Miola Gabriele Sacerdote racconta la cronaca dell’Istituto Teologico Marchigiano di Fermo

Miola Gabrile Sacerdote racconta

PER LA CRONACA DELL’ISTITUTO TEOLOGICO MARCHIGIANO da una intervista edita in LA VOCE DELLE MARCHE del 14 maggio 2017  per gentile concessione del Direttore Don Nicola del Gobbo (NDG). Notizie fino all’anno 2017.

NDG- Mons. Miola ha creato un ampio gruppo di docenti di teologia

*\ Ho sempre insegnato nell’ITM-ISSR, fin dal 1962 appena tornato dalla Terra Santa, dove avevo frequentato un anno presso l’Istituto Biblico tenuto dai Francescani. Ho insegnato anche quando ero vicario generale o impegnato con il sinodo, con la SFISP ecc. Facevo le introduzioni bibliche di Antico e Nuovo Testamento all’Istituto Teologico Marchigiano sezione di Fermo (ITM) e all’Istituto Superiore di Scienze Religiose (ISSR). Per l’insegnamento di esegesi era venuto don Raffaele Canali. Don Raffaele era prete della diocesi di Ascoli, aveva fatto la licenza al Pontificio Istituto Biblico (PIB), era del Seminario Romano, compagno di don Paolo De Angelis, che me lo segnalo. In Ascoli non c’era più il seminario teologico, non trovò una cattedra e il vescovo Mons. Marcello Morgante gli permise di venire a Fermo. Mons. Bellucci <arcivescovo di Fermo> lo accolse in diocesi, gli assegnò la cappellania di Stella Maris a Civitanova e i corsi di esegesi in seminario cominciando a sostituire mons. Cardenà. Diventammo amici e collaborammo. Trovò subito buona accoglienza e gli studenti erano entusiasti di lui. Faceva parte del cammino neocatecumenale e ne era un punto di riferimento in diocesi. L’intesa tra noi fu sempre buona; ci scontrammo solo in un punto. Come vicario generale avevo richiamato i neocatecumenali sulla celebrazione della veglia pasquale. La liturgia propone una celebrazione solenne e unitaria e chiesi ai neocatecumenali di partecipare alla veglia parrocchiale. Vennero in commissione per sostenere la loro prassi di una veglia propria, c’era anche don Raffaele, ci scontrammo su questo punto, ma non essendoci direttive specifiche sul movimento e le loro liturgie non ottenni nulla, anche perché l’arcivescovo Cleto, che si diceva d’accordo con la linea che avevo proposta, in pratica tollerò la prassi dei neocatecumenali. Rimanemmo amici anche se con qualche ombra.

Don Canali divenne rettore del seminario neocatecumenale Redemptoris Mater di Macerata e continuava ad insegnare. Nel 1991 accusò una cardiopatia, gli consigliarono di fare un intervento in una clinica specializzata di Roma. Sottoposto ad intervento chirurgico non si risvegliò dall’anestesia. Erano i primi giorni del gennaio 1992. Quasi presago della fine, poco prima del ricovero in clinica, lasciò uno scritto, come una preghiera e un testamento, veramente toccante, ricco di fede; vi annunciava la sua eventuale morte come l’incontro gioioso con Cristo ed invitava a celebrare l’eucaristia del suo funerale con i canti festosi tipici del “cammino”.

Mons. Bonifazi era l’incaricato per la cultura in diocesi e in seminario. Dopo il dottorato in teologia alla PUL, si era laureato in filosofia, aveva fatto l’abilitazione, aveva pubblicato insieme al prof. Luigi A1ici “Il pensiero del novecento” un testo di storia della filosofia, aveva vinto il concorso a preside e fece due anni il preside in una scuola superiore di Falconara, era sempre presente a convegni culturali e politici. Faceva un solo corso di teologia nell’ITM e ne conservava la presidenza. Preferiva insegnare all’ITM di Ancona e all’ISSR, che opportunamente da Loreto era stato trasferito nel capoluogo. I colleghi di Fermo non lo tolleravano …(omissis)  L’arcivescovo mi chiamò e mi pregò di prendere la direzione dei due Istituti di teologia. Così nel 1991 mi sobbarcai anche a questo non piccolo compito.

Mio primo impegno fu quello di tenere unito il corpo docente e per quanto possibile di farlo lavorare, consapevole però che Istituti di periferia come i nostri non potevano essere grossi centri di studio e di produzione. I due Istituti erano (e sono) dipendenti dalla Pontificia Università Lateranense (PUL), l’ITM aveva due sedi: quella di Ancona e quella di Fermo, ma la direzione e la segreteria generale stavano nel capoluogo; l’ISSR, anch’esso collegato alla PUL, aveva sede a Loreto e a Fermo, ma direzione e segreteria stavano a Loreto. Ci tenni a dare risalto alla nostra sede sia perché a mio parere aveva un corpo docente più qualificato e un numero superiore di iscritti. …

