi che hanno lo stesso autore: il gruppo 42-49 è dei «figli di Qorah »; il 51-71 (eccetto il 66) è di David; il  73-83 è di Asaf. Il che fa supporre che il raccoglitore elohista abbia usato un materiale precedentemente messo insieme.

Un’altra raccolta, che unisce salmi di David, doveva essere indipendente e inaccessibile al raccoglitore elohista: si tratta dei salmi 3-41, quasi tutti  attribuiti a David (eccetto il 33).

Gruppi minori si ritrovano anche nella restante parte iahvista del salterio (84-150): salmi sparsi di David e dei figli di Qorah; il gruppo 93-99, che canta Iahvé come re e giudice; i salmi alleluiatici (104-106; 111-117; 135; 146-150), così chiamati perché in essi ricorre il ritornello « allelu-Ia », cioè « lodate Iahvé »; i cosiddetti « salmi graduali » (120-134), ad uso liturgico, cantati nei pellegrinaggi quando si saliva sui gradini che portavano al tempio e alla città di David.

Un cenno, infine, al genere letterario dei salmi. Individuare il genere letterario di un salmo, coglierne la matrice e la corrente d’origine significa non solo comprendere il salmo in se stesso, ma vederlo in tutta la linea interpretativa, perché spesso è avvenuto che un salmo è stato usato in luoghi e circostanze diverse, in cui è stato sottoposto a riletture, subendo anche dei cambiamenti e degli adattamenti testuali. Questo lavoro è avvenuto specialmente a causa dell’uso che si è fatto dei salmi nel culto. Alcuni salmi sorti come canti e preghiere individuali sono stati poi usati nelle liturgie del tempo: tipico è il caso del salmo 51, sorto come preghiera di un individuo (forse David) che effonde dinanzi a Dio il suo animo pentito, diventa poi preghiera per la liturgia penitenziale collettiva che si svolge nel tempio (cf. vv. 20-21). Così pure alcuni salmi, che inizialmente dovettero essere poemetti e canti in onore del re, composti in occasioni diverse, come per il giorno o l’anniversario dell’intronizzazione o delle nozze, furono interpretati in senso messianico’ e forse subirono riadattamenti e rimaneggiamenti (cf. Sal. 2; 20; 21; 54; ecc.).

Questo del culto è un aspetto molto importante per la comprensione dei salmi. Nel tempio si svolgevano feste e liturgie, che comportavano riti e canti. Alcuni elementi rituali traspaiono anche tra le righe di diversi salmi, come quando si sente l’invito ad inchinarsi, a battere le mani, a procedere per entrare nella casa del Signore, a partecipare al banchetto sacro.

Il culto, inoltre, tende a diventare spesso stabile e fisso nel suo svolgimento. Esso dà quindi un quadro, uno schema entro il quale poi sorgono non solo i gesti rituali, ma anche le espressioni, le preghiere, i canti. Possiamo dire anche che la liturgia crea di per sé il genere letterario. Altro infatti è una liturgia che celebri le opere di Iahvé, come la liturgia pasquale, altro è una liturgia di ringraziamento o una liturgia penitenziale. E proprio perché vuol4 esprimere nel rito l’invisibile, la liturgia si ripete e diventa ricorrente; e questo anche perché ricorrenti sono le situazioni dell’uomo: gioia e lode, gratitudine e ringraziamento, sofferenza e supplica, dolore e penitenza. E allora accadeva che canti o raccolte di canti venivano utilizzati nelle diverse feste e liturgie per gruppi diversi di fedeli (cf. Sal. 106).

Esamineremo nei paragrafi seguenti i singoli generi letterari dei salmi.

  1. I salmi di lode

I salmi di lode sono inni in onore di Iahvé: si celebra l’amore di Dio che salva il suo popolo, la sua grandezza, poiché egli si eleva al di sopra di tutto ed è il Signore di tutto (Sal. 8; 19; 29; 33; 47; 65; 66; 93; 96-99; 100; 104-105; 111; 113; 114; 117; 135; 145-150).

La struttura letteraria di questi salmi è molto semplice: consta di una introduzione, di una parte centrale e di una conclusione.

  1. a) Introduzione: è l’invito a lodare Iahvé, espresso in diverse forme: con un

imperativo rivolto a tutti i presenti o a un gruppo particolare (sacerdoti, leviti, fedeli), o una forma plurale iussiva (« lodino lahvé tutti i suoi servi ») ; spesso l’autore del salmo o chi dirige l’azione liturgica si include tra gli altri, usando una forma esortativa: « lodiamo lahvé, nostro Dio », « loda anima mia, il Signore ». Non di rado, anche gli elementi creati sono invitati a lodare il Signore. Da parte sua, l’uomo esprime la lode con la sua voce, ma anche con strumenti musicali — la cetra, la tromba, il corno — che esprimono più plasticamente i sentimenti del suo cuore. All’invito alla lode, espresso in azione liturgica, rispondeva l’acclamazione del popolo, che si prostrava gridando: « Alleluia! », «lodate lahvé! » (Sal. 33; 113).

Sal. 33, 1-3: Esultate, o giusti, nel Signore; – per gli uomini retti è bella la lode. – Lodate il Signore con la cetra, – con l’arpa a dieci corde a lui cantate. – Cantate al Signore un canto nuovo…

Sal.  113, 1: Alleluia! – Lodate, o servi del Signore; – lodate il nome del Signore.

  1. b) La parte centrale del salmo. Dopo l’invito a lodare Dio, vengono dati i motivi di questa lode, introdotti con una particella esplicativa o causale: lodate il Signore “perché è buono, perché eterna è la sua bontà “ (Sal. 136). Al centro c’è sempre il nome di lahvé, di cui vengono ricordati la gloria e la potenza, l’amore e la giustizia, le grandi opere compiute nel suo popolo e nella natura: la memoria di tali opere è introdotta da un participio attributivo o da una proposizione relativa, che specifica l’azione di Dio; così, per es., nel Sal. 136, che enumera le azioni di Dio nella natura e nella storia a favore di Israele.

Sal. 136, 3-7.10-16: rendete grazie al Signore dei signori, – perché il suo amore è per sempre, – lui solo ha compiuto grandi meraviglie, – … creato i cieli con sapienza, – … ha steso la terra sulle acque, – …  ha fatto le grandi luci, – … ha percosso l’gitto nei suoi primogeniti, – … da quella terra fece uscire Israele, – … divise il mar Rosso in due parti, – …   guidò il suo popolo nel deserto.

  1. c) La conclusione. Il salmo generalmente termina ripetendo l’invito alla lode e si ha così una specie di inclusione; ma il salmo può terminare anche con una preghiera (« la tua grazia sia sopra di noi »), o concludersi « ex abrupto » con i soli motivi di lode.

Esaminiamo ora il contenuto/teologico di questi inni o salmi di lode. Essi ci rivelano l’atteggiamento fondamentale dell’israelita dinanzi a Dio: il pio e tutto il popolo cantano a lahvé la lode per tutto quello che ha fatto. Questo atteggiamento sorge spontaneo in Israele, per l’esperienza che ha avuto di Dio nella propria storia. Grazie alla parola di lahvé, Israele ha potuto intendere il senso di questa storia, il significato dei suoi avvenimenti.

Quel che domina prima di tutto è il concetto di salvezza: questo popolo che si raduna in assemblea, lo fa per proclamare la salvezza operata dal suo Dio. E allora le tappe salienti di questa storia salvifica vengono richiamate alla memoria e si celebra Dio: i patriarchi, Mosè e la salvezza dalla schiavitù, Giosuè e la terra dei padri, David, Gerusalemme e il tempio. Questa storia continuamente richiamata e meditata ha fatto scoprire ad Israele la fedeltà di Dio alle promesse, nonostante l’infedeltà del popolo, e ha messo in luce la sua trascendenza su tutte le cose, lahvé è anzitutto il creatore del suo popolo, e tutto il quadro della creazione cosmica non è che lo sfondo su cui Dio costruisce il popolo eletto e guida tutti i popoli.

Ecco perché l’atteggiamento fondamentale è quello della lode: Israele ha ricevuto tutto da Dio gratuitamente. Si loda Dio per i suoi interventi salvifici nella storia e per le sue opere grandiose nella natura, che è strumento di Dio per la salvezza del suo popolo. E5 dalla storia che Israele arriva a Dio, e attraverso essa si apre a una contemplazione della natura quale opera di Dio e sfondo della propria liberazione (cf. Sai. 104; 136).

3 . I salmi di supplica e di ringraziamento

A questo genere letterario appartiene la maggior parte dei salmi: i primi sono preghiere di impetrazione rivolte al Signore, spesso nel tempio, individualmente o collettivamente, nelle liturgie e nelle feste; i secondi sono canti con cui i singoli e Israele esprimono la propria gratitudine a Dio per i benefici ricevuti. I due aspetti quindi, quello della domanda e quello della gratitudine, vanno ben distinti; ma spesso in questi salmi i due motivi sono intrecciati e confusi. Consideriamo in primo luogo la struttura di queste composizioni.

  1. a) In una prima parte, che funge come da introduzione alla supplica o al ringraziamento, troviamo l’invocazione del nome di Iahvé per impetrare aiuto o per ringraziarlo del suo intervento. In Iahvé è riposta tutta la fede, la forza e la speranza del pio fedele e di tutto Israele: « noi siamo forti nel nome di Iahvé » (cf. 43, 6.9; 54, 3; ecc.).

Differenti sono i modi con cui ci si rivolge a Dio (Sal. 17; 51,3-4). A volte il fedele parla a Dio sollecitandolo arditamente e pone interrogativi chiedendo una risposta di aiuto efficace e immediato (Sal. 7; 13; 35, 23). Chi poi ha già ricevuto aiuto, chi è stato liberato dal male, loda e ringrazia il Signore e invita gli altri a unirsi al suo ringraziamento (Sal. 34, 9; 40, 4; 71,22; 92; 103).

Sal. 17, 1.6.8: Ascolta, Signore la mia giusta causa, – sii attento al mio grido, – porgi orecchi  l’orecchio alla preghiera… – Io ti invoco… – tendi a me l’orecchio e ascolta le mie parole. – Custodiscimi come la pupilla degli occhi; –  all’ombra delle tue ali nascondimi.

Sal. 7, 7: Sorgi, Signore, nella tua ira; – alzati contro la furia dei miei avversari … emetti un giudizio.

Sal. 13, 2-3: Fino a- quando, Signore, continuerai a dimenticarmi?  – …Fino a quando nell’anima mia addenserò pensieri?

Sal. 92, 2-5: E’ bello rendere grazie al Signore …, – annunciare al mattino il tuo amore …, – perché mi dai gioia, Signore, con le tue meraviglie …

Sal. 103, 2: Benedici il Signore, anima mia; – non dimenticare tutti i suoi benefici.

  1. b) La parte centrale di questi salmi mette in evidenza i motivi della supplica o del rendimento di grazie. Vi troviamo spesso narrato il caso triste da cui il fedele chiede di essere liberato o per cui è venuto a ringraziare dopo essere stato salvato. A volte si tratta di motivazioni generali; i casi particolari più ricorrenti, invece, sono: pericolo di morte, malattia, falsa accusa, oppressione e violenza dei potenti.

A volte colui che è stato colpito dal male considera ciò come una giusta punizione di Dio, riconosce la propria miseria alla luce della santità divina e supplica Iahvé di non guardare i suoi peccati; ma di liberarlo. Altre volte vede il male come non meritato; allora interroga il Signore e prega di essere liberato: Iahvé mostri la sua potenza e la sua fedeltà (Sal. 30,7-9; 41).

41, 12-13: Da questo saprò che tu mi vuoi bene; – se non trionfa su di me il mio nemico. –  Per la mia integrità tu mi sostieni; – e mi fai stare alla tua presenza   per sempre.

  1. c) Nell’ultima parte di questi salmi, i motivi sono pressoché identici. In quelli di impetrazione, il fedele toma a pregare per essere esaudito, promette di seguire la legge del Signore, di ringraziare per sempre, di fare conoscere le opere del Signore in modo che altri si convertano e si uniscano alla lode, in quelli di ringraziamento, il salmista invita i presenti e spesso anche i lontani a conoscere le opere di lahvé e a esaltarlo; altre volte tutta la creazione è invitata in questo slancio di ringraziamento e di lode (Sal. 13; 56; 57,9-10).

Sal. 13, 6:  Ma io nella tua fedeltà ho confidato. – Esulterà il mio cuore nella tua salvezza. – Canterò al Signore, che mi ha beneficato.

Sal. 56, 13-14: Menterrò, o Dio, i voti che ti ho fatto; – ti renderò azioni di grazie, – perché hai liberato la mia vita dalla morte, – … per camminare dinanzi a Dio, – nella luce dei viventi.

Quanto all’ambiente e al contenuto teologico di questi salmi, facciamo alcune brevi considerazioni.

L’ambiente in cui i salmi sono sorti è generalmente quello del tempio. Ciò è vero particolarmente per i salmi di impetrazione e di ringraziamento: è nel tempio che si viene a ringraziare Dio per l’aiuto che ha portato, nel tempio si va a supplicare lahvé perché soccorra; tanto è vero che alcuni salmi appaiono senz’altro come liturgie di ringraziamento, di supplica o penitenziali (si esaminino, ad es., i Sal. 22; 118).

Leggendo questo genere di salmi, quel che più colpisce è la fiducia e l’abbandono, la fede con cui ci si rivolge a lahvé. Di Dio il pio fedele conosce il nome, la fedeltà e la misericordia, che egli ha manifestato in tutte le sue opere. Gli avvenimenti passati sono per l’israelita la piatta¬forma della fede: egli sa che Dio lo ascolterà come ha ascoltato il grido del suo popolo. Con piena confidenza ardisce ricordargli quel che ha compiuto altre volte e quasi ammonirlo perché non si smentisca, non metta a repentaglio la gloria che si è acquistata. La fede proietta l’uomo in Dio e genera la speranza: questa tensione tra domanda e certezza dell’esaudimento, tra fede e speranza, è peculiare della storia e della spiritualità di Israele e la ritroviamo continuamente nella preghiera dei salmi.

Con ciò è connesso un altro aspetto caratteristico di questo genere di salmi: il fedele promette di narrare le opere di lahvé nell’assemblea, perché tutti conoscano le meraviglie che egli opera. Questo fatto è considerato più importante degli stessi sacrifici di ringraziamento, perché esso, più dei riti, rende gloria a Dio, fonda e rafforza la fede e la speranza della comunità. Il fedele si sente unito a tutto il popolo, e sa che il suo rapporto con Dio non prescinde da quello della comunità, perché in essa si è nutrito di fede ed ha conosciuto lahvé: perciò in essa trasmette la sua fede e la sua speranza.

Ricordiamo qui, infine, che anche la comunità ha bisogno di chiedere e di ringraziare: alcuni salmi sono suppliche e azioni di grazie di carattere pubblico, salmi che riguardano tutto il popolo e assumono quindi un significato nazionale. Gli elementi e il quadro di questi salmi sono dati da calamità nazionali, disfatte militari, turbamenti civili; i nemici sono o popoli pagani, gli eserciti avversari e gli stessi israeliti infedeli a lahvé. La preghiera si fa più pressante, mentre il salmista ricorda i grandi interventi di Dio in favore del suo popolo. L’ambiente è quello del tempio, dove il popolo si è riunito per una liturgia penitenziale: l’intervento del

sacerdote o del profeta, che in forma oracolare promette l’aiuto e la protezione di Dio, crea quell’atmosfera sacra in cui il popolo sperimenta di nuovo la presenza protettrice di Dio che salva (cf. Sal. 60; 74; 79; 80; 83; 85; 90; 137; ecc.).

Sal. 83, 2-4.18-19: Dio, non startene muto; – non restare in silenzio e inerte, o Dio. – Vedi: i tuoi nemici sono in tumulto – e quelli che ti odiano alzano la testa. – Contro il tuo popolo tramano congiure, – e cospirano contro i tuoi protetti … – Siano svergognati e tremanti per sempre; – siano confusi e distrutti. – Sappiano che il tuo nome è ” Signore”, – tu solo l’Altissimo su tutta la terra.

4, I salmi regali

I salmi regali formano un piccolo gruppo all’interno del salterio (Sal. 2; 20; 21; 45; 72; 89; 101; 110; 132; 144, 1-11). Sebbene gli elementi formali siano differenti da un salmo all’altro, li unisce tuttavia il contenuto comune, poiché tutti hanno per oggetto il re; oracoli, messaggi profetici, preghiere, promesse divine per il presente e il futuro sono elementi ricorrenti in questi salmi.

