MARIO BLASI PARROCO EVANGELIZZA LA SECONDA DOMENICA DI QUARESIMA ANNO A

BLASI MARIO PARROCO EVANGELIZZA LA II domenica di Quaresima anno A

II DOMENICA DI QUARESIMA (Mt 17, 1-9)
“LI CONDUSSE IN DISPARTE SU UN ALTO MONTE. E FU TRASFIGURATO DAVANTI A LORO”.

Gesù porta tre dei Suoi discepoli sul monte.

Pietro aveva già riconosciuto Gesù come Messia e Salvatore del mondo, ma non riusciva a capire per qual motivo doveva morire e poi risorgere.

Gesù aveva infatti predetto la Sua morte e la Sua Risurrezione. Pietro pensava ad un Messia forte, potente, che doveva imporre la legge di Mosè anche con la forza. Ciò che pensava Pietro non era secondo il progetto di Dio. Dio è amore, e con amore salva il mondo. Il messaggio di Gesù va proposto con amore, ma mai imposto.

Sul monte Gesù si trasfigura davanti ai Suoi discepoli. In Gesù si manifesta la pienezza della Sua condizione divina. Con la Trasfigurazione Gesù anticipa la Gloria della Sua Risurrezione, ed intende mostrare anche qual è la condizione del fedele che passa attraverso la morte del corpo. Con la morte fisica la Vita della persona non è tolta, ma trasformata. Dio non toglie la Vita, ma l’accoglie con amore. “Asciugherà ogni lacrima dai loro occhi” (Ap 21,4).

La morte non è la fine; non annienta, non diminuisce la persona, ma è il momento in cui esplode la pienezza della persona stessa. La morte consente al fedele di manifestare uno splendore impossibile da realizzare durante la vita terrena. “I giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Mt 13,43). Nessuno in questo mondo può brillare come il sole.

La Trasfigurazione non è un esclusivo privilegio di Gesù, ma è una possibilità per tutti i credenti. “Noi tutti veniamo trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (2 Cor 3,15). La Trasfigurazione non viene soltanto dopo la morte, ma inizia già in questa vita. Più uno dà adesione al Signore Gesù, più brilla in lui l’Amore di Cristo, più egli si trasfigura.

“Questi è il Figlio mio prediletto … ascoltatelo”

Pietro ammira lo splendore di Gesù, e desidera restare lì, ma non sa che per raggiungere la pienezza di vita bisogna passare attraverso la morte. Dio dalla nube gli comanda di ascoltare il Figlio. Solo Gesù riflette pienamente la realtà divina. Non c’è nessuna differenza tra Gesù ed il Padre. Gesù solo manifesta la Sua volontà. Gesù solo è la norma di Vita per ogni fedele. Solo Lui bisogna ascoltare: “Amatevi l’un l’altro, come io ho amato voi: da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 34-35)

“Contemplare con gli occhi della fede il Crocifisso

Cari fratelli e sorelle,

 profezia messianica di Zaccaria: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37). Il discepolo prediletto, presente insieme con Maria, la Madre di Gesù, ed altre donne sul Calvario, fu testimone oculare del colpo di lancia che trapassò il costato di Cristo, facendone uscire sangue ed acqua (cfr Gv 19,31-34). Quel gesto compiuto da un anonimo soldato romano, destinato a perdersi nell’oblio, rimase impresso negli occhi e nel cuore dell’apostolo, che lo ripropose nel suo Vangelo. Lungo i secoli quante conversioni sono avvenute proprio grazie all’eloquente messaggio di amore che riceve colui che volge lo sguardo a Gesù crocifisso!

Entriamo, dunque, nel tempo quaresimale con lo “sguardo” fisso al costato di Gesù. “Dio è amore” (1 Gv 4,8.16)

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L’ ESODO libro della Bibbia presentato da Miola Gabriele nel significato della Storia di Dio con le persone ieri ed oggi

MIOLA Gabriele – ESODO BIBLICO

Liberazione e

Formazione del

Popolo di Dio

INDICE

Introduzione

La situazione in Egitto

\Parte prima: Dio affida la missione a Mosè

.Appendice: Le piaghe d’Egitto

\Seconda parte: L’ESODO

.Appendice: La Pasqua di Cristo

\Terza parte: L’ ALLEANZA fra DIO e ISRAELE

\Quarta parte: La rottura e la rinnovazione della Alleanza

.Appendice: L’Arca dell’Alleanza – La Tenda del Convegno – Il Tempio

S C H E M A  della  t r a t t a z i o n e

Nella presentazione del libro dell’Esodo è bene dividere la trattazione in questi quattro gruppi di capitoli;

1) Capp. 1-6: la situazione del popolo d’Israele, la vocazione e la missione di Mosè a liberare il suo popolo;

2) Capp. 12-15; l’avvenimento centrale di tutta la storia d’Israele è l’Esodo, cioè l’uscita dalla schiavitù dell’Egitto;

3) Capp. 19-20 e 24; il rapporto nuovo che si stabilisce, dopo la liberazione, tra Israele e Dio: l’Alleanza;

4) Capp. 32-34: la rottura dell’alleanza, come condizione di Israele nel deserto, è la condizione continua dell’uomo e della umanità; la preghiera di Mosè, il pentimento del popolo, la conversione, il rinnovamento dell’alleanza.

Introduzione –   Il Vaticano II, nella Costituzione dommatica sulla Divina Rivelazione (“Dei Verbum” n. 2) dice; “Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per messo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (Ef 2,18; 2Pt 1,4). Con questa rivelazione infatti Dio invisibile Cfr Col 1,15; 1Tm 1,17) nel suo grande amore, parla agli uomini come ad amici (cfr Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr Bar 33,38) per invitarli ed ammetterli alla comunione con Sé. Questa economia della Rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà, significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto. La profonda verità poi su Dio e sulla salvezza degli uomini, per mezzo di questa rivelazione, risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione”. (Pio XII, “Divino afflante”).    L’idea da cui dobbiamo partire è questa; Dio interviene nella storia, Dio si condiziona al nostro modo di essere, di vivere, di camminare; ed è un camminare storico; e storico significa spazio, tempo; se sono qui, non posso essere da un’altra parte; se ho questa lingua, non ho potuto averne un’altra e così via; significa questa cultura, questa mentalità.

Tutto questo è storia, Dio si è immesso proprio in questo cammino, in questo ritmo, quindi nella nostra storia.

ESODO – LA SITUAZIONE IN EGITTO

Noi questo lo vediamo proprio nell’Esodo, che è uno dei fatti fondamentali del Vecchio Testamento. L’Esodo è il nucleo del messaggio intorno al quale si è formato il V.T.

Cerchiamo di dare una panoramica storica; in che tempo siamo? Siamo verso la metà del XIII secolo a.C. La condizione è questa; in Egitto, già dal 3000 a.C., c’è l’impero faraonico, ed ha avuto una fioritura molto gloriosa attraverso i millenni. In questo periodo è faraone Ramses II.

Tra i tanti popoli che si trovano sotto il suo dominio (anche popoli immigrati) c’è Israele; piccolo gruppo formato da clan e tribù. Erano venuti in Egitto al tempo dei patriarchi (il racconto lo troviamo nel libro della Genesi); questa epoca, comincia con Abramo (secondo molti circa 1750 a. C.). Dopo vicende varie, verso la metà del sec. XVII, durante il periodo della dominazione degli Hyksos in Egitto, gli Ebrei erano stati attratti dall’Egitto e vi erano andati. Scoppia la ribellione, gli Hyksos vengono cacciati fuori alla fine del 1600 e ritorna il dominio dei faraoni.

Nella Bibbia la storia di Israele inizia con Abramo, un capo clan che parte con la sua famiglia dalla Mesopotania seguendo “una chiamata” da parte di Dio. Da “Ur dei Caldei” (Gen 11,28) situata nel sud sarebbe giunto ad Haran nel Nord del paese e di qui sarebbe disceso in Palestina insediandosi nella zona intorno a Ebron cioè nella zona a sud dell’attuale Gerusalemme tra il mar Morto e la fascia costiera mediterranea. Suo figlio Isacco, come il padre Abramo, nomade di bestiame minuto, si sarebbe stanziato più a sud attorno a Bersabea; ma il clan resta di modeste proporzioni e non riesce ad occupare la terra diventando veramente sedentario. Anche Giacobbe, figlio di Isacco (che avrà da Dio il mutamento del nome in Israele) resterà seminomade nel centro della Palestina nelle campagne circostanti Bethel e Sichem e non avrà la possibilità di diventare un popolo numeroso adempiendo così la promessa dei Padri. Toccherà ai suoi dodici figli realizzare la “promessa” fatta ad Abramo da parte di Dio; diventare in Egitto un popolo grande e numeroso; ed occupare poi stabilmente questa terra della Palestina. Infatti un figlio di Giacobbe, Giuseppe venduto in Egitto riesce ad occupare una notevole posizione nell’amministrazione statale facendo evitare, grazie ad una politica economica lungimirante, una carestia che si abbatté anche sulla Palestina dove dimoravano gli altri fratelli, i figli dì Israele. Questi scendono in Egitto per sfuggire alla fame, rincontrano il loro fratello Giuseppe e si stanziano nella terra a oriente del delta del Nilo, la terra di Goshen, dove aumentano di numero a tal punto da far paura, come minoranza etnica non integrata al potere egiziano. Si ha allora una politica demografica di contenimento da parte del faraone e un asservimento sempre maggiore degli Ebrei che sono adibiti alla costruzione di due città deposito per l’Egitto, come schiavi costretti a lavori duri e pesanti. Nel corso di tale primitivo controllo delle nascite, mediante l’uccisione dei figli maschi al momento del parto, viene salvato un bambino ebreo che sarà allevato nella famiglia del faraone ricevendo il nome di Mosè.

Il piccolo popolo ebraico nel frattempo si era ingrandito, (forse non oltre qualche migliaio, però non possiamo stabilirlo con certezza). Il Faraone di quel periodo, Ramses II, (erano già passati 300 anni dalla cacciata degli Hyksos) si dà ad una grande politica di costruzioni e approfitta di queste popolazioni immigrate, le sottomette in maniera ancora più forte, le rende schiave; Ebrei ed altri sono costretti a lavorare per questa politica di grandezza edilizia, per la costruzione della città di Ramses e di altre città. Si sa che Ramses fu un grande faraone e costruttore.

Qui comincia l’Esodo vero e proprio. In questa situazione di oppressione, di sfruttamento sorge una coscienza nuova in mezzo a questo popolo e soprattutto per mezzo di una persona; Mosè. Egli si sente legato a questo suo clan, a questo suo popolo, che Dio ha portato fino in Egitto. Conosce la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe e dei suoi fratelli; ed è imbevuto dell’idea che Qualcuno guida la storia di questo popolo. Mosè vede il suo popolo non soltanto nella situazione attuale di oppressione, ma lo vede nella sua storia passata e anche proiettata verso il futuro; ricorda le promesse fatte ad Abramo “Farò di te un grande popolo (Gen 12,2). Alla tua discendenza io darò questo paese (12,7) … In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra (12,3)”.

\\\   PRIMA PARTE: DIO AFFIDA LA MISSIONE’A MOSE’

Esodo capp. 1 – 6.

Il primo capitolo ci presenta lo stato di oppressione del popolo e la missione «affidata a Mosè.

LETTURA: Esodo 1, 1-7.

  1. 1: “I nomi dei figli d’Israele”. Il significato di queste sono le generazioni del popolo di Israele e sono dodici, compreso Giuseppe che si trovava già in Egitto.
  2. 5: Il numero 70, insieme con il numero 12 stanno ad indicare che inizia una nuova storia; non si tratta di un calcolo di censimento, ma di una visione e di una presentazione di Israele come unità; si tratta del nucleo etnico e dinamico che inaugura una partenza. Ma quante persone sarebbero state? Gen. 12,17 parla di 600.000. Forse la traduzione migliore è 600 gruppi, e non solo di Ebrei. Si può pensare a qualche decina di migliaia.
  3. 7: …era una regione nella zona del delta del Nilo verso Est, una terra chiamata la terra di Ghosen.

.a)   Mosè solidale con il suo popolo

LETTURA: Esodo 1, 8-22 ( cfr GRELOT, P., “Pagine Bibliche”)

E’ qui che si inserisce la storia di Israele, la storia di Mosè; è una specie di sguardo globale del rapporto tra il faraone e questo popolo. Esso era una piccola cosa; le 70 persone potevano essere diventate qualche decina di migliaia, non più.

Ed in questo quadro nasce Mosè (la storia della sua nascita è chiara: c’è da tenere presente che qui niente è a caso). Alla corte del faraone questo uomo ebbe una formazione che non avrebbe potuto avere in mezzo al suo popolo; formazione culturale, religiosa, tecnica, militare; questo metteva Mosè in una posizione nettamente differente da quella dei suoi connazionali. Egli sa anche la storia dei suoi padri, di un popolo chiamato da Dio, cui Dio ha fatto una promessa.

Sentendosi totalmente ebreo, come prima cosa aspira a comporre queste due situazioni cioè mettere d’accordo la popolazione ebraica con il dominio dei faraoni; ma non ci riesce.

LETTURA; Esodo 2, 11-15:

Gesto profetico di Mosè e fuga in Madian

  1. 11; “Cresciuto in età” dice una premessa; in Atti 7,23 si dice: “Mosè stava per compiere i quarant’anni”: Mosè sta per rompere con il passato (“si recò dai suoi fratelli”) e si accorge della loro condizione servile (“Vede un Egiziano che colpiva un ebreo, uno dei suoi fratelli”)
  2. 13: quando c’è la miseria, è difficile trovare l’unità; gli Ebrei non si sentono popolo.
  3. 14: I due non solo non si lasciano persuadere, ma il prepotente fra i due insulta Mosè e minaccia di rivelare il suo operato del giorno prima.

E’ una storia molto sommaria, si procede proprio per caposaldi, si mette in evidenza soltanto i fatti fondamentali; non è una specie di romanzo storico dove sì raccontano minutamente tutti i fatti avvenuti.

.b)   Mosè fugge nel deserto

Spesso, quando si rompe con il passato si va incontro ad un tempo di ritiro, di solitudine e di separazione. Mosè scappa a Madian, nella penisola sinaitica, nel deserto e ci rimane per 40 anni, ed è qui che avviene la vera maturazione di Mosè. Nel deserto fa il pastore; si associa ad una tribù di nomadi (i madianiti); sposa Sefora, figlia di un capo-tribù, Jetro; gli nasce un figlio.

Allora nel deserto Mosè fa un’esperienza veramente straordinaria. Sono 40 anni di scavo nel suo interno, di meditazione, di preghiera, di ripensamento di tutta la storia dei padri; c’è tutta la costruzione di un mondo nuovo, che va sorgendo; il mondo nuovo è tutto il legame tra la storia precedente del suo popolo e la situazione attuale e da qui la scoperta della sua missione, che non scaturisce da un fatto sociale, politico, ma soprattutto da un fatto religioso; Mosè, nel suo contatto con Dio, scopre una cosa grande: è Dio che lo manda a liberare il suo popolo.

.c)   L’idea giusta di rivelazione

Nel cap. 3 troviamo il punto centrale: la rivelazione di Dio. Quando si parla di rivelazione di Dio si è portati a pensare ad un dialogo registrabile; Dio parla, Mosè risponde. Non ci si può mettere su un piano miracolistico; si tratta invece di esperienza religiosa; Dio parla = Dio si rivela. Non si tratta però di una specie di fantasma di Dio; Dio si rivela attraverso gli avvenimenti, le cose. E’ Mosè che si rende conto, è Mosè che capisce e sente presente Dio. La sua presenza non è immaginazione, è realtà.

Mosè si è maturato, non però al di fuori dell’intervento di Dio, della sua volontà e del suo aiuto. Dio parla, fa sentire la sua voce; tuoni, lampi, bufera, fuoco, sono solo l’espressione religiosa di un modo che si è maturato dentro Mosè, ma che lui percepisce non totalmente come suo, ma come qualcosa che gli viene dall’esterno, che gli viene imposto dall’esterno. Questa è presenza di Dio, una presenza che è tutta dentro. C’è anche qualcosa di esterno (la rivelazione del roveto, la rivelazione del Sinai) che serve soprattutto come segno da meditare, come punto di riferimento che scuote, che spinge l’uomo ad entrare di più in contatto con Dio, a sentirsi, direi, quasi portato da questi fatti, avvenimenti, circostanze a spogliarsi ancora di più per poter accogliere meglio la presenza di Dio, E’ un Mosè che nel deserto fa l’esperienza straordinaria, di solitudine, di preghiera.

(Fra’ Carlo Carretto, avete letto nei suoi libri, tante volte ritorna su quest’idea; l’idea del deserto che ti dà il senso della tua piccolezza, del tuo niente, dell’affidarti a qualcuno; il deserto matura in questo senso). Mosè fece quest’esperienza straordinaria.

.d)   Dio chiama Mosè

LETTURA; Esodo 3, 1-15

  1. 1: Siamo al monte di Dio, l’Oreb. Doveva essere un luogo che aveva un legame particolare con il fatto religioso, non più di questo; (come noi oggi diremmo Loreto, oppure per i nostri vecchi il monte dell’Ascensione); era un fatto religioso ben preciso che richiamava alcune idee: la divinità, il Dio che è presente, il luogo dove si sente Dio maggiormente presente.
  2. 2: Qui è linguaggio religioso ed è l’esperienza religiosa; si può pensare anche al fuoco; non sappiamo qual’è l’esperienza religiosa in sé e per sé; quello che conta adesso è il colloquio, ed è percezione di qualcosa di straordinariamente nuovo e potente.
  3. 6: Qui si sente tutta la meditazione di Mosè che ha sempre un legame con la storia, Non dice: “Io sono Dio” e basta; è troppo poco. Ma è il Dio legato alla storia, legato ad Abramo, ad Isacco, a Giacobbe, a Mosè, al popolo, e altro. Quest’idea è fondamentale. E’ il Dio dei padri: il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe (e noi dovremmo aggiungere: il Dio di Mosè, di Gesù, della Chiesa, e altro). Da Bibbia non conosce il Dio in genere, il Dio dei filosofi, ma conosce il Dio dei Padri, il Dio di Gesù, e altro.
  4. 7-10: Ed e altro il fatto nuovo, legato al passato, cioè la situazione presente. In fondo i padri (Abramo, Isacco, Giacobbe) venivano da questa terra, dove erano tutti questi piccoli popoli.
  5. 11: Dinanzi alla missione, dinanzi al futuro, c’è il senso della titubanza.
  6. 12: La vera prova è a fatto compiuto. Quindi Dio dice: “Accetta, credi. Sono con te, perché te l’ho detto; ma lo saprai in una maniera sicura quando tu, fidandoti della mia parola, l’avrai realizzata; allora toccherai con mano che io sono con te”. La prima cosa che viene chiesta è la fede; accetta. Mosè medita profondamente tutta la storia passata, la situazione presente, quello che lui dovrebbe compiere, la impossibilità umana di realizzare un confronto tra lui e il faraone.

Qui si capisce come il fatto che Mosè sia stato educato a corte non sia una pura casualità; Mosè non sarebbe potuto arrivare a mettersi in confronto con il faraone, se non lo avesse conosciuto, se non avesse avuto un tipo di cultura e di capacità da poter stare a confronto con quella stessa cultura; poteva essere capo solo uno che poteva immettersi in quella situazione. (Questo avviene anche nella liberazione del mondo colonialista di oggi; hanno studiato in Inghilterra un Gandhi e un Nehru. La liberazione parte da chi sta in una preparazione alla pari, per lo meno da un punto di vista umano. Così è di Mosè).

La situazione di Mosè è veramente ancorata nella storia; quindi non si tratta di miracolismi; c’è una storia, ci sono i fatti, ci sono delle relazioni, c’è in questo uomo una visione religiosa profonda, una forte maturazione religiosa.

.e) Dio rivela il suo nome 

  1. 13-15: questa è la celebre pagina della rivelazione del nome di Dio. Che significa questo “Io sono“? In fondo qui Mosè arriva al culmine del suo contatto con Dio, cioè scopre Dio; o meglio Dio si fa scoprire. Ormai Dio ha lavorato talmente dentro che diventa luce e gli si rivela. Oggi per noi un nome è solo un segno, un fatto tecnico; per gli orientali il nome è tutto. Nel mondo ebraico il nome è la stessa persona, ma colta come relazione attiva a tutto l’universo:

– quando uno conosce il nome di una persona, conosce tutto di essa;

– quando uno dà il nome a una cosa significa che ne ha il possesso;

– quando uno comunica il suo nome è già nella relazione più stretta;

– quando portano lo stesse nome, significa che sono già una cosa sola (ricordate, per es. la Genesi; l’uomo e la donna portano lo stesso nome “Ish” e “Isshah” perché sono una sola cosa, sono della stessa carne).

Quindi la cosa più importante è che l’esperienza religiosa porta Mosè ad una relazione strettissima con Dio, fino ad una comunicazione per sonale: Dio comunica il suo nome.

Che significa il suo nome; “Io sono colui che sono”? Possiamo spiegarlo così;

.1.   – “Io sono colui che sono” nel senso che sono colui che esiste, colui che sta sopra ogni cosa, colui che è al di sopra di te, di Israele, dell’Egitto e di tutti gli dei.

.2.   – Oppure: “Io sono colui che sono” e tu non ti stare ad interessare tanto di me, non voler pretendere di comprendere me; comprenderai me a mano a mano che si camminerà nella storia. Adesso quindi “Io sono colui che sarò”, sarò colui che mi ti rivelerò man mano che tu camminerai con me attraverso la storia: quindi tanto più andremo avanti tanto più mi conoscerai.

.3.   – “Io sono colui che sarò” = sempre presente ed in azione lì, con Israele e per Israele; mi capirai sempre meglio come “il presente, il vicino, il liberatore”, mentre gli dei dell’Egitto daranno prova di non essere niente, di essere “non-Jahvè”.

.4.   – “Io sono colui che sarò” e ciò dipenderà solo da me. Le azioni che farò per te, Israele, sono scelte da me, volute da me; a te spetta solo il credere. Dio è infinitamente vicino all’uomo, e tuttavia è sottratto alla sua presa.

L’interpretazione migliore potrebbe essere la seconda: “colui che sono”. In fondo è anche un fatto profondamente umano; tanto più due stanno insieme, camminano insieme, tanto più uno si rivela all’altro; così in un certo senso e Dio; quanto più ti lasci prendere da Dio, quanto più cammini insieme con Lui, tanto più ti si rivela; tanto più lo conoscerai, tanto più tu scoprirai quello che è, e tanto più ne capirai la assolutezza piena.

“Sarò quel sarò”; non finirai mai di scoprirmi e attraverso la storia troverai sempre una nuova possibilità di penetrare in me, di scoprirmi, di comprendermi, di essere con me. Non è che Dio non gli vuole dire il nome, ma il nome indica quasi la futuribilità di Dio stesso, di un Dio che quasi diviene. Certo non diviene in sé, diviene nella sua storia, nella tua comprensione, non comprensione intellettuale, ma comprensione di realizzazione, di storia. E’ un po’ come il nostro “farci”; noi ci facciamo mentre operiamo, mentre camminiamo; attraverso la storia scopriamo, in un certo senso, anche il nostro nome, la nostra persona. Così possiamo dire di Dio; quanto più tu cammini con Lui, tanto più lo scoprirai. Questa per Israele deve essere la caratteristica fondamentale di Dio.

Vedremo più avanti, che, quando Mosè tenta di arrivare a vedere Dio faccia a faccia, Dio dice; “No, è impossibile; chi vede Dio muore” (Es 33,20). Ciò dice la inaccessibilità di Dio; non soltanto come fatto intellettuale, ma nella tua storia, una storia quindi che cammina.

Da notare ancora: nella rivelazione di questo nome c’è implicito il legame ai padri, una relazione che diventa più. personale perché Dio rivela il nome e crea una tensione verso il più in là, verso il futuro.

.f) La missione di Mosè

Mosè riceve la missione di andare, ma lui non vuole e cerca di rifiutarsi; “Io non sono un buon parlatore … ma sono impacciato di bocca e di lingua (Es 4,10)”. Dio gli risponde; “Non vi è forse tuo fratello Aronne? Parlerà lui al popolo per te” (4,14-16),

E’ una resistenza di Mosè. Ma la luce e la pressione di Dio diventano una forza, qualcosa di interiore talmente dirompente che Mosè non può sottrarsi e quindi va, diventato capace, e forte della forza stessa di Dio.

Il cap. 5° narra i primi contatti con il faraone; è bellissimo. L’autore ha colto un momento della psicologia dell’uomo che è quanto mai vero e attuale. Quando si comincia un’opera, tutto presenta ostacoli, gli altri non ti danno ascolto e ad ogni difficoltà che incontri ti dicono; “Ma vedi che non ce la fai? Lasciaci in pace”.

Questa è stata l’esperienza terribile di Mosè; al primo tentativo le cose non vanno e sono i suoi stessi connazionali che dicono: Lasciaci in pace (cfr. 5,21); ed occorre una forza proprio straordinaria per superare quel momento iniziale.

LETTURA; Esodo 5 = Incontro con il faraone e reazione degli Ebrei

  1. 1: Va notato il significato religioso di tutto il racconto. L’opera ha anche un significato sociale; gli Ebrei erano oppressi e devono essere liberati; c’è un significato sociale e politico, perché è una tribù che si vuol sottrarre al dominio nell’ambito dell’Impero faraonico. Ma il significato fondamentale è quello di un fatto religioso, cioè è un popolo al quale Mosè tenta di dare una coscienza religiosa, la quale prende tutta quanta la vita di questo popolo e quindi anche il fatto politico, sociale, culturale. Ormai questo popolo verrà a trovarsi scardinato dall’ambiente in cui sta, per immettersi in una nuova cultura. Questo fatto però prende una coloritura religiosa. La religione penetra in tutti gli aspetti della vita e quindi è logica la conclusione: “Andiamo a celebrare una festa religiosa nel deserto”.
  2. 3. Noi sentiamo che questo è nostro dovere, se non lo facessimo, ci sentiremmo come puniti da parte di Dio.
  3. 4. Per il faraone: non andassero a raccontar fandonie, a mettere grilli per la testa. Qui c’è tutta un’angolatura politica: “tornate ai vostri lavori forzati”.
  4. 6; Si aggrava la situazione.
  5. 7-9: Pagina stupenda e attualissima; c’è sotto un’analisi sociologica straordinaria. Si descrive che quando si acquista una conoscenza nuova, gli altri non ti capiscono, anzi ti opprimono e cercano di tagliare le risorse, accrescendo così la fatica.\

Parte seconda  –  ESODO Capp. 12-15

.A)   La Pasqua ha riti che rievocano l’uscita dall’Egitto e comporta due elementi: l’uccisione dell’agnello e cibarsi di pani azzimi. Difatti la Pasqua veniva celebrata così; si toglieva tutto quello che era pane vecchio, fermentato e si cuoceva del pane azzimo, quindi non lievitato (una specie di pizza, sotto il fuoco; ancora oggi gli ebrei lo fanno; lo chiamano mazzòt) e uccidevano l’agnello; la famiglia si riuniva e mangiava l’agnello completamente ed i pani azzimi, la festa in sé e per sé, nel rito, si stabilisce dopo gli eventi. E’ festa posteriore che risente di due gruppi di gente che si sono uniti tra di loro:

– l’agnello risente di una festa di tipo pastorizio; quando è primavera i pastori celebrano la festa dell’anno nuovo e la celebrano normalmente con danze e uccidendo un agnello e mangiandolo arrostito;

– gli azzimi risentono invece di un altro ambiente, quello agricolo; finisce una stagione, un periodo, ne inizia un altro; viene tolto tutto il vecchio, si prende il nuovo; e si celebra questa festa, segno di novità, con i pani azzimi.

Israele, una volta uscito dall’Egitto, è rimasto nel deserto dei Sinai per lungo tempo (40 anni) e là si è unito con tanti altri gruppi, con cui aveva una certa parentela. Gli Ebrei dall’Egitto portavano queste tradizioni che sono diventate tradizioni comuni di tutti, docilmente si sono fuse due feste; la festa pastorizia dell’anno nuovo con l’uccisione dell’agnello, la festa agricola (delle tribù del deserto) dell’anno nuovo con il pane azzimo; queste due feste unite insieme ci hanno dato la celebrazione della Pasqua descritta al cap. 12.

Però ecco il passaggio; in sé e per sé queste feste esistevano già nell’ambito di queste tribù, però acquistano ora un significato tutto nuovo, il significato storico. Prima era celebrazione di un significato puramente religioso, di una religiosità tipica dell’uomo, il quale celebra l’anno nuovo con una festa per propiziarsi gli dei. E’ religiosa, e non possiamo dire civile, perché nella antichità la religiosità abbracciava tutto; però una religiosità che è su un piano naturale; è il propiziarsi la divinità, il rendersela benigna per nuovi raccolti, per la fecondazione dei greggi e così via. Ora avviene il passaggio ad una religiosità che è su un piano di incontro con Dio e su un piano storico; questa festa coincide con l’uscita, del popolo ebraico dall’Egitto e quindi diventa commemorativa di un intervento salvifico di Dio a favore del suo popolo ed è il fatto fondamentale di questo popolo. Allora non più festa naturale, di propiziazione della divinità, ma festa commemorativa, festa di memoriale.