Feci un consiglio di sede e portammo avanti diverse iniziative. Organizzammo incontri di buon livello. Chiesi collaborazione al Segretariato per Unità dei Cristiani, cioè al sottosegretario Mons. Fortino, che conoscevo bene, e al PIB, di cui ero stato alunno e presso cui don Antonio Nepi, don Andrea Andreozzi e la signora Rosanna Virgili erano studenti. Cominciò così una serie di giornate di studio con relatori specialisti su temi ecumenici, biblici, teologici e di attualità. Da qui il passo alla pubblicazione di una rivista dell’ITM-ISSR fu breve. Don Rolando Di Mattia, la cui amicizia mi sostenne sempre, mi spronava ad una pubblicazione culturale-pastorale per il clero e mi promise il finanziamento del primo numero. Con lui trovai il titolo per la rivista rifacendoci al nome che i Capranica, vescovi di Fermo, nel ‘500 dettero al collegio romano che accoglieva studenti di Fermo: Sapientia Firmana. Tolsi quel Sapientia che mi sembrava troppo pretenzioso e lasciai Firmana dandogli un colorito neutro di “cose fermane” e aggiunsi come sottotitolo Quaderni di teologia e Pastorale. Organizzammo un primo convegno su “Giustizia e violenza” e invitammo relatori di prestigio come il prof. Bovati del PIB e il prof. Penna della Pontificia Università Lateranense (PUL). Tutte le relazioni formarono il primo numero della rivista.

Fu un successo tanto che ci fu richiesta da diversi Istituti e docenti. Il mio lavoro fu di far collaborare i professori e trovai risposta da Nepi, Virgili, Petruzzi, Giustozzi, Castelli, Albanesi, Tosoni e da altri. Illuminati invece non volle mai scrivere una riga. Diceva che lo assorbiva la scuola di religione al liceo Annibal Caro della città. Bonifazi, sebbene fosse sempre prodigo di giudizi e di consigli su tutto, era chiuso nel suo mondo, ma se richiesto, scriveva. Problema grosso fu poi quello di trovare i soldi per la stampa, ma tra abbonamenti ed offerte di preti, un finanziamento della Carifermo e di qualche laico, come il dott. Patrizio Astorri, feci fronte alle spese. Collaboratrice preziosissima fu la signorina Dolores Dolomiti, che chiamai come applicata di segreteria e mi faceva il paziente lavoro di sbobinatura delle relazioni registrate dei professori invitati, che io correggevo prima di mandarle agli autori per una revisione. La rivista uscì più o meno regolarmente e s’impose anche nei confronti di Quaderni di Scienze Religiose edita dalla sede di Loreto.

D’accordo con i professori reimpostammo l’orario delle lezioni, stabilimmo lezioni di 45 minuti e così dalle 8.15 alle 12.30 venivano 5 lezioni ogni giorno con la possibilità di dare più ore alle discipline principali, di avere spazi per i corsi opzionali, e lezioni per latino e greco per alunni che ne erano digiuni. Io ero sempre presente negli Istituti e seguivo le vicende di ciascuno. Il segretario, don Ferdinando Pieroni, tra impegni di scuola di religione e parrocchia non era molto presente, comunque seppe affrontare e sbrigare diversi problemi.

Ci tenni ad invitare professori laici come Luigi Alici prima e poi Roberto Mancini, professori di Filosofia a Macerata; convinsi l’arcivescovo ad investire sui laici che volevano fare teologia e ad aiutarli anche finanziariamente. Fu così che Mons. Bellucci dette sussidi alla Virgili, alla Serio, a Gobbi, mentre Tosoni, Castelli, De Marco, che avevano alcune ore di religione alla scuola statale si pagarono le spese per conto proprio. Sono poi tutti entrati come docenti in ITM-ISSR.

Attenzione posi anche alla biblioteca, strumento indispensabile di lavoro. La biblioteca del seminario era sfornita di opere di teologia, di S. Scrittura, soprattutto di volumi recenti e riviste. L’arcivescovo aveva permesso l’affitto di spazi del seminario in modo d’avere entrate per far fronte alle spese di manutenzione di uno stabile immenso; pose mano ad alcuni lavori urgenti: risistemò le camere dei teologi che erano senza bagni interni, spostò i locali di teologia al pian terreno e riportò la biblioteca egualmente al pian terreno vicina all’ingresso del seminario creando così uno spazio omogeneo tra ITM-ISSR e biblioteca. I problemi della biblioteca erano enormi: catalogazione, fondi per l’acquisto di libri e abbonamenti a riviste. Chiesi ai singoli professori pareri ed indicazioni di acquisti per ogni disciplina e controllai che le somme di spesa stabilite fossero effettivamente fatte. … . Nell’elenco delle riviste io e don Di Mattia mettemmo a disposizione i nostri personali abbonamenti in maniera tale che studenti e professori potevano sempre richiederle. Le cose certamente migliorarono, ma molti problemi rimasero irrisolti, anche perché nessuno si voleva prendere l’incarico di dirigerla.

Un momento cruciale per l’ITM fu il passaggio da Istituto “affiliato” ad “aggregato” alla PUL. Si era nell’anno 1994-95. … Il vescovo di Senigallia, Mons. Odo Fusi-Peci, incaricato della CEM per gli Istituti Teologici di Ancona e Fermo, avviò presso la Congregazione per l’Educazione Cattolica la pratica per il passaggio dell’ITM da “affiliato” ad “aggregato”.  …  Don Albanesi, come professore di diritto, redasse un preambolo allo statuto, che riservava diritti essenziali all’arcivescovo e alla sede di Fermo, come la presentazione dei professori, del vice-preside, l’autonomia amministrativa.