Gli elementi molteplici che rientrano in questi salmi sono unificati dal tema fondamentale che è il re, non tanto nella sua persona, ma per quello che rappresenta. La figura del re viene idealizzata e proiettata verso il futuro, verso un tipo ideale che si incarna nel discendente di David. Un elemento importante è quello oracolare. Nel giorno della intronizzazione o in altra occasione (elezione, nozze, impresa militare…), il poeta canta al re il suo poema: riprende i motivi di Natan (2 Sam 7) e traspone sul re davidico caratteristiche della monarchia gebusea, che regnava su Gerusalemme prima di David. Sono chiari questi motivi, per es., nei Sal. 2 e HO (cf. 132, 11-18).

Sal. 2, 6-8: « Io solo ho stabilito il mio sovrano – sul Sion, mio santa montagna »- … «Tu sei mio figlio; – io oggi ti ho generato!  Chiedimi e ti darò  in eredità le genti, – e in tuo dominio le terre più lontane ».

Sal. 110, 1.4: Oracolo del Signore al mio Signore: – «Siedi alla mia destra … – Tu sei sacerdote per sempre, – al modo di Melchìsedek! ».

Gli oracoli esprimono una fede ed hanno un senso augurale; la fede nella promessa di Iahvé e nella s£a fedeltà, l’augurio che la promessa trovi compimento perfetto,

Questo tono augurale, espresso in una preghiera o in un indirizzo di omaggio o in una occasione festiva, lo troviamo particolarmente in altri salmi di intonazione regale: « egli (Iahvé) ti mandi il suo aiuto » (20, 3), «ti sia vicino secondo il tuo cuore» (20,5). Altre volte è il re stesso che prega Iahvé, che donò la vittoria a David suo servo (Sal. 144), o il salmista esprime in modo più affermativo e aderente alle promesse la fiducia del sovrano (Sal. 21).  Nel Sal. 101 — una specie di discorso della corona — il re enuncia il suo programma di fedeltà a Iahvé e alla sua legge. Il Sal. 45, invece, è un epitalamio per il giorno delle nozze del re, e lo si può considerare un canto augurale.

Sal. 144, 7: Stendi dall’alto la tua mano, – scampami e liberami dalle grandi acque, – dalla mano degli stranieri. Cf. v. 10.

Sal. 21, 8: Perché il re confida nel Signore: – per la fedeltà dell’Altissimo non sarà mai scosso.

Sal. 101, 2.6: … Camminerò con cuore innocente, – dentro la mia casa … – I miei occhi sono rivolti ai fedeli del paese, – perché restino accanto a me…

La preghiera, l’augurio per il re, la fedeltà al patto davidico sono tutti elementi che si fondono in una visione escatologica. La discrepanza tra il discendente davidico e il suo regno nella realtà e il discendente e il regno promessi secondo il patto era troppo forte. La speranza messianica alimentata dai profeti si proietta verso il futuro. Il Sai. 72 può essere definito la descrizione del futuro re messianico.

Sal. 72, 2.4.7: Egli giudichi il tuo popolo secondo giustizia, – i tuoi miseri secondo il diritto. – Ai poveri del popolo renda giustizia, – salvi i figli del misero – e abbatta l’oppressore. – … e abbondi la pace…

Dinanzi ad una realtà profondamente diversa, come quella che si profilò alla caduta di Gerusalemme e della casa davidica, il fedele è scosso da grossi interrogativi. In questa prospettiva bisogna leggere il Sai. 89, che dopo aver. richiamato le promesse di Dio (vv. 20-38), continua chiedendosi: « ma tu ora hai rigettato e ripudiato il tuo unto…, hai rovesciato a terra il suo trono… Dove sono le promesse del tuo amore, Signore? » (vv. 39.45.50). E’ la prova della fede, che però rimane salda, poiché l’onnipotenza e la fedeltà di lahvé non vengono meno: « amore e fedeltà camminano davanti al trono di Dio» (89,15).

  1. I salmi processionali

I salmi di Sion formano un piccolo gruppo (Sal. 48; 76; 84; 87; 122; 137); celebrano Gerusalemme, la città santa, la sede e la dimora dell’Altissimo.

L’ambiente in cui sorgono questi salmi è quello in cui si è sviluppata una teologia su Gerusalemme, città del re, città del tempio, dimora di Dio, centro di raccolta e di unità di tutti i popoli. Queste idee si sono sviluppate sulla base dell’alleanza davidica; poi sono state riprese e inserite nella visione nuova, che i profeti presentavano dell’alleanza sinaitica e davidica, del rapporto di lahvé gol suo popolo, della sua presenza nel tempio, in Gerusalemme, nella discendenza davidica. E come l’alleanza viene proiettata in una visione futura di rinnovamento, così anche Gerusalemme viene vista in una luce nuova. Il punto di partenza di questi salmi è quindi quello della glorificazione di Sion.

Ambiente e circostanze. esterne che li hanno causati sono le feste e le liturgie, che avevano come centro il tempio e la corte, i pellegrinaggi che il popolo faceva una o più “Volte all’anno, mura e costruzioni che difendevano e ornavano la città, e soprattutto la volontà di vedere Gerusalemme rinnovata nella fedeltà e nel culto.

I motivi che troviamo in questo piccolo gruppo di salmi sono vari. In primo luogo vi è la lode per Gerusalemme, città bella, tutta splendente e ben difesa: « dall’aspetto di grande città, con le sue costruzioni aderenti le une alle altre » (Sal. 122, 3); « nei suoi torrioni Dio si rivela una fortezza » (48, 4). « Percorrete Sion — invita il salmista — giratele attorno, contatene le torri! » (48, 13). E i fedeli pensano con nostalgia agli atri e ai cortili del tempio della città (84, 4.5.11).

Questi motivi però sono un fatto esteriore; conta molto di più la fede che Gerusalemme risveglia. Sion è anzitutto la sede di Dio, alla cui presenza salgono le tribù d’Israele (Sal. 122); egli l’ha scelta come sua dimora (Sal. 76; 132), come sua città e suo monte (Sal. 48). lahvé vi domina dal suo tempio e là si rivela a Israele, e i fedeli vi accorrono per contemplare il volto di Dio.

Sal. 122, 4: [Gerusalemme] dove salgono le tribù, – le tribù del Signore – secondo la legge del Signore d’Israele – per lodare il nome del Signore.

Sal. 76, 3: E’ in Salem la sua tenda, – in Sion la sua dimora.

Sal. 132, 13-14: Sì, il Signore ha scelto Sion, – l’ha voluta per sua residenza, –

« Questo sarà il luogo del mio riposo per sempre; – qui risiederò,  perché l’ho voluto! ».

Sal. 48, 2-3: Grande è il Signore e degno di ogni lode – nella città del nostro Dio.- la sua montagna, altura stupenda – è la gioia di tutta la terra. – Il monte Sion, vera dimora divina  – è la capitale del grande re!

Poiché Dio è presente a Gerusalemme, essa è forte e sicura: Iahvé mette a tacere tutte le forze nemiche (cf. 46; 48; 76); egli è suo presidio e baluardo. I profeti, soprattutto Geremia ed Ezechiele, purificheranno questa mentalità, perché esigeranno anzitutto la fede e la coerenza col patto stretto con Dio. E’ inutile appellarsi al tempio e alla città santa, se poi si tradisce l’alleanza. Essi però non negano questa visione della città; anzi, proiettandola nel futuro, quando il popolo e Gerusalemme saranno purificati, l’innalzano e l’ingrandiscono: allora città e tempio saranno il segno di una presenza di Dio più vera, la presenza in mezzo al suo popolo purificato.

Alla luce della predicazione profetica e particolarmente del Deuteroisaia va considerato il Sal. 87, che celebra, in una prospettiva universalistica, il destino di Gerusalemme: la città santa è il centro della salvezza, la patria di tutti, la madre dei popoli; bisogna essere figli di Gerusalemme e là registrati, per poter partecipare alla salvezza che viene da Dio.

Accanto ai salmi di Sion possiamo ricordare i salmi processionali. Un gruppo di salmi (120-134) porta l’iscrizione « sir hamma ‘aldi », che sembra significare « canti delle gradinate » del tempio (come intese s. Girolamo) o « canti di pellegrinaggio ». Si tratterebbe comunque di inni processionali che si cantavano al termine dei pellegrinaggi, quando si salivano le scalinate che portavano dalla valle del Cedron al tempio e a Gerusalemme (cf. Neem. 3, 15; 12, 37). Da notare però che tali salmi, eccetto il 122 e il 132, non accennano affatto a pellegrinaggi e processioni. Forse formavano Ana raccolta usata in queste circostanze, ma senza un tema specifico.

I pellegrinaggi e le feste al tempio e a Gerusalemme (pasqua, Pentecoste, tabernacoli) sono momenti tipici della spiritualità dell’israelita. Già nel periodo tardivo della monarchia, una volta accentrato il culto in Sion, la salita alla città santa era diventato un fatto importante e significativo.

Il ritrovarsi insieme rappresentava un motivo di grande gioia e fede.

L’occhio dell’israelita è rivolto a Gerusalemme e il suo cuore è nel tempio. Con commozione egli sente l’annuncio del pellegrinaggio e decide di partire per la città santa (Sal. 122). Nel tempio egli desidera fermarsi ed abitare, porvi il nido come le rondini e i passeri (Sal. 84). Prima di entrare nel tempio bisogna purificarsi e i pellegrini partecipavano a delle liturgie di purificazione all’ingresso del tempio. Il Sai. 15 può essere considerato una liturgia d’ingresso, in cui alla domanda dei fedeli (v. 1) rispondono i leviti e i sacerdoti (vv. 2-5). I fedeli infine, sentendosi vicini a Iahvé, e purificati, possono affermare: « Tale è la generazione di quanti lo ricercano, di quanti anelano il tuo volto, Dio di Giacobbe » (Sal. 24, 6; cf. 95,6-11).

Sal. 122, 1: Quale gioia quando mi dissero: – «Andremo alla casa del Signore ». –  Giasà i nostri piedi sono fermi – alle tue porte, Gerusalemme!

Sal. 84, 2.4-5: Quanto sono amabili le tue dimore, – Signore degli eserciti. – Anche il passero trova una casa – e la rondine il nido, – dove porre i suoi piccoli   – presso i tuoi altari,  Signore degli eserciti, – mio re e mio Dio. – Beato chi abita nella tua casa; – senza fine canta le tue lodi.

Sal.  15, 1-3:   Signore, chi abiterà nella tua tenda? – Chi dimorerà sulla tua   santa montagna? – Colui che cammina senza colpa, pratica la giustizia – e dice la verità che ha nel cuore, – non sparge calunnie con la sua lingua, – non lancia inulti al suo vicino.

Le feste erano anche occasioni propizie per istruire il popolo (cf. Dt. 31, 10-13); erano anche l’occasione in cui i profeti portavano’ il loro messaggio e richiamavano alla osservanza del patto (cf, Amos, Geremia); essi, inoltre, annunciando i tempi messianici, vedevano salire a Gerusalemme turbe non solo di Israele, ma di tutte le nazioni (cf. Ger. 31, 6; Is. 60; ecc.), per venire a inebriarsi alla luce del vero Dio.

Al momento di partire, il pellegrino si accomiatava dal tempio, dalla città, dai sacerdoti, i quali invocavano su di lui la benedizione di Iahvé (Sal. 134).

Sal. 134, 3:  Il Signore ti benedica da Sion- egli ha fatto  cielo e  terra.

  1. I salmi sapienziali

Sotto questo nome generico raccogliamo diversi tipi di salmi, che non possono essere ridotti ad un unico genere letterario né per gli aspetti formali né per contenuto, ma che pur hanno una linea comune che li lega. Questo filo unitario può essere individuato nella « riflessione sapienziale »: sono salmi che affrontano problemi diversi come la legge, la storia d’Israele, il vero culto, il problema del dolore, della retribuzione, del giusto sofferente.

In alcuni salmi, che possiamo chiamare « storici » perché vi è ampiamente richiamata la storia di Israele, sono evidenti l’impostazione o i richiami sapienziali. Talvolta il salmo si presenta come un « insegnamento », che proferisce « sentenze » e « enigmi antichi » (Sal. 78; 106): si richiama tutta la storia, dai padri fino a David, mettendo in contrapposizione la generosità di Dio verso il suo popolo e l’ingratitudine di questi. Altre volte il salmo, pur presentando gli stessi elementi storici, ha una impostazione innica in cui si proclamavano le opere di Dio (Sal. 105), oppure si sviluppa in una cornice chiaramente liturgica, in cui il discorso storico è riportato direttamente da Dio come ammonizione (Sal. 81). Questi salmi erano una fonte di meditazione e di richiamo alla fede. Anche il Sal. 50 può essere interpretato in chiave sapienziale pur essendo, per linguaggio e per tema di derivazione profetica. Viene affrontato il problema del culto, tante volte trattato dai profeti.

Due salmi riguardano direttamente la legge: il 19 e il 119. Il primo mette insieme due temi, che possono essere considerati strettamente uniti: la legge di Dio che si manifesta nel cosmo, e la legge di Dio come norma di vita data al suo popolo. Potrebbero sembrare due temi lontani tra loro; sono invece vicini nella riflessione sapienziale: la stessa sapienza divina che presiede alle opere della creazione ha trovato dimora in Israele portando come dono la legge (Sal. 19).

Sal. 19, 2-3.8-9: I cieli narrano la gloria di Dio, –  l’opera delle sue mani annuncia ill firmamento. – Il giorno al giorno ne affida il messaggio, – e la notte alla notte ne trasmette notizia … – La legge del Signore è perfetta, – rinfranca l’anima. – La testimonianza del Signore è stabile; – rende saggio il semplice. – I precetti del Signore sono retti; – fanno gioire il cuore …

Se in alcuni salmi c’è quasi una contemplazione distaccata, in altri invece si sente che il problema è vissuto di persona. Questi salmi hanno sempre due parti: nella prima si descrive l’orgoglio e le oppressioni degli empi (10,2.4; 12,3; 14,3; 53,4; 94,6-7); nella seconda si chiede l’intervento di Dio (10, 15; 12, 6), oppure l’autore ironizza sulla presunta sicurezza dell’empio (94, 8-9). In questi salmi l’autore appare turbato per un momento, ma poi riafferma la propria fede. Insieme a lui fanno coro gli umili e i poveri — i poveri di lahvé — che non trovano altra forza e sicurezza che in Dio.

In alcuni salmi l’autore, pur all’oscuro della vera soluzione del male e del dolore, sa anticipare visioni mirabili: egli intuisce che, al di là di ogni caso e di ogni sofferenza, solo in Dio c’è la pace (Sal. 56; 37), la vera liberazione (Sal. 49); la sola cosa che gli preme è di essere col Signore (Sal. 73), « sotto la protezione dell’Altissimo » (91, 1).

Sal.  36, 8-10: Quanto è prezioso il tuo amore, o Dio! –  Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali.- … Tu li disseti al torrente delle tue delizie. – E’ in te è la sorgente della vita; – alla tua luce noi vediamo la luce.

Sal.        37, 7: Sta in silenzio davanti al Signore e spera in lui…

Sal.      49, 16:  Certo,  riscatterà la mia  vita –  mi strapperà dalla mano degli inferi.

Sal.73, 23- 26: Ma io sono sempre con te; – tu mi hai preso per  la mano destra. – Mi guiderai secondo i tuoi disegni, – e poi mi accoglierai nella gloria. – … Con Te non desidero nulla sulla terra. – Vengono meno la mia carne e il mio cuore; – ma Dio è  roccia del mio cuore e mia parte per sempre.

  1. I salmi, preghiera d’Israele e della Chiesa

I salmi, come abbiamo visto, sono sorti all’interno della storia di Israele e sono in essa radicati. E’ impossibile comprendere i salmi prescindendo dalla storia del popolo eletto. Non nel senso di una conoscenza a carattere tecnico-scientifico, ma à quel livello che è capace di farci gettare uno sguardo di insieme sul piano di Dio e sulla storia della rivelazione, fino al centro di tutto, Cristo.

Nei salmi infatti non si tratta dì una preghiera che parta anzitutto dalle necessità dell’uomo, né dal suo sforzo di elevazione a Dio; ma di una preghiera che ha come quadro il piano stesso di Dio che si svolge nella storia. I salmi dunque sono l’espressione orante dell’anima di Israele che contempla la storia della sua salvezza.

Gesù, che è venuto a compiere la legge e i profeti, cioè la storia di Israele, ha fatto sua la preghiera dei salmi e li ha spiegati ai discepoli perché essi parlavano di lui. Per questo anche noi dobbiamo fare nostra la preghiera dei salmi, come preghiera della storia della nostra salvezza, rischiarata dalla luce di Cristo.

I salmi ci chiedono anzitutto uno spirito di contemplazione che penetra nel piano di Dio per mezzo di Cristo e lo vede realizzato in lui e nella sua Chiesa. Allora acquistano sapore e significato i salmi storici, quelli regali e quelli di Sion; diventa preghiera nostra il travaglio dell’animo di Israele e ci sentiremo immersi nella vita del povero di lahvé che implora con fede l’intervento di Dio e uniremo il nostro canto a quello del salmista che celebra le meraviglie che Dio ha profuso nella creazione.