Questa celebrazione poggia su tre segni ben precisi; l’agnello, gli azzimi, i primogeniti; è facile riconoscere nel testo questo schema, abbastanza lineare; di ogni segno si descrive la istituzione, il rituale (cioè il modo della celebrazione) e la catechesi per coglierne il significato: agnello, azzimi; primogeniti. Dall’Esodo:

AGNELLO: istituito: 12, 1-14; rito: 12, 21-25; catechesi: 12, 26-27

AZZIMI: istituito: 12, 15-20; rito: 13, 3-7; catechesi: 13, 8-10

PRIMOGENITI: istituito: 12, 29-36; 13, 1-2; rito: 13, 11-13; catechesi:13, 14-16

\ LETTURA; 12, 1-14 e 12, 21-27

  1. 2: “primo mese dell’anno” è Obib, il mese della spiga, della primavera. Dopo l’esilio, si chiamerà Nisan. Il testo insiste sul “primo mese dell’anno” perché prima del regno di Giosia l’anno incominciava dall’equinozio di autunno (21 Settembre). Forse è per distaccarsi da feste pagane celebrate in autunno.
  2. 5: “maschio”; è la sorgente della vita, valore supremo, “nato nell’anno”; è offerto come primizia, forte prima e migliore. Nella mentalità religiosa di Israele e di tutti quanto Semiti, i primogeniti maschi (perché la donna non contava) appartenevano alla divinità, venivano consacrati ad essa e riscattati: il primogenito appartiene a Dio sia degli uomini che degli animali. E’ legge comune già al tempo dei patriarchi (in fondo Isacco che viene sacrificato significa questo: il primogenito deve essere offerto ma Dio lo proibisce. Prima di Abramo era un fatto reale: il primogenito veniva sacrificato, ucciso; quando si fondava una città, il primogenito del re veniva messo sotto le fondamenta; quando si costruiva una casa si sacrificava il primogenito). Israele viene salvato e riscattato e Israele è il primogenito; “Tu sei il mio popolo primogenito … Tu mi appartieni e tutti i tuoi primogeniti mi appartengono”. La liberazione dall’Egitto ha proprio il significato di riscatto, di compera, di liberazione da parte di Dio e nello stesso tempo significa anche condanna dell’Egitto e dei suoi primogeniti.

v.7: sangue agli stipiti: è un rito antichissimo in oriente (è ancora attestato ai nostri giorni), rito di difesa contro le disgrazie, i nemici, gli influssi cattivi.

v: 8: il pasto si fa di notte: con gli altri particolari è facile pensare ai pasti-sacrifici dei nomadi.

v: 11: “E’ la Pasqua del Signore“. Il Signore passa, ma non castiga (cioè oltrepassa e salta) le case asperse con il sangue.

v: 14: “memoriale“: è faro un’azione che rende presente ed attuale la realtà ricordata.

Da notare che i vv. 12-14 vogliono stabilire con il brano precedente un legame sul piano della storia dell’Esodo.

.b)   Gli azzimi (La settimana degli azzimi)

LETTURA; 12, 15-20 e 13, 3-10.

Per una settimana dovevano cibarsi di azzimi. Era una festa agricola che gli Israeliti hanno trovato presso altre tribù sedentarie ed hanno adottato a loro volta.

L’unione all’evento dell’Esodo per il rito dell’uscita appare artificiosa (v. 17). Da tenere presente che “fermentazione” includeva per loro l’idea di corruzione e quindi di impurità: per questo dovevano essere usati pani azzimi.

Nei vv. 3-7 si descrive il rito; nei vv. 8-10 si fa la catechesi.

.c)   I primogeniti LETTURA; 12, 29-36; 13, 1-2; 13, 11-16

E’ vero che quella notte sono morti tutti quanti i primogeniti degli egiziani? E’ difficile poter dire questo. Può darsi che nella notte ci sia stata una mezza strage, che alcuni egiziani siano stati uccisi e così via. Però per Israele quello che conta è questo: Israele è il primogenito tra i popoli, i primogeniti di Israele sono riscattati, mentre l’Egitto non è riscattato, rimane nella tenebra dell’idolatria e della oppressione; quindi il fatto non va interpretato in chiave realistica di uccisione di tutti i primogeniti egiziani, ma sotto una tipologia e un significato traslato; cioè Israele viene salvato. I primogeniti sono ormai coloro che daranno nuova forza, nuovo vigore, a Israele, l’Egitto sarà distrutto.

Nei vv. 11-13 si descrivono i riti per l’offerta dei primogeniti.

  1. 14: Notate: “Risponderai a tuo figlio …” ecco il memoriale, ecco la storia. Quindi la festa prende un significato tipico di memoriale e il celebrarla significava riattualizzare questa salvezza; il Signore viene ancora a salvarmi, mi immette lui nuovo in questa linea. Quindi celebrare la Pasqua è tutto per Israele, è la festa più grande, significa mettersi in questa storia che è storia passata, ma è storia presente perché tu, celebrando, rinnovi la tua salvezza e cammini verso il futuro.

Ecco il significato della festa della Pasqua: Israele esce, ma quando ripensa alla sua storia, celebra questa festa; la celebra nella ricorrenza di quella che era la Pasqua, il passaggio, l’intervento del Signore; e quella che era una festa puramente di tipo tradizionale, naturistico, diventa una festa tipicamente storica, ricordo di un evento salvifico, di una liberazione storica di Israele dall’Egitto e Israele acquista la coscienza di essere salvato, di essere come un popolo nuovo.

.B) Il passaggio del mare dei giunchi

Dal cap. 13,17 al cap. 15 si narra la partenza degli Ebrei ed il passaggio del Mar Rosso. Non si accenna alla storia precedente; le lotte, i contrasti, qui sono taciuti, ma finalmente questo popolo si libera.

Mosè, da persona intelligente, non prende la strada più comoda, ma la più difficile. Non prende la via del mare, la carrozzabile, la via degli eserciti (oggi la chiameremmo l’autostrada). Mosè, che era stato nella terra di Madian per 40 anni, prende la via del deserto; arriva dove si dice oggi presso le vicinanze di Suez, sul golfo del Mar Rosso; ed aspetta il momento propizio (sarà la bassa marea? sarà quel che sarà). Il popolo, al momento favorevole, entra e passa. Quando gli egiziani si immettono per la stessa strada, a causa dell’alta marea o di un vento, o di altro ostacolo, non riescono a passare e si trovano imbrigliati e si verifica il disastro militare, senza che gli Ebrei intervengano; e sono liberi.

Tutto questo evidentemente viene sempre più rivisitato e rimediato sotto la linea: Dio è il Signore che guida la nostra storia, è il Dio che ci libera; questo è l’intervento di Dio per la nostra salvezza. E tutto questo viene sempre celebrato nella Pasqua. (Il cap. 14 racconta il passaggio del Mar Rosso, il cap. 15 ne è il cantico, come un inno di lode).

Ma il popolo ebreo, che sentiva questa narrazione nel momento liturgico, pensava veramente che il mare si era aperto? Lo prendeva cioè in senso miracolistico? Se leggiamo il cap. 15 e i salmi 105; 136, vediamo che questo non c’era. Questa narrazione è memoriale, ricordo, cioè diventa liturgia, celebrazione di Dio. Ora la celebrazione di Dio viene fatta non su una base mitica o naturistica, ma su una base storica. La. liturgia canta, celebra la salvezza che è venuta da Dio, la realizzazione del suo piano, la sua onnipotenza; tutto questo evidentemente ha i caratteri dell’epopea. (In epopea, con altri significati, i cicli omerici hanno cantato le lotte degli Achei con i Troiani; l’Orlando Furioso ricorda le lotte del periodo dei Carolingi e così altri).

Questo di Israele non è però solo fatto civile, ma è fatto religioso in tutti i suoi aspetti. Nell’epopea il discorso diventa grandioso, immaginifico; Dio quindi interviene con folgori, lampi e tuoni, le acque si dividono, cavalli e cavalieri cadono in acqua. Questa descrizione non vuol presentare l’evento storico così com’è avvenuto, lo vuol celebrare; la cosa è differente. Altro è la celebrazione una liturgia e altro è un racconto così come noi oggi lo vorremmo con la nostra mentalità tecnica. La celebrazione è in una linea che va al di là della ripetizione puramente documentaristica. Oggi siamo abituati alla cinepresa e allo storico che presenta i puri fatti. Non è questo! Dobbiamo metterci quello che sta al di là dell’espressione documentaristica; il fatto religioso diventa talmente globale nella vita dell’uomo e nella vita della religiosità di un popolo che travalica l’esigenza di un’adesione, strettamente storica, all’evento. Quindi l’autore non tradisce l’evento in sé e per sé, lo celebra, Io esalta e diventa grandioso, straordinario (nell’inno “Fratelli d’Italia”, è tutta un’Italia che si è mossa, invece sono stati solo dei risorgimentalisti che hanno fatto quel po’ che hanno fatto; però nella celebrazione civile c’è tutta un’esaltazione).

La gente pensa immediatamente alla sua storia, guidata da Dio. E’ un genere letterario; e sarebbe ingenuo ritenere che Israele scambiasse la storia con la celebrazione liturgica, che ha bisogno di questa coloritura, per essere veramente celebrazione.

E’ certo che Mosè ed i profeti sono aderenti alla storia; e questo non nega il fatto miracoloso. Ma noi corriamo il rischio di rendere il miracolo mitico, affascinante, non storico. Il miracolo invece sta nella storia; il miracolo più grosso è la storia che si realizza, che cammina e che la parola di Dio interpreta per te. In questa storia ci sono anche degli eventi che diventano tipici, significativi, più pregnanti di significato e acquistano un significato differente che per noi è miracolo, per un altro, che sta al di fuori, è niente. Il miracolo quindi va letto nel contesto della religiosità, perché se non ci si immette in quel senso lì, il miracolo non dice niente; in un certo senso dipende dall’interpretazione. Non si vuol negare che non sia un fatto storico, una realtà percepibile, però, come tale, è anche suscettibile di interpretazioni differenti. Cioè a me la realtà si svela in quella situazione che è reale. La si può leggere anche sotto altre linee, ma è un leggere che travisa la realtà, perché in quel momento Israele non poteva leggere la storia che in quella linea lì era il significato vero, profondo.

(I santi, che sono i tipici esempi dell’esperienza religiosa ben vissuta, sono quelli che sanno connettere la storia generale e la storia particolare con questo legame, con la lettura religiosa della presenza di Dio.

E quanto più uno ha l’esperienza di Dio, tanto più sa leggere nella storia globale e nella propria vita il rapporto con Dio),

C ) Un inno – preghiera

Il cap. 15 va letto in atteggiamento di preghiera, perché è veramente preghiera: era la preghiera di Israele. Si può parlare di preghiera, se non ci mettiamo in questo senso storico? La nostra preghiera spesso è piccola, egoista, gretta, individuale, chiusa dentro l’ambito di noi stessi; chiediamo soltanto e non abbiamo i grandi ritmi della storia; ci manca questa formazione, la prospettiva della vita, e l’apertura al senso- storico della vita. Gli Ebrei invece no pregavano così, e la Bibbia prega con cuore aperto a tutti. Nei salmi si ritrova questa apertura immensa alla storia: è il piano di Dio che va avanti, è la realizzazione delle promesse di Dio (quindi della storia) che cammina.

Dovremmo metterci in questa grande prospettiva, come ci si è messo Cristo pienamente. Tante volte tradiamo Cristo, perché non conosciamo ciò che ha preceduto Cristo, cioè la storia biblica, la preghiera autentica diventa memoriale, diventa celebrazione degli interventi di Dio dei “mirabilia Dei”(opere meravigliose di Dio), dei fatti grandiosi attraverso cui Dio ha guidato la storia del suo popolo. Grandiosi non nel senso di strabilianti eventi, ma che il popolo ha visto quelli come i cardini, i punti fermi e fondamentali, decisivi attraverso cui la sua storia è andata avanti.

La preghiera nella Bibbia è prima di tutto celebrazione, lode, ringraziamento; questo il punto cardine della preghiera. Anche per gli israeliti esisteva la preghiera di richiesta, ma il quadro era sempre quello della realizzazione del piano salvifico di Dio in cui tutto Israele e il singolo individuo si trovavano immersi. Questa è una prospettiva tanto differente da quella che noi facilmente abbiamo. Al cap. 15 c’è una preghiera, un inno, una celebrazione in un certo senso è anche inno nazionale, ma è soprattutto preghiera.

LETTURA: Esodo 15, 1-26 = Canto di vittoria: “Cantate al Signore, perché ha mirabilmente trionfato

  1. 3: guardate quanti elementi storici trovate qui: “Il Dio di mio padre” (questo è legame con la storia); “Il Signore è prode in guerra” (questa è una vera e propria guerra); “Jahvè è il suo nome” (questo nome che non è soltanto Dio in genere, ma Jahvè).
  2. 5: “sprofondarono” è l’esaltazione del fatto; raccontato descrivendo: veramente quelli che inseguivano sono morti.
  3. 7: “sublime maestà” Dio qui è descritto anche con i sentimenti umani: l’ira, la lotta; questo va da sé.
  4. 8: “si alzarono le onde” una metafora potente: Dio è visto come una specie di mostro che soffia.
  5. 10: “soffiasti”. Non vuole dire tanto il fatto, fa riferimento agli elementi naturali, agli eventi; Israele sa e sta constatando che questo popolo, che lo inseguiva, non l’ha potuto raggiungere. Siamo noi che ci fermiamo troppo sul miracolistico e meno sulla storia, per cui, invece di vedere il cammino della storia, abbiamo visto soltanto l’episodio singolo, staccato e in una luce falsata
  6. 10-20 e seg.: la storia cammina; si ripete ad ogni enunciato “perché eterna è la sua misericordia“. In fondo il senso è lo stesso inno di Esodo 15.

Questa la liturgia, la preghiera di Israele: è un camminare nella storia e un continuare questa storia, un metterla sempre in rapporto al futuro, Israele ha percepito questo legame; la rottura con Dio significa negare la storia come vera costruzione (lo vedremo nella terza parte).

E’ nella storia che tu rovini te stesso (e questo è vero anche oggi; il rifiuto di Dio è la negazione del cammino della storia). Questo diventa fondamentale in Israele, è proprio il cardine.

A P P E N D I C E   LA PASQUA DI CRISTO

In fondo Cristo che cosa ha fatto? ha celebrato la Pasqua sotto questa linea. (Noi adesso ci immettiamo nella sua Pasqua, ma mettiamoci nella mentalità degli apostoli). Cristo ha celebrato la Pasqua ebraica che era anche la sua Pasqua, ma perché era la sua storia.

Noi siamo portati a sottolineare quasi un piano preordinato di Dio; doveva arrivare lì, doveva scontare, pagare a posto nostro. Invece Cristo celebra la Pasqua ricordando tutta quanta la storia del suo popolo; però ci mette la sua, nel senso che lui ha annunciato il Regno, ha portato quello che Dio-Padre gli aveva dato, la sua preghiera è stata l’esperienza del Padre. E come Mosè nel deserto ha conosciuto qual era il piano di Dio, così Cristo conosce il piano del Padre e lo realizza. Annuncia il Regno.

Non si mette su un piano di liberazione politica, si mette su un piano molto più vasto, che è di liberazione totale umana; l’annuncio del Regno del Padre e dell’amore, le sferzate terribili contro l’ipocrisia (degli Scribi e dei Farisei) e contro tutto il male. Questo lo mette in contrasto con tutto l’ambiente. Per Cristo celebrare la sua Pasqua significava non rinunciare a questo piano; la fede di Cristo (possiamo parlare anche di fede!) è accettare totalmente questo piano, portare l’annuncio che il Padre gli ha affidato anche se sa che questo lo porterà a cozzare con il mondo circostante, con le autorità e lo porterà alla morte.

Gesù celebra la Pasqua del suo popolo e la sua Pasqua; e questa diventa la Pasqua definitiva. Gesù risponde totalmente al Padre nella fedeltà; in lui rispondono a Dio Israele e l’umanità.

Questo è il mio corpo dato per voi“, è l’estremo atto di devozione al Padre e agli uomini. Come l’agnello e il pane azzimo della Pasqua erano il segno della liberazione di Dio, così ora la vita di Cristo, stroncata dal male degli uomini e offerto al Padre è il segno della nuova liberazione. Infatti come Mosè crede a Dio che gli dice: “Vedrai, quando sarai qui col tuo popolo, che ero io a parlarti e a liberarti”; così Gesù, il Figlio, crede al Padre, che dona la vita; “Chi avrà donata la sua vita, la ritroverà; il terzo giorno risorgerà”. Ed ecco, dopo la croce, la vita nuova; la risurrezione.

Questa è la Pasqua di Cristo; ed è la Pasqua di liberazione completa e definitiva, perché è per sempre col Padre. Per questo Cristo ci dice; “Prendete e mangiate“, per essere assimilati a Lui e celebrare la nostra Pasqua di liberazione e di vita nuova col Padre,

La liberazione è il culmine, ma non è tutto; il completamento vero è il rapporto nuovo con Dio e quindi l’idea nuova ed importantissima che acquisisce Israele è quella di essere popolo di Dio. Dio dice; “Tu sei il mio popolo, il mio primogenito, sono sceso a salvarti. Io ti ho acquistato, sei il mio primogenito, io ti ho riscattato, ti ho comprato a prezzo, ti ho portato fuori; tu sei il mio popolo ed io sono il tuo Dio“. E’ il culmine della coscienza di Israele. Questi due momenti sono strettamente connessi, il momento della liberazione nel fatto di essere costituito popolo di Dio.

Te r z a   p a r t e: L’ALLEANZA FRA DIO E ISRAELE  (Esodo capp. 19-20 e 24)

Ritorniamo a Mosè. Si è detto della sua esperienza di corte prima (uomo politico e uomo militare); poi della sua esperienza nel deserto (la sua meditazione, anche la conoscenza della vita delle tribù) e quindi Mosè è l’uomo che adesso può dare un’impronta a questo popolo e organizzarlo come tale, in realtà Mosè fino a questo punto è stato, se non proprio un capo-guerriglia, un qualcosa, di simile: è stato un capo che ha tirato fuori il suo popolo, ma non lo ha organizzato.

Ora dà una struttura; mette i 70 capi, fa delle leggi: egli fa tesoro di tutto ciò che conosceva, dà anche una struttura religiosa, e quella fondamentale è la Celebrazione della Pasqua e la Celebrazione del sabato, il giorno di riposo, “Per sei giorni lavorerai” (Es 34,21)

Tutto questo dà significato ad un popolo. Un popolo non esiste senza una struttura, una legge, una cultura, una religiosità. Nel dare le leggi (Es 34) si serve di tutte le sue esperienze; tutto, ed anche la legge viene presentata, come qualcosa che viene da Dio. In fondo si tratta delle leggi che. questo popolo si dà o che questo popolo accetta, da parte di Mosè. Di fatti nei capp. 20 – 24 c’è in sintesi la legge di Israele ed è una legge che ha molto in comune con le legislazioni antiche. (Pensate alla grande figura di Hammourabi o dei grandi legislatori dell’oriente antico).

.a)   La religiosità investe tutta la vita

Mosè fa tesoro degli elementi ormai comuni a più civiltà, li prende, ma li mette in un contesto che è totalmente differente: non è soltanto una legge, è la legge di Dio per questo popolo che è stato salvato. Ed allora la vita di questo popolo in tutti i suoi aspetti (familiare, sociale, politico organizzativo) diventa fatto religioso: la vita eterna è stata riscattata e presa da Dio e quindi tutto quello che gli serve per essere popolo viene da Dio. Questa è una cosa importantissima perché la religiosità non è vista come fatto cultuale ma come fatto di vita: non esiste una religiosità-culto, esiste una religiosità-vita, il culto diventa soltanto memoriale-celebrazione di quello che Dio ha fatto per il popolo: la religiosità è nella vita. (Applicando a noi non sono religioso perché vado a Messa, la domenica, ma sono religioso perché sono giusto, perché mi metto in ascolto della Parola e la pratico, perché voglio bene al mio prossimo, e altro). Pertanto l’incontro con Dio, la religiosità non vista tanto nei riti del culto (quello è un momento della vita, è un momento della celebrazione del rapporto con Dio; diventa, segno della salvezza che Dio continuamente dà), ma la vera religiosità sta nella vita, questo è un fatto fondamentale.

Israele esce da questo concetto di religiosità culturale, magica, che si conclude soltanto nel rito, nella festività, com’era nella mentalità dei popoli circostanti; esce dalla mentalità di una religiosità di tipo contrattuale: Dio non è più quel grande padrone e signore che bisogna tenersi buono con fargli dei sacrifici; donargli un qualche cosa, come se Lui ne avesse bisogno e così a ne ridona altro. Israele si mette in un’altra idea, l’idea che tutto è di Dio, che tutto viene da Lui e che quindi tutto quello che l’uomo ha, è suo e che l’uomo a Dio deve ridare la vita; quindi la vita condotta dalle persone è religiosità ed è cammino verso Dio e insieme è anche il bene dell’uomo. Non è l’uomo a rendere un bene a Dio.

Questa è l’idea geniale di Mosè, cioè l’uomo non può portare a Dio niente con tutta quanta la sua religiosità dinanzi all’assolutezza, alla grandezza, alla sovranità di Dio nella storia: l’uomo non può fare un favore a Dio. Noi invece siamo tentati di partire con questa idea: ti faccio questo favore, ti vengo a sentire la Messa, oppure ti vengo a dire il Rosario o qualcosa di questo genere. L’uomo di allora poteva dire: ti porto la primizia, ti porto i frutti migliori e mi ricambi con la salute, la ricchezza, la fecondità. Niente di quanto l’uomo fa è un atto che ricorda (la celebrazione) l’intervento di Dio. La vera religiosità (punto culminante ed essenziale per la realizzazione dell’uomo) è la vita stessa dell’uomo in tutta la sua crescita. Questa vera religiosità non bisogna scambiarla, con il culto. Il vero culto è un momento della vita dell’uomo in cui si celebra Dio che viene incontro all’uomo. Dio ti offre la salvezza: questa è l’idea fondamentale. Riassumendo:

1- Coscienza di essere popolo di Dio: un popolo che Dio ha fatto, salvato, riscattato. E’ suo, gli appartiene.

2- Una religiosità che abbraccia tutta quanta la vita condotta.

3- Una religiosità per cui tutti sono uguali perché ogni persona riceve tutto da Dio. Non c’è l’uomo particolare. Ad esempio il sacerdote non è colui che ha dei poteri straordinari. Nella religiosità pagana, in genere, il sacerdote ha un potere straordinario per accaparrarsi la divinità, oppure per interpretare i segni delle divinità. In Israele il sacerdote è colui che nell’assemblea guida la celebrazione, il memoriale, il ricordo. Non c’è il concetto di sacerdote come uomo sacralizzato o uomo del sacro. Le persone sono tutte uguali.

4- Mosè, in alcune leggi e specialmente in quello che noi chiamiamo “Decalogo”, è veramente straordinario, pertanto sono diventate leggi comuni per tutta l’umanità e non si trova nell’antichità qualcosa del tutto simile. Mentre per le cosiddette leggi casuistiche (caso per caso, cfr Es 21-23) ci sono tanti esempi nella cultura orientale: il Decalogo è qualcosa di unico, ha toccato la natura umana. Mose è un uomo che attraverso l’esperienza religiosa, a contatto con Dio è stato capace di scendere a fondo e toccare i cardini della stessa natura umana.

.b)   Dio sceglie Israele come suo popolo

LETTURA di Es 19,1-6 = “una proprietà particolare tra tutti i popoli”: la vocazione del popolo di Dio  (sono parole che il popolo ha da imparare a memoria).

Significato: tutto è mio: la terra, le genti, ma voi mi appartenete in maniera particolare cioè nella storia universale quella di Israele diventa una storia tipica, veramente particolare ” la storia della rivelazione di quello che Dio fa per l’umanità, di quello che Dio chiede all’umanità.

  1. 5 “Se custodirete la mia alleanza”: la religiosità è nell’osservanza del patto dell’alleanza, di essere popolo di Dio. “Voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli”. E’ difficile poter rendere bene il termine ebraico “segullah”: la proprietà di una cosa che in sé e per sé non ha nessun valore, ma diventa valore enorme perché è carica di tanti ricordi e di tanto affetto come per un ragazzo la fotografia della sua ragazza può essere un tesoro molto più grande dei soldi, dell’oro perché carica di tanti ricordi e amore; così la fotografia di un figlio morto è tutto per la madre carica di ricordi. Il popolo è quasi il tesoretto (si potrebbe dire); non nel senso che vale tanto, ma per il fatto che ci è attaccato il cuore di Dio.
  2. 6 – “Regno di sacerdoti” è stato detto prima che tutta la vostra vita è un sacerdozio, “Nazione Santa” non nel senso che già non commettete più nessun male, ma nel senso di “siete riscattati, salvati”. In questo senso voi che glorificate me siete gente “santa”.

Quando si parla di fuoco, di tuono, di lampi e altro, è bene pensare che Dio è descritto con gli elementi presi dalla natura e che sono gli elementi delle teofanie cioè delle manifestazioni di Dio.

.c)   Mosè il legislatore

Al cap. 20, 1-17, viene riportato il Decalogo o ‘dieci parole’. Nella redazione attuale dell’Esodo si trova al di fuori del racconto che, interrotto al 19,25, riprende al 20,13 (cfr l’altra edizione in Dt 5,6-22). Il decalogo si presenta innanzitutto come le ’dieci parole’ rivolte da Jahvè, Dio d’Israele, al suo popolo che Lui ha liberato dalla schiavitù egiziana (cfr 19,2). Esso emana dalla volontà del Dio dell’Alleanza, ed è in stretto rapporto con la salvezza del popolo, operata in Egitto; d’altra, parte è parola indirizzata al popolo in quanto legato al Dio dell’Alleanza. Quindi l’unica ragione d’essere del Decalogo è il Patto. Non ha il carattere di un codice di legge naturale valido per tutti, né di un riassunto delle esigenze etiche che scaturiscono dalla coscienza morale dell’umanità. Neppure è propriamente una legge, mai il VT lo chiama legge precettiva, perché sono indicazioni in forma negativa e prive di qualsiasi sanzione. In realtà sono le delimitazioni rigorose dell’ambito in cui Israele può ancora esistere come popolo del Patto in comunione con il suo Dio.

Al di fuori del Decalogo l’israelita cessa di essere membro della comunità dell’Alleanza e Israele cessa di essere il popolo di Dio.

Sarebbe errato pensare il decalogo come la condizione previa che Dio chiede per stabilire la sua Alleanza. L’Alleanza è puro dono di Dio. Il decalogo è da comprendersi come tutela della realtà di comunione del popolo con Dio. Il centro di interesse, pertanto, sta nel rapporto di mutua appartenenza di Jahvè e del popolo, la formula espressiva dell’Alleanza nella Bibbia. “Io il tuo Dio. Tu il mio popolo.”

Accettando il Decalogo, Israele riconosce Jahvè come suo salvatore nella storia, accoglie la grazia divina, e confessa di essere il popolo dei salvati. Non si tratta, soprattutto, di obbedienza ad una volontà imperativa, ma soprattutto di accettazione, nella fede e nella prassi, della volontà e dell’azione liberatrici del proprio Dio.

LETTURA: Esodo 20, 1-17 = Il Decalogo.

  1. 3-12- Solo il 3° (o 4°) e 4° (o 5°) hanno la forma positiva (volere), gli altri hanno la forma negativa (non volere).
  2. 13-17 Gli ultimi comandamenti sono enunciati in forma breve e sintetica. C’è da fare attenzione alle motivazioni contenute nel v. 2 , nei vv. 3-6; nei vv. 9-11. Nota un’ipotetica formulazione originaria del Decalogo:

Non adorerai altro Dio.

Non farai immagine alcuna di Dio.

Non nominerai il nome di Dio invano.

Non lavorerai il sabato.

Non maledirai tuo padre o tua madre.

Non ucciderai.

Non commetterai adulterio contro il tuo prossimo.

Non sequestrerai il tuo prossimo.

Non testimonierai il falso contro il tu prossimo.

10 Non “desidererai” la casa del tuo prossimo.

 

.d) Si conclude l’Alleanza fra Dio e Israele

La relazione con Dio, l’Alleanza, è sancita da un rito esterno. L’uomo non può raggiungere Dio, né far memoriale di Dio se non attraverso gli elementi della sua natura, i riti esterni. Da qui il significato del sacrificio, è il segno dell’Alleanza con Dio. Non ha tanto il significato di un’offerta a Dio, e neppure quello di una espiazione (questo è secondario).

Il complesso racconto dell’Esodo trasmette diversi rituali della conclusione dell’Alleanza.

Nel primo Mosè, Aronne e gli anziani di Israele prendono un pasto sacro alla presenza di Jahvè che contemplano (Es 24,1-2.9-11);

Il secondo sembra riprodurre una tradizione liturgica, conservata nei santuari del Nord. Mosè innalza, dodici stele per le dodici tribù di Israele ed un altare per il sacrificio con l’aspersione del sangue (Esodo 24, 3-8).

Una terza, rappresentazione (javista.) sarà data in Esodo 34.