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MIOLA GABRIELE SACERDOTE

Miola Gabriele sacerdote della diocesi di Fermo  (1934-2017)

MIOLA mons. Gabriele. Pro memoria della vita ripercorrendo la mia vita, rapidamente, guardando solo gli aspetti esterni. <Fino all’anno 2006>

\\\ 1934-1940: dei miei primi sei anni della mia vita non ho ricordi precisi: il primo periodo l’ho passato a Monte Giberto, dove sono nato il 19 febbraio 1934 e battezzato due giorni dopo; i miei fratelli Pietro e Umberto avevano molto più di me essendo nati Pietro nel 21 e Umberto nel 23. Non ho ricordi, nemmeno dei miei fratelli forse perché già stavano con mio padre a Piane di Falerone dove babbo aveva trovato lavoro; un ricordo vago è legato alla famiglia Eusebi, vicina di casa, dove mamma mi lasciava in compagnia del figlio della signora Lisa, quasi mio coetaneo. Quando avevo forse tre anni babbo portò tutta la famiglia a Piane di Falerone, dove già lavorava. Di questo periodo ho un vago ricordo dell’asilo di Servigliano, tenuto dalle suore, dove i miei genitori mi mandavano in compagnia di altri bambini.

\\\ 1940-1945: gli anni della scuola elementare e il tempo della guerra.

Dei primi tre anni, cioè delle prime tre classi, non ho ricordi precisi. Dalla contrada “Madonnetta” si andava insieme con altri al centro di Piane di Falerone; le aule, affittate dal comune, stavano all’inizio della strada che va verso il paese, vicino al ponte del fossato. La maestra era anziana, sempre vestita di nero, che a noi bambini non piaceva: abitava vicino alle aule della scuola, la sua casa era piena di gatti, se li portava anche a scuola.

Le cose cambiarono in quarta elementare. Venne una maestra nuova, giovane, arrivava col treno da Fermo alla stazione di Piane, non lontana dalla scuola. Si chiamava Angela Macchini, ma normalmente Lina. E’ rimasta la mia maestra, la vera maestra, che ho sempre ricordato direi con devozione. Ricordo un fatto increscioso capitatomi durante la quinta: un giorno, finita la scuola, ci fermammo a giocare, al momento di tornare a casa, non ritrovai la borsa dei libri e quaderni. I miei genitori e i fratelli mi sgridarono. Il giorno dopo la ritrovai bruciata sotto il ponte del fosso accanto alla scuola. Forse un dispetto di qualche compagno! La maestra Macchini ci preparò all’esame di quinta per l’ammissione alla scuola media. Non tutti, ma un gruppetto, solo quelli che volevano passare alla Media; io volevo entrare in seminario. Avevo conosciuto, credo nelle vacanze estive, in giovane seminarista, che abitava poco lontano da casa mia, Damiano Ferrini, che allora doveva fare il liceo, mi offriva dal suo campo noci, prugne e altro, sorse così pian piano un’amicizia e in me l’idea di andare in seminario.

Nel 42 feci la prima Comunione e la Cresima a Falerone. Non ho ricordi particolari. Andavamo tutti i giorni, ragazzetti (allora potevamo essere lasciati soli per le strade polverose, non c’erano infatti macchine, se non rarissime, ma solo carri trainati dai buoi), portandoci da mangiare, dalla Madonnetta a Falerone alle aule del beato Pellegrino: per un mese ci fecero catechismo, mattino e sera. Ricordo i due preti di Falerone, i fratelli Gianfranceschi, don Sante, il parroco, e don Luigi, e le catechiste.

In quegli anni, credo nel 43 fu istituita la parrocchia di S. Stefano a Piane di Falerone e il primo parroco fu don Elia Malintoppi faleronese. Mi prese a ben volere, mi faceva fare il chierichetto sia nella chiesa di Piane, che era un garage sotto le aule della scuola, sia nella chiesa della contrada Madonnetta, di proprietà della famiglia Ferrini, dove veniva solo alla domenica. Chiamava mio fratello Umberto, che era già giovanotto e aveva una bella voce, a cantare la Messa degli angeli e la Messa da requiem.

Del periodo della guerra ricordo: la presenza di prigionieri, inglesi soprattutto, che venivano sotto scorta di soldati italiani a fare una passeggiata dal campo di concentramento di Servigliano fino a Piane e poi, evidentemente dopo l’8 settembre, la fuga dei prigionieri dal campo. Ricordo che mio fratello Umberto, con la formazione della repubblica di Salò, si andava nascondendo per sfuggire al rastrellamento dei giovani fatto dai fascisti; il passaggio delle truppe tedesche in ritirata, che ci avvertirono però quando fecero saltare il ponte di Servigliano sul Tenna; qualche episodio brutto di patrioti, che la gente chiamava i” latriotti”, perché andavano prendendo viveri da ogni parte, l’arrivo degli alleati, che nella nostra zona erano polacchi, la messa al campo e i canti che questi facevano, la richiesta di sigarette in barattoli per i miei fratelli e altre cose.