GABRIELE MIOLA

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SINODO FERMO 1995 RELAZIONE DI MONS. MIOLA GABRIELE Vita e missione della Chiesa Fermana anno 1995

INTERVENTO DEL VICARIO PER IL SINODO

< Vita e missione della Chiesa Fermana verso il terzo millennio 1995>

MONS. GABRIELE MIOLA

Eccellenza Rev.ma,

la Chiesa Fermana è lieta oggi, nella festa di Pentecoste, riunita intorno al suo pastore, di celebrare l’Eucaristia, render lode al Padre e invocare un rinnovato dono dello Spirito su tutta la comunità diocesana.

La Chiesa Fermana conclude oggi il suo cammino sinodale e vuol presentare a Vostra Eccellenza i risultati del lavoro di analisi, di riflessione e di scelte per il futuro, compiuto in cinque anni di impegno ecclesiale sotto la sua guida di vescovo e pastore della nostra diocesi.

.I.       Un po’ di storia

A 30 anni dal Concilio Vaticano II la nostra diocesi, mentre vedeva la rapida trasformazione della vita sociale, dovuta ad un costante e veloce trapasso da una cultura prevalentemente contadina ad una industriale, con cambiamenti profondi nella geografia della popolazione, nel mondo del lavoro e nella men­talità, avvertiva il divario tra le prospettive teologiche e pastorali, che il Concilio aveva proposto alle singole Chiese particolari e la vita concreta cri­stiana delle nostre comunità.

I documenti conciliari, interpretati dal magistero universale e dalla Chiesa ita­liana ci sono stati di guida nel rileggere gli aspetti fondamentali della vita ecclesiale.

Nei primi tre anni (1987-90) è stata fatta una rilettura del Concilio prevalentemente con il clero nelle riunioni delle zone pastorali; negli anni 90-92, mentre le settimane pastorali diocesane di settembre animavano la riflessione, sono state preparate le linee dei documenti, che sottoposti alla riflessione degli ope­ratori pastorali nelle parrocchie, sono diventati poi la base di approfondimen­to e di discussione delle assemblee sinodali.

Tra l’apertura del 37^ Sinodo Diocesano in cattedrale il 22 Novembre 1992 e questa odierna assemblea solenne di chiusura si sono svolte 13 assemblee sinodali che hanno discusso e approvato i cinque documenti proposti:

– La Chiesa particolare Fermana

– La Chiesa che annuncia e trasmette la parola del vangelo (evangelizzazione e catechesi)

– La Chiesa che celebra il mistero della salvezza (la liturgia)

– La Chiesa Fermana nel suo territorio e i problemi relativi alla carità, la fami­glia e il lavoro, dell’economia e della politica.

– Le strutture di servizio pastorale per la vita diocesana.

Alcuni rilievi sui testi e sul lavoro svolto:

-I testi, è stato detto, sono troppo ampi, si è voluto parlare di tutto con il pericolo di una certa genericità e superficialità.

In parte l’osservazione è giusta, ma un’impostazione ampia, data fin dall’ini­zio, è servita ad una rilettura delle tematiche e ad un approfondimento dello spirito del Vaticano II, cosa che non era mai stata fatta in maniera così vasta.

-Il lavoro presinodale e assembleare non è riuscito a coinvolgere tutte le parrocchie e questo è relativamente vero; ma questo primo tentativo di creare una larga partecipazione ad un momento significativo della vita diocesana, che in progetto doveva coinvolgere tutte le parrocchie, è servito a creare uno spirito sinodale e di corresponsabilità che sarà certamente fruttuoso nel cam­mino della vita diocesana.

Questa sera, Eccellenza, ho l’onore di presentarle i testi conclusivi che riassu­mono il lavoro di analisi (1° vol.), di riflessione teologica (2° vol.) e di scelte pastorali operate dalle assemblee sinodali (3° vol.).

Lei, Eccellenza, conosce le linee di questi volumi perché nel suo ministero episcopale ha seguito passo passo il lavoro sinodale, ma sappiamo che un sinodo diocesano deve essere approvato dalla Santa Sede perché ogni Chiesa particolare cammini nella comunione di tutte le Chiese. Nel presentarli al Papa, tramite gli uffici competenti della Santa Sede, voglia assicurare a Sua Santità il nostro affetto e la nostra devozione filiale nel ricordo della Sua visi­ta alla nostra Chiesa Fermana quando in quel 30.12.1988 , nella cattedrale, Vostra Eccellenza volle annunciare al Papa la celebrazione di questo sinodo diocesano.

II.

Mi permetta ora di sottolineare alcuni aspetti fondamentali e punti focali che emergono dai documenti, che le presentiamo, come priorità pastorali che la Chiesa Fermana, attraverso il sinodo, ha indicato. Penso di poterli riassu­mere seguendo i cinque documenti in questi punti:

  1. La Chiesa locale, esprime il mistero della Chiesa, la Chiesa dalla Trinità, e vive dei carismi e dei ministeri che lo Spirito le concede. Le nostre comunità parrocchiali, i battezzati, hanno perso la coscienza di essere Chiesa, segno-sacramento di salvezza, popolo di Dio sacerdotale, profetico e regale, popolo missionario che annuncia e celebra il disegno di Dio sull’uomo e sulla storia; la fede di tanti cristiani è scaduta ad una religiosità individualista, di scarso e dubbio radicamento nella parola di Dio.

Primo obiettivo globale che il sinodo propone è quello di ricostruire questa coscienza di Chiesa e di popolo di Dio e di operare in maniera tale da supera­re ogni individualismo tanto nella liturgia quanto nella vita delle parrocchie e della diocesi.

I doni che lo Spirito ha concesso alla Chiesa postconciliare nella fioritura di movimenti e di aggregazioni ecclesiali nella nostra Chiesa diocesana debbono servire a far crescere tutto il popolo di Dio, debbono essere strumenti di unità in diocesi e nelle parrocchie, sotto la guida del ministero del vescovo e del suo presbiterio.

Per questo lo Spirito l’ha dotata di un’ampia ministerialità che si allarga a più diversi aspetti della vita della comunità cristiana:

– l ministero della parola che va dall’annuncio alla catechesi;

-il ministero della mensa che va dalla carità che sgorga dall’Eucaristia alla creazione della comunione ecclesiale per la partecipazione allo stesso corpo di Cristo;

-il ministero della presenza e della novità del sentire cristiano nella famiglia e nei vasti campi del lavoro, della cultura, del sociale.

Questa ministerialità, a cui il popolo di Dio si sta aprendo, il sinodo chiede che sia accolta, sostenuta, accresciuta, resa stabile attraverso un conferimento ufficializzato che stabilisca i lettori e i catechisti gli accoliti e i ministri dell’Eucaristia, gli operatori della carità in ogni parrocchia; nella parrocchia infatti, come struttura pastorale fondamentale, ogni ministerialità trova il suo luogo proprio di comunione e di sintesi primaria. Il sinodo particolarmente invita il presbiterio e le comunità ecclesiali ad accogliere quel primo grado dell’ordine sacro, il Diaconato, che ancora, nonostante il cammino già da tempo intrapreso, non trova la sua giusta collocazione nella nostra Chiesa locale.

sinodo sollecita a questa apertura non perché la diminuzione del clero pone gravi problemi pastorali e richiede nuove collaborazioni, ma perché la ministerialità è segno di vita, forza dello Spirito, diritto del popolo di Dio di esprimersi nella libertà dei figli. E voglia il Signore che da questa prospettiva e slancio ministeriale rifioriscano, per la giusta esigenza della vita ecclesiale, le vocazioni al ministero presbiterale.

  1. Se l’analisi della vita cristiana in diocesi ha costatato una mancanza di coscienza di Chiesa, una scarsa o nulla percezione della novità del mistero cristiano, della vita, della morte e risurrezione di Gesù, della comunione nella vita di Dio, una prassi religiosa sacramentale poco radicata nella fede, il sino­do chiede uno sforzo di nuova evangelizzazione.

Le assemblee sinodali hanno preso atto di una rinnovata catechesi alla preparazione dei sacramenti fino all’adolescenza, ma hanno anche costatato il vuoto di fede, di preghiera, di contesto cristiano in tante famiglie che presen­tano i figli nelle diverse età ai sacramenti della iniziazione cristiana.

Ora il sinodo chiede sopratutto nuove vie di evangelizzazione degli adulti, vere forme di catecumenato che facciano riscoprire Gesù e il suo vangelo di liberazione, la vita cristiana come libertà di figli di Dio. I membri sinodali hanno sentito la gravità del problema, che non è solo della nostra Chiesa Fermana, ma dell’Italia, anzi della vecchia Europa e dell’Occidente cristiano in genere, ma proprio per questo chiede uno sforzo di creatività e di fantasia alle singole parrocchie, all’ufficio pastorale e a quello catechistico nel dare direttive in ascolto e in sintonia con quanto viene proposto nelle altre Chiese che vivono lo stesso problema.

Paolo a Timoteo scrive che la S. Scrittura, ispirata da Dio, può formare l’uomo perfetto pronto ad ogni opera buona. Il sinodo chiede perciò, sulla linea che l’Eccellenza Vostra come pastore sta proponendo, che si moltiplichino nella diocesi quelle “scuole della parola”, che diano il gusto della parola di Dio, aprano all’accoglienza del mistero, richiamino i presbiteri alla responsabilità dell’omelia domenicale e 3 fedeli all’ascolto attento ed amoroso della parola.

  1. La S. Scrittura ci parla del mistero di Dio, del mistero di Cristo, del mistero della Chiesa come un’unica realtà che esprime nella storia il disegno salvifico di Dio: la parola l’annuncia, la liturgia lo celebra nei simboli, nei segni sacramentali che esprimono la comunicazione amorosa Dio che si dona alla chiesa in Cristo per mezzo dello Spirito.

Il sinodo se è rallegrato del cammino fatto dal concilio in poi della liturgia per una partecipazione viva, corale, di popolo che celebra il mistero della fede.

Ma il cammino da fare è ancora molto.

Il sinodo chiede che tutta la liturgia sia sempre in tutte le celebrazioni espressione del popolo di Dio, fonte culmine della vita di fede. E la comunità intera, presieduta dal vescovo od al presbitero, che celebra i santi misteri.

La celebrazione dell’eucaristia particolarmente deve stare al centro della vita del popolo di Dio. Il sinodo ha rilevato in più interventi che una certa leggerezza celebrativa e la moltiplicazione delle messe sviliscono il mistero celebrato e creano una assuefazione pericolosa alla realtà più preziosa che la chiesa possiede: l’Eucaristia.

Il sinodo chiede che la centralità dell’eucaristia sia coniugata con tutte le forme di preghiera e di offerta a Dio della propria vita come culto spirituale. Il sinodo invita a riscoprire la celebrazione delle lodi e dei vespri nelle comunità parrocchiali, la lectio divina come lettura della propria vita nella contempla­zione del piano di Dio, a riconsiderare i diversi aspetti della devozione popo­lare, tridui, novene, mesi particolari quasi come preparazione alla celebrazio­ne dell’Eucaristia. Gruppi particolari si ritrovino nei giorni feriali per celebra­zioni eucaristiche specifiche; ma la celebrazione eucaristica nel giorno del Signore risorto, la domenica, deve particolarmente trovare unito il popolo di Dio ed educato a parteciparvi nell’espressione più ampia della ministerialità: lettori, accoliti, cantori, i diaconi e gli operatori della carità. Il sinodo indica la parrocchia come luogo di comunione e di unità.

Questa prospettiva sarà realizzabile e l’Eucaristia domenicale più vera quanto più ogni parrocchia e la diocesi intera prenderanno coscienza delle proprie inadempienze e dei propri peccati: è un popolo di perdonati, un popolo che ha ottenuto misericordia quello che il Signore convoca alla sua mensa. In Sinodo chiede che in Diocesi ci sia un cammino penitenziale comunitario costante, ma particolarmente evidenziato nei periodi di Avvento e Quaresima. La Caritas diocesana, sulla scia di quella nazionale, ha già avviato una attenzione particolare a questi periodi tipicamente penitenziali e di conversione, ma il Sinodo chiede che siano resi più intensi, più partecipati, segni tangibili di una comunità che fa penitenza, che lascia i propri idoli per convertirsi al Signore. Nelle assemblee sinodali molti interventi hanno sottolineato la profonda crisi della confessione: il Sinodo propone un’attenzione rinnovata verso la celebra­zione della riconciliazione e ha chiesto all’Eccellenza Vostra di farsene inter­prete presso la Santa Sede per una rinnovata prassi penitenziale.

In questo l’ufficio liturgico diocesano ha un ruolo particolare di guida, di progettazione e di richiamo.

  1. La Chiesa Fermana nel suo territorio è chiamata a portare i segni della novità del Vangelo.

I cristiani che hanno rinnovato la propria vita alla luce del signore Gesù portano uno stile nuovo nel quotidiano e prima di tutto, in contrasto con la mentalità del mondo, scelgono di servire gli ultimi e i poveri. È il primo segno della novità cristiana sullo stile ideale delle comunità degli Atti degli Apostoli.

Il sinodo riconosce che la comunità cristiana ha iniziato a capire le nuove povertà del mondo di oggi, che pone maggiore attenzione al territorio e ai suoi problemi di emarginazione, e che si sta prodigando delle iniziative, che tante persone delle parrocchie prendono, e sta organizzandosi sulla linea della Caritas nazionale, anche se sono ancora carenti le strutture di sostegno e di intervento caritativo. Per questa rinnovata attenzione della comunità cristiana verso gli ultimi sia lode al Signore.

Il sinodo ha però rilevato che le comunità cristiane e la diocesi nel suo insie­me non ha capacità di lettura sull’evolversi delle realtà temporali, né ha assi­milato le indicazioni conciliari e del magistero circa la dottrina sociale della Chiesa nell’ambito del mondo economico e del lavoro, della politica e della cultura. E’ stato privilegiato prima di tutto un approfondimento ad intra della realtà ecclesiale, come l’evangelizzazione, la catechesi, la liturgia, per una riacquisizione del senso di Chiesa e della soggettività del popolo di Dio, ma è stato emarginato un approfondimento del senso della laicità e delle competen­ze proprie e specifiche dei cristiani, singoli o riuniti, nelle realtà mondane. Urge una ripresa in diocesi di queste tematiche e il sinodo chiede che insieme ad una sensibilizzazione di base sulla dottrina sociale della Chiesa ci sia con­temporaneamente un impegno diocesano per la preparazione di persone capa­ci di approfondimento culturale e di una presenza cristianamente animatrice nel proporre soluzioni ai problemi della famiglia, della demografia, dell’eco­nomia, del lavoro, della cultura e della politica.

5 . Da ultimo, ma campo non meno importante, le strutture di servizio per la vita del popolo cristiano. Il sinodo ne ha individuate alcune prioritarie, le elencherei così:

.a.   Incremento alle vicarie con forte iniziativa del vicario foraneo per una maggiore unità pastorale capacità di lettura delle situazioni ecclesiali e secolari locali, incisività di iniziativa nel territorio.

.b.   Stretto rapporto tra gli uffici pastorali diocesani da una parte e parrocchie e vicarie dall’altra:i primi per una programmazione aggiornata e per una verifica costante, le seconde per una operatività che si avvalga in loco della competenza dei laici nei singoli settori.

.c.   Potenziamento degli Istituti di teologia ITM, ISSR, SFT, SFISP (*), allar­gamento delle “Scuole della Parola” per un aggiornamento costante del clero e la formazione biblica del popolo di Dio, per la preparazione al Diaconato permanente e a tutti i ministeri necessari alla comunità.

Concludo riassumendo così:

-Chiesa come popolo di Dio e ministerialità,

-parola di Dio ed evangelizzazione degli adulti,

-centralità dell’Eucaristia domenicale per tutta la comunità cristiana e prassi penitenziale comunitaria,

-senso della laicità e formazione dei cristiani all’impegno nelle realtà secolari -stretta relazione tra Uffici, Istituti diocesani e parrocchie, sono le cinque piste che emergono dai documenti sinodali e che la Chiesa Fermana chiede, attraverso il sinodo, a vostra Eccellenza e ai suoi successori di percorrere e di aiutare la diocesi a percorrerle nel prossimo futuro che ci si apre dinanzi da questa sera,

Il sinodo è stato anche una riscoperta di metodo, di stile di partecipazione nella vita ecclesiale, che è connaturale alla comunità cristiana; chiediamo prima di tutto al Signore, ma anche all’Eccellenza Vostra, di voler sostenere questo stile perché la Chiesa Fermana si trovi preparata ad affrontare, anche in un futuro non lontano, un’altra assise sinodale.