E’ fondamentale che l’atto sacrificale sia il segno del rapporto, dell’Alleanza con Dio. Difatti Mosè dopo aver parlato con Dio “andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore” e il popolo le accetta. Lettura di Es 24, 3-8 = La conclusione dell’Alleanza, (cfr Dt 27,10; Gs 24, 19-20 ed anche Gs 8, 32-35)

Una tale Alleanza è una relazione di vita e riguarda l’essenziale, la totalità della vita. Poiché “La vita di ogni essere vivente è il suo sangue” Lv 17,14 solo il sangue può essere segno e sacramento di questa relazione vitale tra due persone. Ciò che viene sparso è il sangue, segno della vita, e ciò che vi è di più santo nella vittima. Avere parte allo stesso sangue è prendere parte alla stessa vita e la vita questa volta è Dio, perché a Dio appartiene l’animale immolato. Tra queste parole e quelle che dice Gesù non c’è molta differenza: sono le stesse. Questo è il significato del sacrificio: il sangue è il segno del rapporto dell’Alleanza con Dio (cfr Eb 9,15ss; Mt 26, 28 e paralleli; 1Pt 1,2).

Concluso il patto, diversi oggetti ne perpetueranno il ricordo, attestando nei secoli l’impegno iniziale di Israele: l’Arca dell’Alleanza e la tavola della testimonianza; la Tenda del Convegno dove l’Arca è conservata, luogo centrale del culto. E’ chiaro il legame perpetuo del culto israelitico con l’Alleanza del Sinai, l’atto iniziale che ha fondato la Nazione. Così pure la Legge intera non ha senso se non in funzione dell’Alleanza di cui annuncia le clausole.

Se poi si chiedesse se il popolo di Dio celebrava la Pasqua con consapevolezza, la risposta è affermativa, nel senso che in mezzo a loro c’era chi se ne rendeva conto. Ma in questa consapevolezza ci sono gradi diversificati. E iI culmine di questa consapevolezza l’ha avuto Cristo: quella è stata una Pasqua celebrata proprio in totale libertà. In realtà il Cristo, che accetta totalmente il piano del Padre e va incontro alla morte e che ha la certezza della Resurrezione, è colui che celebra la Pasqua in piena consapevolezza, in piena libertà, in piena fede. Noi siano chiamati a celebrarla così.

Q u a r t a   p a r t e – LA ROTTURA E LA RINNOVAZIONE DELLA ALLEANZA (Esodo 32 – 34)

.a) Il Vitello d’oro

Vediamo la quarta tappa di questa relazione con Dio; è una cosa importantissima. Nei capp. 32; 33 e 34 dell’Esodo campeggiano due figure; il popolo e Mosè. Nel cammino del popolo verso Dio, in questo rapporto nuovo di alleanza con Dio non tutto va bene. La prima difficoltà sta nell’arrivare alla vera idea e al vero rapporto, fatto difficile che richiede una fede forte.

Pensate, ad esempio, a questo fatto: il popolo ebraico non poteva avere nessuna rappresentazione di Dio: l’unica cosa che rappresentava Dio e diceva la sua presenza in mezzo al popolo era l’Arca dell’Alleanza. Questo già richiedeva uno sforzo non comune per gente dalla mentalità comune.

C’è poi questo proiettarsi verso il futuro: “Io sono quel che sarò, sono quel che vi farò“. Tutto questo significava affidarsi, avere fiducia. Noi non abbiamo dalla natura la forza di una fiducia che ci prenda in questo cammino verso il futuro; noi purtroppo siamo presi dalle piccole cose, ci contentiamo di quello che è immediato e non cerchiamo quello che ci costruisce in maniera totale, ci realizza nel futuro, in quello che sta al di là. Questa prospettiva ci sfugge e non riusciamo a fondarci i nostri ideali.

Pertanto, non c’è da meravigliarsi; questo popolo viene meno e commette il celebre peccato, il vitello d’oro. Come è presentato qui? Mosè è lontano, è con Dio; il popolo non lo vede tornare e pensa; “Ormai è finito, facciamoci un altro Dio”, E si fanno un’immagine di Dio, riprendendola dalle divinità egiziane; si fanno un bue, un toro, il “Dio Api”. (In Egitto il toro rappresentava la divinità). Non è imporrante l’atto in sé e per sé; forse, come tale, voleva essere una figurazione di quel Dio che li aveva condotti fin lì. Ma significava quasi fermarsi, adagiarsi nelle piccole cose, rattrappirsi, perdere quella tensione verso la realizzazione delle promesse; il dimenticarsi di Dio, di quello che Dio ha fatto e delle mete che addita, per fermarsi, stabilizzarsi. In questo sta la gravità del peccato, per questo è il vero peccato.

LETTURA: Esodo 32, 1-10 = Il vitello d’oro

E’ terribile questo fatto. Qui c’è tutta una figurazione; è tutto un popolo che dimentica Dio e al posto di Dio ci mette qualcosa d’altro. Non è il fatto del vitello in sé e per sé, della statua, ma è l’agganciarsi a qualcosa che è lì, sul momento, a qualcosa che ti fa sicuro, che è ben determinato; questo è il tuo Dio; ma non ti realizza, non ti porta alla pienezza. L’idolatria è proprio questo dimenticarsi di Dio.

Il mondo di oggi è profondamente idolatra, quando scambia i valori di Dio con la tecnica, col progresso, con la scienza, con la ricchezza, con la potenza, con l’uomo stesso; ripete sempre questo atto d’idolatria. “Questo è il tuo Dio” significa fermarsi qui, perdere la prospettiva del Dio dei padri, del Dio della promessa, del Dio che spinge là. Fermarsi qui; questa è la rottura con Dio, il peccato più grave.

  1. 7-8. Il popolo pervertito. Quando Israele sarà entrato nella terra promessa si scorderà di Dio e dirà; “Mi hanno salvato le divinità di Canaan, della Palestina” (e cominciano i culti idolatrici). “Mi ha salvato la mia potenza”. Nei salmi ricorrono spesso espressioni di questo tipo: “Dio non guarda la potenza, i cavalli, la forza delle tue gambe, ma Dio guarda l’umile, il semplice, colui che ha fiducia, che è in una prospettiva di apertura verso di lui”.
  2. 9: E’ vero di Israele ma è vero di tutti: siamo un popolo di dura cervice.

.b) Mosè, il mediatore

Mosè è una grande figura: da una parte il popolo che traligna e dall’altra Mosè, l’uomo preso totalmente da Dio.

LETTURA: Esodo, 32,11-14 – Preghiera di Mosè.

Qui la figura di Mosè è veramente grandiosa, è l’uomo che ha capito che Dio è tutto: la sua esperienza l’ha portato a questo. Ma è anche l’uomo che è totalmente e completamente solidale con il suo popolo. Dio quasi gli fa questa proposta: “Distruggo questo popolo e ricomincio con te”. Qui c’è tutto un modo di parlare finemente psicologico. Colui che scrive presenta Dio come antagonista di altre potenze, quelle egiziane, cui Dio ha sottratto il popolo suo. Dice Mosè: “Se tu lo distruggi, diventi ridicolo di fronte ai tuoi avversari, a quelli che opprimevano il popolo tuo: Diranno: Sì, li ha liberati, ma per farli finire in un momento nel deserto: tu ci fai brutta figura”.

Chi arriva ad esperienza religiosa profonda si mette con Dio su questo piano, quasi a tu per tu, quasi di costringere Dio. Ma in fondo è la descrizione del dramma che Mosè sente dentro perché vive a pieno il piano di Dio. Mosè sente la tentazione di abbandonare tutto, perché il popolo non gli ha dato ascolto. Resiste alla tentazione di scoramento e riprende la sua meditazione sulla promessa fatta ad Abramo, Isacco, Giacobbe. La promessa adesso è lui, adesso cammina in questo popolo. Mosè ritorna sempre sul suo punto fondamentale: cioè la storia come base della fede.

Poi Mosè scende, spezza le tavole della legge. C’è come una specie di crollo. (Es 32, 15-29). Però Mosè riprende le cose in mano e di nuovo fa capire a questo popolo lo sbaglio enorme che ha fatto. Riconosciuto lo sbaglio (Es 32, 30-35) bisogna ricominciare da capo. Da qui hanno inizio le cose più belle: riprende il dialogo tra Mosè e Dio.

LETTURA: Esodo, cap.33.

  1. 4: Dopo il peccato c’è una specie di frattura, non agisce Dio direttamente, ma c’è un intermediario: l’angelo.
  2. 5: “vi sterminerei”. Dio è santo proprio in quanto è colui che sta al di là, che è al di sopra di ogni cosa, che è totalmente trascendente, inaccessibile nella sua santità; quindi se si avvicina all’uomo lo consuma e l’uomo non può sopportare questa sua presenza.
  3. 14: Mosè è solidale in maniera completa con il suo popolo e sente la forza sua di essere mediatore tra Dio e il popolo.
  4. 18: Vedete come vanno avanti le cose. Prima. “Vieni con me”; poi: “Sii in mezzo a noi”; adesso ancora l’ultima domanda: “Fammi vedere la tua gloria”. Qui “gloria” significa Dio stesso, cioè la gloria di Dio è la manifestazione di Dio, è tutto.
  5. 21: Notate la trascendenza di Dio, sopra ogni cosa; la libertà piena, sovrana.
  6. 22-23: Mosè è arrivato al culmine. Questa è la tensione dell’uomo che a contatto con Dio, desidera anche vedere Dio, faccia a faccia. Ma questo non è possibile: il volto di Dio non si può vedere. Mosè è arrivato al massimo contatto, alla più profonda esperienza religiosa e nello stesso tempo non si estranea dal suo popolo. Totalmente solidale e immerso nel suo popolo e, nello stesso tempo, totalmente immerso in Dio.

In Mosè non è una presunzione il suo voler vedere Dio. E’ vero che tutto quello che ti sta intorno, anche la stessa storia, ti rivela Dio, ti fa conoscere Dio, la sua gloria, la sua potenza, le cose mirabili che fa Dio: nonostante questo c’è ancora da travalicare, andare oltre. Qui è l’immettersi totalmente in Dio per entrare in contatto con Lui. E’ un pochino quello che S. Paolo dice di se stesso nella seconda lettera ai Corinzi: “So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare”. (2Cor 12,2-4). Cioè l’uomo perde se stesso in Dio; l’uomo sente che tutto quello che è nella storia pur essendo la storia di Dio, va travalicato, per passare al di là: Mosè sente questo.

Il popolo che si è creato un Dio visibile (l’idolo) è stato punito. Come mai Mosè vuol vedere Dio? C’è una grande differenza: il popolo si sta dando un Dio visibile, perché ha perso il senso del futuro, di quello che Dio gli ha detto e si ferma a qualcosa di concreto perché ha perso il senso della prospettiva. Mose è su tutt’altro piano; Mose è in un cammino ancora da compiere.

Il popolo ha materializzato un suo dio (idolo), proprio perché ha perso la tensione della cosa a cui Dio lo chiamava, per fermarsi su qualcosa d’immediato, che prende ora; e quello che immediatamente gli interessa, ma che gli fa dimenticare il vero cammino.

Nella risposta di Dio c’è senz’altro la sua trascendenza, la sua sovranità, la sua purezza. Dio è veramente l’inaccessibile. Anche nel N. T. nel prologo al Vangelo di S. Giovanni, si legge; “Dio, nessuno lo ha mai visto; il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18) cioè il volto di Dio è il Cristo, lì veramente possiamo toccare con mano.

E S. Giovanni nella, sua prima lettera. (1,1) dice; “Quello che le nostre mani toccarono del Verbo della, vita” cioè la Parola stessa di Dio; noi l’abbiamo toccata con mano, l’abbiamo sperimentata; c’è la palpabilità quasi di questa, presenza di Dio.

Sta di fatto che Dio è proprio inaccessibile in sé. E’ accessibile soltanto quando Lui stesso si dona, quando Lui stesso viene incontro ed è al di là dell’uomo e della storia stessa. In fondo questa inaccessibilità di Dio dà l’idea del rischio che c’è nella fede. Quando si scala una montagna, tu vedi un certo picco e ti pare che quello sia l’ultimo, ti sforzi, arrivi, ed invece ce n’è un altro; raggiungi quello e ne trovi un altro. Il peccato del popolo ebraico è questo: prima crede in un Dio che lo lancia nel futuro, (un picco, poi un altro, poi un altro); poi si fa il vitello d’oro come per dire: sono arrivato, è questo e questo non cambia più.

Quando di Dio credi di poter dire: “L’ho raggiunto, adesso mi si è manifestato”, proprio allora cresce in te l’ansia, e ancora scopri che è veramente tanto più grande; e tu seguiti a camminare; è una scoperta continuamente nuova.

.c) Dio castiga e tollera l’iniquità

LETTURA: Es. 34, 1–9: proclamazione del significato di Dio stesso.

  1. 6: ecco la proclamazione del nome proprio di Dio: la bontà, la misericordia, la “hesed”, come dicevano, “Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà“.
  2. 7: “Perdona la colpa, la trasgressione ed il peccato”. Mosè ha capito una grande cosa: Dio veramente perdona, perché è l’Onnipotente e può ricominciare da capo la storia. Dio ha dato a questo popolo anche il terribile potere di rinnegarlo, perché Egli è anche capace-di ricominciare.

In fondo la caratteristica dell’onnipotenza, è quella di dare la libertà agli altri; quanto più uno è potente, tanto più è capace di donare la libertà agli altri e quindi anche di dar la possibilità di dire di no, perché ha la capacità di ricominciare. Quanto più uno è piccolo e meschino, tanto più sarà incapace di donare la libertà agli altri. Questo è vero anche per noi; quanto più noi siano capaci di amare l’altro tanto più siano capaci di dargli la libertà e la responsabilità: quanto più noi siamo gretti, chiusi, tanto più negheremo la libertà all’altro. E, nonostante l’errore del popolo, possiamo dire che la Pasqua celebrata subito dopo la liberazione, aveva quel significato: “ti ho fatto popolo mio, sei popolo mio, nonostante che abbia questo terribile potere di dirmi di no”.

Potrebbe far difficoltà la frase (Es 34, 7) “che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli, fino alla terza e alla quarta generazione“. Attenzione al genere letterario che si esprime in questa prospettiva: l’amore di Dio è per mille generazioni, cioè è per ’’sempre’’; il castigo poi è insito nel tuo stesso operare; quando ti tagli da Dio, in quest’atto stesso trovi, immanente, qualcosa che ti punisce, perché significa fermarsi, e in questo tuo fermarti già rinneghi te stesso, punisci te stesso e questo dura “fino alla terza e alla quarta generazione” crei questa situazione di rottura, per te e per gli altri. Però Dio è talmente capace che fino a mille generazioni, sempre cioè, è capace di riprenderti e di portarti la sua misericordia. Guardate quindi lo sbilanciamento che c’è tra le due affermazioni: “Conserva il suo amore per mille generazioni, perdona la colpa, la trasgressione ed il peccato; ma non lascia senza punizione“? il peccato è sempre ricordato. Dio niente lascia, impunito: “Castiga la colpa dei padri nei figli e dei figli nei figli, fino alla terzo, ed alla quarta generazione“. Ecco il significato: per il fatto stesso che tu ti sei rotto, hai fatto il tuo male, ti sei fermato, non hai realizzato te stesso, non hai percorso quella strada che era la tua strada, in questo fermarti ti sei tagliato le gambe, per te e per gli altri. Ma, ecco, viene il Signore, ti riprende per mano e tu cammini ancora.

Il brano dice ancora che i figli e i nipoti portano le pene dei peccati dei padri e questo è vero. Ma c’è da intendersi sul fatto che questo è un cammino storico e nella storia, la realtà c’è, non la togli: se tu hai creato una situazione di stasi, di fermo, l’hai creata per te e per gli altri, quindi neppure gli altri si rimettono in cammino. Non che uno paga per l’altro, quando non c’è nessuna responsabilità. Quando tu hai creato una situazione, questo rimane, nemmeno Dio la può negare; ma Dio onnipotente è capace di tirarti fuori, però quella situazione l’hai creata tu. (Ad es.: se mio padre ha perso la guerra, l’ho persa anche io; se in una famiglia, il marito è ubriacone, la moglie è una donnaccia, mettono al mondo un figlio sbalestrato, matto, non educato. E’ colpa del figlio?  No! Però la situazione è quella). Dio è certamente capace di riprenderti e di ricondurti sulla strada e lo vuole; però è anche vero che la situazione creata da te, c’è.

Forse la difficoltà a capire nasce anche dal fatto che noi pensiamo solo alle realtà individuali; per noi conta il peccato individuale, l’opera buona individuale, quello che individualmente sappiamo fare. La realtà del Corpo Mistico ci dice, invece, che il mio bene rifluisce in bene degli altri e il male che io faccio è un’emorragia nel Corpo di Cristo, è un male inserito nella storia. Se oggi non facessi questo bene necessario, ne scaturirebbe un danno agli altri. Questa è la situazione. (Se su 300 preti di Fermo nessuno sarà veramente prete, il popolo cristiano scenderà nella fede, scenderà sempre di più; c’è il peccato personale del singolo prete. però la condizione di degrado sta su tutti).

Da questo si capisce come nella Messa si fa la richiesta individuale di perdono alla comunità e della comunità a me. “Confesso a voi fratelli …” Noi siamo strettamente uniti, è il grande valore della comunità; siamo legati gli uni agli altri. Gli ultimi secoli invece ci hanno fatto credere che il grosso valore è l’individuo, ma in senso individualistico esasperato.

Facciamo anche un’altra considerazione: oggi stiamo assorbendo una mentalità che è terribilmente ancorata ai beni materiali ed alla loro valorizzazione esclusivamente; ne segue una mentalità edonista e consumistica: questo non può non portare del male; è un male che sta nella storia. E’ la tua e nostra situazione di peccato: tu la, crei, la dài ad altri che si trovano in questa mentalità; uscirne fuori è terribile per gli altri che ne portano il peso. C’è da scartare l’idea di un Dio che aspetta il momento della vendetta, come a dire: tu hai fatto il bene, ti dò il premio, tu hai fatto il male, devi essere castigato. (Quasi un Dio che sta a spiarci, per il gusto di punirci e vederci soffrire). Questa è la mentalità sbagliata. La punizione di Dio è lo stesso male che hai compiuto: ti sei fermato, non hai realizzato te stesso; Dio non ti punisce dall’esterno; hai rinnegato te stesso e quello è il tuo male, quella è la punizione con tutte le conseguenze che porta; in questo senso l’inferno siamo noi.

La mia realizzazione poi è fortemente legata all’uscire da me stesso, perché se Dio è amore, io mi realizzo solo come amore; più esco da me stesso, dal mio egoismo e individualismo, più mi riempio degli altri e della realtà degli altri; più io vado avanti. Così mi realizzo e apparterrò a Dio, sarò tanto vicino a Dio, per quanto io sono diventato amore; e il mio paradiso sarà quello.

Noi siamo potenzialità di conoscenza e di amore: più mi potenzio in questo, più mi completo e più vado verso l’essere simile a Dio, quasi io conosco il nome di Dio come diceva Mosè. Lui conosce il mio nome e c’è unità con Dio; ma, per essere tale unità con Dio, ho bisogno di spogliami del mio egoismo, perché l’egoismo è l’anti-Dio.

Questi sono gli aspetti fondamentali del libro dell’Esodo. Il libro evidentemente presenta tanti altri aspetti. Quelli che abbiamo toccati sono come i punti cardine e le strutture portanti: sono le linee di teologia biblica; tutto il resto, le leggi, le istituzioni e altro vanno visti sotto questa luce.

APPENDICE

L’ARCA dell’ALLEANZA -La TENDA del CONVEGNO -IL TEMPIO

Il popolo ebraico è un popolo nomade. Uscito dall’Egitto, attraversa il deserto e quindi vive negli accampamenti, sotto le tende. Dio che aveva detto: “io sono in mezzo a voi; la mia Gloria vi precederà”, abita anch’egli in una tenda, la tenda di Dio è al centro dell’accampamento, intorno ad essa ci sono le tende del popolo. E’ bellissimo questo concetto: Dio abita in mezzo al popolo ed allo stesso modo del popolo.

. – La TENDA DI DIO viene indicata con diversi nomi: il più generico sembra quello di ‘Tabernacolo’; nomi più specifici sembrano: “Dimora” ed in Medio Oriente è il nome più comune che si dà ad ogni Tempio come ‘dimora di Dio’. Inoltre, santuario.

-“TENDA DELLL’INCONTRO” è denominazione israelita, l’incontro non è quello tra gli uomini in assemblea di adorazione, ma è l’incontro di Jahvè con Israele per mezzo di Mosè. Il Tabernacolo è il luogo della Rivelazione. Il Tabernacolo è allora il Santuario di Israele fino a quando egli è nomade. Ne parla il libro dell’Esodo, ci sono termini quasi identici, in due sezioni: nei capp. 25-31 dove si riportano gli ordini per la costruzione del santuario; nei capp. 35-39 dove si descrive la esecuzione.

Le descrizioni dell’Esodo amalgamano elementi antichi, (come l’arca, la sua tenda ed il materiale con cui sono fatte, che risalgono sicuramente a Mosè) con altri elementi che provengono dallo sviluppo del culto nel corso della storia di Israele, specialmente dopo la sedentarizzazione. Esse tengono presente il Tempio di Israele, costruito da Salomone e poi ricostruito che però riproduceva nell’essenziale la Tenda del Convegno con il suo Recinto Sacro. (Nota qui alla fine del paragrafo)

-Nella parte più interna del Tabernacolo (nel Santo dei Santi) era conservata l’ARCA dell’ALLEANZA. Era una cassetta, che conteneva le cose più sacre per un israelita: le tavole della legge, la manna, la verga di Aronne: questi erano i segni della storia di Israele:

–       le tavole della legge rappresentavano il rapporto con Dio;

–       la manna, l’intervento dell’aiuto di Dio;

–       la verga di Aronne, il segno del potere e dei sacerdoti che erano i ministri del culto.

L’Arca era ricoperta da una lamina d’oro, chiamata Propiziatorio(o Espiatorio). Sopra l’Arca c’erano anche due Cherubini, l’uno di fronte all’altro, costruiti in modo che le loro ali sovrastassero il ‘coperchio’ o Propiziatorio (in ebraico ‘kapporet’). Così l’Arca è il tronco e lo sgabello di Jahvè che siede sui cherubini (1 Sam 4,4) e custodisce la sua Parola sotto i suoi piedi.

Nell’Esodo il ‘Coperchio’ è presentato distinto dall’Arca. Nel rituale post-esilico esso interviene senz’Arca nel giorno della ‘espiazione’ ed in 1 Cronache 28,11 si chiama il ‘Santo dei santi’ luogo per il ‘coperchio’.

Legata all’Arca dell’Alleanza c’è l’immagine della NUVOLA (in ebraico kabod) che indica la “gloria di Jahvè”. La nube in genere può avere duplice significato come esperienza religiosa della vicinanza benefica di Dio (copre dal sole cocente, porta la pioggia benefica); e come castigo di Colui che vela la faccia. Comunque è soprattutto un simbolo privilegiato per indicare il mistero della presenza divina; manifesta cioè Dio pur velandolo.

LETTURA: Esodo 40,34-38 Nube (=Gloria di Dio) sulla ‘Tenda’ del Convegno

In questa Tenda si svolge il culto. Il sabato, il giorno di riposo, il popolo vi si dà convegno. In questo luogo Mosè amministra la giustizia per cui diventa il punto di convergenza di tutto. Questo aspetto si presta ad un bellissimo sviluppo. Quando Israele si sedentarizzerà nella terra di Canaan e abiterà nelle case, costruirà un tempio al Signore (sarà Salomone a costruirlo: leggi la prima parte del 1° libro dei Re). Questo tempio diventa segno della presenza di Dio. Ma si tratta sempre di un “segno” perché la realtà è un’altra: Dio è presente nella vita del suo popolo. Quando il popolo si allontanerà da Dio e non osserverà l’Alleanza, i profeti diranno che quel tempio non serve più a niente e sarà distrutto da Dio. Anche Gesù dirà del tempio del suo tempo, quello costruito da Erode: “Distruggete questo tempio ed in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2,19). Diceva questo perché il vero tempio non è quello di pietra, ma il vero tempio di Dio è Cristo che nella sua vita, nella sua umanità rende presente, rivela il Padre: è Dio in mezzo a noi. Egli è la nuova “Tenda“. S. Giovanni nel prologo dirà: “La Parola di Dio si è fatta carne e ha posto la ‘tenda in mezzo a noi” (Gv 1, 14).

Cristo risorto ci associa a sé, ci dona lo Spirito Santo: noi diventiamo il corpo di Cristo, ed in Cristo siamo tempio di Dio. Il vero tempio di Dio non sono le chiese, edifici costruiti di pietra, per quanto belli, ma il tempio di Dio è la Chiesa, cioè siamo noi.

La TENDA del CONVEGNO o DIMORA risulta divisa da un velo in due parti:

.1.   Il SANTO dei SANTI conservava l’Arca dell’Alleanza (Es 25, 10-22).

.2.   Il SANTO che conteneva:

–       La Tavola dei pani dell’offerta (o Mensa dei Pani) (Es 25, 23-30);

-…….il Candelabro (Es 25, 31-40);

–       L’Altare dei Profumi (Es 30, 1-5).

.B. Il RECINTO SACRO per la Tenda del Convegno (Es 27, 9-19). Avanti alla Tenda erano posti:

–          L’Altare degli olocausti (Es 27, 1-8);

–           La Conca (Es 30, 17-21).

 

APPENDICE   –  LINGUAGGIO BIBLICO E MESSAGGIO DI DIO

Dio, nella Sacra Scrittura, ha parlato per mezzo di uomini e alla maniera umana. Chi interpreta la S. Scrittura, per capire bene ciò che egli ha voluto comunicare, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi (cioè quelli che hanno scritto i libri) in realtà abbiamo inteso significare e a Dio è piaciuto manifestare con la loro parola, perché se vogliamo capire quello che Dio dice, non abbiamo altro mezzo che questa parola scritta, e quindi non possiamo prescindere da questo scritto, da questa storia, da questa tradizione. È assurdo voler arrivare a Dio quasi misconoscendo tutta la S. Scrittura, tutta la storia sacra: non capiremmo nulla della storia della Salvezza: di Dio, di Cristo, della Chiesa. Bisogna mettersi in questa linea, se vogliamo capire bene, dobbiamo saper interpretare quello che gli agiografi vogliono dirci. Questo è molto importante. La S. Scrittura quindi deve calare nella nostra vita, deve diventare il punto di rifermento del nostro parlare e del nostro agire. Esaminiamo due possibili domande:

.a)- Forse è importante, essenziale, mantenere il linguaggio della Bibbia?

Ogni linguaggio, ogni modo d’esprimersi è sempre, per forza di cose, inserito in una terminologia: e non esiste pensiero disincarnato da un linguaggio; ed è anche vero che il linguaggio fa il pensiero. Questi due aspetti sono correlativi; mentre io creo una civiltà, creo un linguaggio; e mentre creo un linguaggio, creo anche una civiltà: vanno di pari passo. Non è esatto dire: prima esistono i pensieri e poi viene il linguaggio. Esiste prima di tutto la parola di una lingua la quale è portatrice di un pensiero, di una mentalità, di un modo di concepire le cose.

I Padri della Chiesa non sono caduti in quest’errore. Prendiamo per tutti S. Agostino. Egli, nell’opera più famosa, le “Confessioni”, parla con il linguaggio della Bibbia: è presente il suo linguaggio filosofico, culturale derivato dalla cultura classica, ma le espressioni sono pregne del linguaggio della Bibbia; è presente il suo linguaggio filosofico, è tutto un riferire, un parlare con Dio sulla base di una mentalità e di un linguaggio biblico. Questo significa che, assorbendo il linguaggio biblico, se ne assorbe la mentalità e quando si è raggiunta la mentalità non si troveranno espressioni migliori, per esprimersi, che quelle bibliche.

.b) E come si fa a sapere con sicurezza quello che l’agiografo voleva, dirci a nome di Dio?

Questo fa capire che non c’è altro mezzo per capire quello che è la rivelazione se non entrare in quello che l’agiografo ha detto (agiografo è colui che scrive cose sacre, cioè quelle che ci portano la rivelazione di Dio). E’ necessario tuffarsi nella storia sacra, comprendere l’intervento di Dio nella storia. Dobbiamo metterci in questo cannino, aprire le nostre prospettive, uscire un po’ dal mondo chiuso nel nostro io; bisogna che ci apriamo, che usciamo da noi stessi, che ci mettiamo nelle prospettive di Dio, che ci immettiamo nel la storia, e poi capire che noi stessi siano chiamati a fare la storia insieme con Dio; se usciamo da questa mentalità, siamo quasi tagliati fuori.

Ciò può sembrare astratto, ma deve nascere la convinzione che solo immettendoci in questa linea si realizza il piano di Dio, che è la storia: la storia dei patriarchi, di Mosè, del popolo ebraico; la storia di Cristo; la storia della Chiesa, e, nello stesso tempo, la storia del mondo, la storia di oggi. Io sono dentro questa storia, se sono aperto a essa e so cogliere, come Mosè, i segni della storia, il cammino che la. storia stava facendo e come Mosè l’ha interpretata, l’ha condotta e come il popolo ebraico ha risposto. E’ tutto un popolo che cammina. Mosè costruisce un popolo. Oggi il popolo nuovo è la Chiesa: ci saranno anche dei capi, delle grandi figure, ma non tutti sono capi e grandi figure; questo va da sé, ma tutti siamo questo popolo che sta camminando, e noi siano immessi all’interno di questa storia.

I salmi ci dicono come gli ebrei nella preghiera avevano dinanzi tutta la loro storia e la loro preghiera aveva carattere fortemente comunitario e si sente che era rivolta ad un Dio che faceva storia con loro.