\\\ 1945-48 gli anni della scuola media in seminario.

In agosto il seminarista Ferrini mi accompagnò a Fermo in seminario per fare l’esame di ammissione. Mamma mi fece preparare la biancheria e chiamò una parente di Grottazzolina, Fulvia Ferracuti, sarta. Stette per un po’ di tempo a casa nostra e fu in quell’occasione che mio fratello Umberto e Fulvia si fidanzarono (si sposarono nel ’50). La mattina della partenza per il seminario, presto, era forse il primo ottobre, il parroco don Elia venne nella chiesetta della Madonnetta vicino alla nostra casa, disse la Messa, benedisse la veste talare, me la fece indossare e mi disse: “Gabriele, non ti dico di farti prete, ma non mi mandare notizie cattive!” Babbo mi accompagnò alla stazione di Piane, prendemmo il treno per Fermo e cominciò la mia avventura di seminarista.

Nel ’945 le prime due classi della Media stavano in una parte del Fontevecchia. Il rettore del seminario era Mons. Giuseppe Potentini, ma al Fontevecchia c’era come vicerettore don Stefano Cardenà. In prima media eravamo una trentina, ci seguiva come responsabile (si chiamava prefetto) il giovane prete don Narsete Cecarini, che era anche nostro professore, mentre studiava all’università per laurearsi: ci faceva italiano, latino, storia, geografia. Non ricordo chi veniva per matematica; per musica veniva don Cesare Celsi. Don Narsete ci accompagnò come professore per tutto il periodo della Media era un bravo professore. Dopo la prima media, dal Fontevecchia fummo trasferiti al seminario vicino alla chiesa del Carmine.

Ricordi di quel periodo: portavamo la talare, ma non ricordo che mi desse fastidio, era cosa scontata! Mi piacevano le passeggiate a S. Maria a mare dove si poteva andare a giocare in riva al mare; a scuola andavo bene, furono anni spensierati. Delle lotte politiche di quegli anni non ci dicevano nulla o non ne ho ricordi. Per le elezioni del 48 ci fecero pregare, ci dicevano che era stata una grande vittoria. La nostra formazione era: studio preghiera, disciplina.

I tre anni si conclusero con l’esame statale di licenza Media, che sostenemmo alla Media “Betti” ed ho questo grazioso ricordo. Nella nostra scuola non c’era disegno, eccetto qualche lezione di don Marcello Manfroni, invece c’era anche l’esame di disegno. Ricordo che il foglio mio rimase in bianco e una ragazzetta, che mi era stata messa vicino, dopo aver fatto il suo lavoro, prese il mio foglio e fece anche il mio!

Credo nel 47 il mio parroco don Elia Malintoppi fu trasferito alla parrocchia di S. Girio a Potenza Picena, forse per i contrasti che aveva avuto con i comunisti di Falerone; venne a Piane don Elio Jacopini, già cappellano militare. Ricordo che andammo a riceverlo alla stazione di Piane di Falerone noi due seminaristi: Damiano Ferrini ed io.

\\\ 1948-50 gli anni del ginnasio.

Dopo la Media la classe si era assottigliata perché alcuni erano andati via, qualcuno era rimasto indietro, ma trovammo cinque compagni nuovi, venuti dopo la scuola Media: Ilario Trebbiani, Romolo Illuminati, Tito Marini, Giuseppe Cesanelli e un altro di cui non ricordo il nome. Degli assistenti ricordo Renato Valentini, Giuseppe Traini, Giuseppe Simonelli. I superiori erano: il rettore Potentini, il vicerettore don Lino Lauri e don Stefano Cardenà. Avevo una certa soggezione di don Lino Lauri. Dopo la scuola i giochi preferiti: all’aperto staffetta, sbarra, taglia salame ecc. all’interno nei giorni di pioggia o nelle sere d’autunno e inverno lettura di riviste missionarie, sport soprattutto ciclismo, ma più di tutto ci piaceva leggere il settimanale per ragazzi “Il Vittorioso”, che alcuni potevano permettersi di comperare, ma che poi ci facevano leggere.