Eccellenza, questa assemblea eucaristica rende oggi lode a Dio per il cammi­no compiuto in questi anni con la guida del suo venticinquennale ministero episcopale nella nostra diocesi e particolarmente per il cammino sinodale, ha chiesto e chiede ancora perdono per gli ostacoli posti ai doni e alla grazia del Padre;invoca il Signore risorto perché a conclusione del periodo pasquale in questo giorno di Pentecoste riempia tutti noi e tutti i fedeli della diocesi di quello Spirito d’amore che ha effuso sulla Chiesa nascente perché anche la nostra Chiesa Fermana sperimenti quel flusso di grazia che tutto rinnova.

  •  *  ITM = Istituto Teologico Marchigiano, sede di Fermo; ISSR = Istituto Superiore di Scienze Religiose, sede di Fermo; SFT = Scuola di Formazione Teologica; SFISP = Scuola di Formazione all’impegno Sociale-Politico.
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MIOLA GABRIELE DOCENTE BIBLISTA spiega ” Figure di giovani nell’Antico Testamento” edito in Firmana nn. 35-36 a. 2004

FIGURE    DI     G I O V A N I   NELL’ANTICO TESTAMENTO
di Gabriele Miola

Premessa

L’articolo riprende una conversazione fatta con il gruppo di “Pastorale giovanile” di Azione Cattolica. Non vuol essere esaustivo; l’esposizione manterrà lo stile del dialogo riportando in nota spiegazione di termini non usuali per quanti hanno una conoscenza comune dell’Antico Testamento.

Troviamo nell’AT figure giovanili e insegnamenti riguardanti i giovani e la loro educazione. Per lo più sono figure maschili, ma non mancano anche figure fem­minili (p.e. Dina figlia di Giacobbe, Myriam sorella di Mosé e di Aronne, Tamar sorella di Assalonne, Giuditta ed Ester figure create nella letteratura di tipo apocalittico ecc), sebbene quella biblica sia una società, come tutte quelle del Vicino Oriente Antico, secondo il modo di vedere di oggi, maschilista, dove il soggetto principale della vita sociale, politica e religiosa è direttamente l’uomo e non la donna. Ci fermiamo solo su alcuni giovani, che hanno avuto un ruolo rilevante nella storia della salvezza.

Presenteremo prima i personaggi e poi faremo qualche cenno sull’educazione dei figli e dei giovani.

Giovane si può dire in rapportò allo stato sociale e in rapporto all’età. In rapporto allo stato sociale, nella Bibbia, uno è giovane fino a quando non costituisce una sua famiglia con l’assunzione di tutte le responsabilità connesse. Il racconto di Gen 3 sulla creazione dice chiaramente che ’adam, l’uomo è solo fino a quando non forma la coppia ’islo-’isshah, allora è un uomo completo. Il matrimonio dei giovani era combinato dalle famiglie e i giovani si sposavano abbastanza presto: i giovani intorno ai venti anni e le ragazze tra i 15-16 anni. Riguardo all’età anche l’uomo sposato si considerava giovane in rapporto agli anziani del clan o della tribù[1] [2].

Figure di giovani. Tratteggeremo alcune figure più note seguendo l’ordine del canone biblico[3]

1.1 Isacco

   È il figlio promesso e tanto desiderato, avuto in tarda età solo come dono di Dio, che ha concesso alla coppia sterile Abramo-Sara di avere il figlio perché si realizzasse la promessa fatta al capostipite d’Israele: farò di te un grande popolo (cfr. Gen 12, 2). Isacco, come indica il nome stesso[4], ha portato il sorriso nella coppia ed è il segno dell’inizio di quella discendenza numerosa come le stelle del cielo promessa da Dio al patriarca (cfr. Gen 15, 5). Sull’adolescenza e la gioventù di Isacco il testo biblico non ci dà notizie. Il momento significativo è quello del “sacrificio d’Isacco” di Gn 22, in cui il personaggio principale non è tanto il giovane Isacco quanto il padre Abramo, cui Dio chiede: Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio, che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò. Abra­mo risponde: Eccomi[5] [6]. La fede di Abramo è grande e sentirà lo strazio nel cuore quando il figlio Isacco, carico della legna che portava e che doveva servire per il suo sacrificio, domanda al padre: Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto? La fede di Abramo però ha un corrispettivo nel figlio: Isacco è umile, silenzioso, pronto a sottomettèrsi a quel che comporta la fede del padre, la risposta del padre Abramo a Dio.

Il racconto biblico di Gn 22 si è ampliato nella tradizione ebraica e nella letteratura midrashica6 si è sviluppata un’ampia riflessone sulla figura di Isacco ed è sorta una festività chiamata Aqedah che significa “la legatura” cioè di Isacco. Riporto un brano del dialogo tra Isacco e satàn[7] che vuol sviare Isacco dall’obbedienza al padre. Dopo aver fallito con Abramo, satàn attacca Isacco: “Quando il satàn vide che le sue insinuazioni non giovavano a nulla, prese le sembianze di un giovane e si avvicinò ad Isacco dicendogli:

– Dove vai? –

–  A studiare la Torah[8].

–  In vita o dopo la morte?

–  C’è forse qualcuno che studia dopo la morte?

–  O infelice, figlio di una madre infelice! Quanti digiuni, quante preghiere ha fatto tua madre prima che tu nascessi e ora questo vecchio, diventato pazzo, ti porta a morire!

–  Nonostante ciò non voglio violare il comando del mio Creatore e quello di mio paure.

–  Dunque tutti i più bei vestiti, che tua madre ha preparato, passeranno in ere­dità ad Ishmaele? E tu non ci pensi?

A volte, se un’insinuazione non riesce completamente, riesce almeno in parte. Isacco si voltò verso il padre e gli disse:

–  «O padre mio! Vedi cosa mi dice costui?»

– Non gli dar retta! – rispose Abramo.

Quando satàn vide che non si lasciavano persuadere, si tramutò in un gran­de fiume. Abramo entrò nell’acqua che gli arrivava alle ginocchia e poi disse ai suoi uomini: «seguitemi». Ed essi In seguirono. Giunto a metà del fiume, l’ac­qua gli arrivava alla gola. Allora Abramo si volse verso il Cielo e disse:«Signore del mondo! Tu mi hai eletto e ti sei rivelato a me dicendo: «Io sono uno e tu sei uno: per tuo mezzo sarà conosciuto il mio nome nel mondo, offri Isacco tuo figlio in sacrificio dinanzi a me» ed io non ho indugiato e stavo appunto adem­piendo al tuo comando, ma acqua è giunta sino al capo minacciandomi di morte” (Sai 69,2). Se io o Isacco affogheremo, chi osserverà i tuoi comandi? per mezzo di chi il Tuo nome sarà proclamato unico?». Gli rispose il Santo, bene­detto Egli sia: «ti giuro che, per tuo mezzo, il mio nome sarà conosciuto nel mondo!».

Il Signore ammonì il fiume, esso si seccò e così passarono all’asciutto”[9].

Questo midrash è un commento che esalta la figura di Isacco come giovane di fede, mette in evidenza la forza della tentazione, che arriva a gettare il discredito sul padre, che vien fatto passare come un vecchio pazzo, ma ancor più esalta la forza della fede di Isacco, che respinge le insinuazioni di satàn, e la forza della preghiera di Abramo, che si affida a Dio e gli ricorda la fedeltà alle sue promesse.

Il racconto del sacrificio di Isacco nell’economia del disegno biblico vuol insegnarci due cose: primo che in Israele sono proibiti i sacrifici umani, che purtroppo erano usuali, come ci attésta la storia del Libro dei Re perché vi si narra che due re empi offrirono in sacrificio i loro primogeniti: Acaz (cfr. 2 Re 16,3) e Manasse (cfr. 2 Re 21,6); e secondo che il vero culto a Dio non passa attraverso i sacrifici e le cose materiali, ma attraverso la fede, che è obbedienza a Dio. In que­sto la figura di Isacco è di grande attualità: è il giovane che ha maturato una grande fede, che è centrato sulla sua interiorità, sui valori fondamentali della vita, pronto a dare tutto se stesso.

La Genesi ci offre un’altra pennellata su Isacco giovane. Il cap. 24 è dedicato al matrimonio di Isacco, ma di per sé nel racconto Isacco è una figura assolutamente secondaria. E Abramo che manda il suo servo Eliezer a trovare una sposa per il figlio perché non vuole che Isacco sposi una donna locale, cioè cananea. Tutto il capitolo evidenzia il piano della Provvidenza che già ha preparato una moglie per Isacco e che il servo Eliezer riconoscerà nella giovane Rebecca della famiglia da cui Abramo era partito per rispondere dia chiamata di Dio. Il lungo capitolo, ricco dei colori tipici del mondo orientale, si conclude con una sola frase che riguarda Isacco: Il servo raccontò ad Isacco tutte le cose che aveva fatte. Isacco introdusse Rebecca nella tenda che era stata di sua madre Sara; si prese in moglie Rebecca e l’amò. Isacco trovò conforto dopo la morte della madre (v. 67). Il narratore dice poco di Isacco, non dice nulla sul calore-di un incontro di due giovani che vanno al matrimonio, anzi ci presenta un Isacco quasi mesto, solitario, pur in attesa del ritorno del servo e dell’esito dell’ambasciata che gli era stata affidata, scrive infatti: Isacco uscì sul far della sera per svagarsi in campagna e, alzando gli occhi, vide venire i cammelli (v. 64), cioè la carovana del servo Eliezer che tornava.

Il racconto tende a sottolineare più il fatto del matrimonio che i sentimenti che l’accompagnano, che sono ben condensati in quella espressione “e l’amò”. Una sottolineatura importante per i giovani di oggi, che vivono in una società e in una cultura che danno valore assoluto ai sentimenti e poco all’istituzione, tanto che sentimenti anche vaghi e passeggeri possono mettere in crisi senza problemi la sta­bilità del matrimonio.

Isacco nell’insieme della Genesi è una figura di passaggio tra Abramo e Gia­cobbe, è più esaltato nella tradizione ebraica e cristiana che nella Bibbia: per la tra­dizione ebraica è il giovane ubbidiente e forte; la tradizione cristiana ha visto inve­ce in Isacco una “figura” di Gesù, che offre se stesso nell’obbedienza della fede.

1.2 Giuseppe

Anche Giuseppe è un figlio atteso e desiderato. Giacobbe l’ha avuto dalla moglie amata e preferita, Rachele, che per lunghi anni dopo il matrimonio non ave­va dato figli al marito, al contrario di Lia, l’altra moglie di Giacobbe, sorella di Rachele, che subito gli aveva partorito figli. Giuseppe è il figlio più amato dal padre perché l’aveva avuto a tarda età, a confronto degli altri figli, nati da Lia e dalla due schiave che Rachele e Lia dettero a Giacobbe[10].

La storia di Giuseppe comincia col capitolo 37 e abbraccia tutti i capitoli della Genesi dal 39 al 50. E la più lunga nel libro della Genesi e il racconto più compiu­to nell’intreccio degli eventi del protagonista Giuseppe con la figura del padre Giacobbe e dei fratelli, che proprio per mezzo di Giuseppe sussisteranno come capo- stipiti delle dodici tribù, che fermeranno il popolo d’Israele. Qui presupponiamo la conoscenza del testo, non facciamo esegesi, ma sottolineeremo solo alcuni punti della figura del giovane Giuseppe, procedendo scena per scena[11].

Prima scena: l’invidia dei fratelli e i sogni di Giuseppe. La preferenza del padre per il figlio Giuseppe diciassettenne suscita l’antipatia dei fratelli maggiori, l’anti­patia diventa rifiuto e disprezzo quando Giacobbe fa una veste nuova per il figlio a maniche larghe. Ma c’è un motivò più profondo che scatena l’odio dei fratelli contro Giuseppe perché questi riferisce al padre i “pettegolezzi sul loro conto”. Così la traduzione della Bibbia CEI, forse da intendere col testo originale: riferi­sce “che non si comportavano bene”. Giuseppe infatti lavorava con i fratelli, li aiu­tava nel pascolare le greggi con piccoli servigi. L’odio verso Giuseppe diventa acca­nito quando Giuseppe racconta i due sogni che ha fatto: nel primo racconta ai fra­telli di aver visto durante la mietitura che il suo covone stava in mezzo dritto men­tre quelli dei fratelli stavano intorno e si prostravano; nel secondo racconta al padre e ai fratelli di aver visto il sole, la luna e undici stelle che si prostravano davanti a lui. I fratelli reagiscono dicendogli: “ Chi pensi di essere? Pretenderai di diventare nostro re?”  Anche il padre lo sgridò.

In questa prima scena ci si mostra un giovane di diciassette anni semplice e schietto. Semplice perché non ostenta la predilezione che il padre ha per lui, può sembrare quasi ingenuo, e schietto perché non copre il comportamento sbagliato dei fratelli, non tollera il male, non teme ritorsioni, mostra di avere dinanzi un ideale di vita onesta, sobria.

Seconda scena: Giuseppe, venduto dai fratelli ad alcuni mercanti, finisce schiavo in Egitto. Giacobbe manda il figlio giovane da Hebron a Sichem per rendersi conto di come stesero i figli e le greggi. Giuseppe risponde con la parola dell’obbedienza: “Eccomi” e parte per andare dai suoi fratelli; è una bella distanza da Hebron a Sichem di circa ottanta chilometri, dal Neghev alle zone centrali della ter­ra di Canaan. Arrivato a Sichem non trova i fratelli e, mentre è in cerca, un uomo l’informa che li ha sentiti dire che sarebbero andati a Dotan. Giuseppe riparte e fa circa altri trenta kilometri verso nord. Quando i fratelli lo vedono da lontano arrivare, riconoscibile per la sua veste variopinta e a maniche lunghe, si dicono: ecco il sognatore! Uccidiamolo, vediamo se i suoi sogni gli servono! Interviene Ruben, il primogenito di Giacobbe, che sventa la macchinazione ed ottiene che non sia ucci­so, ma gettato in una cisterna vuota aveva l’intento di liberarlo. Ma al passaggio di una carovana di mercanti che vanno in Egitto con le loro mercanzie, Giuda pro­pone agli altri di non macchiarsi di un delitto uccidendo il fratello, ma di venderlo ai mercanti. La carovana dei mercanti è detta una volta di Ismaeliti (37, 25) e un’altra volta di Madianiti (37, 28); Forse il redattore ha fuso due tradizioni: una si rife­riva a Ruben e a mercanti Ismaeliti e un’altra a Giuda e a mercanti Madianiti. Giuseppe viene venduto; i suoi fratelli col sangue di un capretto tingono la veste del fratello e la mandano al padre facendogli dire: vedi se è di tuo figlio! Il testo sottolinea lo strazio del padre, che riconosce la tunica del figlio Giuseppe, e conclude dicendo che Giuseppe in Egitto fu venduto come schiavo e comperato dal nobile Potifar, consigliere del faraone e capo delle guardie.

La scena si svolge tra il silenzio assoluto di Giuseppe e il complotto dei fratelli: possiamo ipotizzare, anche se il testo non lo dice, una preghiera intensa di Giuseppe, che si affida alle mani del Dio di suo padre Giacobbe, che era stato liberato da tanti pericoli procuratigli dal fratello Esaù e dallo zio Labano. Ci si rivela un giovane legato alle tradizioni familiari e fermo, stabile in un atteggiamento di fede. Forse nei barlumi di umanità che trapelavano dalle parole di Ruben e di Giuda, che l’avevano sottratto alla morte, intravede un filo di futuro e di speranza. Il racconto insegna ai giovani di non perdere mai la fede in Dio, la speranza che il bene trionferà sul male, a mantenere salde le buone tradizioni ricevute, ad affrontare la sofferenza senza smarrirsi.

Terza scena: dalla casa di Potifar al carcere e a vizìr del faraone.

Giuseppe, schiavo a casa di Potifar, è un giovane laborioso e intraprendente tanto che il padrone lo pone come amministratore della sua casa. La moglie di Potifar invaghitasi di lui tenta di sedurlo, ma Giuseppe non vuol tradire la fiducia del suo padrone. La donna perfidamente tramuta il suo tentativo in accusa contro Giuseppe, che nell’impossibilità di difendersi viene gettato in carcere. La buona condotta di Giuseppe e il suo saper fare gli conciliarono il favore del carceriere, che gli affidò la cura e la sorveglianza dei carcerati. Qui Giuseppe si trova insieme a due accusati della corte del faraone: il coppiere e il panettiere. Interpretando i sogni che que­sti avevano fatto annunzia al coppiere l’assoluzione e la liberazione, al panettiere invece la condanna e la morte. Al primo chiese solo di ricordarsi di lui quando fra tre giorni sarebbe stato libero. Avveratasi l’interpretazione dei sogni, Giuseppe rimane in carcere fino a quando il faraone fa i sogni delle sette vacche grasse che vengono divorate da altre sette vacche insecchite e il sogno delle sette spighe belle e turgide che vengono essiccate da sette spighe rugginose. Di fronte all’incapacità degli indovini e maghi d’Egitto d’interpretare i sogni del faraone, il coppiere ricorda Giuseppe ancora in carcere. Fatto chiamare dal faraone dà l’interpretazione dei sogni del faraone, che stupito della conoscenza e delle capacità di Giuseppe lo pone come vizìr, secondo dopo il faraone,’per far fronte ai sette anni di abbondanza e ai sette anni di carestia. Giuseppe, che ormai aveva trent’anni (41,46), si sposò con Asenat, da cui ebbe due figli: Manasse ed Efraim.