E’ necessario abituarsi a pregare con i salmi, a capirne la prospettiva per uscire un po’ dalla nostra preghiera tanto piccola; la nostra preghiera è fatta di formulette o è fatta dì richieste: la scuola, la salute, le relazioni con gli amici e altro; bisogna invece che ci apriamo a questo respiro più ampio; il respiro ampio della storia della Salvezza.

E’ in questa storia, con il suo sviluppo, che noi abbiamo la garanzia della continuità dell’azione di Dio, della sua fedeltà, della sua Parola. Guardata con l’occhio della fede questa storia ha un senso ben preciso e non può essere letta diversamente. Questo ci dà la sicurezza della presenza di Dio e che la storia e il libro che la racconta sono sua Parola.

Nota

Trascrizione delle lezioni registrate durante la ’Quattro-Giorni’ di VITA COMUNITARIA e LETTURA della BIBBIA realizzata a Sassotetto di Sarnano.   Relatore: don Gabriele Miola 

CRONOLOGIA BIBLICA COMPARATA     CENNO SULL’EPOCA DEI PATRIARCHI –                        STORIA DEI POPOLI e  STORIA BIBLICA

La migrazione di Abramo e gli avvenimenti con Isacco, Giacobbe e Giuseppe in Egitto secondo una ipotesi avvennero dall’anno a. C. 1850 ca. al 1720 ca.; un’altra ipotesi data dal 1650 ca al 1560 cioè dalla dinastia degli Hyksos asiatici faraoni alla loro espulsione.

L’oppressione degli Ebrei datata dal 1370 al 1290 a. C.  faraoni Amenofis IV; Horemheb; Seti I; Ramses II

L’esodo dall’Egitto sotto la guida di Mosè, seguito dalla vita nel deserto del Sinai; Cades dall’anno 1290 a. C. al 1265.  L’invasione fatta dagli Ebrei del Canaan e Giosuè dal 1250 al 1225

Meneptah. RAMSES III respinge i Popoli del mare 1226- 1218

EPOCA DEGLI OPPRESSORI DI ISRAELE ca.1198

EPOCA DEI GIUDICI – Edomiti con Kusan- Riseataym; Moabiti con Eglon; Giudici in Israele – Otniel

CANANEI con Sisara ca.1130 a. C. In Israele Deborah e Baraq; Gedeone; Regno di Abimelek; Tola Yair

Jefte; Ibsan; Elon; Abdon

AMMONITI e FILISTEI  ca. 1100 a. C. in Israele Samgar; Sansone; Eli;  ca 1050 Samuele

 

 

 

 

 

 

 

 

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Miola Gabriele biblista docente a Fermo: INTRODUZIONE ALLA BIBBIA RIVELAZIONE ISPIRAZIONE TRADIZIONE

MIOLA.Gabriele

PREMESSA

Prima di tutto è bene chiarire un concetto che è fondamentale per capire tutta la nostra esperienza e vita religiosa.

.a) La nostra vita religiosa, in genere, è molto naturalistica. Noi siamo stati formati ad una religiosità basata prevalentemente su una prospettiva ed un’analisi quasi puramente umana, che di tipico ha poco. La religione di tipo naturale è intesa così; in fondo tutti gli uomini sono religiosi e tentano di arrivare a Dio, chi con una religione e chi con un’altra. Cristo ci ha dato la sua. Crediamo che Egli è il figlio di Dio, l’inviato del Padre e la parola definitiva.

Ma non vediamo Cristo al culmine di una storia e di un cammino che non si è chiuso con lui ma continua attraverso i tempi. Allora noi perdiamo l’idea di una storia che si va realizzando; di una storia che non è soltanto storia umana (la storia ha sempre una componente umana, altrimenti non sarebbe storia) ma anche storia di Dio che si è immesso in questo ritmo, in questo cammino. L’aspetto fondamentale allora diventa la realizzazione del Piano di Dio. In questa prospettiva il punto, direi, di tensione è Dio; nell’altra prospettiva siamo noi.

La nostra mentalità ci porta a vedere la religiosità a servizio nostro, come rapporto quasi commerciale con Dio; Dio è il padrone che può dare e noi cerchiamo di ottenere contrattando, e cercando di accaparrarcelo. Noi gli diamo qualcosa che ci costa un po’ di sacrificio, anzi un qualcosa che, secondo noi, quasi ci menoma e quasi non vorremmo dargli. Per questo contrattiamo: Ti faccio questo ma vorrei quello. Quindi l’atteggiamento, la preghiera ed il nostro rapporto con Dio e con gli altri è bacato alla radice da questa mentalità, la più umana che esista; in questa prospettiva non si è in tensione verso Dio, ma solo verso se stessi. Noi non ci mettiamo nella prospettiva di Dio che ha un suo Piano di Salvezza.

Su questa linea non si arriva alla vera conoscenza di Dio, alla vera conoscenza del Cristo; l’esperienza di Dio diventa pressoché impossibile: se l’uomo non esce da se stesso, non potrà mai raggiungere la vera conoscenza di Dio.

.b) Dio che fa storia con noi

Cerchiamo di capire quest’altra idea; non siamo noi che andiamo incontro a Dio ma è Lui che viene incontro a noi. Sarebbe un assurdo voler conoscere un’altra persona solo con il proprio sforzo, cioè fantasticando. Per conoscere un’altra persona e necessario entrare in relazione con lei. Se la persona rimane fuori dalla tua esperienza, se non ti viene incontro e non ce l’hai presente attraverso una qualsiasi relazione (epistolare o di altro genere), tu fantastichi. In una religione naturalistica il rapporto con Dio è di questo genere; l’uomo fantastica su Dio.

Se veramente vuol conoscere Dio bisogna che si immetta nella conoscenza che Dio ha di se stesso e che dà a noi attraverso la sua Parola; infatti il Vaticano II, nella Costituzione dommatica sulla Divina Rivelazione (“Dei Verbum” n. 2) dice; “Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per messo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (Ef 2,18;”Pt 1,4).

Con questa rivelazione infatti Dio invisibile Cfr Col 1,15; 1Tm 1,17) nel suo grande amore, parla agli uomini come ad amici (cfr Es 33, 11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr Bar 33,38) per invitarli ed ammetterli alla comunione con Sé. Questa economia della Rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà, significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto. La profonda verità poi su Dio e sulla salvezza degli uomini, per mezzo di questa rivelazione, risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione”. (cit. Pio XII, “Divino afflante”).

L’idea da cui dobbiamo partire è questa; Dio interviene nella storia, Dio si condiziona al nostro modo di essere, di vivere, di camminare; ed è un camminare storico; e storico significa spazio, tempo; se sono qui, non posso essere da un’altra parte; se ho questa lingua, non ne posso avere un’altra e così via; significa questa cultura, questa mentalità.

Tutto questo è storia, Dio si è immesso proprio in questo cammino, in questo ritmo, quindi nella nostra storia.

LINGUAGGIO BIBLICO E MESSAGGIO DI DIO

Dio, nella Sacra Scrittura, ha parlato per mezzo di uomini e alla maniera umana. Chi interpreta la S. Scrittura, per capire bene ciò che egli ha voluto comunicare, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi (cioè quelli che hanno scritto i libri) in realtà abbiamo inteso significare e a Dio è piaciuto manifestare con la loro parola, perché se vogliamo capire quello che Dio dice, non abbiamo altro mezzo che questa parola scritta, e quindi non possiamo prescindere da questo scritto, da questa storia, da questa tradizione. È assurdo voler arrivare a Dio quasi misconoscendo tutta la S. Scrittura, tutta la storia sacra: non capiremmo nulla della storia della Salvezza: di Dio, di Cristo, della Chiesa. Bisogna mettersi in questa linea, se vogliamo capire bene, dobbiamo saper interpretare quello che gli agiografi vogliono dirci. Questo è molto importante. La S. Scrittura quindi deve calare nella nostra vita, deve diventare il punto di rifermento del nostro parlare e del nostro agire. Esaminiamo due possibili domande:

.a)- Forse è importante, essenziale, mantenere il linguaggio della Bibbia?

Ogni linguaggio, ogni modo d’esprimersi è sempre, per forza di cose, inserito in una terminologia: e non esiste pensiero disincarnato da un linguaggio; ed è anche vero che il linguaggio fa il pensiero. Questi due aspetti sono correlativi; mentre io creo una civiltà, creo un linguaggio; e mentre creo un linguaggio, creo anche una civiltà: vanno di pari passo. Non è esatto dire: prima esistono i pensieri e poi viene il linguaggio. Esiste prima di tutto la parola di una lingua la quale è portatrice di un pensiero, di una mentalità, di un modo di concepire le cose.

I Padri della Chiesa non sono caduti in quest’errore. Prendiamo per tutti S. Agostino. Egli, nell’opera più famosa, le “Confessioni”, parla con il linguaggio della Bibbia: è presente il suo linguaggio filosofico, culturale derivato dalla cultura classica, ma le espressioni sono pregne del linguaggio della Bibbia; è presente il suo linguaggio filosofico, è tutto un riferire, un parlare con Dio sulla base di una mentalità e di un linguaggio biblico. Questo significa che, assorbendo il linguaggio biblico, se ne assorbe la mentalità e quando si è raggiunta la mentalità non si troveranno espressioni migliori, per esprimersi, che quelle bibliche.

.b) E come si fa a sapere con sicurezza quello che l’agiografo voleva, dirci a nome di Dio?

Questo fa capire che non c’è altro mezzo per capire quello che è la rivelazione se non entrare in quello che l’agiografo ha detto (agiografo è colui che scrive cose sacre, cioè quelle che ci portano la rivelazione di Dio). E’ necessario tuffarsi nella storia sacra, comprendere l’intervento di Dio nello storia. Dobbiamo metterci in questo cannino, aprire le nostre prospettive, uscire un po’ dal mondo chiuso nel nostro io; bisogna che ci apriamo, che usciamo da noi stessi, che ci mettiamo nelle prospettive di Dio, che ci immettiamo nel la storia, e poi capire che noi stessi siano chiamati a fare la storia insieme con Dio; se usciamo da questa mentalità, siamo quasi tagliati fuori.

Ciò può sembrare astratto, ma deve nascere la convinzione che solo immettendoci in questa linea si realizza il piano di Dio, che è la storia: la storia dei patriarchi, di Mosè, del popolo ebraico; la storia di Cristo; la storia della Chiesa, e, nello stesso tempo, la storia del mondo, la storia di oggi. Io sono dentro questa storia, se sono aperto a essa e so cogliere, come Mosè, i segni della storia, il cammino che la. storia stava facendo e come Mosè l’ha interpretata, l’ha condotta e come il popolo ebraico ha risposto. E’ tutto un popolo che cammina. Mosè costruisce un popolo. Oggi il popolo nuovo è la Chiesa: ci saranno anche dei capi, delle grandi figure, ma non tutti sono capi e grandi figure; questo va da sé, ma tutti siamo questo popolo che sta camminando, e noi siano immessi all’interno di questa storia.

I salmi ci dicono come gli ebrei nella preghiera avevano dinanzi tutta la loro storia e la loro preghiera aveva carattere fortemente comunitario e si sente che era rivolta ad un Dio che faceva storia con loro.

E’ necessario abituarsi a pregare con i salmi, a capirne la prospettiva per uscire un po’ dalla nostra preghiera tanto piccola; la nostra preghiera è fatta di formulette o è fatta dì richieste: la scuola, la salute, le relazioni con gli amici e altro; bisogna invece che ci apriamo a questo respiro più ampio; il respiro ampio della storia della Salvezza.

E’ in questa storia, con il suo sviluppo, che noi abbiamo la garanzia della continuità dell’azione di Dio, della sua fedeltà, della sua Parola. Guardata con l’occhio della fede questa storia ha un senso ben preciso e non può essere letta diversamente. Questo ci dà la sicurezza della presenza di Dio e che la storia e il libro che la racconta sono sua Parola.

 

INTRODUZIONE GENERALE ALLA LETTURA DELLA BIBBIA E DIFFICOLTA’ AD ACCOSTARSI ALLA BIBBIA

  1. Bibbia e libri di oggi

Prendendo la Bibbia pensiamo di avere in mano un libro, invece abbiamo in mano vari libri, anzi una piccola biblioteca sulla originale esperienza religiosa di un popolo o meglio la Storia di Salvezza che un Dio dona agli uomini. Egli si rivela ad essi con persone, avvenimenti, giudizi sugli avvenimenti e manifestazioni verbali. Infatti “BIBBIA” (dal greco ‘ta biblìa’) significa “i libri” cioè libri per eccellenza.

Noi abbiamo una certa idea di libro che ci porta molto lontano dalla realtà del libro ‘Bibbia’,

.a). L’idea di libro è legata a quella di una persona (autore) che ha scritto per manifestare un suo pensiero o sintetizzare il pensiero di altri in un ‘manuale’. Per la Bibbia ed anche per i suoi singoli libri l’autore-uomo ha rilevanza secondaria, perché in essi si manifesta l’esperienza religiosa e politica di un popolo nella quale partecipa attivamente Dio, la Parola di Dio (che è Gesù) ed il suo Spirito.

.b). Il libro oggi ha un suo titolo, per indicare un argomento, spesso limitato, che viene svolto gradualmente dalla prima pagina all’ultima.

La Bibbia non tratta un unico argomento (è vero solo per alcuni suoi libri), né i singoli libri sono affiancati per ordine di tempo, e di sviluppo logico; a grandi linee è divisa per argomenti.

.c). Un libro oggi nasce in poco tempo (massimo alcuni anni), la Bibbia contiene scritti nati in più di 1000 anni. E’ evidente che in 1000 anni cambiano fortemente situazioni storiche, civiltà e mentalità, fino alla contrapposizione. Da questo si deduce che è illogico dire ad una persona: “Ecco la Bibbia, leggila! cioè usala come un libro tipo quelli di oggi”.

(Indicazioni bibliografiche. Per la lettura dell’AT è di valido aiuto il lavoro di Grelot, “Pagine Bibliche”, volume che, affiancando testi presi da libri diversi della Bibbia, ricostruisce la Storia della Salvezza che è l’anima della Bibbia o la Bibbia.)

.2. La lingua semita in cui sono scritti

.a). La lingua ebraica non ha vocaboli per esprimere pensieri astratti, il suo linguaggio è povero (500 vocaboli), ed estremamente concreto (ad esempio: collera = naso perché si arrossa; forza = braccio; splendore di Dio = mantello; gloria di Dio = peso; verità = essere saldo, solido). Se ne deduce che la mentalità del semita è molto concreta, mentre la mentalità greca (e noi ne siamo figli) è fortemente idealista.

.b). Per il greco l’uomo è corpo ed anima, per il semita è un tutt’uno visto sotto aspetti particolari, (Esemplificazioni: l’uomo è carne = uomo come essere debole e mortale; l’uomo è anima o essere vivente cioè uomo in rapporto con Dio che gli ha messo dentro un soffio di vita; l’uomo è viscere cioè capace di amore e compassione; l’uomo è piede: come messaggero veloce).

.c). L’israelita fino al 200 a.C.(circa) pensa di rivivere nei figli; in tempi successivi parla della risurrezione della carne, cioè dell’uomo totale (cfr 1Cor 15 = il greco ha difficoltà a pensare la risurrezione come buona).

.d). Dal verbo ‘essere’ deriva il nome (termine) IAHVE’ = EGLI E’. Per il greco il verbo essere esprime l’essenza di una cosa, è nella sfera dell’astratto. Per l’ebreo il verbo essere dice: accadere, essere in relazione con…, essere lì per qualcuno, agire per lui (da questo derivano due nomi: Emanuele = Dio-con-noi e Gesù = Dio-salva).

.3. Il contesto mitologico

Noi viviamo in un’epoca in cui predomina la scienza ed il metodo scientifico: la misurazione, le analisi per una quantificazione, la settorizzazione, la specializzazione sono realtà assolute. Il mondo biblico invece vive in mezzo alla mitologia della cultura circostante. Non esiste la scienza come realtà autonoma ed indipendente dalla teologia-mitologia L’uomo è in possesso di parole per esprimere ciò che in qualche modo è per lui oggettivo o nel mondo della percezione dei sensi, o nel mondo della esperienza del razionale e del fantastico; non possiede termini capaci di esprimere il mondo di Dio e l’azione di Dio: egli non ha esperienza sensoriale, fantastica o razionale su Dio, perché Dio è oggetto solo di un’esperienza di fede.

La forma particolare di linguaggio che usava il mondo biblico ed ha usato la Bibbia è il MITO. Il ’mito’ quindi è un mezzo, una struttura linguistica con cui si cerca di oggettivare il mondo di Dio e l’azione di Dio, cioè il tentativo di rendere l’al di là presente nell’al di qua. Attraverso il mito Dio si naturalizza, diventa componente della scienza, e la sua opera si può verificare oggettivamente. Egli parla allora in maniera umana, afferrabile anche fuori della fede. Come conseguenza immediata la Bibbia non ha valore come testo di geografia, di storia o di scienze, perché i suoi criteri non sono scientifici ma teologici-mitologici.

.a). Concezione dell’universo nel mondo biblico

– La terra è una grande isola, in mezzo all’oceano terrestre, sostenuta da colonne (‘i fondamenti della terra’), sotto le quali c’è ’abisso’ o ’inferi’, in cui abitano i morti;

– il firmamento poggia sulle montagne eterne che sono ai lati dell’oceano a forma di grande calotta sferica, in doppio spessore con buchi combaciabili: esso divide lo spazio terrestre dai ’cieli’;

– il sole, la luna e le stelle sono fissate sulla calotta del firmamento;

– sopra il firmamento c’è l’oceano celeste da cui viene l’acqua in forma di pioggia, quando gli dei, muovendo i due spessori della calotta, fanno combaciare i buchi;

– in mezzo all’oceano celeste c’è l’abitazione degli Dei.

Gli dei hanno creato il mondo, intervengono nella storia (ad es. il tuono è la ’voce’ degli dei). Dio, in questa concezione, diventa componente naturale della scienza.

.b). La interpretazione dei miti

S’impone una sana interpretazione dei miti o del linguaggio mitologico.

-il mito della creazione (dopo Galileo) non viene più considerato come un’informazione su ’come’ si sia formato il cosmo ed è diventato portatore di un messaggio su Dio unico e signore dell’universo. Tra l’altro il racconto ha contestato la mitologia dell’ambiente circostante, secondo la quale gli astri e gli animali erano delle divinità; la Bibbia invece dà al sole ed alla luna il ruolo di segnare i giorni e non di dare la luce, che è creata a parte il primo giorno e gli animali sono creature e quindi dipendenti da Dio;

– il mito dei ’dialoghi’ tra Dio e l’uomo e quello dei ’miracoli’ (forma di oggettivazione degli interventi di Dio nella storia) non vuol dare un’informazione sulla storia, ma su Dio, sull’uomo e sul loro rapporto.

Si tratta di trovare il discorso che sta sotto il mito, il messaggio che quel mito vuol tramandare. Si comprende subito l’importanza del mito come il modo con cui la Bibbia è pervenuta a dare un contenuto alla sua fede e ad esprimere che il suo Dio è un Dio che interviene a favore degli uomini nella storia, negli eventi banali della storia quotidiana.

Nella demitologizzazione c’è un doppio pericolo: eliminare e mito e contenuti; e far passare per mito tutto quello che della Bibbia non ci piace. Sarebbe come pelare all’infinito una cipolla, alla fine rimangono soltanto gli occhi per piangere.

.4. Tradizioni e generi letterari

Molti libri (quasi tutti) dell’AT si sono formati lungo alcuni secoli e risentono, nella stesura ultima, della presenza evidente di tradizioni e di stesure diverse, con rifacimenti e ritocchi senza numero; vi si sovrappongono forme diverse di miti. Inoltre la medesima pagina spesso risente di generi letterari diversi, non sempre individuabili e lo stato attuale degli studi è troppo giovane per avere esaurito la conoscenza e gli influssi dei diversi generi letterari.

A questo si aggiunga che i nostri studi scolastici non hanno mai come centro di interesse la storia e la civiltà dei popoli orientali e semiti; ci viene quindi a mancare un valido aiuto per la comprensione dei testi biblici.

.5.Il falso concetto di Dio nel mondo cristiano occidentale

Dio é stato definito da Marx: “Oppio dei popoli”. Qual è questo dio?

\- E’ il Dio-che-risponde-alle-nostre-domande; è il Dio-tappabuchi di Bonhoeffer; è il Dio magico di tante persone che ci stanno vicino, ma anche dell’universitario spavaldo o del professionista autosufficiente che in frangenti particolari fa un qualche gesto, accenna ad un qualche dialogo con Dio.

\- Forse è anche il Dio-pensato-da-noi: cioè il “Dio dei filosofi” che è come un bel manichino purificato da tutti i limiti ed i difetti dello uomo e rivestito di tutte le perfezioni, pensate all’infinito: è il Dio dei cieli, il Dio premio o castigo, sempre comunque il Dio lontano da noi, il ’separato’.

Ed allora Marx ha ragione! Ma questo non è il Dio biblico.

Dal Dio-che-risponde-alle-nostre-domande si passa al Dio che ci pone la domanda fondamentale: “Dov’é tuo fratello?”, fatta a Caino dopo la prima lotta di classe, con spargimento di sangue.

C’è il pericolo di dare a questa domanda una risposta farisaica; “fare l’elemosina”, quando invece la domanda chiede un impegno con “loro” ed un impegno per “loro” e per un mondo più giusto.

Attraverso questa domanda Dio si presenta come “colui-che-serve”(Lc 22, 27) gli uomini, soprattutto gli esclusi, i dimenticati, i “poveri”. Dice: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve».

Cioè è il Dio-che-fa-storia-con-noi.

.6. Quali libri sono considerati ispirati e quindi ’Storia di Salvezza’

ANTICO TESTAMENTO

(Pentateuco= 5 raccolte):

Libro della Genesi  Gen

Libro dell’Esodo  Es

Libro del Levitico  Lv

Libro dei Numeri  Nm

Libro del Deuteronomio.  Dt

(Libri storici):

Libro di Giosuè  Gs

Libro dei Giudici  Gdc

Libro di Rut Rt

Libri di Samuele  Sam

Libri dei Re  Re

Libri delle Cronache  Cr

Libri di Esdra  Esd

Libro Neemia  Ne

Libro di Tobia  Tb

Libro di Giuditta  Gdt

Libro di Ester  Est

Primo libro dei Maccabei  1Mac

Secondo libro dei Maccabei  2Mac

(Libri sapienziali):

Libro di Giobbe  Gb

Libro dei Salmi  Sal

Libro dei Proverbi  Pr

Libro di Qoèlet  Qo

Cantico dei Cantici  Ct

Libro della Sapienza  Sap

Libro del Siracide  Sir

(Libri profetici):

Libro del profeta Isaia  Is

Libro del profeta Geremia  Ger

Libro delle Lamentazioni  Lam

Libro del profeta Baruc  Bar

Libro del profeta Ezechiele  Ez

  1. Libro del profeta Daniele Dn

Libro del profeta Osea  Os

Libro del profeta Gioele   Gl

Libro del profeta Amos  Am

Libro del profeta Abdia  Ab

Libro del profeta Giona  Gn

Libro del profeta Michea  Mi

Libro del profeta Naum  Na

Libro del profeta Abacuc  Ab

Libro del profeta Sofonia  Sof

Libro del profeta Aggeo  Ag

Libro del profeta Zaccaria  Zc

Libro del profeta Malachia  Ml

NUOVO TESTAMENTO

(I Vangeli):

Vangelo secondo Matteo  Mt

Vangelo secondo Marco  Mc

Vangelo secondo Luca  Lc

Vangelo secondo Giovanni Gv

(Lettere):

Lettera ai Romani  Rm

Prima lettera ai Corinzi  1Cor

Seconda lettera ai Corinzi  2Cor

Lettera ai Gàlati  Gal

Lettera agli Efesini  Ef

Lettera ai Filippesi  Fil

Lettera ai Colossesi  Col

Prima lettera ai Tessalonicesi  1Ts

Seconda lettera ai Tessalonicesi  2Ts

Prima lettera a Timòteo  1Tm

Seconda lettera a Timòteo  2Tm

Lettera a Tito  Tt

Lettera a Filèmone  Fm

Lettera agli Ebrei  Eb

Lettera di Giacomo  Gc

Prima lettera di Pietro  1Pt

Seconda lettera di Pietro  2Pt

Prima lettera di Giovanni  1Gv

Seconda lettera di Giovanni  2Gv

Terza lettera di Giovanni  3Gv

Lettera di Giuda  Gd

Libro dell’Apocalisse  Ap

\

A pagg.12-13 della ’Bibbia’ di Gerusalemme per l’AT si riportano due divisioni e due elenchi dei Libri della Bibbia; quella Ebraica e quella greca, Il fatto che in quella greca siano elencati più libri anche di quelli accolti dalla Bibbia Cristiana pone un problema. Con quale criterio un libro è considerato ispirato e quindi Storia di Salvezza ed un altro no? Il criterio dei cristiani è il giudizio della Chiesa; ed il Concilio di Trento ha definito formalmente quali libri sono norma di fede per i cristiani e quindi sono considerati dalla Chiesa ispirati, provenienti da Dio.

(Questo è solamente un accenno: l’argomento merita un approfondimento che in questa sede risulterebbe sproporzionato).

RIVELAZIONE ED ISPIRAZIONE

A-       LA BIBBIA=PAROLA DI DIO INCARNATA

Nella Celebrazione della Parola che si fa nella Liturgia Domenicale, dopo ogni Lettura sentiamo ripetere: “E’ PAROLA di DIO”.

Che cosa dice a noi quella espressione?

La difficoltà per un’esatta interpretazione viene dalla diversità di valore e di significato attribuiti da noi al termine ‘parola’, dalla cultura greca e dai popoli semiti ed in modo particolare dalla Bibbia.

A noi potrebbe sembrare naturale tradurre l’espressione ‘Parola di Dio’ come ‘Queste sono le parole pronunciate o che vengono da Dio’ e sarebbe cogliere un aspetto solo parziale e secondario. Per noi infatti la ‘parola’ è solo uno strumento per indicare o comunicare una cosa o un pensiero. Noi ci sbalordiremmo se venisse qualcuno a dirci che “casa” o “morte” in quanto realtà concrete sono una “parola”; anzi diremmo che sono tutt’altro che una ‘parola’. Noi infatti contrapponiamo parola a fatto, a realtà; diciamo: Qui non ci vogliono parole, servono i fatti (cose concrete).

Per il semita, per lo scrittore biblico il termine ebraico “dabàr” = ‘parola’ solo incidentalmente è usato come espressione verbale del pensiero; il suo significato immediato e comune è “cosa”, “realtà”, “il-già-avvenuto” e “azione”. Quindi “la parola” è realtà dinamica e carica di potenza. La parola è il terreno, l’humus nel quale si radica il significato profondo di una realtà-avvenimento-azione.

Se la semplice “parola” di ogni giorno, cioè la “parola umana” per l’Israelita ha un potere ed ha un’efficacia, è subito chiaro che la Parola di Jahvè è ancora più potente ed efficace. L’espressione “E’ Parola di Dio” usata per un brano della Bibbia o per la Bibbia nel suo insieme, ha valore concreto ed esistenziale e dice azione di Dio, giudizio, interpretazione degli avvenimenti, proposta concreta di Dio. Nella Bibbia=Parola di Dio un Dio è presente, essere vivente e personale, impegnato nella salvezza dello uomo. L’israelita sapeva anche che avrebbe trovato la Parola di Dio, cioè Dio che valuta, opera e salva in tre cose: nella Legge-messaggio (che Dio dà), nella natura (che Dio crea), nella storia (che Dio dirige) ed anche che la Bibbia ci rivela solo quello che ha relazione con la molteplice azione a favore della salvezza dell’uomo realizzata da Dio e dalla Sua PAROLA = GESÙ’ CRISTO.

Da notare che dall’A.T. fino a Cristo c’è un progresso costante nella rivelazione di Dio presente in una storia di salvezza, fino alla PAROLA di DIO che s’incarna e vive tra gli uomini e per gli uomini nella PERSONA di GESÙ’ CRISTO: da questo momento la rivelazione è completa,

I Padri della Chiesa hanno parlato di due INCARNAZIONI del VERBO:

–              una è avvenuta nel linguaggio umano

–              l’altra è avvenuta nella carne. Il Figlio di Dio, e lo sappiamo, si è reso in tutto simile agli uomini, eccetto il peccato (Ebr 4,15). Ugualmente possiamo dire che la parola di Dio contenuta nella Scrittura è completamente simile al linguaggio degli uomini, salvo che essa non comporta alcun errore formale. Il Cristo non è solamente ‘simile’ agli uomini: egli è vero Dio e vero uomo. La Scrittura non è solamente ‘simile’ alla lingua degli uomini, essa costituisce una parola umana nel senso più pieno del termine, ed è nello stesso tempo la Parola di Dio.

L’Israelita ha anche un’altra coscienza: Dio parla attraverso intermediari, designati da Lui: il PROFETA è l’intermediario per eccellenza; vicino al profeta c’è lo storico, il sapiente, lo scrittore sacerdotale.

B-  LA BIBBIA = OPERA DI DIO E DI UOMINI

In un discorso introduttivo sulla Bibbia è necessario sempre fare il tentativo di sciogliere un nodo, di penetrare in qualche modo un punto fondamentale della fede cristiana.

La Bibbia come può essere nel medesimo tempo Libro di uomini e Libro di Dio?

Se scartiamo che Dio abbia dettato o che Dio abbia messo la sua firma di approvazione su un libro scritto già, è necessario fare una qualche luce su una specie di comproprietà di questi scritti e da parte di Dio e da parte dell’uomo.

Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione (“Dei Verbum”), al n° 11 dice tra l’altro due cose:

  1. i libri sacri, “scritti per ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore”;
  2. Dio non ha scritto materialmente nessun libro, ma “per la composizione dei Libri Sacri scelse e si servì di uomini affinché… scrivessero come veri autori”.

per poter scrivere un libro sono essenziali due cose:

–              avere qualcosa da comunicare

–              volerlo comunicare per mezzo dello scritto.

In questi due settori è necessaria la partecipazione reale e personale dei due autori: Dio e l’uomo. In questo contesto Dio rivela ed ispira un popolo e alcuni uomini in particolare, i quali diventano capaci di esprimere realtà divine ed umane insieme.

  1. La rivelazione

La tentazione più pericolosa da sfuggire è quella di vedere la rivelazione prevalentemente come una comunicazione, più o meno diretta e finalizzata alle pagine da scrivere; l’altra tentazione è quella di non evidenziare sufficientemente l’azione dello Spirito.

Dobbiamo partire dall’affermazione che la Bibbia è STORIA di SALVEZZA, azione quindi di un Dio che porta avanti il suo piano di salvezza a favore del popolo di Israele e poi, in Cristo, di tutti i popoli e che Dio non porta avanti una tale storia da solo perché attore in questa storia vissuta ( e da vivere) è anche l’uomo, un popolo ed ogni popolo. Allora diventa importante sottolineare la manifestazione, la rivelazione che lungo i secoli, a cominciare dai progenitori, ha fatto all’uomo. Nel suo piano di Salvezza Dio ha rivelato Se Stesso, cioè un essere vivente e personale: il creatore che governa il mondo, il santo che invita gli uomini ad un servizio di amore, il padrone della storia che dirige tempi ed avvenimenti verso una meta di salvezza. Dio ha rivelato l’uomo allo uomo, ha rivelato i giusti rapporti tra Dio e l’uomo, proiettando tutto questo nel futuro temporale, nel futuro messianico ed in quello escatologico (le apocalissi).

Nella Bibbia Dio non ha come scopo principale di scoprire all’uomo verità astratte sconosciute, ma solamente insegnargli a leggere con occhio soprannaturalmente illuminato (azione dello Spirito) i libri divini della natura e della storia. Lo scopo principale della rivelazione di Dio è questo: manifestarsi come colui che crea, che guida, che salva.

Pertanto è rivelazione ogni manifestazione da parte di Dio lungo tutta la storia del popolo d’Israele, fino a Cristo; è rivelazione ogni intervento di Dio nella storia ed ogni intervento per guidare la lettura della natura e della storia nei suoi molteplici aspetti ed avvenimenti.

Dio rivela Se Stesso sempre dal momento in cui ha voluto essere il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio di Mosè, di Cristo e della Chiesa, cioè il Dio compromesso nella stessa storia degli uomini fino al la pazzia di amore di volere che suo FIGLIO (= PAROLA DI DIO) diventasse in tutto fratello degli uomini.

Non si vuole escludere che l’autore e gli autori di libro della Sacra Scrittura siano stati oggetto di una particolare rivelazione da parte di Dio, si vuole affermare che questo momento-rivelazione non è l’unico e neppure il primo, né in ordine di tempo, né in ordine di importanza. In fondo lo scrittore è illuminato perché fissi, presenti e trasmetta gli eventi di salvezza voluti e realizzati da Dio; e la salvezza stessa è la rivelazione più grande di Dio,

  1. La ispirazione

La parola ‘ispirazione’ deriva da Spirito e dice “impulso che proviene dallo Spirito”.

Fino ad un recente passato la ‘ispirazione scritturistica’ é stata considerata o come unica o come privilegiata nei confronti di altri impulsi dello Spirito. Oggi il significato dato al termine ispirazione é più ampio e soprattutto è più aderente ai contenuti ed alle espressioni della Bibbia.

E’ bene anticipare subito un dato sintetico, da tenere presente mentre verrà analizzata la realtà indicata dal termine ‘ispirazione’ o dalla frase ‘ispirazione ad agire’, perché qui si parla di azione.

Il dato biblico ci presenta tre tipi di ispirazione:

.a. “ispirazione pastorale”: impulso che lo Spirito fa sentire sui “pastori” o guide del popolo;

.b. “ispirazione oratoria”: impulso dello Spirito sui portatori della Parola di Dio: profeti ed apostoli;

.c- “ispirazione scritturistica” (prolungamento e compimento delle altre due): impulso dello Spirito a raccogliere, fissare e tramandare il cammino di fede del popolo ebraico e la PAROLA di DIO = GESÙ’ CRISTO,

Nell’AT, lo ‘Spirito di Jahvè’ è una forza misteriosa che entra con potenza nella storia del popolo eletto e compie le opere di Jahvè, salvatore e giudice, Egli si impadronisce di uomini scelti, li trasforma, li riveste di forza, onde permettere loro di svolgere un ruolo eccezionale e, mediante loro, dirige i destini di Israele e la storia della salvezza nelle sue differenti tappe.

.a. Nei testi primitivi l’azione dello spirito è descritta come brusca e passeggera, Lo spirito agita, discende sul profeta, trascina, trasforma e rende subito adatte delle persone ad un determinato ruolo (Giudici), e largisce il dono della profezia e dei miracoli, In ogni caso è dono di Dio supremamente libero.

.b. I testi posteriori presentano lo Spirito di Jahvè che riposa e rimane su capi carismatici (Mosè, Giosuè, Saul, David), Si descrive la consacrazione dei re per indicare la presenza costante dello Spirito. Lo Spirito riposa su Elia, su Eliseo; i profeti sono stati i portatori privilegiati dello Spirito.

.c. Dopo l’esilio si scrive che Dio, con lo Spirito, ha parlato per bocca di antichi profeti e lo Spirito di Jahvè è chiamato ‘anima dell’ispirazione profetica’ (Ez 2,2; 3,24). I profeti riconoscono che si esercita su loro una pressione imperiosa (opera dello Spirito) per costringerli a parlare anche contro loro voglia. Essi parlano, ma il farlo costa e le parole sono quasi strappate di bocca. Affermano di ricevere la Parola di Jahvè dallo Spirito di Jahvè (ls 30,1; Zc 7,2). All’epoca messianica tutti in Israele godranno dell’ispirazione profetica (Gl 3,1 ss.).

Ed infine lo Spirito di Jahvè è la sorgente della vita morale e religiosa, “Porrò il mio Spirito dentro di voi, …voi sarete il mio popolo ed io sarò il vostro Dio (Ez 36,27-28).

L’azione dello Spirito nel NT è sempre presente ed è in ogni azione di Cristo, anzi le azioni di Cristo sono dello Spirito che è chiamato “Spirito di Cristo” (merita un discorso a parte).

In sintesi vi é un’ispirazione ad agire ed un’ispirazione a parlare.

E’ vero, non si parla di un’ispirazione a scrivere, ma noi possiamo parlare di un’ispirazione scritturistica, perché la Bibbia non ‘contiene’ altro che gli avvenimenti della Storia Sacra e gli insegnamenti orali che essa con serva in forma scritta.

 

  1. LA B I B B I A  NON CONTIENE ERRORI

Gesù dice sul valore della Legge: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i profeti, non sono venuto ad abolire ma a dare compimento (Mt 5,17)”, Questa frase fa pensare a qualcosa di incompiuto, perché imperfetto, che ha bisogno di essere completato, ultimato, portato allo stadio ultimo di perfezione o ‘compimento’.

Non è necessario pensare a qualcosa di errato; anzi si deve pensare a qualcosa in parte attualizzato, in parte rimasto latente, allo stato potenziale; in una parola qualcosa in cammino che con Cristo ha raggiunto la meta finale.

Ebbene quest’ultima valutazione-descrizione tiene conto delle tappe del tutto connaturali con la natura dell’uomo. La salvezza dell’uomo, oggetto del Piano Eterno di Dio, è dono di Dio, ma non può fare a meno della cooperazione libera e cosciente dell’uomo; e l’uomo raggiunge le sue mete camminando, passo dopo passo, conquista le vette palmo dopo palmo, salendo gradino dopo gradino.

Se la Bibbia fissa e contiene le tappe di questo cammino e di questa ascesa, non può non contenere aspetti parziali e stadi imperfetti in confronto alle conquiste successive: questo non deve ingenerare dubbi sulla presenza efficacemente illuminante ed operante dello Spirito sui figli di Abramo lungo i 20 secoli del loro cammino.

Le affermazioni del Signore che ricorrono in Mt cap. 5 (ad es. «Avete inteso che fu detto (agli antichi): “Amerai il tuo prossimo ed odierai il tuo nemico”; ma io vi dico: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano.»” 43-44) non hanno valore di denuncia di un errore, di una carenza, ma invito a fare ancora un cammino, a salire ancora dei gradini che in Cristo saranno gli ultimi; eppure la Chiesa, dopo 20 secoli, come il popolo ebraico, è ancora in cammino non per tappe non ancora manifestate, ma per una continua conquista del “già ma non ancora”.

Di altro genere è invece la domanda: La Bibbia contiene messaggi che non appartengono a Dio e presentati come suoi? Contiene messaggi svisati e quindi con errori? L’assistenza continua, operante ed efficace dello Spirito di Jahvè ci garantisce che la Bibbia contiene integri i messaggi su Dio, sulla natura, sulla storia, sull’uomo e sulle relazioni tra Dio e l’uomo.

Da fare attenzione però che l’assistenza dello Spirito di Jahvè non è impegnata per quanto appartiene al modo di esprimersi, all’uso del linguaggio mitico. La Bibbia è come una noce di cocco: quel che è buono è sotto tanto materiale di scarto che è necessario asportare per venire in contatto con il messaggio genuino. Questo è il vero lavoro del credente il quale è assistito dallo Spirito come chi ha scritto ed è stato protagonista per le cose che sono state scritte.

Per questo motivo è giusto dire che in qualche modo la rivelazione continua. Certamente non nel senso che si possa aggiungere qualcosa al massimo della Parola di Dio, e cioè GESÙ’ CRISTO, PAROLA di DIO fatta UOMO; ma certamente nel senso di una comprensione sempre più ampia e profonda del Cristo, in cammino con noi, perché noi siamo membra della Chiesa, cioè membra del Corpo di Cristo.

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MIOLA GABRIELE BIBLISTA FA RECENSIONE DI UNA INTERPRETAZIONE CRITICA SUGLI INIZI DEL CRISTIANESIMO DI J. MIGUEL

Miola Gabriele fa recensione nella rivista Firmana a.2010.n.51 pp.199- 200

RECENSIONI del libro

  1. J. MIGUEL, Il protagonista della storia. Nascita e natura del cristianesimo, BUR, Milano 2008, pp. 455, € 11,00 (trad. it. di E.Z. Merlo; titolo originale: Los orìgenes històricos del cristianismo, Ediciones Encuentro, Madrid 2007).

Questo volume di J.M. Garcia, come dice il titolo, è una presentazione dei vangeli, della figura di Gesù e della sua opera, e, a partire dalla sua morte e risurrezione, dell’espansione del cristianesimo in Palestina e nel mondo greco romano. Si presenta come una buona introduzione critico-storica al NT. L’Autore procede in maniera critica per guidare il lettore ad una valutazione storica dei vangeli, della vita, dell’agire e dell’insegnamento di Gesù, dell’ostilità dei poteri ebraici verso il maestro di Nazareth, degli eventi fondamentali: i processi, la condanna, la crocifissione, la morte e risurrezione di Gesù e negli ultimi capitoli esamina l’espansione rapida del cristianesimo nell’ambito dell’impero romano. L’Autore riconosce ed afferma che i vangeli non sono una biografia storica della persona di Gesù, ma vogliono essere un messaggio e un annuncio di fede. Gli scrittori del NT sono dei credenti, ma questo non inficia la storicità della loro esperienza e del racconto che ci tramandano. Garcia è un conoscitore profondo dell’aramaico del tempo di Gesù e pensa che prima della redazione attuale greca dei vangeli ci sia stata non solo una predicazione degli apostoli in aramaico, ma uno o più scritti in questa lingua, da cui gli attuali redattori-autori hanno attinto e tradotto, non sempre chiaramente, in greco. L’Autore fa parte della Scuola esegetica di Madrid, che cerca di ricostruire un eventuale testo aramaico dei vangeli e di spiegare frasi o passi non chiari dei vangeli attuali o delle lettere di Paolo ricorrendo all’aramaico e ad espressioni aramaiche non capite e non tradotte bene nella lingua greca (61-66). Da tre espressioni della seconda ai Corinzi (1,13; 3,6.14; 8,18-19) l’Autore deduce che Paolo avrebbe dettato la lettera in aramaico e che qualcuno dei suoi discepoli ha tradotto in greco travisando alcune frasi, anzi deduce da queste frasi che esisteva già un testo dei vangeli, che venivano letti nelle comunità cristiane negli anni 50.  Gli studiosi della Scuola di Madrid sono contrari ai metodi del noto gruppo del Jesus Seminar. Questo è un gruppo di ricercatori, che pretendono di recuperare il Gesù storico, ma lo fanno con presupposti razionalistici, eliminando tutti gli avvenimenti straordinari dai vangeli, perché, secondo loro, non possono essere accettati da chi, come gli uomini di oggi, ha visto «i cieli attraverso il telescopio di Galileo!» (91). L’Autore legge i vangeli con uno sguardo critico sì, ma scevro da presupposti ideologici, che manifestamente rivelano una lettura dei vangeli e una presentazione di Gesù precostituita.

Garcia dedica un capitolo all’analisi dei testi del cosiddetto “segreto messianico” del vangelo di Marco. Secondo il nostro Autore le tante ipotesi fatte sull’ingiunzione di Gesù alla persona guarita: «Guarda di non dir niente a nessuno», che sembra contraddittoria poiché tanta gente è presente al miracolo, non tengono conto del soggiacente testo aramaico al comando di Gesù «non dir niente a nessuno». Secondo Garcia la presupposta espressione aramaica: lebar ‘anasà qui non significa “a nessuno”, ma “non dir niente circa il Figlio dell’uomo”, cioè Gesù. In questo caso il lebbroso non deve lodare e ringraziare lui, il Figlio dell’uomo, ma dire il suo grazie a Dio (così per Mc 1,44 pag. 194, ma anche Mc 5,43; 7,36; 8,26). Da ricordare che Garcia è autore di un volume dal titolo La vita di Gesù nel testo aramaico. L’Autore espone ampiamente i fatti ultimi della vita di Gesù: i due processi, il primo dinanzi al sinedrio e quello dinanzi a Pilato, dimostrano che effettivamente Roma aveva sottratto al sinedrio, almeno in alcuni periodi, lo jus gladii, cioè il potere di eseguire le condanne capitali; descrive attentamente la sepoltura di Gesù e ricorrendo all’aramaico spiega come le bende (othonia) in Gv 19,40; 20,6 equivale a sindone, lenzuolo (sindon) di Mc 15,46; le parole di Gesù alla Maddalena: «Non mi trattenere perché non sono ancora salito al Padre» (Gv 20,17) andrebbero tradotte: «Non puoi prendermi, perché sono salito per sempre al Padre» (302); la strana conclusione del vangelo di Mc 16,8: «Esse fuggirono […] e non dissero niente a nessuno», andrebbe tradotta: «Esse se ne andarono stringendosi le une alle altre […] e non dissero niente a nessuno per timore di essere considerate fuori di senno» (286). Il ricorso all’aramaico è frequente per spiegare espressioni poco chiare nel testo greco.

Questo libro è una buona introduzione storico-critica alla lettura dei vangeli, a capire Gesù e la sua missione nell’ambiente giudaico del suo tempo. Chiude il volume una discreta bibliografia in diverse lingue; si indica, quando esiste, la traduzione italiana.

GABRIELE MIOLA

 

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SANTISSIMO SACRAMENTO DELL’ALTARE NELL’ADORAZIONE DI DON MARELLA OLINTO

PREGHIERA AL SS. SACRAMENTO   di Don Olinto Marella

Signore Gesù, per l’amore che porti a tutti, te ne stai giorno e notte in questo Sacramento tutto pietà ed amore: aspetti, chiami, ricevi coloro che vengono a visitarti, ti doni a coloro che desiderano riceverti. Noi Ti adoriamo qui presente in mezzo a noi. Ti ringraziamo, o Signore, di tanti benefici, specialmente ora che di questo che è beneficio così grande, onore così bello, prova del Tuo amore immenso, mezzo per ricambiare l’amor Tuo col nostro amore.  Signor Gesù fa’ che Ti amiamo davvero, che ti amino tutti o Signore; perdona a noi, perdona a tutti tanti peccati: infedeltà, ingratitudine, disamore, indifferenze, irriverenze, disobbedienze, cattivi pensieri, cattivi sentimenti, cattivi desideri, cattive parole, cattive azioni, cattivi esempi, rancori, vendette, invidie, impurità, golosità, avidità, avarizia, prodigalità, prepotenza; ira, pigrizia, bestemmie, imprecazioni, giuramenti, profanazione delle sante feste, della Chiesa, dei santi Sacramenti, tanta trascuratezza di tanti nostri doveri.

Signore Gesù, Tu sei disceso dal cielo in terra, Figlio di Dio, Ti sei fatto uomo, sei nato bambino, hai patito tanto, sei morto sulla croce per i nostri peccati; hai dato tutto il Tuo sangue, tutto Te stesso per togliere il peccato dal mondo per la redenzione, per la salvezza di tutte le anime; per nostro amore Tu rimani qui sempre con noi, fatto nostro Ospite, nostro Cibo, nostro Amico, nostra Medicina; sei l’unico vero nostro conforto. Ti offri ogni giorno, ogni ora, in ogni luogo sui santi altari nella santa Messa, vittima di espiazione. di perdono, di pace, di amore.

Con tali pegni ed anticipazioni del Tuo Paradiso fa, o Signore, che vi arriviamo tutti, con tutti i nostri cari, con tutti i nostri benefattori. Aprilo, intanto, alle anime di coloro che ci hanno preceduto da quaggiù, che sono ancora in purgatorio adesso. Ti raccomandiamo specialmente coloro che sono passati da questa all’altra vita, in questa giornata, nella notte scorsa; coloro verso cui abbiamo doveri particolari, coloro che ci hanno fatto del bene, coloro ancora che ci hanno offeso.

Con gli Angeli, con i Santi Tuoi, con la Vergine Santissima Maria, Tua Madre e Madre nostra, possiamo, Signore Gesù benedirTi, lodarTi, possederTi, goderTi tutti nella gloria del Padre e dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli.  Amen.

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FERMO ONORA LA MADONNA DEL PIANTO PROTETTRICE DEI FEDELI NEI SECOLI. Notizie ed inno di d. Giovanni Cicconi

Inno alla Madonna del Pianto scritto da mons. Giovanni Cicconi, edito nel suo libro nel 1928

O Madre celeste, o Madre del Pianto,

Presidio di Fermo – Sua dolce Signora,

All’ombra raccolto – del Sacro Tuo manto

Un popolo in fede – Ti invoca e Ti onora.

\\\ Ave, ave, o Maria! Regina de’ mesti.

Tu rendici degni – de’ gaudii celesti;

Tu prega per noi – che siam figli Tuoi.

Sperarono gli avi – in Te non invano:

Tu ognor ne accogliesti – benefica i voti.

Continua, o gran Madre – 1’ aiuto sovrano,

Al prego rispondi – de’ tardi nipoti

\\\ Ave, ave, o Maria! Regina de’ mesti ecc..

Se lacrime e sangue – fan triste la terra

Tu o Madre pei grandi – Tuoi crudi dolori

Dai figli allontana – l’orribile guerra,

Infondi la pace – di Cristo nei cuori

\\\ Ave, ave, o Maria! Regina de’ mesti ecc.

Proteggi di Fermo – o Pia Castellana,

Proteggi il Tuo popolo – i fuochi e gli altari

Conserva nell’alme – la fé cristiana

Che un dì i nostri padri – rendeva sì chiari

\\\ Ave, ave, o Maria! Regina de’ mesti ecc.

L’atroce martirio – di Te, del Tuo figlio,

Sia oggetto perenne – di nostra memoria:

Ci renda ognor forti – in quest’aspro esiglio,

Ci frutti il possesso – del Cielo e la gloria

\\\ Ave, ave, o Maria! Regina de’ mesti ecc.

 

NOTIZIE STORICHE SUL CULTO DELLA MADONNA DEL PIANTO A FERMO

Scritte da mons. Giovanni Cicconi e riespresse in forma attuale

 

La confraternita della Madonna del Pianti affidò l’incarico di farne la statua a Sebastiano Sebastiani, della scuola dei fratelli Lombardi di Recanati nell’anno 1612, e la statua fu recata a Fermo nell’anno 1614 e posta in venerazione nell’Oratorio dentro la città nella chiesa del Crocifisso di S. Chiara.

“Mirabile statua – l’ha definita il card. Pietro Maffi – dove l’arte e la fede hanno fatto il massimo del loro vigore, per esprimere il dolore di una Madre divina, commuovere e compassionare ed ispirare filiale confidenza in chi la guarda”.

E come in Roma, anche a Fermo a cura della pia Confraternita, dato che era angusta la chiesetta per le innumerevoli schiere di devoti, nell’anno 1681 si provvide un nuovo edificio poco discosto il tempio attuale. Anche questo fu rinnovato e dilatato più tardi con la benedizione dell’arcivescovo fermano Alessandro Borgia nell’anno 1728, su disegno del Lucio Bonomini da Ripatransone, uno degli architetti più insigni dell’epoca nella nostra regione.

La Madonna del Pianto nei secoli in mezzo alla sua famiglia ebbe il degno trono definitivo dove la Madre si ripromette gaudio e conforto dai figli di Fermo e questi ottengono protezione e aiuto da Lei. E’ stata costruita la nuova chiesa voluta dalle speranze comuni. In questa, Fermo, nel corso di tre secoli, ha professato senza interruzioni, con sempre crescente fervore il proprio affetto confidente alla grande Madre e Regina nel suo Simulacro. La vera protettrice della città e dei fedeli, la Madonna è stata e resta il rifugio, la consolazione, la salvezza del popolo suo.

Nelle più tristi e luttuose contingenze della vita privata e pubblica; nei pericoli imminenti, creati dall’oscurità di guerre addensatesi sulle nostre pacifiche contrade, in varie occasioni nei secoli; nei paurosi scuotimenti di terra, che funestarono anche altre popolose città; nelle frequenti pubbliche temute calamità o per inclemenza di stagioni o per infierire di morbi micidiali, uno solo è stato e resta il grido del popolo fermano «Madonna del Pianto, aiutaci!» E l’aiuto mai si è fatto attendere. Tutto questo ci dice la storia passata, tutto questo ci ripetono, con voci che vincono il silenzio di secoli, le migliaia di ex-voto donati al Santuario.

Degli avvenimenti pubblici meno lontani per noi e sempre significativi, ricordiamo: l’Incoronazione della sacra Immagine con aureo diadema per decreto del Capitolo Vaticano, il 10 settembre 1843; il dono votivo di un Angelo di argento massiccio, offerto dall’emin.mo Arcivescovo card. Filippo De-Angelis il 19 giugno 1849 per l’ottenuta liberazione della iniqua prigionia nel forte di Ancona; altro dono votivo di altro Angelo egualmente in argento massiccio, decretato dal magistrato Fermano il 1maggio 1855 per la liberazione della città dal flagello del morbo asiatico; inoltre la visita alla Madonna il 17 maggio 1857 del grande pontefice Pio IX, che innanzi a Lei si intrattenne in fervida preghiera, in occasione della sua venuta a Fermo.

Il progetto di un tempio più grandioso, presentato dall’Arch. Giambattista Carducci Fanno nel 1871, con inizio dei lavori nel settembre 1876, non ebbe altro seguito. Una nuova solennissima incoronazione fu eseguita l’8 giugno 1879, dopo il sacrilego furto perpetrato due anni prima del diadema. Nell’agosto del 1914 i festeggiamenti per il terzo centenario si svolsero con straordinaria solennità. Fu festeggiato con celebrazioni solenni il cinquantenario della seconda incoronazione della Sacra Immagine nell’anno 1929. Il tempio ebbe il completamento della facciata con le offerte del popolo nell’anno 1935.

Ricordi di ieri, auspici pel domani. Il passato resta solidale garante per l’avvenire. Il nome caro della Madonna del Pianto invocato benedetto da tante generazioni, non cessa e non cesserà mai di essere invocato e benedetto dai posteri più lontani.

Il ricordo del nome di sì augusta Vergine Madre di Gesù e nostra, a cura di pie persone possa mediante la speciale benedizione della stessa nostra Regina della Pace, trovare benevola accoglienza e produrre frutti per la salute eterna delle anime.

 

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BELLI Giuseppe Gioachino poeta esalta la scienza del cuoco. Arrangiamento del suo testo poetico

BELLI Giuseppe Gioachino poeta, sonetto : IL CUOCO.

Arrangiamento di Antimo Lorcassi

IL SAPERE DELLA CUCINA FA GLI AMICI

Tu, caro figlio, sai ben poco:

parli di studiare lingua latina:

matematica, legge, medicina

sono tutte sciapate, studi per gioco.

Ma la persona si conosce al fuoco,

ai fornelli un talento si scrutina;

la prima scuola vera è la cucina;

il più stimato personaggio è il cuoco.

E quando un cuoco soffre un torto, spesso

il mondo (e io so bene quel che dico)

lo guarda come un torto fatto a se stesso.

Basti sapere che il mio padrone antico

tanto ben visto, quando ebbe dismesso

il cuoco, non gli restò alcun amico.

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MIOLA Gabriele biblista studia la religiosità popolare di Israele nell’ottavo secolo a. C. dalla testimonianza del profeta Amos che condanna l’idolatria e il culto magico

MIOLA GABRIELE

LA VITA RELIGIOSA DEL POPOLO NEL  PROFETA  AMOS

ESTRATTO ABBREVIATO E RILETTO

Il biblista MIOLA Gabriele nel 1960 ha redatto una esercitazione nel Pontificio Istituto Biblico in Roma, riguardante TESTIMONIANZE DEL PROFETA AMOS SULLA CULTURA RELIGIOSA DEL POPOLO DI ISRAELE.

< N. d. r. Il popolo del regno d’Israele nell’VIII secolo è contaminato da forme di culto di varie divinità, mentre vive l’alleanza con Jahweh. L’attività profetica di Amos porta a cercare Dio nella sua assoluta trascendenza e ad onorarlo nel culto vero, mentre i concetti religiosi del popolo hanno perso la loro purezza e la loro forza contaminandosi a contatto con il paganesimo esteriore circostante. L’attesa del “giorno di Jahweh” fa sognare il trionfo di Israele su tutti i popoli. Al contrario il profeta proclama un tempo di purificazione e di ricerca della giustizia. La pratica religiosa popolare nei luoghi sacri regi è inquinata fortemente della pratica magica e assorbe il veleno della licenziosità immorale. Il regno scismatico d’Israele creato da Geroboamo I (930-909 a. C.) aveva creato una separazione religiosa dal regno di Gerusalemme nella Giudea. Amos vissuto al tempo di Geroboamo II (c. 783- 753 a. C.) nota l’abuso politico delle feste e dei culti per cui esprime oracoli contro diverse città e nazioni: Damasco e la Siria, Gaza e altre città filistee; Tiro, Edom, Ammon, Moab, Giuda, Israele. Il sacerdote di Baal in Betel, Amasia chiede che il re scacci Amos perché parla di disgrazie, ma Amos incoraggia alla conversione e infine proclama un oracolo favorevole di Iahweh: «Muterò le sorti del mio popolo Israele, ricostruiranno le città devastate e vi abiteranno»  (Am 9,14 Traduzione C.E.I.). >

I N D I C E

  • Bibliografia

PARTE 1° – Testi: (1) Amos  2,4b; (2)  2,7b-8; (3)  3,14; (4)  4,40; (5)  5,4s;

(6)  5,21-27; (7)  7,9; (8)  7,13; (9)  8, 5; (10)  8,14;

– PARTE 2° – La mentalità religiosa popolare deteriora

il concetto di Dio:

(a) La mentalità magica;

(b) Luoghi di Jahweh al modo dei Baalim;

(c) Il “giorno di Jahweh.

– PARTE 3° – La pratica religiosa popolare:

(a) Il loro Dio;

(b) luoghi di culto;

(c) il culto e il suo valore

BIBLIOGRAFIA

La letteratura sul tema è quanto mai vasta, specialmente se si entra nel campo archeologico; mi limito ad indicare solo quelle opere che il tempo e le possibilità mi hanno permesso di consultare; altre sono state indicate nelle note al testo.

 

ALBRIGHT, W. F., Archaeology and the Religion of Israel, Baltimore 1946

  1. From the Stone age to Christianity, Baltimore 1946
  2. L’archeologia in Palestina, trad. Ital. Sansoni, Firenze 1957
  3. The high place in ancient Palestine, in “Volume du congrès international pour l’étude de l’Ancient Testament”, Strasbourg 1956 (1957 pp. 242-257)
  4. Archaeological background of VIII cent. prophets, in “Journ. of Bible and Religion”, VIII (1940) pagg. 131-136
  5. Astarte plaques and figurines from Teli Beit Mirsim, in “Melanges Dussaud” vol. I pag.119s
  6. Jaweh and the goods of Canaan; London 1968

BARTINA, S., “Vivit Potentia Beer-Seba” Amos 8,14, in “Verbum Domini” 34 (1956) pagg.202-210.