Gli insegnanti di questi due anni. Don Umberto Marinangeli per italiano, latino, storia e geografia in quarta; in quinta invece don Achille Corredini; don Aldo Baldassarri per greco in quarta, e in quinta don Dino Mancini; per matematica d. Ennio Carboni; per inglese don Petrelli. Professori chiamati ad insegnare, autodidatti, eccetto Carboni, non ci hanno trasmesso molto. Marinangeli più che del latino si interessava alla metrica dell’esametro e del distico: scomponeva i distici di Ovidio, Tibullo o gli esametri dell’Eneide e ce li faceva ricomporre, aveva le dita gialle per il fumo del sigaro, parlava a scatti; don Achille Corradini, buon conoscitore del Manzoni, ma poco del resto; don Aldo era più le volte che mancava che quelle che veniva: ci ha insegnato poco di greco; don Dino Mancini era laureato in lettere moderne, ma di greco ci ha dato veramente poco, don Ennio ci terrorizzava con i votacci; don Petrelli parlava bene l’inglese perché era stato come missionario in paesi di lingua inglese, ma non aveva nessuna capacità didattica e ci ha insegnato quasi nulla. Il biennio del ginnasio è terminato con l’esame statale di ammissione al liceo: mi esaminarono i proff. Vincenzo Tosco e Alvaro Valentini al ginnasio-liceo “Annibal Caro”. Era l’anno santo 1950. Come premio della promozione ricordo che i miei mi pagarono il viaggio a Roma, organizzato dal seminario, per l’anno santo, ma non ho ricordi precisi. In quell’anno si sposò mio fratello Umberto con Fulvia; celebrarono il matrimonio a Loreto e si ritrovarono a pranzo nella Parrocchia di S. Girio a Potenza Picena dove era parroco don Elia Malintoppi, che era stato il primo nostro parroco a Piane di Falerone e rimasto legato alla mia famiglia. Io non partecipai o non mi dettero il permesso di partecipare al matrimonio di mio fratello. Andarono in viaggio di nozze prima a Roma, dove fecero visita allo zio di Fulvia, prof. Vincenzo Monaldi, celebre tisiologo, direttore dell’Ospedale di Napoli, che oggi è a lui intitolato, e poi a Napoli.

\\\ 1950-54 gli anni del liceo.

Degli anni del liceo ricordo gli assistenti don Leonardo Piciotti e don Armando Marziali: due studenti teologi molto differenti, che si integravano bene. I superiori erano gli stessi, ma don Lino Lauri era andato parroco, vicerettore unico era don Stefano Cardenà.

Il liceo del seminario aveva un’impostazione diversa da quello pubblico, la disciplina fondamentale era filosofia teoretica: ci facevano studiare tutti i trattati classici e d’impostazione “scolastica”: la logica minor e maior, cosmologia, metafisica, antropologia, etica. Le discipline letterarie e scientifiche avevano meno spazio. I cambiamenti del periodo postbellico portarono nuove esigenze anche nell’ambito dello studio: la congregazione dei seminari fece aggiungere un anno come propedeutico alla teologia: nel nostro seminario invece di fare un anno propedeutico con lo studio della filosofia, dando così più spazio alle discipline del liceo, i superiori scelsero di allungare di un anno il liceo. Tornando a quel tempo, ho l’impressione che fu un disastro perché in quel quarto liceo non combinammo nulla.

I nostri insegnanti: don Luigi Marconi e poi don Lucio Marinozzi per filosofia e storia della filosofia, don D. Mancini per italiano e storia, don Ludovico Cassiani per greco e latino, don Ennio Carboni e poi don Ottavio Svampa per matematica, don Mario Scoponi per scienze e fisica, don Stefano Cardenà per religione.

Non ho un bel ricordo dello studio degli anni di liceo. Professori per lo più autodidatti, non avevano lauree specifiche; Marconi e Marinozzi venivano dalla Gregoriana, ma non avevano lauree statali. Il prof. Marconi, a parte il fatto che ci incutesse timore, era bravo e chiaro nelle lezioni, ma è venuto molto poco perché continuamente malato, ci fece filosofia don Marinozzi, che poteva esser bravo e competente ma non comunicava con gli alunni sia perché aveva una voce talmente flebile che non si riusciva e seguire, ci è stato d’aiuto più il prefetto don Armando Marziali che il professore. Don Dino Mancini, pur laureato in lettere alla Cattolica di Milano, non ha fatto altro che dettare gli appunti di letteratura italiana, ma non ci ha fatto leggere né ci ha commentato un brano d’autore e per storia assegnava solo i capitoli da leggere sul testo, don Ludovico Cassiani era lettore bravissimo in greco e latino, non aveva difficoltà nei testi, ma era un lettore per sé, incapace di insegnare e completamente digiuno di letteratura greca e latina; don Ennio Carboni cominciò l’anno e poi se ne andò e con don Ottavio Svampa non imparammo niente; don Mario Scoponi non sapeva nulla di scienze e di fisica e quindi non ci ha insegnato nulla tanto che, negli ultimi mesi del quarto liceo, anche i superiori, consci della situazione, fecero venire il prof. Marcello Seta, che ci introdusse alla fisica, ma era troppo buono con noi studenti. Don Cardenà faceva religione in orario extrascolastico seguendo un testo di apologetica, impostata tutta sulla difesa del dogma e della tradizione. Con questo non voglio dire che non fossero buoni preti, anzi erano stimati e anche noi li stimavamo per la loro attività pastorale d’ogni genere, ma non per la scuola.

Una situazione disastrosa, ma noi ragazzi non ce ne rendevamo conto; ce ne accorgemmo quando alcuni decidemmo di fare, dopo il cosiddetto quarto anno di liceo, la maturità classica. Un esame immane da privatisti con tutte le materie da portare di tutti e tre gli anni liceali, tutta la letteratura italiana, greca e latina di tre anni, tutta la storia e altro. Cercammo di prepararci da soli, ma fummo tutti respinti; io mi salvai riportandomi greco e fisica, che riparai ad ottobre!