Questo quadro ci fa toccare il senso morale fermo del giovane Giuseppe, non tradisce la fiducia accordatagli a costo di finire in carcere. I sogni interpretati ai due compagni carcerati gli fanno percepire che Dio è giudice e che farà riconoscere la sua innocenza. Il suo modo d’agire, in qualunque situazione si trovi, è retto, profondamente morale perché solo la giustizia trova ricompensa.

Senza seguire gli sviluppi del racconto: l’arrivo dei fratelli di Giuseppe che in tempo di carestia vengono ad acquistare grano in Egitto, le prove cui Giuseppe sottopone i fratelli per saggiarne le intenzioni, andiamo alla scena dell’ultimo incon­tro, quando Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli. Giuseppe allora non è più gio­vane, ma ha portato a pienezza quella linea morale che ha contraddistinto la sua vita fin da adolescente; ma anche i fratelli erano cambiati, vedono nei malanni che li avevano colpiti la giusta punizione di Dio per il loro peccato (42,21). Riuniti i fratelli e fatti uscire tutti i presenti, Giuseppe, profondamente commosso, tra le lacrime, dice loro: Io sono Giuseppe, il vostro fratello che avete venduto per l’Egitto. Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita… Non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio ed Egli mi ha stabilito padre per il faraone… governatore di tutto il paese d’Egitto…{43,5-8)

Atteggiamento sublime, parole alte quelle di Giuseppe. Non parla nemmeno di perdono, ma prospetta ai fratelli il disegno che Dio ha compiuto per la vita loro e per una posterità grande. Giuseppe fissa lo sguardo lontano, sembra che abbia dinanzi le promesse, di cui era portatore Giacobbe, suo padre, ma anche i suoi fratelli. Sono pagine che preludono all’annunzio di Gesù, che ci ha fatti tutti fratelli. Viene riscoperta la vera fraternità, che era stata prima incrinata e poi rotta dalla gelosia e dall’odio, ora ritrovata perché questa fraternità ha altre radici, proviene dal piano di Dio, che ora si è svelato. Il racconto, anche se non lo nomina, esalta il perdono e quasi anticipa l’insegnamento di Gesù che chiama i fratelli a perdonare anche i nemici e a pregare: rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Questo è il mondo nuovo di cui abbiamo bisogno: tra giovani, in famiglia, nella società, tra popoli diversi[12].

13 Mosè

La storia di Mosè è a tutti nota, sottolineo solo alcuni aspetti, che caratterizzano il periodo giovanile della sua vita. Mosè nasce da una famiglia della tribù di Levi, i cui genitori, Amram e Iochebed (Es 6,20), per il genocidio degli Ebrei ordi­nato dal faraone, furono costretti a lasciare il bambino, messo in una cesta, sulle acque del Nilo mentre la sorella Myriam seguiva l’evolversi della cosa. Raccolto dalla figlia del faraone, affidato, dietro l’offerta di Myriam, alle cure della propria madre, appena svezzato crebbe alla corte del faraone. L’educazione egizia ricevuta a corte, un’educazione che lo poneva ai vertici dell’amministrazione, non gli fecero dimenticare le sue origini.

Un simpatico midrash racconta che a corte il bambino era benvoluto da tutti e che il faraone, cioè il nonno, “lo abbracciava e lo baciava e il bambino prendeva la corona del faraone e se la metteva in testa. Ma i maghi egiziani, che erano alla pre­senza del re, osservarono: per questo gesto noi temiamo che questo ragazzo sia proprio quello che è destinato a toglierti la corona. E perciò alcuni proponevano di ucciderlo, altri di gettarlo nel fuoco”[13]. Il racconto biblico è molto scarno. Dice così: Cresciuto in età, si recò dai suoi fratelli e notò i lavori pesanti da cui erano oppressi.

Vide un egiziano, che colpiva un ebreo, uno dei suoi fratelli. Voltatosi attorno e visto che non c’era nessuno, colpì a morte l’egiziano e lo seppellì nella sab­bia. Il giorno dopo uscì di muovo e, vedendo due ebrei che stavano rissando, disse a quello che aveva torto: Perché percuoti il tuo fratello? Quegli rispose: Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi? Pensi forse di uccidermi come hai ucciso l’egiziano? (Es 2, 11-14).

La brevità del testo lascia spazio a supposizioni: potremmo pensare che con il suo grave gesto Mosè forse voleva tentare di svegliare una coscienza sopita e fiaccata tra i suoi fratelli oppressi, forse voleva far intravedere una prospettiva nuova ai suoi. Non è capito, tanto che quando vuol metter pace tra due ebrei che rissava­no, proprio quello che aveva torto gli rinfaccia l’omicidio commesso e Mosè si sen­te scoperto e quindi anche braccato dalla polizia faraonica. È costretto a fuggire e si rifugia fuori dall’Egitto nella terra di Madian.

Questo primo quadro mette in evidenza un giovane Mosè, che, nonostante la sua posizione sociale e politica, non si sente separato dai suoi fratelli. Mostra un forte senso di solidarietà e di giustizia. Forse accarezzava un progetto, una sua prospetti­va di liberazione o almeno di giustizia e cerca di realizzarlo con le sue forze, un ten­tativo generoso, però incompreso e quindi fallito. Due cose la figura del giovane Mosè ci mette davanti: primo, un forte attaccamento alla tradizione, ai valori di cui si scopre portatore perché membro del suo popolo oppresso; e, secondo, una forte idealità di progettazione, di compromettersi nella realtà, potremo dire di rischiare, anche se forse in maniera spregiudicata perché vuol agire con le sue sole forze.

Esaminiamo un altro tratto della figura di Mosè giovane, quello della sua vocazione e della sua missione, anche se ormai, dopo la fuga dall’Egitto, è ospite preso Ietro sacerdote madianita, db cui aveva sposato la figlia e dalla quale aveva avuto il figlio Gherson. Possiamo considerare questa pagina biblica di Es 3-4 come ripresa dei progetti giovanili di Mosè, ma questa volta non sarà suo il progetto, ma quello che Dio gli affida. Il racconto metterà in risalto le obiezioni che Mosè presenta a Dio per esimersi dal compito che gli viene affidato. E il momento di una forte esperienza religiosa di Mosè, ma anche di una nuova riflessione che lo riporta alle sue origini, al suo popolo schiavo in Egitto e al progetto di una liberazione.

Il primo momento è la percezione della presenza di Dio: Mosè s’è inoltrato nel deserto, è arrivato al monte di Dio, l’Oreb[14], vede un roveto che arde e non si con­suma. Si avvicina a vedere lo spettacolo insolito ed entra in colloquio con Dio, ma il colloquio non è altro che un ricordare, riflettere, rivedere e capire in una luce nuova la realtà della schiavitù del suo popolo e sentire con una nuova modalità il progetto della liberazione, vagliarne le difficoltà e risolverle alla luce di un missione che gli viene affidata da Dio; la liberazione d’ Israele non sarà opera di Mosè, ma di Dio che lo manda.

Il ricordo che Mosè ha di tutte le sofferenze del suo popolo si rafforza con la voce di Dio che ha osservato quelle sofferenze e vuol mantenere la promessa di portare il suo popolo alla terra dei padri e quindi ingiunge a Mosè: Ora va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo. Ed ecco la prima obiezione di Mosè, come ricordando il fallimento di allora: E chi sono io per andare dal faraone? Quasi a dire: perché mandi proprio me? E la risposta di Dio suona, ma è anche la coscien­za nuova di Mosè: Io sarò con te, quasi Mosè dicesse a se stesso: non sono solo, c’è con me il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe. Mosè tenta una seconda obiezio­ne: Ma se loro mi chiederanno: come si chiama colui che ti manda? E la risposta di Dio: Io sono colui che sono, questo è il mio nome! “Io sono colui che sono” o nella terza persona, quando noi parliamo di lui: “Egli è colui che è”, è nome che indica una presenza, un esserci, un essere accanto, chiarifica e rinforza la risposta alla prima obiezione: “Io sarò con te!”. Colui che è: JAHWEH è il nome santo di Dio per sem­pre[15]. Mosè ancora dubita non di se stesso, ma del popolo cui è mandato: è vero che Jahweh sarà con me, ma i miei fratelli dubiteranno di me, mi crederanno? E quindi presenta una terza obiezione: Ecco essi non mi crederanno, non ascolteranno la mia voce. Questa volta Dio risponde con dei segni straordinari: il bastone di Mosè, che diventa serpente, la sua mano che diventa lebbrosa, e acqua che diventa sangue. Sono segni che confermano la volontà della missione che Dio gli affida e saranno segni per i suoi connazionali, quasi a dire! se non crederanno alla tua parola, vedranno i segni che farai nel mio nome e ti crederanno, Mosè sente la difficoltà della missione e avanza un’altra obiezione, la quarta: Mio Signore, io non sono un buon parlatore, non lo sono mai stato! E la risposta di JIEWEE Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire. Mosè non vuol andare e non si da per vinto e ancora, per la quinta volta, obietta: Perdonami, Signore mio, manda chi devi mandare! quasi a dire: lascia­mi in pace, manda un altro più capace di me. Il testo allora nota: La collera del Signo­re si accese contro Mosé, Dio non smentisce la sua chiamata e dà a Mosè un aiuto nella persona di suo fratello Aronne (cfr. Es 3,1-4,17).

Lasciamo da parte le questioni critiche di individuazione degli strati redazionali di questi capitoli, andiamo al significato spirituale di queste pagine fondamentali. Potremo fare questa lettura: Mosè ormai giovane adulto da una parte non dimentica il suo popolo sottoposto a schiavitù e ad un genocidio totale; lui è in salvo, ma sente l’obbligo della solidarietà con i suoi; vuol andare e riprendere il progetto di liberazione, ha capito che esso rispondeva a quelle che erano le promesse di cui il suo popolo era portatore, promesse fatte da Dio ai suoi padri; si fa tutte le obiezioni possibili e si deciderà solo quando sperimenterà nel suo cuore e nella sua mente la presenza di JHWH, che gli assicura che quel progetto non è più suo, ma del Signore e che la realizzazione di esso, al di là delle sue amare esperienze di fallimento, coinvolge la persona e la potenza di JHWH, suo Signore. Possiamo dire: è il trionfo della fede sulle debolezze e le obiezioni umane. Da questi racconti ci vengono insegnamenti grandi: tutti, ma specialmente i giovani devono vagliare i propri progetti e rapportarli ai disegni di Dio (il bene, la verità, la libertà, la solidarietà con gli ultimi, il servizio, la famiglia e la vita nella sua dignità e bellezza, l’onestà, la schiettezza e la purità del cuore, Gesù e il suo vangelo ecc.) e viverli con fede, realizzarli sotto la presenza di Dio con costanza superando ogni dubbio e obiezione che possano sorgere nel cuore, poiché il Signore è con i giovani per la vita dell’uomo.

Il libro dell’Esodo è il canto, il poema della libertà, che solo Dio può donare, trova la sua pienezza nei capitoli, che non sono oggetto del nostro incontro: i capp. dell’alleanza che Dio offre all’uomo (capp. 19-24) e della potenza del perdono di Dio che rinnova la vita con la sua presenza di Padre “pietoso, misericordioso, tar­do all’ira, ricco di grazia e di fedéltà” (Es 32-34, specificamente 34, 6)[16].

1.4 Samuele

Samuele è una figura di rilievo nella storia del popolo eletto perché guida il pas­saggio dal periodo dei giudici a quello della monarchia in un momento critico per Israele, a cavallo tra il sec. XI e X a. C., quando le diverse tribù furono attaccate dai Filistei, popolo nuovo stanziatosi nella costa sud della terra di Canaan (più o meno, per dare un riferimento, l’attuale striscia di Gaza). Israele allora sentì il bisogno di una maggiore unità per affrontare un nemico agguerrito e forte. Samuele fu saggio nel favorire il sorgere di una figura di re che desse unità, ma spogliando la persona del monarca di quei caratteri di sacralità e divinizzazione tipici del mondo pagano. Samuele di fatti sta all’origine della monarchia in Israele con la scelta del primo re, Saul, della tribù di Beniamino, ma poi, dinanzi all’incapacità di Saul di creare unità e alla gelosia persecutrice di questi contro il valente David, percepito come concorrente, favorì la scelta e l’ascesa di quest’ultimo, che divenne il re ideale, il consacrato[17] per eccellenza, riferimento per tutta la storia d’Israele.

Faremo una breve presentazione solo del momento giovanile di Samuele, ulti­mo dei giudici e primo dei profeti, la cui storia attraversa tutto il primo libro, che porta il suo nome.

Come di ogni grande personaggio della storia biblica, anche di Samuele si narra una nascita straordinaria che prelude a un disegno di Dio sulla persona. Elkana ed Anna sono una coppia legata da profondo amore, ma Anna non ha figli, mentre Peninna, l’altra moglie di Elkana ha dato figli al maritò[18]. Anna è desolata e piange, il marito la consola e le dice: Anna, perché piangi? Perché è triste il tuo cuore? Non sono forse io per te meglio di dieci figli? (1 Sam 1, 8). Anna sfoga il suo dolore dinanzi a Dio nel tempio a Shilo presso Parca dell’alleanza e Dio le concede di avere un figlio, cui mette nome Samuele, che significa “Dio ascolta”. Quando il bimbo è svezzato, Anna lo porta al tempio e lo consacra a Dio affidandolo al sacerdote Eli.

Qui è inserita l’attività giovanile di Samuele. E ancora un giovinetto quando il Signore lo chiama. Il racconto è noto (cap. 3): Samuele sente una voce che lo sve­glia: Samuele! Il giovinetto Risponde: Eccomi, si alza e corre da Eli, ma Eli gli dice: non ti ho chiamato. Torna a dormire, E questo avviene per tre volte, finché Eli, che ha capito che si tratta di una voce straordinaria, gli dice: se ti si chiama ancora, rispondi: Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta. Così accade e Samuele rice­ve un messaggio di condannai per Eli e i suoi figli perché questi non si comporta­no bene e il padre non li ha ripresi. L’acme del racconto sta nel significato che l’au­tore da alla narrazione quando Commenta: Samuele acquistò autorità poiché il Signore era con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole (v. 19). Il racconto è un espediente letterario per far risaltare la figura di Samuele. Potremo usa­re per caratterizzarlo questa espressione: Samuele è uditore e facitore della parola.

Il giovane ha notato le aberrazioni della condotta dei figli di Eli, ha osservato la tolleranza, che diventava o poteva diventare connivenza del padre, che invece doveva essere in Israele, come giudice, il garante della legge di Dio. Il giovane si sente investito di una missione ardua, Samuele non si tira indietro, affronta direttamente la situazione, forte della parola di Dio, che risuona nella sua coscienza e in quella del popolo. Primo obbligo religioso non è il culto, ma l’obbedienza a Dio. Samuele è già pronto per dire un giorno al re Saul, che ha trasgredito la legge divi­na: Il Signore forse gradisce gli olocausti e i sacrifici come obbedire alla voce del Signore? Ecco, obbedire è meglio del sacrificio, essere docili è più del grasso degli arieti (1 Sam 15, 22). Il giovane Samuele ha intuito che il vero senso del rapporto dell’uomo con Dio è dato dalla fede, cioè dall’obbedienza perché la ribellione è atto di idolatria (cfr. v. 23). Questa alta visione della vita e della religione è stato il valore fondamentale del giovane Samuele, la sua linea di condotta per cui il commento dell’autore del libro è preciso: “Samuele non lasciò andare a vuoto una sola delle parole di Dio”.

Il giovane Samuele lascia un grande insegnamento ai giovani di oggi e di sem­pre: il senso della ribellione morale dinanzi all’ingiustizia, la coerenza, la fermezza nel portare avanti una parola che proviene dalla coscienza retta e dalla legge di Dio, il rifiuto di una tolleranza connivente col male, una testimonianza di vita che di per sé diventa rifiuto e condanna silenziosa di una vita decadente, una visione della religione che non si basa sulla ritualità ipocrita, ma sul rapporto con Dio in “spirito e verità”, come dirà Gesù alla donna di Samaria (Gv 4, 23).

1.5 David[19]

La figura di David è centrale nella storia d’Israele per il redattore deuteronomista dei due libri di Samuele; vi occupa un ampio spazio, va da 1 Sam 16 fino a tutto 2 Sam. Potremo delimitare il periodo giovanile dall’inizio fino a quando David viene riconosciuto re da tutte le tribù d’Israele. Scrive l’autore: “David aveva treni’anni quando fu fatto re e regnò quarant’anni” (2 Sam 5, 4). Il deuteronomista raccoglie e unifica narrazioni che forse circolavano alla corte di David e ne esaltavano il valore e la figura morale e religiosa. Certamente i racconti hanno un sapore encomiastico, sono la legittimazione della casata regnante. In questa storia così ampia, i momenti che caratterizzano la figura di David sono tanti, ne richiamere­mo solo alcuni.