BEEK, M. A.  The religious background of Amos 2, 6-8, in “Oudtest. Stud.” 5  (1948) pagg.132-141.

COOK, S. A., The religion of ancient Palestine in the light of the archaeology, London 1930.

De VAUX, R., Le schisme religieux de Jeroboam I, in “BibOr-Vosté, Angelicum” 20 (1943) pag.77-91

DU BUIT, M., Géographie de la Terre sainte. Paris (Cerf) 1958

FLORIVAL, E, Le jour du jugement, in “Bible et vie chret.” 8 (1955) pagg. 61-75

GELIN, A., Idolatrie, in “Dictionaire de la Bible” (Suppl.) lV coll. 169-187

HARPER W. R., A critical and exegetetical commentary Amos and Hosea, New York 1905

van HOONACKER, A. Les duoze petits prophétes traduits et commentés, Paris 1908

INGHOLT H., Le sens du mot ‘hamman’, in “Melanges Dussaud” vol. II

KITTEL, R., Geschichte des Volkes Israel, Stuttgart 1925 (II)

KORTLEITNER, P. X., De religione populari Israelitarum, Insbruck 1927

e in “Divus Thomas” 30 (1937) pp. 574-576

LEAHY, M., The popular idea of God in Amos, in “Irish Theological Quarterly” 22 (1955) pp.68-73.

LEGENDRE, P.,  Per le voci: Betel, Dan, Galgala, Bersabea , v. DB.

LESLIE, E., Old Testament religion in the light of its canaanite background,                       New York 1936

MAAG, V., Text, Wortschatz und Begriffwelt des Buches, Amos. Leiden 1951

Mc COWN, C., Hehrew high places and cult ramains, in “Journ. Bibl. Lit.” 69 (1950) pagg. 205ss .

  1. MORAN, “A Kingdom of Priests” in “The Bible in Current Catholic Thought”, ed. J. L. McKenzie. New York 1962.

MORGENSTERN, J., Amos studies. Hehrew Union College Press, Cincinnati . 1940-1941.

NEHER, A., Amos: contribution a l’étude du prophetisme. Paris 1950.

NOTH, M., Das System der 12 Staemme Israels. In “Beitrage zur

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OESTBORN, G., Jaweh and Baal. Lund 1956

OETTLI, S., Der Kultus bei Amos und Osea. “Greifswalder Studien”, 1895 pp. 1-34.

PAVLOVSKY, G., De religione Cananaeorum tempore occupationis                            Israeliticae, in “Verbum Domini” 27(1949) 2 articoli.

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RINALDI, G., I profeti minori: Amos, in “Bibbia” ed.Garofalo, Roma 1953.

  1. Saggio storico-religioso sul profeta Amos, in Aevum  XXIII, novembre-dicembre 1949,  pp.316-356

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VACCARI, A., Hymnus propheticus in Deum Creatorem in “Verbum Domini” 9 (1929) pp. 184-188

VINCENT, L. H., La notion biblique de haut lieu, in “Revue Biblique” 50(1948) 2 articoli

WELCH, A. C., Religion of Israel under the Kindom  1912

  1. King and Prophets in Israel 1953
  2. Prophets and Priest in old Israel 1953

WRIGHT, G. E., Biblical Archaeology, Philadelphia 1957.

1° ANALISI DEI TESTI

.1.

Amos 2,4-5   «Così dice il Signore: «Per tre misfatti di Giuda e per quattro non revocherò il mio decreto, perché hanno disprezzato la legge del Signore e non ne hanno osservato i decreti; si son lasciati traviare dai loro idoli che i loro padri avevano seguito; appiccherò il fuoco a Giuda e divorerà i palazzi di Gerusalemme».

Per il popolo che rigetta Dio cfr. 1Re 11,4-8, 15,12; 2Re 11, 18; 2Cr 15,8,21,11,23,17, 25,14.

.2.

Amos 2, 7-8  «  essi che calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri e fanno deviare il cammino dei miseri, e padre e figlio vanno dalla stessa ragazza, profanando così il mio santo nome. 8Su vesti prese come pegno si stendono presso ogni altare e bevono il vino confiscato come ammenda nella casa del loro Dio».

Per la prostituzione nel culto di divinità cfr. Os 4,14; 1Re 14, 24;15,12;22,46; 2Re 23,7; Deut 28, 17. Per il mantello preso in pegno cfr. Es 22,25; Deut 24,12

.3.

Amos 3,14 «Quando colpirò Israele per i suoi misfatti, colpirò gli altari di Betel; saranno spezzati i corni dell’altare e cadranno a terra».

Per i corni, parti di altare cfr. 1Re 1,50; 2,28.

.4.

Amos 4, 4s «Andate pure a Betel e peccate, a Gàlgala e peccate ancora di più! Offrite ogni mattina i vostri sacrifici e ogni tre giorni le vostre decime. Offrite anche sacrifici di lode con pane lievitato e proclamate ad alta voce le offerte spontanee, perché così vi piace fare, o figli d’Israele» dice il Signore».

Espressioni ironiche contro i pellegrinaggi per i culti idolatrici a Betel cfr. Gen 12,8; 13,3s; 28,19;31,13; 35,3-5. Culti naturistici (cfr. Mic 6,5) a Gàlgala cfr. 1Sam 10,8;11,14s; 13,4.7ss; per il divieto di offerta de pane lievitato Lev 2,7.11; 6,17;Es 23,18.

.5.

Amos 5,4s  «Poiché così dice il Signore alla casa d’Israele: «Cercate me e vivrete!  Non cercate Betel, non andate a Gàlgala, non passate a Bersabea, perché Gàlgala andrà certo in esilio e Betel sarà ridotta al nulla».

Sulla distruzione dei luoghi idolatrici Os 12,12; Mic 1,10-15.

.6.

Amos 5,21-27  «Io detesto, respingo le vostre feste solenni e non gradisco le vostre riunioni sacre; anche se voi mi offrite olocausti, io non gradisco le vostre offerte, e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo. Lontano da me il frastuono dei vostri canti: il suono delle vostre arpe non posso sentirlo! Piuttosto come le acque scorra il diritto e la giustizia come un torrente perenne. Mi avete forse presentato sacrifici e offerte nel deserto per quarant’anni, o Israeliti? Voi avete innalzato Siccut come vostro re e Chiion come vostro idolo, e Stella come vostra divinità: tutte cose fatte da voi. Ora, io vi manderò in esilio al di là di Damasco», dice il Signore, il cui nome è Dio degli eserciti».

Il profeta Amos nota che nei santuari regi le feste e le offerte sono idolatriche con manifestazioni esteriori non gradite da Jahweh il quale ne è nauseato e farà giustizia.

Quando il popolo era nel deserto le offerte erano fatte con cuore sincero.

Al veder onorate le divinità di idoli assiri, il profeta prevede la deportazione.

.7.

Amos 7,9 «Saranno demolite le alture d’Isacco e saranno ridotti in rovina i santuari d’Israele, quando io mi leverò con la spada contro la casa di Geroboamo».

Per l’idolatria cfr. Os 4,12-14.

Per i culti in “altura” cfr. 1Sam 9,13; 1Re 14,23; 2Re 17, 9ss:

Per la punizione 2Re 18,12.

.8.

Amasia contro Amos 7,13  « a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno».

Betel era santuario del re scismatico cfr. 1Re 12,31; 2Cr 11,15. Israele ha culto a Gerusalemme.

.9.

Amos 8,5 «voi che dite: «Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo l’efa e aumentando il siclo e usando bilance false».

Amos stigmatizza la mentalità affaristica oppressiva.

Il novilunio è festivo, giorno di sospensione di affari commerciali.

.10.

Amos 8,14 «Quelli che giurano per il peccato di Samaria e dicono: «Viva il tuo Dio, Dan!», oppure: «Viva la via sacra per Bersabea!», cadranno senza più rialzarsi!»

Il popolo idolatra cadrà in sventura cfr. Deut 12, 12; 1Re 14,23; 2Re 16,4; 23, 4; Os 4,13; Ger 3,6.

In Canaan la gente ha divinità antropomorfe che personificano le forze della natura ambientale onorate per mezzo di persone dedite al loro culto con sacrifici ed orge per la fecondità umana, animale e campestre.

 

Il profeta non dà un’esposizione unitaria della sua dottrina e della sua concezione teologica; i vari elementi dobbiamo coglierli e riunirli dall’insieme delle parole che furono pronunciate dal profeta in circostanze diverse e a scopi diversi, e che poi furono raccolte in un sol libro. (1)

 

 

 

 

 

2°   LA MENTALITA’ RELIGIOSA POPOLARE

DETERIORA IL CONCETTO DI DIO

 

Poco prima del profeta Osea, è Amos a svolgere la sua attività nel regno del Nord, e gli indizi del libro indicano che la svolge tutta sotto il regno di Geroboamo II (cfr. Am 7,12); mentre l’attività di Osea segue dalla fine del regno di Geroboamo II alla caduta di Samaria. Per quanto i due profeti siano quasi contemporanei, tuttavia parlano in modo molto diverso, non per questo però contraddittorio, della religione di Israele.

Ad una prima lettura balzano subito agli occhi le differenze. Amos soprattutto tende a svelare il pericolo di una falsa religione, del culto idolatrico dato a Jahweh in Betel e Dan, come pure a Galgala e Bersabea. Tali culti che il profeta considera illegittimi sono sotto la protezione del re e il popolo vi partecipa con entusiasmo e cieco fanatismo; il profeta rigetta una religione concepita come culto fatto di esteriorità e per di più infetta di una mentalità magica, senza alcun valore per influire sulla vita privata e pubblica delle persone.

Osea,da parte sua, rimprovera Israele perché ha abbandonato Jahweh, il vero e unico Dio e sono andati dietro a ad idoli baalim ed astaroth: gli israeliti sono entrati in una falsa strada che conduce inevitabilmente alla rovina; in questo modo agiscono come la moglie infedele che abbandona il suo marito per seguire i suoi amanti. Soltanto Jahweh è il vero Dio che ha dato ad Israele i segni e le prove di un affetto di sposo amoroso e di una fedele intimità coniugale e da sempre gli fa dono di ogni bene.

Al contrario baalim ed astaroth non sono dei, ma tronchi, legni, pietre, opere delle loro stesse mani, idoli, a cui tuttavia, quasi prostituendosi, il popolo, come sposa infedele ed impudica, offre sacrifici ed incensi, e innalza preghiere dinanzi ad essi per ottenere abbondanza di frutti; fecondità dei campi e degli animali quasi non fosse Jahweh il largitore munifico di questi doni (cfr. 2,7.10.15; 3,1; 4,12ss; 8,5; 11,2; l3,2).

Di fatto noi storicamente esploriamo la realtà sia in Amos che in Osea, in modo tale che si completano a vicenda, cogliendo nell’uno un aspetto della pratica cultica del popolo, che l’altro ha lasciato in ombra o illustrato in altra maniera. L’acre lotta tra Jahweh e Baal s’era conclusa sul monte Carmelo dove Elia aveva dimostrato chiaramente al popolo che il vero Dio non era Baal, ma Jahweh (1Re 18, 20-46).

Il re israelita Jehu dopo aver sterminato la dinastia di Omri, aveva restaurato il culto di Jahweh nel regno settentrionale, tuttavia non in quella forma pura voluta dai profeti, poiché aveva lasciato sussistere il culto illegittimo di Betel e di Dan.

L’opera di Jehu e della sua dinastia fu benefica in quanto distrusse il culto di Baal in quella forma aperta e quasi ufficiale che aveva sotto gli Omridi, ma fu perniciosa in quanto Jahweh ancora veniva venerato sotto la forma di vitello nei due santuari eretti da Geroboamo I, e in quanto le località sacrali, bamoth, erano invase completamente da elementi cultuali cananei, continuavano a vivere col consenso tacito almeno dei monarchi; e di fatto la Sacra Scrittura parlando dell’ultimo grande re della dinastia di Jehu, di Geroboamo II, sotto cui vivono Amos ed Osea, dice: «Egli fece quello che è male agli occhi del Signore; non si allontanò da nessuno dei peccati con i quali Geroboamo, figlio di Nebat, aveva fatto peccare Israele». (2 Re, 14,24).

La differenza nella predicazione e nel giudizio tra i Amos e Osea deriva dalla loro differente personalità, dal carattere, dalla formazione e dall’esperienza di ciascun profeta. Il nucleo essenziale del pensiero di Amos e di Osea è la verità primaria che onora Jahweh perché è il vero Dio di Israele, e Israele è il popolo eletto di Jahweh. I profeti applicano personalmente questa verità.

Amos, sebbene sempre tenga dinanzi agli occhi l’elezione del popolo come popolo eletto tra tanti, tuttavia, come base dei benefici di Dio pone i singoli individui dinanzi al Signore: il singolo come singolo tra molti, ha una relazione propria con Jahweh, perciò la relazione del popolo con Dio è relazione di molti con Uno e in questa prospettiva del bene individuale ognuno riceve la mercede del proprio operato. In questa luce Amos parla delle singole classi e dei singoli individui, della giustizia sociale, del culto, dei costumi.

La riflessione di Osea si porta più attentamente sull’elezione d’Israele a popolo eletto di Jahweh che è il beneficio unico e tra gli altri il maggiore a vantaggio di tutto il popolo cioè beneficio di ripercussione sociale. Osea penetra più acutamente e profondamente in quel mistero d’amore con cui Jahweh s’è legato alla sua gente eleggendola al Sinai, nel deserto, a popolo suo peculiare, dopo averlo strappato dalle mani del faraone, acquistandoselo e amandolo come la sua sposa, dandoglisi a conoscere come marito amoroso (2).

La relazione di tutto il popolo a Jahweh sono quelle della sposa verso il proprio marito: il profeta non considera i singoli individui, ma tutto il popolo come una persona, e questo popolo come ha sperimentato l’amore di Jahweh, così, ora che ha abbandonato il suo Dio, ne sperimenterà il giudizio e l’ira. Tutta la vita di questo profeta rappresenta in modo tragico una verità: la tragedia della vita matrimoniale di Osea, reale o simbolica, è una vivida rappresentazione della tragedia delle relazioni tra Jahweh e il suo popolo.

A scoprire quale era la mentalità religiosa del popolo cercheremo di cogliere, attraverso il profeta Amos, qual era il concetto popolare (3) di Dio (4).

Il concetto monoteistico di Dio, retaggio del popolo ebraico, dopo che aveva occupato la terra promessa, ebbe a subire due gravi prove: l’una al contatto del politeismo naturistico dei cananei; l’altra per l’introduzione delle immagini di Jahweh nel culto (5). L’introduzione ufficiale della immagine di Jahweh nel culto avvenne sotto Geroboamo I con lo scisma. L’unione politica delle dodici tribù d’Israele fu qualcosa di contingente che fu possibile sotto David e Salomone a causa della loro forte e potente personalità, ma la vera unità del popolo d’Israele è quella religiosa che raccoglie tutto il popolo intorno a Jahweh (6) e quest’unità religiosa prima di Salomone non aveva imposto un’unità cultuale, in un determinato luogo, ma la vita religiosa del popolo si svolse in più luoghi che erano i più vicini alla memoria della gente come Betel, Galgal, Mispa.

Il tempio di Salomone (dal 960 a. C.) portò all’unità del culto, che fu quanto mai solenne, realizzato con elementi tradizionali e con elementi importati dalla religione cananea purificati e resi atti ad esprimere il proprio pensiero religioso. Il monoteismo del popolo ebreo è stato l’unità cultuale, vissuta nel fasto e nella grandezza del culto nel tempio sul Sion, ma non fece distruggere gli altri luoghi tradizionali (7). Lo scisma di Geroboamo I (re da 922 asl 901 ca. cfr. 2Re 17,7-23) non era in alcun modo un rigetto dello javismo, perché questo re intendeva solo una decentralizzazione del culto in modo da mantenere, anche dal punto di vista religioso, lo scisma perpetrato sotto spinte e preoccupazioni politico-sociali, rafforzando la divisione delle dieci tribù settentrionali. Né dobbiamo dimenticare che tutto questo fu compiuto per comando di Jahweh e sotto la direzione del suo profeta. Il peccato di Geroboamo, come fa ben notare il testo sacro, non era la scissione politica e la decentralizzazione del culto, ma l’aver introdotto nuovi elementi che esulavano dalla pura tradizione ed erano veicoli che portavano il paganesimo, un falso culto, il deterioramento del concetto di Dio.

Il peccato grave fu l’aver eretto a Betel e a Dan raffigurazioni di Jahweh. Certamente il vitello fu eretto come simbolo di Jahweh e non di altra divinità (8). Jahweh era assimilato al simulacro stesso. La statua il vitello fu creata piuttosto come lo sgabello dei piedi e come trono di Jahweh. Questi nuovi elementi portavano altre implicazioni da cui furono tratte conclusioni tali che il vitello era simbolo di Jahweh, in un modo che forse eccedeva la mente di colui che l’aveva eretto, conclusioni però che erano consone alla mentalità popolare che non era abituata a distinzioni sottili e non sapeva percepirle.

In Canaan il toro era il simbolo di Baal-Hadad, divinità principale della regione, e simbolo della fecondità, e per il popolo il simulacro era la stessa divinità: per la mentalità semita la distinzione tra statua e cosa rappresentata è troppo sottile e il popolo pose il parallelo tra toro-statua e Baal-Hadad e toro-statua e Jahweh arrivando ad identificare il simulacro come divinità.

All’inizio il pericolo non fu tanto grande, ma col passar degli anni il pericolo latente diveniva sempre più palese. Possiamo arguire ciò dal fatto che Elia non parla contro il culto di Betel e di Dan, ma la sua attività è tutta protesa a rigettare il culto di Baal che era sotto la protezione regia o piuttosto sotto quella dell’intraprendente regina Jezahel, di Tiro, moglie di Ahab. Alla metà del secolo VIII, Amos ed Osea combattono acremente contro il culto di Betel e di altri luoghi sacrali. L

La vera interpretazione dell’azione precedente di Geroboamo I la dà Osea: ” Con il loro argento e il loro oro si sono fatti idoli ma per loro rovina. Ripudio il tuo vitello, o Samaria! La mia ira divampa contro di loro; fino a quando non si potranno purificare i figli di Israele? Esso è opera di un artigiano, esso non è un dio: sarà ridotto in frantumi il vitello di Samaria.” (Os 8, 4b-6; cfr. 13,2): evoluzione operatasi nel corso degli anni poiché quando un secolo e mezzo prima Geroboamo esclamava: “ecco il tuo Dio, Israele, che ti condusse fuori dalla terra d’Egitto” facilmente un altro senso avevano le parole in bocca al primo re del Nord. (9)

Come il concetto di Jahweh si sia deteriorato lo cogliamo da questi tre elementi:

-a) mentalità magica che entra nel culto;

-b) modo di parlare di Jahweh localizzandolo in diversi siti come si faceva dei Baalim;

-c) concezione del giorno di Jahweh” e della nozione di “popolo eletto”.

-.a. Mentalità magica nel culto

Nella mentalità popolare Jahweh era diventato, sebbene non parlandone espressamente, ma realmente, una divinità tutelare locale, assimilato a Baal. Risulta questo dalla mentalità ritualistica, magica direi, con cui il popolo esercitava il culto. La vita morale privata e pubblica viene disgiunta dalla religione e dal culto: la religione si esaurisce nel culto fatto di riti e questo è pensato un valore assoluto dinanzi a Dio.

Quando sono fatte scrupolosamente le cerimonie e con la massima diligenza, con abbondanza di sacrifici ed oblazioni, con la celebrazione solenne delle feste, la divinità è contenta ed elargisce i suoi doni prescindendo da un impegno morale che animi la vita del fedele devoto. Jahweh si placa, volge il suo sguardo con benignità al suo popolo allora soltanto quando vede abbondanza di vittime, può respirare il buon odore dei sacrifici, può soddisfare alle sole necessità fisiche, e vede pellegrinaggi solenni arrivare ai suoi templi (10): tutto ciò placa necessariamente Dio, se adirato, ne ricupera la benevolenza se allontanata.

Della vita morale del popolo Jahweh non ha cura, è piuttosto qualcosa che esula dall’ambito della religione che si esaurisce tutta nel culto: le relazioni di Jahweh con gli uomini si concludono nella pratica rituale poiché egli non si cura della giustizia e della virtù degli uomini. Con questa mentalità religiosa si spiega come il popolo possa congiungere l’oppressione del povero con lo zelo per il culto nei santuari (cfr. Am 2,6-8; 5,11; 8,5).

Questo modo d’agire dimostra chiaramente come costoro ritenessero che Dio non chiede conto della propria vita e della propria condotta, né del male operato qualora essi adempivano il cerimoniale liturgico scrupolosamente. Ai contemporanei del profeta infatti è ben noto che ingiustizie, crimini sociali, immoralità sono male, ma pensano che i riti del culto stanno a cuore alla divinità più che non la vita morale del fedele: Jahweh si era spesso adirato con il suo popolo e lo aveva punito (ma ora tutto corre bene, in questo periodo di prosperità!), ma stimano che l’indignazione divina derivi non dall’incongruenza della vita morale separata dal culto, ma ha la sua ragion d’essere solo nella negligenza dell’osservanza dei riti.

Così Amos 4,4-12 mostra bene qual’è la mentalità del popolo e ciò che invece Jaweh vuole: il profeta pone una contraddizione tra l’assiduo cerimoniale di culto del popolo nei templi e il modo d’agire di Jahweh che invano punisce il suo popolo per ritrarlo dal male, mentre questi pensano che l’ira di Dio si scateni per l’insufficienza del culto. E così in Am 5,4-6: « Poiché così dice il Signore alla casa d’Israele: Cercate me e vivrete! Non cercate Betel, non andate a Gàlgala, non passate a Bersabea, perché Gàlgala andrà certo in esilio e Betel sarà ridotta al nulla. Cercate il Signore e vivrete» e il vero significato di queste parole è spiegato nel v. 14s: «Cercate il bene e non il male, se volete vivere, e solo così il Signore, Dio degli eserciti, sarà con voi, come voi dite. Odiate il male e amate il bene e ristabilite nei tribunali il diritto»: il culto non basta a cattivarsi il favore di Jahweh, ma è necessario operare il bene; fuggire il male, fare la giustizia poiché Jahweh è anzitutto giusto e cerca la giustizia.

A dire il vero, il profeta non usa mai l’aggettivo “giusto”. E’ chiaro che se Jahweh punisce l’ingiustizia questo lo fa poiché anzitutto egli è giusto. In 5, 21-24 leggiamo: ” Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni; anche se voi mi offrite olocausti, io non gradisco le vostre offerte e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo. Lontano da me il frastuono dei vostri canti: il suono delle vostre arpe non posso sentirlo!  Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne”.

Le idee di religiosità che dominano tra il popolo circa il valore assoluto del culto rituale sono comuni nella mentalità semita, e Israele le ha assorbite dai suoi vicini. I sacrifici vengono offerti con l’intenzione di piegare la volontà divina, di ridurla e condizionarla alla propria. Ciò rivela un concetto abnorme di Jahweh e quanto mai lontano dalla tradizione mosaica e dei padri, e completamente estraneo alla mentalità profetica (cfr. Am 4, 13).

Dio è concepito in modo antropomorfo non solo, ma con le necessità fisiche a cui gli uomini soddisfano, un dio che ha bisogno quindi della benevolenza e del favore degli uomini che gli offrano sacrifici e doni. Questo non è esplicitamente affermato, né si dice che Dio mangi i sacrifici offerti; certo però che il concetto di Jahweh ha perso la sua purezza e la mentalità degli israeliti si è avvicinata quanto mai alla mentalità pagana: offrendo i sacrifici si fa un bene alla divinità e in questo modo si attira la sua benevolenza; alla divinità poi poco importa della vita morale dell’uomo.

Pensando che egli non si cura della giustizia, si opera una frattura nella vita intima dell’individuo poiché il valore religioso della vita è separato dal culto esteriore.

Con questa concezione della religione intesa come “bene della divinità” e non come “bene dell’uomo” si nega implicitamente la trascendenza di Dio: i sacrifici ascendono ‘in alto’ (si dice) ma non comportano una mutazione negli oblatori affinché Dio doni loro la sua amicizia, mutazione che necessariamente deve essere nella vita spirituale e morale, ma salgono al cielo per soddisfare i bisogni di Dio.

Ecco la risposta di Amos che è precisa e mostra qual è la trascendenza e l’onnipotenza di Jahweh che forma il tuono, crea il vento e versa fiumi di acque sulle campagne: 5, 8 «cambia il buio in chiarore del mattino e stende sul giorno l’oscurità della notte; colui che comanda alle acque del mare e le spande sulla terra, Signore è il suo nome». (11)

.b. Vari luoghi di culti

Il testo di Amos 8,14 rivela ancora quanto forte fu l’influsso delle idee pagane presso gli israeliti che trasferirono a Jahweh certe nozioni pagane comuni tra i popoli vicini. Israele, in questo periodo, aveva ridotto Jahweh ad essere una specie di divinità tutelare, una divinità locale al modo dei baalim. Il testo, secondo l’interpretazione più probabile implica che nella mentalità popolare Jahweh viene localizzato in differenti santuari e quindi, corrispondentemente, pensano forse a differenti Jahweh come si pensava a differenti Baal: Am 8,14 «Quelli che giurano per il peccato di Samaria e dicono: “Per la vita del tuo dio, Dan!” oppure: “Per la vita del tuo diletto, Bersabea!», cadranno senza più rialzarsi!“: dal testo risulta che gli Israeliti giurano per divinità di Samaria, di Dan, di Bersabea: questo giuramento rivela un sottofondo religioso nella coscienza popolare, poiché il giuramento era fatto generalmente in nome della divinità adorata da colui che emetteva il giuramento, di conseguenza giurare nel nome di una divinità era un ammettere, anche se indirettamente, che quella era la divinità riconosciuta (ad esempio, cfr. Deut.6,13; 10,20; Ger 12,16; Is 48, 1) a cui si presta servizio e a cui si affida il valore del proprio giuramento.

La rivelazione di Dio al Sinai e la vocazione del popolo ad essere il servitore di Jahweh implicava una divisione profonda di Israele dalle altre nazioni.

I popoli semiti, per quanto fossero lontani tra loro spiritualmente e culturalmente, pure avevano questo in comune, che le loro divinità facevano parte di uno stesso pantheon e ogni divinità, per sé, non era da più di quelli dei popoli vicini: ognuno aveva il suo dio che era come il padre e il datore dei beni e ogni gente, come ogni terra aveva il suo nume.

La rivelazione del Sinai è quanto mai lontana da questa concezione, essa implica la fede nell’esistenza di un solo Dio che è il creatore della terra, il largitore si ogni bene; comporta la fede che Dio è santo e giusto, senza vita sessuale e quindi senza mitologia; Dio invisibile; che non è ristretto ad una parte della terra , che la sua dimora è tanto il cielo che la terra, tanto il deserto che Canaan. Egli ha eletto Israele con un patto che implica da parte del popolo servizio devoto ed assoluto secondo la legge donatagli, da parte di Jahweh vengono protezione e benedizione. (12)

Questa elevata concezione non fu pienamente afferrata dal popolo: di fatto Jahweh fu riconosciuto come il Dio della nazione, ma una volta entrati in Canaan essi vennero a contatto dei Baalim che erano in quella terra come padroni di essa e dispensatori di beni, di frumento e di vino, di olio e di frutti (cfr. Os 2,10). Si verificò quindi una tensione nella mentalità popolare tra Jahweh e Baal, tra il Dio di essi conquistatori, e quelli della terra occupata, tensione che si risolse però con un compromesso in cui Jahweh nominalmente soppiantò i baalim come Signore di Canaan, ma il cui concetto fu degradato al livello quasi di una divinità naturistica con l’assorbimento di elementi cananei nella mentalità e nel culto (Am 2,4).

Al contrario, per i profeti, per Amos come per Osea, Jahweh e Baal si escludono a vicenda e in quanto il carattere di una religione è determinato non tanto dal nome della divinità, ma dal modo di concepirla e di prestarle servizio, i profeti non esitano a caratterizzare la religione popolare come adorazione di Baal sotto il veto dell’adorazione di Jahweh (13). Sotto questa luce debbono essere letti i vv. 13-14 del capitolo 8: «In quel giorno appassiranno le belle fanciulle e i giovani per la sete. Quelli che giurano per il peccato di Samaria e dicono: “Per la vita del tuo dio, Dan!” oppure: “Per la vita del tuo diletto, Bersabea!”, cadranno senza più rialzarsi!» (14)

.c. Concezione del giorno di Jahweh

Una peculiarità della concezione religiosa semita, sta nel fatto che tutti i popoli hanno le loro divinità e ogni popolo riconosce l’esistenza e la realtà degli dei delle altre nazioni concependo però i propri come più forti e superiori (15). La divinità e tutto il clan o tribù o nazione erano considerati una cosa unica e la potenza e la sorte del Dio erano la stessa quale la potenza e la sorte del popolo: una divinità può sì punire e mandar dei mali alla propria gente sia per la carenza di culto che per altre offese, ma nel caso estremo in cui una nazione veniva vinta e distrutta dai nemici questo avveniva solo perché il Dio era inferiore e senza potenza dinanzi agli dei del popolo vincitore (16).