Se mi domando: come mai una tale situazione? Oggi sarebbe insostenibile! Due motivazioni, mi sembra, stavano alla base. La prima una certa mentalità di separazione dal mondo e di autosufficienza. In una società ancora poco culturalizzata, i preti venivano ritenuti in genere persone colte e, almeno quelli che riuscivano di più a scuola, capaci di fare tutto e quindi anche di insegnare, anche discipline per le quali non erano affetto preparati. La seconda stava nel fatto che i preti che avessero fatto le università laiche non erano guardati di buon occhio, dovevano pagarsi le spese da sé, e poi se venivano chiamati ad insegnare in seminario, non erano per nulla o poco ricompensati, per cui ognuno poi si arrangiava facendo scuola privata e entrando con i concorsi nelle scuole pubbliche. Così il prof. di matematica don Ennio Carboni, don Dino Mancini prof. di italiano. Ricordo che qualche professore lamentava a scuola che economicamente stavano molto meglio i parroci che non i docenti del seminario (cosa che è andata avanti fino agli anni 80, cioè fino all’epoca del nuovo concordato). Quello economico doveva essere un problema grave per il seminario. Noi ragazzi ne eravamo estranei, ma ricordo che ci chiedevano spesso di dire a casa che pagassero la retta. Un anno, non ricordo quale, ci dissero che ci mandavano a casa per le vacanze di Natale dopo la celebrazione del pontificale al duomo. Le chiedevamo da anni le vacanze di Natale e quindi fu una gioia per noi quando ci dissero che ci mandavano a casa. Però ci dissero: “dite ai genitori che se al rientro non saranno saldati tutti i debiti delle rette non rientrerete!” E fu così. Quando rientrai dopo l’Epifania, non portavo con me i soldi per la retta e mi mandarono a casa! I miei se ne rammaricarono e protestavano perché non ci veniva data la somma promessa dal reddito di terreni lasciati dai preti Sorbatti per i seminaristi poveri di Falerone. Sta di fatto che mio padre, nonostante le proteste dei miei fratelli (non nei miei confronti, ma dei preti e del seminario), si dovette prestare i soldi per rimandarmi in seminario.

Noi ragazzi eravamo estranei alla vita del mondo, unica attività fuori della scuola era quella di occuparci delle missioni: lavoravamo per il circolo missionario, fra l’altro scrivemmo a macchina su clichés tutti gli appunti di letteratura italiana del prof. don D. Mancini, che poi duplicavamo con la copiatrice ad alcol e vendevamo alle ragazze del Magistrale “Bambin Gesù”, dove don Dino insegnava. Ricordo con piacere il periodo delle recite al corridoio S. Carlo nel tempo di carnevale, preparate da noi, con l’aiuto dei superiori di classe o di don Mario Scoponi. Le doti che venivano apprezzate e sviluppate erano musica, canto (io ero proprio negato) e teatro come sostegno alla futura attività parrocchiale.

Le classi del liceo erano piccole, la grande selezione avveniva negli anni della Media e del Ginnasio. Chi entrava in Liceo e poi soprattutto in Teologia era considerato ormai quasi sicuro nel cammino verso il sacerdozio. Chi usciva durante il liceo o dopo la terza liceo veniva considerato un approfittatore o traditore e in genere venivano tagliati tutti i rapporti con chi usciva dal seminario, anche se poi si cercava un recupero con loro facendo quasi ogni anno le giornate degli ex-alunni. In genere dopo anni di astio e di ripulsa nei confronti del seminario, in una età più matura si tornava ad apprezzare il seminario e c’era una buona partecipazione a queste giornate. Il rettore Potentini era solito dire che il seminario serviva a fare insegnanti, avvocati, medici, impiegati ecc. e qualche prete!

La formazione personale di noi giovani era affidata alla struttura o meglio alla comunità e al padre spirituale. La comunità con i suoi cardini e i suoi ritmi: preghiera, scuola-studio, disciplina, ricreazione, corsi di esercizi, era una “macchina” formatrice; chi non rientrava in quei canoni veniva escluso o si escludeva da sé. I superiori avevano, nel passare degli anni, una funzione di controllo, ma potevano avere anche una funzione paterna a seconda della fiducia che sapevano acquistarsi dai seminaristi. II padre spirituale invece entrava, come si diceva, in “foro interno” attraverso la confessione raccomandata o imposta settimanale e la direzione spirituale; aveva un grande rilievo nella formazione e nella maturazione del cammino verso il sacerdozio. La continuità per molti anni, conte padre spirituale, di Mons. Marcello Manfroni, figura altamente apprezzata per il suo spirito di preghiera, di riservatezza, di distacco, di lavoro, è stata una garanzia di equilibrio nella vita dei singoli e del seminario in genere. Circa la formazione affettiva e sessuale pubblicamente “ne verbum quidem”; il mondo femminile era un mondo escluso, il modello che ci si proponeva era S. Luigi Gonzaga di cui più che della sua carità, che esercitò eroicamente assistendo gli appestati di Roma e morendone, ci si parlava della sua angelica virtù e ci si diceva che non guardava in volto nemmeno la madre! La parola d’ordine era mortificazione, del resto non del tutto sbagliata, ma forse incompleta. Ci si inculcava la tattica della fuga di fronte alla donna, dovuta forse a quella prospettiva morale che affermava che nella bella virtù, cioè nel sesto comandamento ‘non datur parvitas materiae’. Eppure quando nelle brevi vacanze estive stavo a casa, mi piaceva intrattenermi con le ragazze che lavoravano con Fulvia e mia cognata mi lasciava per ore con il piccolo Massimo che era nato nel 51. Vista con l’occhio di oggi era una formazione volta più al negativo, ma che poi si andava equilibrando nell’esperienza e nel cammino della vita, anche se a qualcuno può aver creato drammi non piccoli.