Il Sam 16 narra l’unzione di David giovinetto, ultimo dei figli di Jesse della cittadina di Bethlehem. Il racconto, come per Funzione di Saul, non vuol riferire un fatto, ma mettere in evidenza che David è un giovane su cui c’è un disegno di Dio. Viene presentato poi alla corte di Saul come suonatore di strumenti, che solleva Saul da momenti di depressione.

Il Salmo 17 narra la vittoria di David sul gigante filisteo Golia. Questo potente soldato filisteo, armato di tutto punto sfida David apostrofandolo: sono forse un cane, perché tu venga a me con un bastone? Fatti avanti e darò le tue carni agli uccelli del cielo e alle bestie selvatiche. David invece, che non porta armi, ma solo la fionda, risponde: Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, Dio delle schiere d’Israele, che tu hai insultato. All’appressarsi del gigante, David gira la fion­da, scaglia la pietra e colpisce in fronte Golia, che cade subito a terra. David gli sal­ta addosso e con la sua stessa spada gli stacca la testa. Un episodio celebrato dagli artisti più famosi: da Donatello a Michelangelo, da Bernini a Caravaggio.

Il Sal 18 racconta l’insorgere della gelosia di Saul nei confronti della popolarità di David tanto che tenta di ucciderlo senza riuscirci. Saul prende anche occasione dal fatto che la sua figlia minore Mikal si sia innamorata di David per ten­dergli un’insidia per farlo perire, ma David supera brillantemente la prova.

I Sal 19-20 ci fanno vedere da una parte la gelosia furente di Saul verso David e la volontà di eliminarlo perché ormai lo vede solo come un antagonista che gli vuol usurpare il regno; dall’altra parte invece narrano la protezione di Mikal verso il marito e quella di Gionata, figlio di Saul, che si è legato a David da profonda ami­cizia ed affetto e lo aiuta per scaíjápare alla persecuzione di suo padre.

1 Sal 21-26 narrano diversi episodi della persecuzione aperta di Saul contro David: David passa con i suoi uomini, raccolti per difendersi, a Nob dove si trova l’arca dell’alleanza sotto la custodia del sacerdote Abimelek e questi rifocilla David e i suoi con i pani sacri, che era dedito mangiare solo ai sacerdoti[20] e Saul venutolo a sapere fa strage dei sacerdoti di Nob (cap 21-22); in due occasioni David ha la possibilità di eliminare Saul, ma se ne astiene perché Saul è sì suo nemico, ma è anche il consacrato del Signore (capp. 24 e 26). Del resto è un atteggiamento molto intelligente perché un atto simile gli avrebbe alienato il favore di cui godeva presso il popolo.

I Salmi 27 e 30 riferiscono una scelta intelligente, si potrebbe dire furba di David: egli si mette a servizio con i suoi uomini del re filisteo Achis di Gat. In questa maniera ha le spalle coperte dalla persecuzione di Saul e inoltre David sa volgere a suo vantaggio l’ordine che Achis gli aveva dato di tenere a distanza le tribù del deserto che da là penetravano nel suo territorio; David con il bottino che ricava dalle sue scorrerie contro gli Amaleciti si fa amici i capifamiglia della sua gente, mettendo le premesse per un suo riconoscimento presso la tribù di Giuda, cioè la sua tribù di provenienza.

Il Salm 29 racconta che gli altri re filistei obbligano Achis a licenziare David perché non partecipi, lui ebreo, allo scontro decisivo contro l’esercito di Saul. David ne è contento perché qualunque esito avrà la battaglia lui ne esce sempre pulito senza alcuna compromissione.

I Salm 28 e 31 narrano il dramma di Saul (cap. 28) e la sua sconfitta nella battaglia contro i Filistei presso i monti di Gelboe

. . Il Salm 1 riferisce che un giovane amalecita arriva presso David dal campo di battaglia e racconta che ha dato l’ultimo colpo a Saul gravemente ferito e morente, che ha portato via la sua corona regale per consegnarla a David. David, che non vuol creare nessun sospetto nei propri confronti, fa uccidere il giovane amalecita e intona un canto di cordoglio per la morte di Saul e Gionata.

. . I  Salm 2-4 narrano che David viene proclamato re dai suoi della tribù di Giuda e che si ferma nella città principale della tribù, ad Hebron, che diventa sua capita­le; raccontano poi come finiscano nel nulla i possibili concorrenti di David: Abner dopo un inutile tentativo di far riconoscere dalle tribù del nord come re Ish-baal, figlio di Saul, offre a David1 di prenderne l’eredità; David esige che gli sia riportata sua moglie Mikal, figlia di Sàul, certamente perché in questa maniera avrebbe legittimato in qualche modo la sua successione a Saul, ma Abner viene ucciso da Joab, capo delle truppe di David, che né teme la concorrenza; Ish-baal viene ucciso da due manigoldi mentre dormía e ne portano la testa a David, ma questi per evita­re ogni mala voce fa eliminare i due criminali. Ormai il campo è sgombro per un riconoscimento di David come unico re di tutto Israele.

. . Il Salm 5 narra il convenire presso David dei capi tribù del nord che offrono a David la corona e David viene consacrato re e unisce nella sua persona le due corone: quella della tribù di Giuda e quella delle tribù del nord, che fu di Saul. Per essere assolutamente indipendente da ogni condizionamento David occupa la città fortificata di Gerusalemme, ancora in mano ai Cananei, non appartenente quindi ad alcuna tribù d’Israele e la fa sua capitale. Comincia da qui la lunga storia di Gerusalemme, siamo all’anno mille a. C. Sconfigge poi definitivamente i Filistei.

. . Il Sam 6 narra il trasporto dell’arca dell’alleanza a Gerusalemme. E un’abile mossa religiosa e politica fatta da David. L’arca dell’alleanza era il simbolo dell’u­nità delle dodici tribù d’Israele e della presenza del Dio dei padri in mezzo al suo popolo. Con questo David rafforza l’unità attorno a sé e convoglia sacerdozio e popolo verso Gerusalemme.

. . Il Salm 7 è rappresenta l’acme dell’ascesa di David. In cambio del progetto di David di costruire una casa, cioè un tempio, in onore del Signore, riceve da Dio per bocca del profeta Natan la promessa che è il Signore invece a costruirà una casa, cioè una casata a David assicurandogli che dopo di lui ci sarà sempre un suo successore sul suo trono. Di per sé la parola di Natan non è che la legittimazione religiosa del regno di David, ma inizia anche da qui l’attesa del mashiah, cioè del consacrato discendente davidico, che sarà ripreso dai profeti specialmente da Isaia.

Questo excursus attraverso i libri di 1-2 Samuele ci serve ora a sottolineare alcuni tratti della figura di David giovane, fino all’età di trent’anni, che potremo considerare età giovanile, anche se le fasce d’età come maturazione di vita non corrispondono alle nostre.

.a.   Umanamente David ci si presenta come un giovane volitivo e intraprendente. Entra a servizio della corte di Saul; affronta con coraggio la lotta contro il filisteo Golia, lo sconfigge e lo uccide; non rifiuta di imparentarsi col re sposandone la figlia, anche se deve pagare un prezzo arduo con imprese militari; quan­do è perseguitato da Saul sa crearsi un corpo d’uomini che condividano con lui la vita e i pericoli della persecuzione; sa prevedere gli sviluppi delle situazioni e si prepara un futuro secondo un suo progetto quando si mette a servizio di Achis, uno dei re della pentapoli filistea, e compie scorrerie con il cui bottino si rende amici i capifamiglia della sua tribù; sa attendere l’evolversi della situazio­ne dopo la morte di Saùl, ne segue gli sviluppi e sa evitare ogni giudizio negati­vo sul suo conto[21]. Certamente è un giovane determinato a perseguire un suo ideale e un suo progetto, non si ‘sfiducia davanti ai pericoli e ai rischi, ma li affronta con determinazione. Pur in questa decisa volontà di raggiungere una meta, non tradisce mai la sua coscienza, non diventa opportunista, ma osserva la legge morale e lo dimostra quando ha occasione di eliminare il suo nemico, ma lo risparmia perché per David giudice dell’agire degli uomini è solo Dio.

.b.  Ma David è anche il fedele jhawhista, cioè attaccato alle tradizioni con una fede ferma, incrollabile. E personaggio in cui il progetto di Dio è il suo progetto perché gli eventi David li legge e li vive alla luce di una fede viva, accogliendoli e assecondandoli non fa che sviluppare il disegno che Dio ha su di lui. Del resto è sempre vero che l’azione di Dio entra nelle vicende e nella realtà delle persone per cui la vita vissuta alla luce della presenza di Dio è vicenda umana e divina insieme. Di fronte alla sfida col gigante Golia non si affida solo al proprio corag­gio, ma dice: Tu vieni a me con la spada… Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti (1 Sa 17,45). Dinanzi alla persecuzione di Saul non reagisce con vio­lenza, ma con intelligenza e con fede; dirà a Saul: Se il Signore ti eccita contro di me, voglia accettare il profumo di un’offerta. Ma se sono gli uomini, siano male­detti davanti al Signore, perché oggi mi scacciano lontano impedendomi di parte­cipare all’eredità del Signore (1 Sam 26,19). Nel portare l’arca dell’alleanza nella sua città è pieno di gioia, il testo biblico ci presenta un David che tripudia, balla, suona, canta dinanzi al Signore e alla moglie Mikal che lo rimproverava quasi avesse ecceduto dinanzi al popolo risponderà: Ho fatto festa dinanzi al Signore!. Per questo nella tradizione biblica David sarà considerato il cantore di Dio e gli attribuiranno la maggior parte dei salmi[22] e spesso nell’iconografia cristiana è rappresentato con la cetra in mano. Ci siamo fermati a David giovane, ma il rac­conto biblico ci presenta anche un David, che nel pieno della sua gloria, si mac­chia di peccato, peccato grave di adulterio e di omicidio, ma insieme un David pentito, che riconosce il suo misfatto e dice: Ho peccato contro il Signore (cfr. 2 Sam 11-12) per cui è stato scritto, che David è stato grande nel peccato, ma anche grande nel pentimento e la tradizione biblica gli ha attribuito per questa vera, profonda conversione il salmo 51, che esalta il perdono e la grazia di Dio.

 

1.6 Geremia

Geremia è il profeta che vive avvallo tra la fine del sec. VII e l’inizio del VI, tra il 640 e il 586 a.C., in un periodo che è il più torbido e il più tragico della storia di Gerusalemme. Chiamato al ministero profetico molto giovane nel 627 svolge la sua missione fino al .586, cioè fino alla distruzione di Gerusalemme e alla deportazione degli Ebrei in esiliò a Babilonia. Svolse il suo ministero sotto tre re: Giosia, Joiaqim (Joiakin regnò solo tre mesi e fu portato in esilio a Babilonia con la prima deportazione) e Sedecia. Diamo prima un rapido sguardo alla storia tragica di questo periodo.

Geremia fu chiamato al ministero profetico nel 627 al tredicesimo anno del re Giosia, re che dal 622 al 609 portò avanti una radicale riforma religiosa. Il nonno Manasse e il padre Amon del re Giosia si erano allontanati dalla fede dei padri, avevano portato Gerusalemme ad un collasso religioso introducendo culti pagani e un ampio sincretismo religioso. Il padre Amon fu assassinato dopo appena due anni di regno da una congiura di ufficiali, ma il popolo elesse il suo figlio Giosia, che aveva appena otto anni. La narrazione biblica non dice nulla di Giosia fin all’età di 26 anni, cioè fino al 622 quando il re sulla base di un rotolo scritto ritrovato nel tempio[23] iniziò una profonda riforma religiosa che ripristinava il vero culto. Questo rotolo prevedeva l’accentramento del culto in un solo luogo, cioè al tempio di Gerusalemme[24] e l’eliminazione di tutti gli altri templi e luoghi di culto, imponeva la celebrazione delle feste tradizionali d’Israele in questo unico tem­pio e l’affidamento del sacerdozio solo ai sacerdoti della tribù di Levi. Giosia allargò la riforma a tutto il territorio d’Israele, che, approfittando della crisi dell’impero d’Assiria, aveva riconquistato ricostituendone l’unità come al tempo di David. Il contenuto di tutta la riforma portata avanti da Giosia sulla base del rotolo, si pensa oggi dagli studiosi, sia stata trasmessa nei capp. 12-26 del libro del Deuteronomio[25]. In questo periodo di riforma e di unità territoriale e religiosa non risultano interventi di Geremia, che dovette appoggiare con favore, ma in silenzio la riforma portata avanti dal re.

Il re Giosia morì in uno scontro frontale a Meghiddo con il faraone Necao che risaliva il territorio per portare aiuto all’Assiria, la cui capitale Ninive era già stata occupata dai babilonesi, e Giosia, alleato di Babilonia, voleva sbarrargli la strada. Morto Giosia, il faraone impose come re il figlio di lui Joiaqim. Costui in un pri­mo momento fu soggetto all’Egitto, ma dopo che il Faraone e l’Assiria furono sconfitti nel 605 a Karchepiish da Nabucodonosor, passò sotto il potere del nuovo impero di Babilonia, che impose gasanti tributi.

Gerusalemme in questi anni è lacerata da forti lotte intestine politiche e religiose tra due partiti che si opponevano: quello filoegiziano, che sperava in un aiuto dell’Egitto contro Babilonia, e quello filobabilonese, che non si faceva illusio­ni pensando alla incapacità dell’Egitto di far fronte ormai allo strapotere di Babilonia Geremia apertamente predicava di sottomettersi a Babilonia e per questo fu osteggiato, perseguitato dagli oppositori, ma soprattutto Geremia predica la conversione, di ritornare a JHWH, perché il re aveva reintrodotto il sincretismo religioso, i culti pagani. Questo fa capire che, non soltanto della riforma di Gioisia, non era maturata una vera concezione religiosa monoteista, né negli alti ranghi della società, né tra i sacerdoti del Tempio, né tra la popolazione. Il sincretismo religioso prolifera e invadere lo stesso Tempio di Gerusalemme. Joiaqim, spinto dal partito filo egiziano si ribellò al Nabucodonosor e non parlò più di tributi. Questi intervenne e mise l’assedio a Gerusalemme, nel frattempo Joiaqim muri e divenne re il figlio Jiiakin, che si consegnò al re di Babilonia e fu portato in esiliò nel 597 insieme con la parte migliore della popolazione di Gerusalemme.

Nominato re Sedecia, Gerusalemme rivisse la stessa attenzione: in un primo momento rimase soggetta a Babilonia e poi, nonostante la predicazione di Geremia, ebbe il sopravvento il partito filo egiziano. Ci fu di nuovo l’assedio di Gerusalemme, il re Sedecia tentò la fuga, fu riacciuffato e portato dinanzi a Nabucodonosor, che gli uccise i figli di presenza e gli fece cavare gli occhi, lo incatenò e lo portò prigioniero a Babilonia. Gerusalemme pretese di resistere e fu occupata e distrutta nell’agosto del 586 e tutta la popolazione fatta prigioniera fu portato in esilio a Babilonia. Geremia fu trattato con riguardo dai capi dell’esercito per la sua nota posizione filobabilonese. Chiese ed ottenne di rimanere in Giudea con i rimasugli della disgraziata popolazione, ma ribelli estremisti con inganno con violenza lo presero e fuggirono trascinandolo in Egitto. Così Geremia chiuse i suoi occhi in terra straniera.

La Bibbia di tutti questi tragici eventi fa 1 lettura religiosa. Continuamente ripete che i re “fecero ciò che è male agli occhi del Signore” e che “l’ira del signore s’accese contro Gerusalemme”per tutte le nefandezze religiose morali commesse fin dal tempo di Manasse e che Gerusalemme fu data in mano ai nemici e il tempio distrutto, come punizione di Dio.

Dal libro di Geremia è molto difficile trarre una cronologia attraverso la quale cogliere lo sviluppo della personalità, del pensiero del profeta e della sua esperienza religiosa, ancor più difficile delimitare gli oracoli profetici e gli interventi di Geremia giovane. Cercheremo di cogliere solo qualche tratto della sua personalità di giovane.

Geremia per sua stessa indole mite, amante della tranquillità e della pace, si trovò nella bufera religiosa e politica di quegli anni torbidi sopra descritti. È giovane, però non si sottrae all’impegno e giudicando con chiarezza la situazione sia religiosa che sociale politica, nonostante le difficoltà, non rifiuta di entrare in campo, di offrire luce e di richiamare ai veri valori di cui Gerusalemme è portatrice.