I cananei e i popoli semiti in genere concepivano le relazioni tra la divinità e il popolo a modo quasi di generazione fisica; questo concetto era estraneo al popolo ebreo tuttavia esercitò un nefasto influsso sul concetto fondamentale del patto tra Jahweh e Israele. L’elezione sinaitica e il patto, nella concezione popolare come nella mentalità delta classe sacerdotale e di quella dirigente, legano Jahweh al popolo in modo che sempre ed assolutamente Jahweh difende la sua nazione dai nemici, dalla sconfitta, dalla cattività, indipendentemente da ogni condizione, dalla vita e dai costumi: l’onore di Jahweh era implicato incondizionatamente alla sorte e all’onore della nazione. Questo concetto in fondo nega la libertà di Jahweh e la sua trascendenza.

Il popolo e i militari specialmente aspettano ansiosamente il “giorno di Jahweh” il giorno fatale della rivelazione della potenza del Signore con la distruzione dei loro nemici, come il giorno della gloria di Israele (cfr. Am 5,18). Si sentivano sicuri e pensavano che non sarebbero colti alcun male (cfr. 9, 10; 6,1-7).

Gli studi di Morgenstern spiegano bene (17) i presupposti storici e religiosi di questa concezione del “giorno di Jahweh“. La speranza escatologica fu sempre viva in mezzo al popolo, ma in questo periodo del sec. VIII a. C. prese un significato materialistico di universale dominio terreno del popolo israelitico con implicazioni che, a giudizio del profeta, erano fuori della retta via. I presupposti storici a questa riviviscenza furono la potenza e l’apparente fermezza del regno di Geroboamo II; la distruzione della Siria da parte degli Assiri, il che permise l’espansione del regno di Geroboamo, mentre era presente la debolezza dell’impero assiro dilaniato da lotte intestine per la successione al trono (18). I presupposti religiosi furono l’involuzione del concetto di “elezione” e delle relazioni tra Jahweh e il suo popolo: Jahweh avrebbe destinato Israele alla potenza e al dominio di tutta la terra poiché per mezzo del suo popolo avrebbe conquistato tutti i regni e dominato su di essi; il giorno del Signore è concepito come il “giudizio” delle nazioni e dei loro dei, il trionfo di Jahweh e l’esaltazione del suo popolo sopra ogni altro.

Contro queste concezioni combattono sia Amos che Osea. Di fatto Amos ed Osea concordano con i loro uditori circa il privilegio d’Israele poiché veramente fu eletto fra tanti e reso oggetto da parte di Dio di una speciale ‘conoscenza’ o predilezione (19), ma mentre il popolo vede in questa elezione un incondizionato privilegio e un’affermazione assoluta della protezione di Jahweh (cfr. Am 9,10; Mic 3,11) i profeti al contrario insistono nell’assoluta gratuità del dono divino (Am 9,7). Nell’elezione vedono un’esigenza di giustizia morale e tanto maggiore quanto più grande è l’amore di Dio verso il popolo: perciò se il popolo eletto si mostra infedele sarà certamente punito.

Così Amos: 3,2; «Soltanto voi ho conosciuto tra tutte le stirpi della terra, perciò vi farò scontare tutte le vostre colpe»; 9,10: «Di spada periranno tutti i peccatori del mio popolo, essi dicono: “non si avvicinerà e non giungerà fino a noi la sciagura. (20).

Senza dubbio questo insistere del profeta sull’imminente punizione e distruzione di Israele quando non vivranno in rettitudine e non cercheranno Jahweh, è cosa dura agli orecchi di tutti gli israeliti che fervidamente invece aspettano il giorno del Signore, il giorno della loro gloria e del loro dominio. (21) Il testo eloquente tra altri è Amos 5,18-20; «Guai a coloro che attendono il giorno del Signore! Che cosa sarà per voi il giorno del Signore? Tenebre, e non luce! Come quando uno fugge davanti al leone e si imbatte in un orso, come quando entra rincasa, appoggia la mano al muro, e un serpente lo morde. Non sarà forse tenebra, non luce, il giorno del Signore? Oscurità senza splendore alcuno?»: Guai a coloro che desiderano il loro giorno del Signore.

Nell’opinione popolare il giorno del Signore era concepito come giorno di trionfo e di felicità, giorno in cui Jahweh manifesterebbe alle genti la sua potenza per cui Israele trionferebbe dei suoi nemici per acquisire il dominio della terra. Del resto perché non doveva avvenire questo, proprio ora che Jahweh era considerato contento del suo popolo, del culto solennemente offerto, del numero di sacrifici ed oblazioni? L’attesa di quel ‘giorno’, la tensione escatologica che era una caratteristica peculiare d’Israele, era stata sempre viva in mezzo al popolo ed ora è diventata più acuta, ma aveva deviato per una falsa strada sotto l’influsso di idee pagane. Questa tensione è comune nel popolo, ma con una enorme differenza rispetto ai profeti, anzi in una posizione irriducibilmente antitetica.

Amos da una parte si oppone alla concezione popolare del giorno del Signore, dall’altra presenta la vera concezione escatologica. Certo è vicino il giorno di Jahweh, ma questo giorno sarà “tenebre e non luce”: questo giorno sarà il giorno di Jahweh, ma non sarà il giorno d’Israele, il giorno di Jahweh per una punizione tremenda, giorno di distruzione per Israele e non di loro gloria, il giorno dell’ira e non del suo favore verso il suo popolo.

Qui le concezioni di Dio del profeta e quelle correnti si oppongono: l’idea precisa e chiara che Amos ha delle relazioni tra Dio e il suo popolo è l’idea dell’assoluta trascendenza di Jahweh. Questa fa chiaramente vedere ad Amos che non necessariamente debbono essere congiunti il giorno di Jahweh e il giorno di Israele, il trionfo di Jahweh e quello del popolo. Quello è anzitutto il trionfo della giustizia, ma quando l’iniquità in largo e in lungo è diffusa in Israele, allora il giorno di Jahweh sarà il giorno dalla punizione.

Quest’aspetto negativo conduce peraltro Amos alla considerazione di un aspetto positivo del rinnovamento nel giorno del Signore, espressa nell’ultima parte del libro: dopo la purificazione d’Israele, nel fiorire della giustizia, allora sarà la pace e la gloria della casa di Giacobbe.

L’ultima pericope del libro di Amos e precisamente 9,8 b-15 non è da tutti gli studiosi riconosciuta come autentica: «… io lo sterminerò dalla terra, ma non sterminerò tutta la casa di Giacobbe. Oracolo del Signore. Ecco, infatti, io darò ordini e scuoterò, fra tutti i popoli, la casa d’Israele, come si scuote il setaccio e non cade un sassolino per terra. Di spada periranno tutti i peccatori del mio popolo; essi che dicevano: “La sventura non si avvicinerà, giungerà fino a noi”. In quel giorno io rialzerò la capanna di Davide che è cadente, ne riparerò le brecce, ne rialzerò le rovine, la ricostruirò come ai tempi antichi, affinché conquistino il resto di Edom e tutte le nazioni sulle quali è stato invocato il mio nome. Oracolo del Signore che farà questo. Ecco, verranno giorni -oracolo del Signore – in cui chi ara s’incontrerà con chi miete, e chi pigia l’uva con chi getta il seme; i monti stilleranno il vino nuovo e le colline si scioglieranno. Muterò le sorti del mio popolo, Israele; ricostruiranno le città devastate e vi abiteranno; pianteranno vigne e ne berranno il vino; coltiveranno giardini e ne mangeranno i frutti. Li pianterò nella loro terra e non saranno mai divelti da quel suolo che io ho dato loro, dice il Signore, tuo Dio».

Il profeta che ha parlato già della distruzione di Israele, qui sembrerebbe negare se stesso e la sua missione prospettando un futuro glorioso a quel popolo a cui aveva già prospettato il castigo di Dio, ora proclama la speranza messianica e la restaurazione del vero Israele: Amos infatti menziona la casa di David e la futura pace e prosperità del popolo eletto. Questa speranza in Amos è come in boccio, ma si sviluppa, si chiarifica e si precisa sempre più nei profeti seguenti: già in Osea si articola in modo più chiaro (cfr. Os 2,18-23; 3,5) e questo è motivo sufficiente a che non si possa negare a priori ad Amos la pericope (9, 8b-15) che completa bene la sua opera e getta un raggio di luce in mezzo a tanta oscurità.

3°   LA PRATICA RELIGIOSA DEL POPOLO 

Il libro di Amos fa conoscere la reazione del profeta di fronte alla religiosità nei diversi luoghi di culto (21) che il popolo frequentava mentre le autorità politiche avevano dato loro un carattere nazionale di promozione del dominio del re.

Nel seguito si analizzano la pratica religiosa del popolo e la concezione del proprio Dio nei santuari del re, per capire come quel culto non è raccordato con la retta coscienza del culto spirituale, ma ridotto a cerimoniale idolatrico. Betel era il maggior santuario del regno del nord e dovette essere anche il centro dell’attività profetica di Amos (22) che per risvegliare le coscienze alla rettitudine giunge a proclamare qualche previsione apocalittica.

Illustrativo a questo riguardo è il passo autobiografico che è inserito nelle visioni profetiche. Amos: 7,7-17 «Ecco ciò che mi fece vedere il Signore Dio: il Signore stava sopra un muro tirato a piombo e con un piombino in mano. Il Signore mi disse: «Che cosa vedi, Amos?». Io risposi: «Un piombino». Il Signore mi disse: «Io pongo un piombino in mezzo al mio popolo, Israele; non gli perdonerò più. Saranno demolite le alture d’Isacco e i santuari d’Israele saranno ridotti in rovine, quando io mi leverò con la spada contro la casa di Geroboamo». Amasia, sacerdote di Betel, mandò a dire a Geroboamo re di Israele: «Amos congiura contro di te in mezzo alla casa di Israele; il paese non può sopportare le sue parole, poiché così dice Amos: Di spada morirà Geroboamo e Israele sarà condotto in esilio lontano dal suo paese». Amasia disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritirati verso il paese di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno». Amos rispose ad Amasia: «Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un pastore e raccoglitore di sicomori; Il Signore mi prese di dietro al bestiame e il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele. Ora ascolta la parola del Signore: Tu dici: Non profetizzare contro Israele, né predicare contro la casa di Isacco. Ebbene, dice il Signore: Tua moglie si prostituirà nella città, i tuoi figli e le tue figlie cadranno di spada, la tua terra sarà spartita con la corda, tu morirai in terra immonda e Israele sarà deportato in esilio lontano dalla sua terra».

La pericope ha due parti: i vv. 7-9 : visione del piombino: w. 10-17 e scontro di Amos con Amasia, capo dei sacerdoti di Betel. Questo tratto autobiografico, che ci illumina un po’ sull’attività di Amos e ci chiarisce la sua vocazione, è qui inserito occasionalmente in dipendenza della visione del piombino e dell’oracolo che preannuncia la caduta e la distruzione della casa regale di Geroboamo II. L’episodio ci indica che Betel, in relazione al fatto che era il santuario principale nel regno del Nord e che doveva essere meta frequente di grandi pellegrinaggi e di solenni fastose adunate e celebrazioni religiose, doveva essere il centro in cui il profeta svolge la missione affidatagli: ivi certamente incontra l’animo schietto e sincero del vero israelita che riconosce nella sua parola la ‘voce di Dio’, ma ivi incontra anche i più forti contrasti con quanti vedono nel culto solenne e fastoso il segno tangibile della presente fortuna della nazione e il pegno del glorioso avvenire d’Israele: più viva fra le altre è la reazione da parte di coloro che nel culto trovano la loro ragion d’essere e interessi vitali alla propria economia e al proprio commercio. Di fatto il brano ci riporta una reazione o meglio una denunzia ufficiale fatta da un sacerdote, di nome Amasia, che doveva tenere un posto chiave nel santuario ed essere rivestito d’autorità. Alla denunzia di Amasia segue l’ordine della corte di allontanare l’importuno profeta dal santuario e l’ordine è eseguito dal capo del sacerdozio di Betel con fare sprezzante dando del “visionario” al profeta di Jahweh. La risposta di Amos, precisa e quanto mai chiara, controbatte Amasia opponendo mentalità a mentalità: son come due mondi che si scontrano: «Non ero profeta io né figlio di profeta (23), ero un mandriano e coltivavo piante di sicomori. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: “Va, profetizza al popolo mio Israele». Amos con questa risposta non poteva meglio definire se stesso, caratterizzare la sua missione e riassumere la sua predicazione. Oppone la sua vocazione profetica al mestierantismo di Amasia e delle scuole profetiche e degli associati alla sequela della corte (24), stabilisce il mandato che ha ricevuto da Dio, ove si può vedere l’animo del profeta che compie la sua missione per un impulso superiore, vuol richiamare il popolo alla sincerità d’una vita nella giustizia e nel retto spirito religioso. L’episodio è una documentazione dello scontro tra il sacerdozio ufficiale, gretto, attaccato alla materialità dei riti, fossilizzato in formule anguste e il vero profetismo sostenuto dalla coscienza di possedere l’autentica parola divina (cfr. Os 4,5-14; 5,1-9; Is 28,7-13; Ger 19,14; 20,6). (25)

L’espressione in bocca ad Amasia: “ questo è il santuario del re e il tempio del regno”, ci presenta un momento della vita religiosa del regno del Nord. Betel, come inizialmente era nella mente di Geroboamo I, era dal punto di vista religioso, la Gerusalemme del Nord. Qui il tempio di Betel con il ‘toro’ era il parallelo del tempio di Gerusalemme e godeva della speciale protezione del re: ivi si svolgevano quelle feste solenni e tutti i riti religiosi qui diventati ormai tradizionali e che avevano avuto il loro inizio nel tempio salomonico; e quei riti avevano perso il loro significato intimo e s’erano ridotti ad essere una parata ipocrita da cui Jahaweh stornava il suo sguardo (Am 5,21ss.) Con Betel Amos nomina altri santuari che se non avevano la stessa portata di Betel, pure erano meta frequente d’incontri religiosi, e precisamente Dan e Galgala (cfr. Am 2,4).

Con le invettive Amos va direttamente contro questo culto degenere ufficiale che aveva esternamente tutti i caratteri dell’ortodossia, contro il culto di più evidente provenienza straniera e più prettamente pagano, cioè il culto dei baalim ed àstaroth, al culto delle baamoth, di cui dà cenni.

La parola di Osea sembra più direttamente rivolta contro le abominazioni pagane e le false divinità. Così in Os 2,7.10 rivolgendosi a Gomer, la sua sposa infedele, simbolo di Israele, il popolo che è la sposa infedele: «La loro madre, infatti, si è prostituita, lo loro genitrice si è coperta di vergogna perché ha detto: “ Seguirò i miei amanti che mi danno il mio pane e la mia acqua, la mia lana e il mio lino, il mio olio e le mie bevande … Non capì che io le davo grano, vino nuovo e olio, io la coprivo d’argento e d’oro che hanno usato per Baal». (cfr. anche 2,15.18s. e cap. 3; ed Ez 8,14). In Os 4,13 «Sulla cima dei monti fanno sacrifici e sui colli bruciano incensi sotto la quercia, i pioppi e i terebinti, perché buona è la loro ombra. Perciò si prostituiscono le vostre figlie e le vostre nuore commettono adulterio». Queste espressioni son tutti accenni ai culti proibiti: cfr. Num 33,52; 1Re 14,23; 22,44; per i sacrifici sotto le ombre cfr. 2Re l6,4; Ger 2,20; 3,6; Deut 12,2. Questo profeta esplicitamente dice che il culto di Betel e di Dan, e quello reso al vitello d’oro, sono idolatria cfr. 8,4s; 13,2.

Osea evidentemente accentua le tinte nella sua prospettiva. Di fatto gli abusi più gravi nel campo religioso erano stati tolti con la riforma di Jehu; ma questa riforma condotta sulle tracce della reazione dei profeti, di Elia e di Eliseo e delle loro scuole, pure non ne aveva saputo cogliere chiaramente lo spirito: se le abominazioni pagane più vistose, come Baal di Samaria, le ‘alture’  e altre usanze erano state distrutte da Jehu e si era avuta una restaurazione del culto javista, questo però era rimasto impregnato dello spirito pagano ed aveva assorbito gran parte dei riti con tutta l’atmosfera esteriore materialistica e magica che era proprio a questi riti naturistici cananei (26).

La parola di Amos coglie realmente lo stato attuale della vita religiosa di Israele: e ne tocca la piaga: sotto il culto ufficiale reso a Jahweh c’è paganesimo pratico ed idolatria.

Ha scritto Amos con un’espressione a lui cara: «Poiché così dice il Signore alla casa d’Israele: «Cercate me e vivrete! … Cercate il Signore e vivrete …», (5,4.6.15), ma il Signore va cercato non nel formalismo rituale esteriore, bensì nel servizio umile di Dio nella vita pratica seguendo il bene e ritraendosi dal male, nella conversione del cuore che conduce alla giustizia. Con questa conversione Amos vede il vero giorno di Jahweh e del popolo, la manifestazione della sua gloria e della grandezza del popolo eletto.

.a. Il concetto di Dio

Nella mentalità popolare il concetto di Dio s’era molto deteriorato a contatto del paganesimo circostante. La reale religione autentica del popolo era lo javismo, ma in pratica era ridotta ad un paganesimo e l’apparenza di legalità era più pericolosa. Amos 2,4: «Si sono lasciati traviare dagli idoli che i loro padri avevano seguito». L’espressione va riferita al peccato di idolatria con probabile allusione al peccato dei padri nel deserto quando vollero rappresentare Jahweh in un vitello d’oro e adorarlo sotto questa figura. La parola “lueg” = bugia, menzogna, qui riferita alle immagini, esprime bene il pensiero del profeta: quelle immagini tanto diffuse non fanno che traviare, mandare errando e vagando l’animo dei fedeli. Se l’accenno dei padri, si riferisce ad Es 32,4s Amos mostrerebbe evidentemente qual è il pericolo a danno del culto di Jahweh (come appunto in Es); quando i loro padri vollero adorare Jahweh sotto figura di vitello, e la riprovazione che ha il Signore di tale culto poiché in Es è narrata anche la severa punizione degli incipienti idolatri.

Am 2,7b- 8: «e padre e figlio vanno dalla stessa ragazza, profanando così il mio santo nome. Su vesti prese come pegno si stendono presso ogni altare» L’espressione mostra che queste pratiche (la prostituzione sacra?) erano fatte in onore di Jahweh. E ne abbiamo attestazioni esplicite in Osea 4,14. Scrive Rinaldi (27) che Amos, usando il vocabolo ‘fanciulla’, ragazza, forse intende spogliare anche il frasario del residuo di ipocrisia che esso conserva pretendendo di collegare un turpe crimine con l’idea di sacro.

La pretesa di onorare la divinità (Jahweh stesso nei santuari di Betel, Dan, Galgala e nelle ‘alture’) con un disordine morale, non tollerabile e punibile in sede di giustizia civile, che nel caso particolare ha l’aggravante della specie morale dell’incesto (cfr. Lev 20,11) appare così un empio capovolgimento del male in bene (cfr. Am 5,7) e quasi dichiarazione di una indifferenza di Dio di fronte alle esigenze della rettitudine morale. Questa disgiunzione del culto dall’etica è uno dei dati presi maggiormente di mira dagli strali della predicazione di Amos, assertore tenace della inutilità e del danno di una pratica religiosa disgiunta o nemica della purezza, della santità interiore e della giustizia.

La satira di Amos è pungente in 4,4.5 contro la religiosità che pure si dirigeva a Jahweh in Betel e in Galgala, una religiosità vuota, senza vero senso di pietà profondale in 5,21-25  «Io detesto …  Non gradisco … Lontano da me …» Il profeta fa una più esplicita condanna di questa vita e pratica religiosa affondata ed esaurita nel formalismo e nel ritualismo.

Di fatto Amos non parla esplicitamente di stranieri cui formalmente gli israeliti si dirigessero per il loro culto agli idoli. Ci sono accenni alle ‘alture’, ma senza specificare se si tratta di un culto reso a Jahweh, sebbene illegale, oppure alle divinità pagane. Abbiamo l’unica eccezione in 5,26 in cui vengono nominate due divinità pagane, Sakkut e Kewan, degli Assiri.

Ma se è giusta l’interpretazione (29) (se la correzione apportata al testo masoretico sulle tracce del Sellin e del Sant, serve ad ammettere che sono inserzioni posteriori introdotte nel testo di Amos, allora) resta provato che il punto centrale in Amos è quello di far notare come la presente religione d’Israele sia rivolta a Jahweh, ma è insieme gravemente macchiata delle colpe del paganesimo e impregnata di un senso naturalistico e di una mentalità magica proprie delle religioni pagane. Israele vive una vita ipocrita e perciò dal Signore rigettata.

.b. I luoghi di culto.

In Amos sono nominati cinque luoghi, come centri di culto e di raccolta nelle solennità religiose; sono: Samaria, Betel, Dan, Gàlgala, Bersabea. Tra questi Betel teneva un posto preminente ed era il santuario del regno; comunque gli altri luoghi avevano la stessa vita religiosa e liturgica condotta con più o meno solennità.

Amos 7,9: «Saranno demolite le alture d’Isacco e saranno ridotti in rovina i santuari d’Israele, quando io mi leverò con la spada contro la casa di Geroboamo». Il profeta insinua che il culto delle bamoth non era differente, per lo meno nel loro oggetto, da quello dei templi. Sulla costituzione delle ’alture’ riferendoci anche ai dati dell’archeologia studiati da Vincent, la parola “bamah” indica l’uso cultuale di una collina o di un monte (30) quale soggiorno di predilezione della divinità e di conseguenza un luogo di uso normale per l’adorazione e per il culto, poi è divenuto espressione usuale per indicare l’istallazione cultuale stessa. Poiché le popolazioni pagane di Canaan vi introdussero elementi idolatrici e licenziosi, le bamoth furono in pratica severamente represse, sebbene in linea di principio fossero compatibili con il culto reso a Jahweh. Amos usa la parola bamah nella sua accezione cultuale solo qui nel nostro testo, comunque al suo tempo del regno d’Israele, questi luoghi di culto erano molto diffusi. Ce ne dà certezza il libro dei Re a più riprese e quando con monotonia, quasi esasperante, a conclusione dei profili biografici dei monarchi di Israele e di Giuda, riporta la frase: “tuttavia le bamoth non furono abbandonate, il popolo continuava ad offrirvi sacrifici e a farvi oblazioni” lo ripete a proposito del re Joas (2Re 12,3s), di Amasia (14,3s), di Azaria (14,4), di Johatan (15,34s); la riforma che si è avuta sotto Ezechia mette al centro, insieme con l’imposizione delle prescrizioni della legge, anche la riforma cultuale e la distruzione delle bamoth con relative as’erim e massebòth (2Re 18,4). Bamoth in Os 4, 3.10.

Amos mettendo in parallelo i termini templum e excelsum altura sacra pone sullo stesso piano il culto dei templi e il culto delle alture: per il profeta entrambi sono da condannare e dovranno essere distrutti, mentre Osea parla più specificamente di un culto idolatrico delle alture in quanto celebrato per altri e non per Jahweh. Amos, dal suo punto di vista, vede esternamente in tutti quei luoghi il popolo che offre sacrifici ed oblazioni all’indirizzo di Jahweh, ma constata un culto ipocrita che in fondo non è altro che idolatria e magia.

Sotto Geroboamo II, ai tempi di Amos, il culto di Baal è ufficialmente rigettato e questo è un principio politico che il monarca aveva trovato nella sua casa fin dal fondatore Jehu e che in tutta la dinastia s’era mantenuto rigorosamente; ma ciò non impediva in Israele l’invasione dei culti stranieri, o meglio si verificava in questo periodo una specie di sincretismo religioso cultuale che snatura il vero javismo. Amos centra su questo punto la sua predicazione; mentre Osea, un po’ più tardi, dopo la caduta della dinastia di Jehu, si trova dinanzi ad un irrompere aperto, oltre che nella mentalità, anche esternamente, di culti idolatrici. Per questo Osea più esplicitamente ed a lungo parla del culto idolatrico reso a Baal e compara Israele ad una sposa infedele che si va prostituendo dietro ai suoi amanti, cioè dietro ad ogni divinità. In fondo Osea vede l’esplosione di quella penetrazione lenta ma sempre ascendente del paganesimo nella vita religiosa, sociale e morale in Israele, mentre Amos, col suo occhio illuminato da Dio, denuncia questa involuzione e penetrazione, e mette in guardia dalle terribili conseguenze. (31)

.c. Il culto e il suo valore.

La terminologia che il profeta Amos usa nel descrivere il culto è pressoché tradizionale e rispecchia lo stato organizzato del culto nel periodo monarchico e nell’epoca deuteronomica.

Il passo Am 4,4s è una mordace ironia contro il culto d’Israele, culto tanto meticolosamente osservato quanto purtroppo interiormente vuoto. I vocaboli tecnici: sacrificio cruento, decime, pane, offerte volontarie, feste, suoni, canti, vari riti sacrificali in varie festività sono usati da Amos usa per dire qual era il culto praticato dal popolo sono: ‘sacrificio cruento’ in genere, diverso delle ‘decime’ sui beni e sui frutti che i fedeli dovevano offrire al tempio e ai sacerdoti per il culto e per il sostentamento degli addetti al tempio; il ‘pane lievitato’; era proibito offrirlo in sacrificio di lode (cfr. Lev 2,7.11; 7,13; Es 23,18), con uno zelo e un’intenzione fuori modo dato che il popolo pensava di fare oblazioni gradite e tali da per assicurarsi l’approvazione della divinità. Il riferimento del profeta appare polemico e di condanna. Quache studioso dubita che Amos consideri illegale tutto l’apparato sacrificale, da condannare globalmente. Si direbbe piuttosto che Amos condanna un tipo specifico di usanza sacrificale illegale, ma la sua predicazione non è diretta a colpire il dovere del culto. Egli critica evidentemente tutto quanto è ipocrita e contrario al vero spirito religioso. Il pane lievitato, che viene offerto, di per sé, è come sacrificio di lode e di ringraziamento. (32)

Per le ‘offerte volontarie’ la legge non faceva alcuna prescrizione e su esse l’offerente non s’era vincolato con alcuna promessa o voto. Il termine vuol mettere, nel contesto, maggiormente in evidenza il grande affluire di sacrifici al tempio, il che, agli occhi del profeta, non fa che maggiormente rivelare l’insensatezza delle pretese del culto, quelle del popolo che accresce le pretese di propri diritti sulla protezione divina.

Il passo Am 5, 21-27 parla di feste detestate, riunioni sacre non accolte da Signore, olocausti, offerte, vittime, canti e suoni che non pacificano e esigono giustizia e ci dà un altro quadro della vita religiosa del popolo durante il florido periodo di Geroboamo II. Il popolo godeva di relativa pace esterna e di prosperità interna e per questo con ebbra gioia si dava alle feste. Queste feste a cui Amos si riferisce sono senza dubbio le feste religiose e quelle più tradizionali e più solenni, quelle stabilite dalle Legge: festa degli azimi (Es 23,16), delle settimane (Deut 16,16), dei tabernacoli (Lev 23,24) e forse altre feste nazionali e particolari. Queste feste comportavano un pellegrinaggio al tempio (Betel?) e offerte di sacrifici in assemblee generali. Feste e sacrifici erano accompagnaci da suono di strumenti e canti che davano splendore al culto e incantavano attraendo l’anima popolare con fascino, ma che per lo spirito del profeta sensibile ai veri valori religiosi era non gloria del Signore ma strepito assordante per lui. I sacrifici offerti sono diversi: c’è il grande sacrificio che consiste nell’offrire una vittima e bruciarla tutt’ intera sugli altari: c’è il sacrificio pacifico in cui della vittima immolata si bruciano le parti grasse e il sangue veniva sparso intorno all’altare, mentre con le altre parti facevano banchetto gli offerenti e i sacerdoti. Non ogni dono ha esclusivamente né necessariamente significato religioso: può essere un dono dato sia al re sia al Signore (cfr. Gen 4,3ss; 1Sam 2,17; 26,9; 1Re 18,28), può essere di cereali o di animali (Num 16,15; 1Sam 2,17.29; 26,19; Is; 1,13) e in genere nella liturgia è un’offerta di cereali crudi o di farina o sotto forma di focaccia (Lev 2,1; 6,7ss; 7,9s; 10,12) (33) Nelle feste venivano fatte processioni(v. 26) in cui venivano portati lungo le strade forse il ‘vitello'(di Betel e di Dan) o altri idoli (cfr. v. 26 del testo masoretico) mentre si suonava, e si cantava. (34)

In 2,7s il quadro presentato senza dubbio è quello di una festa presso un tempio. Il profeta dice che tutta la festa non è che un susseguirsi di cose sgradite e offese verso Jahweh. Oltre alle ingiustizie sociali, alle oppressioni dei poveri da parte dei potenti, c’era anche la grave piaga della prostituzione, profondamente penetrata nella religione d’Israele dai culti cananei, per cui padre e figlio vanno alla medesima femminetta per profanare il santo nome divino. Questa piaga aveva fatto irruzione nella religione javista legalizzando così, sull’esempio del culto di Astarte, ogni pratica immorale: e la penetrazione fu così profonda che penetrò anche nel tempio di Gerusalemme (2 Re 23,7; cfr. 1Re: 15,12; 22,47; Os 4,13s; Deut 23,17s).