Nonostante tutto debbo dire che gli anni del liceo furono anni belli, positivi in cui siamo stati formati soprattutto al senso dell’ubbidienza, dell’appartenenza alla Chiesa, del lavoro, della missione. Con Ilario Trobbiani parlavamo spesso di andare in missione: lui voleva andare al PIME per le missioni in Asia ed io dai Comboniani per le missioni in Africa.

In quegli anni si parlava molto della costruzione del seminario nuovo, vidi la posa della prima pietra, ma non ne vidi la costruzione. Quando tornai a Fermo dopo otto anni, il seminario s’era trasferito nel nuovo edificio sul colle Vissiano e cominciai lì la mia vita di prete diocesano e la mia attività e vi sono rimasto fino ad oggi.

\\\ 1954-58 gli anni della teologia, del seminario romano e dell’ordinazione presbiterale.

Dopo la maturità classica <1954> il vicerettore Mons. Cardenà mi chiamò e mi disse: c’è da fare un concorso per andare al seminario romano. Lo feci: si trattava di svolgere un tema, di cui non ricordo nemmeno il titolo. Non mi disse altro. Dopo un po’ di tempo, credo un mese, mi chiamò e mi disse: vai a Roma al seminario romano. Non mi rendevo conto di nulla, nemmeno sapevo che al romano avrei incontrato un altro di Fermo, ma che aveva finito la teologia ed era già sacerdote, don Duilio Bonifazi, che non avevo conosciuto nemmeno a Fermo, sarebbe rimasto al romano ancora per un anno.

I miei mi prepararono tutto e mi fecero partire solo perché mons. Stefano Cardenà li aveva assicurati che non c’era da pagare la retta in quanto avevo vinto il concorso e la borsa di studio del seminario pio (seppi dopo che erano borse di studio legate all’antico seminario marchigiano a Roma, voluto da Pio IX, poi soppresso e unito al seminario romano); in ottobre il giorno stabilito, non ricordo quale, andai a Roma, accompagnato da mio fratello Umberto. Mi accolse il vicerettore Mons. Agostini, che mi accompagnò alla cameretta assegnatami e cominciò così il mio cammino romano.

Eravamo una classe piccola, di appena dodici alunni, diversi provenienti dalle borse del seminario pio e due soli dal seminario minore di Roma. Eravamo del seminario pio: Antonio Capriotti di Ripatransone, Elio Borgiani e Mario Ramaccioni di Macerata, Mario Biagini di Rimini, Rocco Cerrato di Faenza; inoltre due di Udine Della Picca e D’Auria, uno di Avellino Adriano de Lillo, uno di Trapani Salvatore Corso, di Roma provenienti dal seminario minore: Alberto Roncoroni e Paolo Medici e ancora Lovelli, uscito alla fine dell’anno, di cui non ricordo il nome.

I superiori del seminario romano: il rettore Mons. Plinio Pascoli, vicerettore don Agostini, padre spirituale Mons. Pericle Felici, e ogni anno un teologo seminarista del 4° anno come assistente di classe.

La struttura educativa era la stessa del seminario di Fermo: preghiera e Messa quotidiana, scuola all’Ateneo Lateranense, passeggio quotidiano di un’ora, studio, preghiera della sera. Di nuovo? Niente! Anche qui lo stesso metodo: è la struttura che forma e i superiori sono controllori e anche qui il padre spirituale come forza di equilibrio e rifugio nei momenti difficili. Alcune cose mi sembravano proprio strane: al mattino uno di noi, a turni settimanali, appena suonava la campana della sveglia, usciva per il corridoio e diceva ad alta voce per far sentire una preghiera chiamata “la concezione”, le porte delle camere dovevano essere socchiuse ed un certo momento della preghiera si doveva uscire tutti sulla porta, già vestiti, per concludere in ginocchio la preghiera. Alla sera lo stesso: uno passava per il corridoio a dire la preghiera, ad un certo punto tutti all’uscio della porta in ginocchio per concluderla e poi ci si ritirava e dopo una ventina di minuti veniva tolta la luce. Oscuro, per dormire! La luce veniva ridata al suono della sveglia del mattino! A parte il valore della preghiera, era un modo per controllare che tutti si fossero alzati e che tutti andassero a dormire! Altra cosa strana: la posta personale, cartoline e lettere, si doveva consegnare aperte al vicerettore per la spedizione e ci veniva consegnata aperta quella in arrivo! Un controllo, che non facilitava dialogo e chiarezza. Ancora: i giornali si andava a leggerli dinanzi allo studio del vicerettore: L’Osservatore Romano e II Popolo, quotidiano della DC, non altri! Di queste cose ci si lamentava, ma l’accettarle era segno di vocazione! Ancora: nei giorni festivi erano possibili le visite di parenti e amici; per quelli che erano di fuori Roma non c’erano problemi perché non c’erano visite; ma per quelli di Roma le visite erano separate: una volta le donne e una volta gli uomini! I seminaristi romani protestavano! Tuttavia si accettava tutto e i giorni passavano tranquilli.