L’inizio del libro è molto bello. Il profeta rilegge la sua missione, la vede alla luce di Dio e, forse in un momento di prostrazione, risente la parola di JHWH che gli dice: Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo; prima che tu uscissi alla luce ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni. Ripensa le sue difficoltà giovanili e ricorda di aver risposto: Ahimè, Signore, ecco io non so parlare perché sono troppo giovane, ma si rafferma nella sua missione perché il Signore gli aveva risposto: Non dire: sono giovane, ma va’ da coloro a cui ti manderò…Non temerli, perché io sono con te per proteggerti. Trova la forza per la missione solo nel Signore, che fa sì che la parola di Geremia diventi un giudizio forte sulla società. Il profeta, per descrivere la sua missione e la forza della parola di Dio, usa sei verbi, quattro negativi, presi due dall’ambito agricolo: sradicare e distruggere, e due dall’ambito edilizio: demolire ed abbattere; ed usa due verbi positivi: piantare e edificare. Ed ecco Dio lo ha mandato: Per sradicare e demolire, per distruggere ed abbattere, per edificare e piantare (cfr. 1,4-10). Questa è la forza della parola di Dio: accettarla significa creare il nuovo, rifiutarla cadere nel buio.

Un intervento del giovane profeta, forse fatto prima della riforma di Giosia, ricalcando tematiche care ad Osea, ci svela da una parte la tenerezza e il profondo senso religioso di Geremia e dall’altra la sua sofferenza nel vedere lo smarrimento religioso della popolazione. Osea aveva parlato dell’alleanza tra Dio e il suo popolo come di un rapporto sponsale, aveva chiesto ad Israele di tornare a quell’amore schietto e genuino del primo incontro con il Dio della salvezza, cioè al periodo del deserto: “la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2, 16) aveva detto Dio per mezzo di Osea un secolo prima. Con più forte intensità si esprime Geremia. Ecco alcune righe: Mi ricordo di te, dell’affet­to della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto (2, 2). Dio esp rime anche il suo rammarico rimproverando: Il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non contengono l’acqua (2, 13). Nel rimprovero è insito la punizione perché nel deserto, nel deserto del­la vita, rimanere senz’acqua significa andare incontro alla morte. Ma Israele è incapace di percepire il richiamo, corre dietro alle divinità della fecondità e della fertilità, senza più calcolare il suo sposo. Dice il Signore: Giovane cammella leg­gera e vagabonda, asina selvatica abituata al deserto: nell’ardore del suo deside­rio aspira Varia; chi può frenare la sua brama? Quanti la cercano non devono stancarsi: la trovano sempre nel suo mese. Bada che il tuo piede non resti scalzo e che la tua gola non si inaridisca! (2, 33-35). E un rimprovero anche per la società cristiana di oggi: dimentica del suo sposo, del Signore Gesù, corre bramosa ansi­mando dietro ai suoi idoli, alle cose che l’attirano, ma nel suo prostituirsi non disseta la sua brama, anzi la sua gola inaridisce. E ancora con sofferenza il Signore grida: Perché il mio popolo dice: Ci siamo emancipati, non faremo più ritorno a te? Si dimentica forse una vergine dei suoi ornamenti, una sposa della sua cintura? Eppure il mio popolo mi ha dimenticato per giorni innumerevoli. Come sai scegliere la via in cerca di amore!” E vero, dice Geremia, l’uomo cerca amore, ma lo cerca per vie sbagliate. Come l’uomo di oggi: si è emancipato, non gli serve più l’amore di Dio, cerca altri amori, ma sono amori infecondi.

Un cenno alle sofferenze di Geremia. Il profeta trova un’accanita opposizione sul piano religioso e in quello politico. Geremia ha una più chiara visione politica, a confronto dei suoi avversari, sulla situazione internazionale del tempo, capisce che è impossibile opporsi a Babilonia e che la fiducia riposta nell’Egitto non solo non solleverà Gerusalemme dai pesanti tributi da versare a Babilonia, ma farà correre il rischio di passare sotto un altro esoso dominatore, l’Egitto per l’appunto. Geremia predica la sottomissione a Babilonia, vede nel giogo babilonese lo strumento della punizione di Dio per il peccato del suo popolo, ma da un punto di vista religioso Babilonia lasciava libertà di culto e quindi Geremia si riprometteva che i capi comprendessero e la popolazione accettasse di tornare alla vera tradizione dei padri, a JHWH, al Dio dell’alleanza del Sinai. La sua predicazione religiosa fu volutamente travisata e rovesciata in prospettiva politica, trovò non solo una forte opposizione, ma fu considerato traditore, nemico di Gerusalemme, subì la tortura e il carcere.

In questa situazione il temperamento mite, dolce, sensibile di Geremia fu duramente messo alla prova. Desolato, il profeta cominciò a dubitare di se stes­so, della sua vocazione e della sua missione, cominciò a interrogare Dio: Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te; ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia: perché le cose degli empi prosperano? Perché tutti i tra­ditori sono tranquilli? (12,1). Aveva visto la morte del re giusto, Giosia, e l’aveva sconvolto e dinanzi all’imperversare degli odi e degli attacchi nei suoi confronti, si lamenta: Me infelice, madre mia, che mi ha partorito oggetto di litigio e di contrasto per tutto il paese (15,1) e rivolto al Signore prega e interroga: Nella tua clemenza non lasciarmi perire, sappi che io sopporto insulti per te. Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità: la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore, perché io portavo il tuo nome, Signore, Dio degli eserciti. Non mi sono seduto per divertirmi nelle brigate dei buontemponi, ma spinto dal­la tua mano sedevo solitario, poiché mi avevi riempito di sdegno (15, 15b-.17). Ma dopo il lamento passa anche all’accusa: Perché il mio dolore è senza fine e la mia piaga incurabile non vuol guarire? Tu sei diventato per me un torrente infido dal­le acque incostanti (v. 18). In maniera drammatica il profeta richiama l’immagine dell’uomo, il nomade, o di un animale, la cerva per esempio, che nel deserto va verso il torrente da cui spera trovare acqua e non ve la trova, non ci si può fidare di esso; così, dice Geremia, è il mio rapporto con Dio: ho perso la fiducia! Accusa grave, vicino alla bestemmia, quasi Dio sia diventato infido per il profe­ta! Ma nel suo cuore il profeta sente subito la risposta del Signore: Se tu ritorne­rai a me, io ti riprenderò… sarai la mia bocca. I tuoi nemici non potranno prevalere (vv. 19-20). Ancora più drammatico è un altro passo. Il profeta si rivolge a Dio: Mi hai sedotto, Signore, e mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso (20,7). La forza d’attrazione di Dio e della sua parola per il profeta è sta­ta irresistibile, come una seduzione, ma, dice il profeta, è stato un inganno, come a dire: ci sono cascato, ma non ci cascherò più, mi hai attratto, mi hai fatto vio­lenza con la gioia e la bellezza che venivano dalla tua parola, ma ho trovato solo scherno e beffe! Il profeta non teme di insistere su questa lettura della sua vita: Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!». Ma nel mio cuore c’era un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa, mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo (v. 9). L’opposizione esterna, accanita da parte dei suoi nemici si riflette nel suo interiore e porta il profeta a maledire la sua straziata vita: Maledetto il giorno in cui nacqui, il giorno in cui mia madre mi diede alla luce non sia benedetto (v. 14). Il giovane Geremia è costretto a porsi tanti interrogativi, si domanda: Perché mai sono uscito dal seno materno, per vedere tormenti e dolore e per finire i miei giorni nella vergogna? (v. 18), ma il dovere di denunziare il traviamento di Gerusalemme, il peccato invasivo, che rovina ogni convivenza e ottenebra la mente dei capi e del popolo, è più forte del suo dolore, sente dentro di sé il fuoco della parola di Dio che lo manda e non può sottrarsi.

Un aspetto tipico della missione di Geremia: la lettura che il profeta fa della situazione gli fa intravedere distruzione, morte, macerie e allora il Signore gli ordina di non sposarsi, perché avere una famiglia, dei figli, significa generarli solo per mandarli incontro alla morte? Geremia non si sposa e diventa dinanzi agli occhi di tutti come un simbolo. Osea era stato un simbolo con il suo matrimonio e i suoi figli, Geremia lo sarà col suo celibato. Non sposarsi era cosa non solo insolita, ma grave, quando la paternità e la maternità erano la prima benedizione di Dio, per cui Geremia viene additato a vista e schernito, ma la sua risposta doveva sconcertare: me lo ha ordinato il Signore perché, per la vostra ostinata empietà, è imminente la fine di Gerusalemme, la distruzione di tutto e la morte. Era veramente un segno la vita di Geremia, che ammoniva tutti, ma anche questa parola fatta carne nella vita del profeta viene respinta (cfr. 16,1-13).

Evidentemente il celibato di Geremia non è basato sul valore della verginità in sé, come segno di consacrazione a Dio, ma certamente in Geremia è una scelta per una missione, quella di essere segno di un forte richiamo di Dio sul giudizio che incombe su Gerusalemme.

In sintesi possiamo dire che Geremia è un giovane di una grande sensibilità, mite, ma anche forte. Giovane di grandi capacità sia da un punto di vista religioso che sociale-politico: religiosamente è immerso nella più vera e forte tradizione d’Israele, che gli permette di condannare l’idolatria e il sincretismo religioso del suo tempo, di capire l’originalità della religiosità della tradizione, come religione del cuore e non dei riti, socialmente e politicamente perché ha saputo leggere con acu­me critico le situazioni internazionali, il grave pericolo cui andava incontro Geru­salemme che si affidava all’Egitto, potenza ormai in declino. Nella maturità vede purtroppo realizzate le sue minacce, vede la prima deportazione del re Joiakin con la popolazione migliore della città e dieci anni dopo vede la distruzione di Geru­salemme e l’esilio di tutta la popolazione. Ma Geremia non si è esaltato, anzi ha partecipato a tutto il dolore dei suoi connazionali ed ora dirà solo parole di confor­to, e con la stessa certezza che la parola del Signore gli aveva dato per abbattere e distruggere, ora dirà con la stessa forza le parole del rinnovamento, del perdono, del ritorno e della nuova alleanza (cfr. cap. 31).

Impariamo da Geremia la fede e la coerenza con i grandi ideali. Nonostante le fragilità umane e tutte le difficoltà, la fede rende stabili, fermi, coerenti perché è basata sulla fedeltà assoluta di Dio. Di questi giovani hanno bisogno oggi la Chie­sa e la società.

  1. Alcuni riferimenti all’educazione dei giovani nei testi dell’AT

Sottolineeremo solo due aspetti della formazione dei giovani: da una parte l’at­tenzione al giovane in quanto vive un suo rapporto con la sapienza educatrice e dall’altro il giovane che cresce all’interno di una famiglia, che ha il compito di gui­darlo, e terzo l’amore dei giovani che li porta al matrimonio,

.a.   C’è una forza interiore che parla, illumina, guida, plasma e forma la vita del gio­vane. La Bibbia la chiama la “sapienza” di Dio. La rappresenta come una don­na amabile, gentile, che ti sta accanto, bussa alla porta della tua vita, ti invita a seguirla: da una parte dice che vuol essere tua ospite, vuol entrare per essere compagna fedele, sicura della tua vita; per un’altra parte invece ti invita alla sua casa, bella, nobile, ti vuole alla sua mensa per farti gustare i suoi cibi deliziosi. Ma nel giovane s’insinua un’altra figura, che è l’opposto della sapienza: i testi biblici la chiamano la “straniera”: in apparenza è bella e attraente, ma il suo cuo­re è perverso, lusinga e promette piacere, ma è infida, inganna, conduce lenta­mente alla morte.

A volte è il genitore che parla al figlio della sapienza, altre volte è la sapienza stessa che si rivolge al giovane. Il padre esorta il figlio a seguire la sapienza: Acquista la sapienza, acquista l’intelligenza…non abbandonarla ed essa ti custodirà, amala e veglierà su di te… a costo di tutto quello che possiedi acquista la sapienza. Stimala ed essa ti esalterà… Ti indico i sentieri della sapienza: attieniti alla disciplina, non lasciarla, praticala perché essa è la tua vita (Pro 4, 5- 13); viceversa il padre ammonisce il figlio a non seguire la straniera: Stillano miele le labbra di una straniera e più viscida dell’olio è la sua bocca; ma ciò che segue è amaro come assenzio… i suoi piedi scendono verso la morte… Per timore che tu guarda al sentiero della vita le sue vie volgono qua e là, non avvicinarti alle porte della sua casa (Pro 5, 3- 8). In altri brani è la sapienza in persona che si presenta e invita: Io, la Sapienza, possiedo la prudenza e ho la scienza e la riflessione. Temere il Signore è odiare il male: io detesto la superbia, l’arroganza, la cattiva condotta e la bocca perversa. Io amo coloro che mi amano e quelli che mi cercano mi troveranno. Presso di me c’è ricchezza e onore, sicuro benessere ed equità (Pro 8, 12-18).

L’autore biblico sa che l’uomo è stato creato a “immagine e somiglianza di Dio” e quindi sa che nel giovane c’è un innato desiderio di bene, capacità di saper discernere e di seguire la voce e la via della Sapienza; ma sa anche che “la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo, e ne fanno esperienza (col male, il peccato) coloro che gli appartengono” (Sap 2, 24). Educare i figli, i giovani significa far prendere coscienza chiaramente del bene e del male che segna la coscienza e la vita di ogni persona, dell’impegno e della lotta che il bene richie­de per viverlo, dell’approvazione che viene dal bene ratificato sia dalla propria coscienza sia dalla tradizione della propria casa sia dalla società, tradizione che ha già selezionato, vagliato, approvato il bene e riprovato il male. Educare signi­fica allora tirar fuori, educere, il bene dal profondo del cuore o in altre parole insegnare a seguire la Sapienza, che ha posto i suoi insegnamenti nella Legge che Dio ha donato al suo popolo. Per questo alcuni libri sapienziali identificano la Sapienza con la Torah[26]. Il Siracide, dopo aver presentato la Sapienza come l’ar­chitetto di cui Dio si è servito per creare e ordinare tutte le cose, afferma che la vera sapienza dell’uomo è riconoscere Dio come l’unico, il santo, e amare la Legge che Dio ha dato all’uomo, scrive: Tutto questo è il libro dell’alleanza del Dio altissimo, la legge che ci ha imposto Mosé, l’eredità delle assemblee di Gia­cobbe (Sir 24,22) e Barak dice: Essa (la sapienza) è il libro dei decreti di Dio, è la legge che sussiste nei secoli; quanti si attengono ad essa avranno la vita, quan­ti l’abbandonano moriranno (4,1).

.b.   Il giovane nel cammino verso la maturità ha bisogno di essere sostenuto, guida­to e corretto quando sbaglia. I sapienti conoscono bene la forza del male, san­no che il giovane è fragile, che si lascia attrarre da quel che apparentemente sembra più piacevole e più facile, che non ha ancora una chiara capacità di discerni­mento e una volontà provata e rafforzata. Il genitore deve correggere il figlio e strumento di correzione è la punizione. Scrive il Siracide: Chi ama il proprio figlio usa spesso la frusta… Chi corregge il proprio figlio ne trarrà vantaggio e se ne potrà vantare con i suoi conoscenti… e al contrario: Chi accarezza un figlio ne fascerà poi le ferite, ad ogni grido il suo cuore sarà sconvolto. Un cavallo non domato diventa restio, un figlio lasciato a se stesso diventa sventato. Coccola il figlio ed egli ti incuterà spavento. Non concedergli libertà in gioventù, non pren­dere alla leggera i suoi difetti… (Sir 30,1-13). Con questo testo ci potremmo trovare più o meno d’accordo. Credo che tutti possiamo convenire sul dovere dei genitori e degli educatori di guidare, correggere il fanciullo, il ragazzo, il giovane. Forse meno sui metodi educativi: la punizione e la restrizione della libertà. Normalmente c’è il buon senso nell’atteggiamento educativo dei geni­tori, sostenuto dall’affetto verso i figli in rapporto alla punizione per guidare e correggere, ma non si può cancellare del tutto la punizione. Certamente la puni­zione non deve mai essere fine a se stessa, ma punire per lo sbaglio, la cattiva condotta, per un male fatto o arrecato è necessario, altrimenti si corre il rischio di rendere vana l’educazione, come una legge senza sanzione è vana. Si potrà forse discutere sulla misura e il tipo di punizione, ma non sulla necessità di essa. Ancor più oggi si presta a discussione la frase: Non concedergli libertà in gio­ventù. Oggi la libertà è reclamata da tutti, dovunque e sempre. Il testo parla evidentemente di una libertà nel senso della pericolosità per un giovane che ancora non è capace di tutta la responsabilità di decidere nelle sue scelte; una libertà eccessiva può metterà fischio non solo l’educazione, ma il futuro di un giovane. La libertà non é capriccio, né inutile o pericolosa sperimentazione, ma responsabilità decisionale di fronte alle proprie scelte, lì dove la libertà si bifor­ca: una libertà che costruisce e una libertà che distrugge e schiavizza, dove chiaramente la vera libertà non è quelle di farsi schiavo, ma quella di progetta­re secondo un disegno dalle forme più belle e varie, cioè libere, che realizzi il bene e la perfezione della persona e della società. L’adolescente e il giovane hanno bisogno di costruire questa loro propria libertà e lo potranno fare là dove maturino nelle convinzioni e nelle scelte più alte. Sta di fatto che oggi a lamentarsi di una libertà conclamata e pericolosa sono i genitori perché vedo­no vanificati gli sforzi di educare alla vera libertà da una società consumistica che spinge senza freni al capriccio, alla sperimentazione, alle novità vacue solo per finalità di lucro.