Amos, in 8,5, di passaggio, fa menzione di altre feste che il popolo celebra, una settimanale, il giorno di riposo dedicato a Jahweh e una mensile al novilunio. La festa settimanale del sabato era di antica tradizione: (35), ma della festa della luna nuova non si fa menzione nella legge. Il profeta attesta che la festa della ‘luna nuova’ era una festa assimilata al sabato per la sospensione del lavoro e degli affari. Altri accenni di tale usanza li troviamo in 2 Re 4,23, e in Os, che in 2,13 enumera la ‘neomenia’ in mezzo alle solennità annuali e alla festa settimanale; in questo giorno si celebrano sacrifici e si fanno manifestazioni a carattere religioso e rituale (cfr. Is 1,13s; 1Sam 20,5.24).

Il profeta nota la tremenda contraddizione negli affarismi di chi vuol onorare Jahweh con feste e sacrifici, ma nello stesso tempo vede nelle feste una perdita di tempo per non poter sbrigare i propri affari, accumular danaro. Tutto questo avviene a danno del povero “frodando sul peso e sulle misure”. Il profeta rivelando i pensieri nascosti di tale gente ne stigmatizza la mentalità materialista che li domina e li dirige. Così anche questo accenno fatto di passaggio serve a chiarire in realtà la pratica poco spirituale e la religiosità non disinteressate del popolo.

Dinanzi a questo male che incatenava la nazione e che s’era così largamente diffuso, Amos prende nella sua predicazione un atteggiamento di moralizzatore, un atteggiamento polemico contro questa vita in realtà lontana da Dio. La posizione prima di Amos non è quella del legislatore, quanto piuttosto quella di chi riporta gli altri al rispetto e all’osservanza della Legge in uno spirito nuovo; ed è per questo che si trovano spesso nel suo libro accenni aperti o sottintesi a quella che poteva essere una legge scritta o norma tradizionalmente tenuta ed amministrata (36). Mettendoci da questa punto di vista dobbiamo considerare criticamente se Amos nelle sue invettive contro la vita religiosa d’Israele abbia condannato il culto in quanto tale o solo quell’uso cultuale ipocrita che nascondeva, agli occhi degli uomini, uno stato morale miserando e riprovevole, e pretendeva nasconderlo anche agli occhi di Dio. Certamente alcuni passi di Amos se presi a sé e completamente staccati dal contesto e dall’ambiente in cui sono stati pronunciati, suonano come aperta condanna del culto; ma bisogna precisare che i brani vanno considerati nel tutto e che questi brani sono concatenati con altri che toccano problemi analoghi e di non minor importanza; inoltre Amos fa il predicatore e non il legislatore e quindi bisogna sondare le sue espressioni tenendo conto dell’accento retorico e polemico di questi brani. E’ chiaro, infine, che Amos vuol correggere la vita morale del popolo per ricondurlo alla purezza della fede dei padri nella forma e nello spirito, e che non vuol correggere il rituale e il culto in quanto tale, ma lo spirito personale nella pratica ipocrita.

Le frasi di Am 2,4; 3,14; 8,14 intese nel contesto storico in cui furono pronunciate non esprimono avversità contro il culto javistico, anzi, più che porre Amos contro il culto, chiariscono la posizione di schietta avversità contro il falso culto. Basta leggere i libri dei Re e vedere gli interventi contro il culto illegale cfr. 1Re 15,14; 22,44; 2Re 12,13; 15,4; 2Cr 20,23 e paralleli: in questi passi c’è l’aperta condanna del culto illegale, ma, senza alcun cenno ad una condanna globale del culto in quanto tale.

Am 4,4s. e 5,21-26 esprime aperta condanna del culto che viene particato in modo esteriore, non animato dall’obbedienza ai comandi di Jaweh. Il profeta lo vuol correggere per tutto quanto rispecchia una mentalità blasfema. Nel primo brano cap. 4 i vv. 4 e 5 vanno collegati con i precedenti in cui c’è una forte invettiva contro le donne che per acquisire danaro e saziare le loro brame di godimento opprimono deboli e poveri e inducono i loro mariti a commettere ogni sorta di ingiustizie (vv.1-3: vacche di Basan che saranno scacciate) e poi pensano che i sacrifici sontuosi e il loro frequente “pellegrinare” ai santuari siano sufficienti a quietare la loro coscienza, mentre non fanno che aggiungere colpa su colpa.

Lo stesso valore va attribuito al secondo brano di Amos, specialmente se visto sotto la luce del 5,24 “come le acque scorra il diritto e la giustizia come un torrente perenne“; unito contestualmente ai vv. precedenti 18-23 in cui il profeta mostra quale sarà il giorno di Jahweh, su cui Israele tanto fidava e che pretendeva affrettare e accaparrarselo attraverso i riti di un culto spettacolare con abbondanti sacrifici. Ed ecco invece «Che cosa sarà per voi il giorno del Signore? tenebre e non luce» (5,18b) cioè schianto e abbattimento e non gloria, e a nulla valgono i sacrifici. Dio nemmeno li riguarda, né lo commuove lo spettacolo di festa che si vede intorno ai suoi templi: quello è frastuono e non inno di lode. Manca l’anima della lode cioè la coscienza retta che umilmente si rivolge al Signore. L’esame delle frasi del profeta sul culto nel contesto loro ci mostra che da essi non si può trarre nessuna decisiva condanna del culto in quanto tale; Amos vuol correggere lo spirito del culto.

Am 5,25 «Mi avete forse presentato sacrifici e offerte nel deserto per 40 anni, o Israiliti?» ha una risposta nel contesto storico (37). Il pensiero di Amos, crudamente espresso non è diverso da quello di Os 6,4ss. e di Is 1,10-17; di Ger 7,21 e al pari del nostro profeta condannano il culto e il sacrificio quando non sono accompagnati da retta coscienza. Questi testi, se guardati senza pregiudizi, danno la via della vera religione e del vero culto. (38)

In conclusione Amos non rigetta l’adorazione esterna, ma è fermamente contrario ad ogni culto religioso che non sia l’espressione di una interna vita spirituale tale che trova la sua manifestazione più viva e fedele nella retta condotta della vita quotidiana. Ai vv. 5,21-25 Amos sembra dar eco alla parola che Isaia mette sulle labbra di Dio: «Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue» (Is.1,15) come diceva Amos.

La vita religiosa del popolo del regno d’Israele del sec. VIII come raffigurata nel libro di Amos e in altri contemporanei documenti riflette le condizioni sociali del tempo: il rituale ricco era dovuto alla ricchezza, alla prosperità materiale sotto Geroboamo II. Il culto fatto con ogni solennità e pompa specialmente in Betel era profondamente corrotto nello spirito poiché in netto contrasto con la condotta quotidiana moralmente depravata. E’ vero che il culto era basato sulla adorazione di Jahweh, ma Dio, il Dio dei padri e della rivelazione Mosaica, era ridotto al livello delle divinità fenicie, di un Baal cananeo, rappresentato in un vitello e probabilmente anche con altre immagini. Il profeta non intende condannare il culto rituale, ma era profondamente colpito dalla sua ipocrisia, poiché era diventato, al seguito dei culti pagani, fonte d’immoralità, causa della morale corruzione dei popoli. (39)

Ha scritto Amos con un’espressione a lui cara: «Poiché così dice il Signore alla casa d’Israele: «Cercate me e vivrete! … Cercate il Signore e vivrete …», (5,4.6), ma il Signore va cercato non nel formalismo rituale esteriore, bensì nel servizio umile di Dio nella vita pratica seguendo il bene e ritraendosi dal male, nella conversione del cuore che conduce alla giustizia. Con questa conversione Amos vede il vero giorno di Jahweh e del popolo, la manifestazione della sua gloria e della grandezza del popolo eletto.

L’atteggiamento che Amos assume nella sua predicazione va spiegato solo in base alla mentalità religiosa, morale e sociale del popolo israelita del sec. VIII; e la mentalità religiosa d’Israele culminava in questo secolo in un sincretismo ipocrita del culto tradizionale mescolato con i culti idolatrici fenici dei baalim. Questo stato di cose ha provocato gli attacchi di Amos contro le pratiche rituali che vedeva. E in base all’episodio sopra analizzato, dello scontro tra Amos e l’avversario Amasia, sacerdote di Betel, possiamo anche concludere che di fatto nella religione s’era avuta una specie di intrusione politica, una secolarizzazione statale, una subordinazione degli interessi religiosi a quelli del consenso al potere del regno. Per Amasia e nella mentalità popolare il ‘santuario’ Betel è “santuario del re” e “casa reale”: la vita religiosa a Betel è subordinata al prestigio del re ed è al suo onore. In altre parole la casa della divinità Betel è vassalla della casa di Geroboamo re. Non per nulla Amos fa la sua condanna del sacerdozio di Betel, della casa reale, dei santuari e di tutto il culto che aveva sotto i suoi occhi. (40)

N O T E

(1) – Sulla struttura del libro di Amos, cfr. NEHER e altri qui citati.

(2) – OESTBORN, pag. 80 ss: Jaweh the God of covenant.

(3) – Circa le tante discussioni sull’origine del monoteismo ebraico e il concetto di Dio, suscitate dai razionalisti, e sul concetto di religione popolare in Israele cfr. KORTLEITNER

(4) – LEAHY, pagg. 68-73.

(5) – DE VAUX, pagg. 82 ss.

(6) – NOTH, BWANT  10.

(7) – DE VAUX, a.c., pag. 87.

(8) – ALBRIGHT, From the Stone age  pagg. 298-301.

(9) – DE VAUX, loc. cit.

(10) – Tale mentalità viene energicamente rigettata, dal punto di vista storico e teologico, con un appello alla storia e alla rivelazione, nel salmo 50(49).

(11) – Anche Am 5,8; 8,6. Sull’origine ed il significato di tali inni in Amos, e l’uso polemico di essi VACCARI, pag.184.

(12) – cfr. ALBRIGHT, Archaeology and the Religion pag.110-119; ID. Jaweh and the goods of Canaan; cfr. anche F.S.A.C. pagg.196-199.

(13) – Amos ed Isaia accettano la professione del popolo che la loro religione è indirizzata a Jaweh, al contrario Osea e Geremia la criticano.

(14) – Per i toponimi e i culti in dati luoghi: cfr. voci nei Dizionari e Repertori biblici; DU BUIT, ALBRIGHT; LEAHY

(15) – Cfr. ad esempio come si esprime la stele di Mesa; cfr. anche Num 21,29; Mic 4,5; cfr. SMITH

(16) – v. 2Re, 18,22. 34s.: il messo di Sargon lancia una sfida ad Ezechia e conferma le sue asserzioni dicendo: «Dove sono gli dèi di Camat e di Arpad? Dove gli dèi di Sefarvàim, di Ena e di Ivva? Hanno forse liberato Samaria dalla mia mano? Quali mai, fra tutti gli dèi di quelle regioni, hanno liberato la loro terra dalla mia mano, perché il Signore possa liberare Gerusalemme dalla mia mano?”» 2Re, 18,34-35.

(17) – MORGENSTERN, pagg. 410 ss.

(18) – MORGENSTERN, loc. cit.; A. POHL, pagg. 86-92.

(19) – Conoscenza nel senso di elezione, amore, idea espressa tante volte nella Sacra Scrittura, Gen 18,19; Os 13,5; Ger 1,5; Deut 7,6; 9,24; 14,2; Es 33,12.

(20) – Osea 9,7ss ironicamente mette a confronto la visione del profeta e la superba sicurezza di Israele. Il profeta nota che ormai la misura è colma e la punizione di Dio è prossima e ricorda agli uditori uno storico esempio, il peccato e la conseguente punizione di Baalfegor.

(21) – WELCH ripetutamente ritorna su questi concetti in tre studi: – Prophet and Priest in old Israel, 1953, pagg. 76-102; – Religion of Israel under the Kingdon, 1912, pagg. 59-96; – Kings and Prophets in Israel, 1953 pagg. 107-129.

(22) – Il profeta richiama i culti favoriti dal re a Betel, Galgala, Dan, Bersabea.

(23) – Recenti studi fanno delle scuole profetiche e dei profeti degli affiliati ai templi e al culto: cfr. SAYDON, pag. 75.

(24) – Sull’espressione del testo biblico cfr. Mc CORMACK, in Exp. Tim. 67/10, 1956, pag. 318; P.R. ACKROYD, in ET; 68/3, 1956, pag. 94; e soprattutto E. VOGT, in ET 68/10, 1957, pag. 301, che spiega: Ich bin kein Prophet das ist kein Prophetensohn (=Berufprophet).

(25) – Vedi l’episodio del profeta Michea ed Acab: 1Re 22,1-28.

(26) – RINALDI, G., pag. 382.

(27) – HARPER, pag. 88.

(28) – RINALDI, I profeti minori: Amos, cit. pag. 165

(29) – SANT, loc. cit.

(30) – Per le “alture” sacre cfr. VINCENT

(31) – NEHER, apre altre prospettive, pag. 82-85.

(32) – Van HOONACKER, commenta sulla base dei LXX, e di congetture con un’interpretazione diversa da altri; traduce: “Proclamer sur dehors sacrifice de louange….”  vocaboli di sua ricostruzione.

(33) – Numerazione dei sacrifici in Lev 1-3 ove sono elencati nello stesso ordine che in questo testo di Amos.

(34) – Frequenti accenni nei salmi inoltre cfr. 1 Re, 18,26ss; Is 28,7; 45,20; 46,9; Ger 10,5.

(35) – Sull’origine, l’evoluzione e il significato della festa del sabato presso gli ebrei cfr. MORAN (dispensa ad uso privato), pag. 74ss. < forse William L. MORAN, “A Kingdom of Priests

(36) – Per Amos e la legge scritta o tradizionale SANT, pag. 42-47.

(37) – Se si negasse il culto di Israele nel deserto, oltre a non cogliere il vero pensiero di Amos e travisare il contesto storico e psicologico del profeta, si negherebbe tutta la tradizione di Israele.

(38) – La lettura di Amos è conforme a tutta la tradizione orientale che si rivela dalla letteratura e dai monumenti oggi sempre in maggior numero messi in luce dall’archeologia cfr. CRIPPA, pag 140.

(39) – SANT, pag. 47. Nel giorno di Jahweh si realizza la salvezza. Il popolo eletto dal Signore, Israele, viene a manifestare la divina sovranità sul mondo intero.

(40) – NEHER, pag. 9: ha suggestivi suggerimenti; ma trae conclusioni di cui a malapena in Amos e si può trovare lo spunto.

 

 

 

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MIOLA GABRIELE BIBLISTA RICORDA il collega DON RAFFAELE CANALI Istituto Teologico Fermo

«In memoriam. Don Raffale Canali (6.11.1940-9.1.1992)» a cura di A. Nepi, Fermo 1992 – Presentazione di MIOLA Gabriele biblista

\ Questo fascicolo in memoriam è stato preparato da don Tonino Nepi, prima discepolo e poi successore di don Raffaele Canali sulla cattedra di Esegesi Biblica dell’Istituto Teologico e dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Fermo. Vi sono presentati una nota biografica ed una bibliografica e due articoli tra gli ultimi pubblicati dal prof. Canali. E’ un doveroso, grato ricordo di don Raffaele, che con la sua scomparsa prematura, ci ha fatto toccare maggiormente con mano il suo prezioso lavoro di docente di S. Scrittura ed appassionato annunziatore della Parola di Dio.

In più di venti anni di insegnamento tanti seminaristi teologi ed ora preti e poi tanti laici, dei quali molti ora sono Insegnanti di Religione, hanno potuto apprezzare da una parte la sua preparazione scientifica e dall’altra la passione per quella Parola “ispirata da Dio, utile per insegnare, convincere, correggere e educare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2 Tim 3,16).

Questi due aspetti hanno caratterizzato la personalità del prof. Canali: la scientificità e il servizio alla parola.

La licenza in S. Scrittura conseguita al Pontificio Istituto Biblico di Roma e il suo perfezionamento in Archeologia e Topografia biblica allo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme lo hanno preparato al metodo filologico, al rigore della ricerca storico-critica. I corsi di esegesi del prof. Canali erano apprezzati non solo per il cumulo di conoscenze che trasmetteva, ma soprattutto per quella capacità di condurre dentro il testo sacro e di insegnare a leggere nella profondità inesauribile della Parola di Dio. Era un prendere per mano l’alunno e metterlo nella condizione per cui il discepolo stesso poi fosse in grado di essere a sua volta esegeta. Per questo gli studenti lo sentivano non tanto come professore quanto piuttosto come “testimone e maestro”.

Sempre con lo spirito di una attenta ricerca scientifica negli ultimi tempi aveva approfondito i metodi dell’esegesi rabbinica e la lettura patristica della Bibbia. La sua biblioteca personale, costruita con tanti sacrifici, come ricorda nel suo testamento, s’era arricchita del Talmud Babilonese, dei volumi dello Strack-Billerbek, di Diez Macho, di Neri e di tanti altri. Aveva il gusto della tradizione della lettura della Bibbia all’interno della storia del popolo di Dio.

I riconoscimenti per questa sua preparazione non gli sono mancati e lo testimonia il fatto di essere stato chiamato ad insegnare oltre che nei nostri Istituti di Teologia di Fermo anche all’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Tomolo” di Pescara e chiamato come assistente alla Pontificia Università Gregoriana di Roma.

Il servizio alla Parola di Dio è stato vasto anche al di fuori delle cattedre degli Istituti di Teologia.

I primi contributi li ha dati alla serie di incontri del progetto “Comunità e Bibbia” e le sue lezioni, raccolte in fascicoli, hanno fatto il giro della Diocesi e sono serviti a tanti gruppi. Tutti conosciamo il suo lavoro di biblista per i monasteri delle Benedettine di Fermo, di Offida, di Ascoli Piceno, di Amandola, di Monte S. Martino, di Potenza Picena e di altri. La tradizione monastica della lectio divina lo affascinava e per questo vi ha lavorato con passione e la sentiva come uno scambio di doni con chi nella semplicità del cuore si apriva all’ascolto della Parola. Lo proponeva come metodo per accostarsi alla Parola di Dio anche ai teologi, per i quali il Vescovo Mons. Bellucci lo aveva nominato padre spirituale. Nel Cammino Neocatecumenale ha portato la ricchezza di una lettura spirituale e attualizzante della Bibbia, che tutte le comunità hanno apprezzato; lui vi vedeva realizzata la potenza della Parola che crea e trasforma.

Questo lavoro, vasto e profondo insieme, forse gli ha impedito di dedicarsi con più frutto, di quel che ha potuto fare, alla cura delle sue pubblicazioni, che sono rimaste per molta parte “pro manuscripto” e che il prof. Nepi ha elencato nella nota bibliografica, che speriamo di poter completare man mano che saranno riordinate le carte di don Raffaele.

Nel suo testamento, che ha scritto l’ultimo giorno del 1991, quasi presago di quanto sarebbe accaduto, si legge: “Ringrazio Dio che mi ha dato la possibilità di studiare a Roma per otto anni interi e di aver potuto studiare Scrittura. Ho dato la vita per essa … Dio mi ha fatto tanti regali, oltre la Scrittura, la sua Parola, di aver potuto conoscere la Terra Santa, il mio cuore”.

Quando accettò di venire a Fermo, don Raffaele prese con gioia gli insegnamenti che io dovetti lasciare perché chiamato ad altro lavoro ed ora ringrazio il Signore, con quanti hanno gioito della sua parola e della sua persona, per avercelo donato.

Indimenticabili di don Raffaele sono il suo sorriso e la sua amabilità; erano espressione di quella festa che aveva in cuore per la Parola che portava e annunziava. Per questo, chiudendo il suo testamento, e quasi vedendo i suoi alunni, i suoi amici, le comunità neocatecumenali intorno alla sua bara scrive: “Fate una gran festa. Cantate i canti più belli del Cammino (soprattutto dal Cantico dei Cantici), ma cantate con gioia. E’ una gran festa. Tutti saremo in Cristo per stare sempre con lui. Il Signore ci ama. Siate contenti. Amate il Signore”. E concludeva in ebraico: “Hallelu Jah hodu lejhwh ki tov ki lecolam hasdo – Alleluja, lodate il Signore perché è buono, perché eterno è il suo amore”.

don Gabriele Miola                                                        Fermo 17.02.1992

In altro volumetto a cura di Gabriele Nepi «D. Raffaele Canali» Fermo 1992 pp. 17s

Come lo ricorda Mons. Gabriele Miola

Nell’accogliere la richiesta del prof. Gabriele Nepi di una testimonianza che ricordasse don Raffaele, ho pensato di richiamare episodi personali, che sottolineano il nostro comune amore della Terra Santa e un aspetto del suo carattere.

A proposito del suo attaccamento alla Terra Santa ricordo ancora con gioia il pellegrinaggio dei teologi del nostro seminario, che guidammo insieme nell’agosto del 1975. Un giorno propose di fare a piedi la strada del deserto dal Khan del Buon Samaritano fino a Mar Kossiba e a Gerico: camminava spedito sotto il sole di agosto, tirava il gruppo con lena, tanto che alcuni non riuscivano a seguirlo e cominciarono a gridare perché allentasse il passo. Era sorprendente come lui relativamente basso di statura riuscisse a tenere un’andatura così accelerata senza stancarsi e superando tutti. Della Terra Santa amava tutto, la città santa e i siti archeologici, il deserto e il mar di Kinnereth, la petrosa Giudea e la verde Galilea, le regioni aride e morte del mar di Sale e lo splendore della pianura e le sue cascate e la sabbia del Neghev e dell’Araba.

Per poter dialogare con la gente del luogo aveva seguito corsi di lingua araba e di ebraico moderno; nella comunità araba cristiana aveva stretto profonde amicizie. Vedeva in queste comunità la linea continua, che partiva fino ad oggi; il suo popolo, mai decaduta.

Con ragione ha scritto nel suo testamento: “La Terra Santa, il mio amore”: in essa ritrovava le radici della fede, rileggeva gli eventi della storia della salvezza, la manifestazione di Dio in Gesù di Nazareth, il Cristo e il Signore.

Quando nel ‘75 passò un anno a Gerusalemme, nei giorni di Pasqua arrivai nella città santa con un pellegrinaggio; poiché la data della Pasqua ortodossa quell’anno era differita di una settimana, partecipammo insieme alla Veglia Pasquale degli Ortodossi al S. Sepolcro e la domenica pomeriggio andammo insieme a Emmaus e tornammo a piedi: avevamo in cuore la stessa gioia dei due discepoli che allo spezzar del pane avevano riconosciuto Gesù risorto.

Un altro aspetto che mi piace sottolineare di don Raffaele è la sua timidezza, che proveniva da un animo delicato e riservato. Si appartava spesso, non amava la compagnia chiassosa. Era espansivo invece là dove trovava corrispondenza d’animo di chi si apriva alle cose di Dio, del Vangelo, della Chiesa. Rifuggiva da atteggiamenti superficiali e banali e quando inaspettatamente vi si trovava coinvolto, salutava con un sorriso delicato e se ne andava.

Era timido anche nel chiedere. Ricordo con quanta delicatezza veniva a presentare un’iniziativa o a chiedere un permesso quando ero rettore del Seminario e in questi ultimi anni vice-prefetto dell’Istituto Teologico o solo quando mi chiedeva se potevo prestargli un libro che sapeva che io avevo nella mia biblioteca. Quando vedeva che la sua richiesta incontrava qualche difficoltà o poteva creare intralcio se ne scusava e cercava di provvedere da sé in altro modo.

Questa timidezza, quasi timore di arrecare fastidio, gli ha creato anche delle difficoltà quando cominciò ad avvertire i primi sintomi del suo male, cercando altrove quel che gli poteva offrire anche la comunità del seminario.

Timido era don Raffaele, ma anche fermo nelle sue scelte. Ricordo che un’unica volta ci siamo trovati forse su sponde opposte; dico ‘forse’ perché poi non erano sponde tanto lontane. Fu quando, ai primi anni del cammino neocatecumenale nella nostra diocesi, si dibatté il problema della celebrazione della Veglia Pasquale separatamente tra parrocchia e comunità. Io, come vicario generale allora, chiedevo che la celebrazione della Veglia Pasquale trovasse unita tutta la parrocchia nel momento liturgico più vivo e più solenne dell’anno; don Raffaele difese la libertà delle comunità neocatecumenali di celebrare la Pasqua da sole, come momento che riassumeva tutta un’esperienza e un cammino che altri cristiani non avevano condiviso e che quindi non potevano comprendere. La discussione, fatta insieme con altri, pur vivace, non ci divise, anzi, servì a mettere in rilievo aspetti positivi dall’una e dall’altra parte.

Il Signore ce lo ha tolto presto, ma il suo ricordo, caro e indimenticabile, ci unisce nella sua stessa fede: “Tutti saremo in Cristo, per stare sempre con Lui”.

Fermo li 5/4/1992                                                         Don Gabriele Miola

 

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QUARESIMA prima domenica anno A: il parroco Blasi Mario evangelizza la preparazione alla Pasqua

I QUARESIMA (Mt.4,1-11)

 Il parroco Blasi don Mario invita alla Quaresima per la Pasqua di Risurrezione di Gesù  Cristo

“Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.

     Per vivere l’esperienza della Quaresima, è necessario mettersi in ascolto della Parola di Dio. La Quaresima oggi è ancora sentita come tempo forte dell’anno liturgico per la vita della Chiesa e della comunità cristiana?

Nella Quaresima la Chiesa propone brani biblici che si prestano ad un confronto concreto con le situazioni diverse delle assemblee della comunità.

Tre sono le opere della Quaresima per ogni comunitàdigiuno, elemosina e preghiera. Sono opere che devono caratterizzare la vita cristiana di ogni tempo, ma nella Quaresima devono risvegliare in modo particolare la coscienza di ogni credente.

Il digiuno consiste nel saper risparmiare qualcosa per donare in elemosina. L’elemosina è il gesto che si compie per aiutare il povero; c’è più gioia nel donare che nel ricevere; ciò significa che l’uomo è fatto per amare. “Senza la gioia di donare, una società non riesce a far fronte nemmeno alla necessità dello sviluppo della crescita. L’elemosina è un gesto realista, non eccezionale.  Realista perché prende atto che il bisogno dei poveri intorno a noi è tale che tante nostre pretese e lamenti suonano spesso addirittura indegni. E si tratta di un gesto non eccezionale, perché dovrebbe avvenire, come ricorda il Vangelo, senza che la mano sinistra sappia ciò che fa la destra”. La Quaresima è il tempo in cui la Chiesa si riunisce con una intensità particolare per professare la sua fede; è il tempo in cui si verifica e si ristruttura la fedeltà del credente. Che posto ha Dio nelle vita del credente oggi? Il credente deve sempre guardare Gesù come modello di vita. Gesù vive ed attua sempre la volontà del Padre.

Gesù, nel deserto, supera le prove mettendo Dio sempre al primo posto. Così deve agire il cristiano nella vita. Gesù è condotto nel deserto dallo Spirito per essere tentato da Satana. E’ lo Spirito che introduce Gesù alla prova. “Gesù non ha cercato la tentazione, ma vi è stato introdotto misteriosamente dallo Spirito Santo, potremmo quasi dire suo malgrado”. Gesù insegna “che si deve affrontare la tentazione con una preghiera vigilante, rivolta al Padre per non soccombere alla prova”. Gesù supera tutte le prove con la Parola di Dio.

La prima tentazione di Gesù nel deserto è: il pane. Gesù risponde al tentatore:

Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.

La Parola di Dio e la Sua Grazia sono la base della vita di Gesù nel deserto. “Il Figlio è innanzitutto un “povero di Spirito” sottomesso alla Parola che diventa suo alimento”. Con la Parola di Dio Gesù si salva e si sfama. Il cristiano viva sempre gioioso con la Parola di Dio nel cuore.

QUARESIMA 2008: PREGHIERA, DIGIUNO ED ELEMOSINA

“La Quaresima offre una provvidenziale occasione per approfondire il senso e il valore del nostro essere cristiani, e ci stimola a riscoprire la misericordia di Dio perché diventiamo, a nostra volta, più misericordiosi verso i fratelli. Nel tempo quaresimale la Chiesa si preoccupa di proporre alcuni specifici impegni che accompagnino concretamente i fedeli in questo processo di rinnovamento interiore: essi sono la preghiera, il digiuno e l’elemosina. Quest’anno, nel consueto Messaggio quaresimale, desidero soffermarmi a riflettere sulla pratica dell’elemosina, che rappresenta un modo concreto di venire in aiuto a chi è nel bisogno e, al tempo stesso, un esercizio ascetico per liberarsi dall’attaccamento ai beni terreni. Quanto sia forte la suggestione delle ricchezze materiali, e quanto netta debba essere la nostra decisione di non idolatrarle, lo afferma Gesù in maniera perentoria: “Non potete servire a Dio e al denaro” (Lc 16,13). L’elemosina ci aiuta a vincere questa costante tentazione, educandoci a venire incontro alle necessità del prossimo e a condividere con gli altri quanto per bontà divina possediamo.

Nel Vangelo è chiaro il monito di Gesù verso chi possiede e utilizza solo per sé le ricchezze terrene. Di fronte alle moltitudini che, carenti di tutto, patiscono la fame, acquistano il tono di un forte rimprovero le parole di san Giovanni: “Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il proprio fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3,17).

 Il Vangelo pone in luce una caratteristica tipica dell’elemosina cristiana: deve essere nascosta. “Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra”, dice Gesù, “perché la tua elemosina resti segreta” (Mt 6,3-4). E poco prima aveva detto che non ci si deve vantare delle proprie buone azioni, per non rischiare di essere privati della ricompensa celeste (cfr Mt 6,1-2).

L’elemosina, avvicinandoci agli altri, ci avvicina a Dio e può diventare strumento di autentica conversione e riconciliazione con Lui e con i fratelli”.

(Messaggio di Papa Benedetto per la Quaresima 2008)

 

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