.c.   Un cenno sull’educazione di giovani all’amore. Dell’amore dei giovani la Bib­bia più che parlarne lo canta. L’attrazione, l’amore dei giovani è cosa talmente comune, naturale che bastava quanto aveva detto Genesi: “l’uomo lascerà suo padre sua madre e si unirà alla sua donna e saranno un carne sola” (Gen 2,24). La Bibbia parla spesso di matrimoni e di feste matrimoniali, ma non sente l’esigenza di affrontare il problema a livello educativo. In qualche modo indiretta­mente potremmo dire che se ne parla nel libro di Tobia, un bel racconto, scrit­to forse nel terzo secolo a. C., che vuol presentare una famiglia ebrea della dia­spora, che nonostante le difficoltà rimane fedele alla propria identità religiosa e il giovane Tobia convola a nozze con Sara con un matrimonio secondo la pro­spettiva e la legge ebraica pur vivendo in un mondo pagano.

Il testo più bello che parla dell’amore dei giovani è il “Cantico dei cantici”. Di questo breve libretto sono state fatte letture diverse, ci mettiamo nella prospettiva di considerare i due protagonisti, due giovani, che si cercano attratti dall’amore per una vita insieme[27]. Il Cantico è composto di canzoni profane d’amore, che sono state raccolte insieme e alle quali un redattore ha dato una certa unità drammatica, che si esprime nella ricerca vicendevole, nella perdita momentanea tra i due giovani per arrivare poi al rapporto sponsale. I diversi canti celebrano l’attrazione vicendevole dei due innamorati, fanno l’elogio del­la bellezza fisica della ragazza e del giovane, esprimono il desiderio di apparte­nersi l’un l’altro. Il corpo per la mentalità biblica ha una valenza positiva per­ché esso è opera di Dio, che l’ha plasmato dalla terra e a cui ha dato il suo sof­fio vitale; è attraverso il corpo elle passa lo stupore per l’affinità, la bellezza, la gioia di una ammirazione contemplativa vicendevole per cui l’uomo da sempre dinanzi alla donna che le sta di fronte come aspirazione e aiuto cui tendeva, può dire estasiato: “questa sì che è carne della mia carne e osso della mie ossa” (Gen 2,23)[28].

Leggiamo solo alcuni versetti[29]. Si commentano da soli.

Dice il giovane della sua ragazza: Quanto sei bella, amica mia, quanto sei bella / coi tuoi occhi da colomba, luminosi dietro al velo… Un nastro scarlatto son le tue labbra, parlano soavi / Spicchio di melagrana la tua gota che arrossisce die­tro al velo…// I tuoi seni son due cerbiatti, due gemelli di gazzella / che tra i gigli stanno a pascolare. // Quando rinfresca il giorno e sul suolo corrono le ombre, / sul monte della mirra voglio andare, sulla collina dell’incenso. // Tutta bella sei, amica mia, / tutta bella, in te non c’è difetto. // Mi hai rubato il cuore, sorella mia, mia sposa, / mi hai rubato il cuore con uno dei tuoi sguardi, con una gemma della tua collana. // Come sono dolci le tue carezze / inebriano più del vino, il tuo profumo più dell’essenza. //Favo stillante le tue labbra, e la tua lingua nasconde di miele e latte la dolcezza (4, 111).

Nella ricerca vicendevole il ragazzo s’appressa di sera alla casa della ragazza e bussa, ella esita un istante e poi -.Mi alzo, corro, voglio aprire all’amor mio, e stil­lano mirra le mie mani, / scende la mirra dalle dita sul paletto della serratura. // Apro infine all’amor mio, e l’amato mio è sparito, l’amato se ne è andato. / L’ho cercato, ma non l’ho trovato, l’ho chiamato, ma non ho avuto risposta… // Vi scongiuro, ragazze di Gerusalemme, se trovate l’amor mio, ditegli che sto morendo d’amore per lui (5,3-8).

E canta la ragazza del suo amato: Cos’ha di tanto amabile il tuo amato, donna di bellezza senza pari, / cos’ha di tanto amabile il tuo amato, che così tu ci scongiuri? // L’amato mio ha di latte e rose il volto, si distingue tra mille. // Il suo capo è d’oro puro, coi riccioli che son grappoli di palma, e come piume di corvo tanto son neri… //Le sue braccia son modellate in oro, tempestate di topazi. /Il suo petto è d’avorio, e vi brillano zaffiri. // Colonne d’alabastro son le gambe, su basi d’oro…// Al suo palato si colgono delizie, tutto in lui è meraviglioso. / Questo è l’amato mio, ragazze di Gerusalemme, questo è il mio amore (5,9-16). In questi canti non è mai nominati Dio, forse non ce n’era bisogno perché l’amore è progetto di Dio. Sono canti profani, ma non irreligiosi perché l’amore attinge il mistero della vita e in fondo al mistero della vita c’è Dio. Si nomina JHWH una sola volta, solo alla fine del Cantico quando a conclusione si afferma che l’amore è divino. Entrambi i giovani si dicono l’un l’altro: Tienimi sul tuo petto come un sigillo, mettimi come sigillo sulla mano, ché forte è l’amore come la morte, tenace la passione come l’abisso eterno. Le sue vampe son di fuo­co, fiamma di JHWH (8,6). L’amore è dono totale e unisce in maniera definiti­va, afferra con la stessa tenacia e forza della morte, ma il suo vincolo oltrepassa la morte perché vive per l’eternità. Potremmo concludere che anche per il Can­tico, per questi canti d’amore, c’è una dimensione ultima, vera misura dell’amore, cioè Dio stesso: l’amore sarà tanto più forte e vero quanto più è vicino alla fiamma d’amore, che l’ha acceso, cioè Dio. Del resto nel Nuovo Testamen­to S. Paolo dirà agli sposi: amatevi come vi ama il Signore, che ha dato la vita per la sua sposa, la Chiesa, cioè per voi (cfr. Ef 5, 21-33).

 

 

Digitazione di Vesprini Albino. Grazie

[1] ‘adam di per sé indica l’essere umano, indistintamente maschio e femmina. Entrambi nella realtà di singoli sono incompleti, e hanno bisogno di un aiuto che gli stia di fronte (come dice letteralmente il testo biblico) o “un aiuto simile a lui” (come comunemente è tradotto), solo allora si completano nella dualità.

[2] Cfr. J. Pedersen, Israel. Its life and culture, Oxford University Press, London 1973 p. 60-81; R. De Vaux, Istituzioni dell’Antico Testamento, Marietti, Torino 1987; Cfr. J. Jeremías, Gerusalemme al tempo di Gesù, Ed. Dehoniane, Roma 1989, B/XI La situazione sociale della donna.

[3] Si possono utilmente consultare due recenti pubblicazioni sui personaggi biblici: M. Bocian (a c.), Dizionario dei personaggi biblici, Piemme, Casale Monferrato 20 044; P. BEAUCHAMP, Cinquanta, ritrat­ti biblici, Cittadella, Assisi 2004

[4]  Isacco, in ebraico Yitschaq, significa “il Signore fa sorridere”. Nei due diversi racconti in cui si annuncia la nascita di questo figlio si sottolinea l’elemento del sorriso: in Gn 17,17 è Abramo che ormai vecchio dinanzi alla rinnovata promessa di Dio di dargli un figlio “rise e pensò: Ad uno di cen­to anni può nascere un figlio? E Sara all’età di novanta anni potrà partorire?’, in Gn 18,12-15 si rac­conta che Sara, ormai vecchia, quando sentì dire che avrebbe avuto un figlio “rise dentro di sé” e poi­ché negava di aver riso il Signore le disse: Sì, hai proprio riso.

[5]  In ebraico: Hinneni, Eccomi: è la risposta della fede, della persona che si fida e si affida a Dio pron­to a fare quel che Dio chiede. È la risposta che mette i punti fermi di tutta la storia della salvezza da Abramo, Mosè (Es 3,4), Samuele (1 Sam 3,3-10), Isaia (Is 6,8) fino a Maria (Le 1,38). Anzi la lettera agli Ebrei pone questo “eccomi” in bocca al Figlio di Dio all’inizio di tutto il disegno di salvezza al momento dell’incarnazione: “Ecco, io vengo a fare la tua volontà” (cfr. Eb 10, 9).

[6]  Il midrash è un commento al testo biblico fatto in forma di racconto, i testi sono disseminati nella tra­dizione d’Israele raccolta nel Talmud. Questi racconti messi insieme formano la collezione dei midrashim.

[7]  Satàn è un termine che significa “tentatore, colui che frappone ostacoli”, in greco è stata tradotto con diàbolos: è una figura simbolica che viene introdotta nei racconti col ruolo di mettere alla prova le persone e di sviarle dalla realizzazione del piano di Dio. Nel libro di Giobbe è presentato come “uno dei figli di Dio”, un personaggio della corte celeste (cfr. Gb l,6s; 2,ls).

[8]  La Toràh è la legge o istruzione che noi chiamiamo Pentateuco, i cinque libri di Mosè: Genesi, Eso­do, Levitico, Numeri, Deuteronomio. La Toràh per l’israelita non è solo il libro di Dio, ma la stessa Sapienza di Dio, conoscerla, amarla è un precetto che equivale al primo comandamento (cfr. Sir 24, 22; Ba 4,1).

[9]  Ripreso da R. PACIFICI. I midrashim. Fatti e personaggi biblici, Marietti, Casale Monferrato 1986 p. 31-32. Per un approfondimento su la figura di Isacco e la tradizione d’Israele sul patriarca cfr. R. MARTIN-Achard, Isaac in “Anchor Bible Dictionary”, voi. 3.

[10]  La nascita dei dodici figli di Giacobbe e della figlia Dina è narrata in Gen 29,31-30,24; in Gen 35,16-20 è narrata la nascita di Beniamino. Giacobbe è il vero capostipite delle dodici tribù; i figli maschi sono tredici, ma Levi non avrà territorio nella terra promessa in quanto è tribù che Dio ha riservato per il culto.

[11]  Per un’analisi letteraria ed esegetica puntuale ed esaustiva rimando al volume di L. ALONSO SCHOEKEL, Dov’è tuo fratello? Pagine di fraternità nel libro della Genesi, (parte terza, ciclo di Giu­seppe pp. 301-380), Paideia, Brescia 1987.

[12]  Cfr. il commento di L. Alonso Schoekel, o. c. pag. 355-358 e la conclusione pag. 381.384.

[13]  Midrash Shem. R.l citato da R. Pacifici, Midrashim o.c. pag. 56.

[14]  È lo stesso che il monte Sinai. I due nomi sono dovuti a tradizioni narrative diverse.

[15]  Il testo biblico suona ehjeh ’asher ’ehjeh” tradotto: io sono colui che sono; nella terza persona “colui che è” suona: Jahweh. Il termine dio in un mondo politeista è nome comune, indica generica­mente la realtà divina: dio è ogni divinità p.e. Baal, Ashera nel mondo biblico, Zeus, Apollo, Venere, Demetra ecc. nel mondo greco-romano. JAHWEH è il nome che Dio si da e indica più che l’essere assoluto, una presenza stabile, sicura, di aiuto e sostegno permanente. E un nome che chiede fiducia, affidamento a colui che solo può salvare. In ebraico si scrive con le quattro consonanti: JHWH, ma questo nome santo nella lettura delle Scritture non veniva pronunciato e quando lo si incontrava lo si sostituiva con ADONAI che significa: Signore. Nel NT “Signore” è detto quindi sia di Dio, il Padre, di Gesù, il Figlio, e dello Spirito Santo. “Signore” è un termine che esprime la nostra fede.

[16]  Sono tanti i commenti di carattere critico o di lettura spirituale al libro dell’Esodo, segnalo solo un lavoro che in forma accessibile coniuga i due aspetti: A. NEPI, Esodo, voi. I (1-15), voi. II (16-40), EMP, 2002-04.

[17]  Il re viene consacrato con olio profumato (cfr. la consacrazione di Saul in 1 Sam 10,1 e di David in 16, 1-13) e “unto” nel senso di “consacrato” in ebraico si dice Mashiach, tradotto in greco con Christòs. Questi due termini in italiano non sono tradotti, ma, per il loro significato pregnante, sem­plicemente traslitterati in Messia e Cristo. Il Messia è una figura importante in tutto l’AT a partire dal­la figura di David cui fu garantita una stabilità nella sua discendenza (cfr. 1 Sam cap. 7).

[18]  La poligamia nell’AT era ammessa. Le diverse mogli di un uomo erano il segno del potere e del­le relazioni di lui perché spesso un contratto o trattato d’alleanza si concludeva con un matrimonio, quasi a sanzionare la stabilità del trattato stesso. La maternità era il segno della benevolenza divina perché la maternità è la prima benedizione di Dio.

[19]  Normalmente in italiano si trova Davide, ma la trascrizione più esatta è David.

[20] L’episodio è ricordato nel Vangelo di Matteo 12, 3s: Gesù difende i discepoli che, secondo i Farisei, avevano infranto la legge perché di sabato, passando per i campi, avevano colto delle spighe matu­re e sfregandole ne avevano mangiato i chicchi. Gesù risponde citando loro David cui i sacerdoti ave­vano dato da mangiare i pani sacri, che potevano essere consumati solo dai sacerdoti.

[21] Non meraviglia che alcuni storici ed esegeti vedono nella storia di David, come narrata dal deu-teronomi.’ ta, un velo che copre la realtà delle strategie e delle azioni di David. Cito, uno per tutti, un recente libro che senza veli parla di David addirittura come murderer, cfr. B. HALPERN, I demoni segreti di David, Paideia, Brescia, 2004, il cui capitolo 4° è intitolato: Re David, serial killer pag. 85ss.

[22]  Due terzi dei 150 salmi sono attribuiti a David: oggi la critica storica è propensa a dire che i salmi sono tutti posteriori al tempo di David.

[23]  Il testo biblico da questa versione: lo scriba Safàn trovò questo libro, lo lesse, lo fece leggere al re, si chiese un parere alla profetessa Hulda, che affermò che quella era la legge del Signore e che biso­gnava applicarla (cfr. 2 Re 22,3-17). Di fatto gli storici pensano che questo fatto del ritrovamento sia una pia fraus, un espediente per avallare la riforma.

[24]  Legge rimasta per sempre perché da Giosia in poi unico luogo di culto rimase, fatta qualche rara e considerata eretica eccezione, il tempio di Gerusalemme e sul luogo dove l’aveva costruito per la prima volta Salomone; questo andò distrutto con la fine di Gerusalemme di cui fu spettatore Gere­mia nel 586, ricostruito dopo l’esilio e ampliato da Erode al tempo di Gesù fu distrutto da Roma nel 70 d. C. e non è stato più ricostruito. Oggi sullo stesso luogo sorgono le moschee di Al-Aqsa e di Omar.

[25]  Il rotolo, chiamato codice deuteronomico o la Torah (cioè legge) di Giosia tocca tanti punti, parti­colarmente la proibizione dei culti stranieri e la revisione della celebrazione delle festività, ma anche leggi di carattere sociale, amministrativo; faceva obbligo al re di ridurre la sua corte, il suo harem, di non avere un grosso esercito e soprattutto di tenere presso di sé copia della legge e di leggerla ogni giorno.

[26]  Torah normalmente è tradotto con “legge”, ma meglio è tradotto con “istruzione”. Di.per sé quando si dice Torah o legge si intendono i primi cinque libri della Bibbia, che rappresentano la legge-istruzione perenne d’Israele, il dono che Dio ha fatto al suo popolo.

[27]  Rimando al bel testo con il commento L. ALONSO SCHOEKEL, Cantico dei cantici, Piemme, Casa­le Monferrato, 1993.

[28]  La frase è detta dall’uomo maschio e in questo tradisce una certa mentalità maschilista della società ebraica, ma quando Dio dice che “non bene che l’uomo sia solo” lo dice di ’adam, che di per sé indica duomo nella sua dualità uomo-donna. Perciò la frase è da considerarsi reciproca.

[29]  Riporto la traduzione di L. Alonso SCHOEKEL, o.c. distinguendo con la distinzione dei versi o emistichi.

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