Le cose più piacevoli erano le passeggiate, quelle brevi quotidiane o quelle occasionali più lunghe, che ci permettevano, a noi provinciali, di conoscere Roma e dintorni, come pure la partecipazione alle solenni liturgie a S. Pietro col papa perché noi del romano avevamo biglietti per posti vicini alla celebrazione. Eravamo entusiasti per Papa Pacelli.

Per la teologia si frequentava la Lateranense e quella sola. I miei professori, al primo anno: p. Chiettini ofm per teologia fondamentale, mons. Garofalo per introduzione alla S. Scrittura, mons. Vona per patristica ed ebraico, mons. Lattanzi per ecclesiologia; p. D’Amato benedettino per liturgia, C. Zedda per greco biblico; nel triennio a corsi unificati: mons. Piolanti per dogmatica, p. Garcia ab Orbisio cappuccino per esegesi, Mons. Palazzini per teologia morale e poi sostituito da mons. Lambruschini, mons. Maccarrone per storia della Chiesa, mons. Damizia per Diritto, e poi c’erano i corsi opzionali; io scelsi: Pfister per arte cristiana, Graneris per storia delle religioni. Non ho un buon ricordo dei miei studi di teologia, i proff. apprezzati erano Garofalo e Piolanti, ma erano poco abbordabili. La cosa più significativa era la biblioteca e per noi del seminario romano c’era il vantaggio che l’incaricato ci prestava i libri e ce li faceva portare via e tenere per qualche giorno. Un gruppetto della mia classe era più impegnato nello studio e con spirito di ricerca: eravamo Cerrato, Corso, Medici, Roncoroni, il quale si ammalò e lo perdemmo al primo anno, e passò alla classe successiva; gli altri si contentavano delle dispense. Cominciava a girare aria nuova dalla teologia francese e si cercava di leggere qualcosa di Bouyer, De Lubac, Congar, Danielou.

Nel Ginnasio a Fermo ci fecero studiare, come lingua straniera, inglese, ma apprendemmo poco o niente con don Gustavo Petrelli. I libri di teologia erano per lo più in francese allora mi misi a studiare francese da solo. Scrissi a don Damiano Ferrini, che insegnava francese nella media del seminario e mi feci mandare una grammatica e un libro di esercizi. Studiai da me, cominciai a leggere e riuscii presto a cavarmela nella lettura di un articolo o di un libro, anche se non avevo nessun esercizio di pronuncia e tanto meno di scrittura.

La Lateranense, come le altre facoltà <pontificie> romane, erano legate alla neoscolastica e pian piano cominciammo a respirare qualcosa di diverso anche se non potevamo rendercene conto e coglierne la portata. Annaspavamo da soli, i proff. certo non ci aiutavano. Ricordo che un giorno Piolanti venne a scuola con un libro, credo “Surnaturel” di De Lubac e gridava: al rogo, al rogo questi libri! La cosa serviva invece ad incuriosirci e si correva in biblioteca a trovare il volume, che però non era reperibile. Piolanti ripeteva continuamente che bisognava tornare al tomismo “sine glossa” e ci stimolava a leggere la Summa Theologica: la comprai, ma debbo dire che si cercava di affrontare qualche ‘quaestio’, non avevamo chi ci introducesse a S. Tommaso, e l’insieme non dava il gusto della lettura Ci piaceva studiare, preparare bene gli esami, ma c’era un’insoddisfazione di fondo, che ci faceva interrogare e davamo del “poverini” a chi si preoccupava poco della scuola o era proteso verso un futuro di carriera ecclesiastica, non tanto tra i nostri compagni di classe, quanto di altri: era un’aria che si respirava ad ogni pie’ sospinto!

I quattro anni della teologia passarono presto con le diverse tappe del cammino verso il presbiterato: la tonsura, poi i diversi ordini minori (ostiariato e lettorato, esorcistato e accolitato) e poi il suddiaconato (creava un po’ di ansia con il celebre passo dell’accettazione del celibato: il vescovo ordinante nella liturgia ad un certo momento chiedeva se si accettava la castità perfetta per tutta la vita e allora diceva: “Si vis, huc accede” e gli ordinandi facevano un passo avanti; lo feci senza timore, direi con sicurezza), poi il diaconato. Tutti gli ordini mi furono conferiti nella cappella del seminario romano o nella basilica di S. Giovanni in Laterano a seconda delle opportunità celebrative. L’ordinazione presbiterale invece la si faceva ciascuno nella propria diocesi in genere nel sabato “Sitientes”, cioè nella quarta settimana di quaresima. Fui ordinato dall’arcivescovo Perini il 22 marzo 1958 nella Messa d’orario delle 7 del mattino nella cappella del seminario, la domenica Messa solenne a Piane di Falerone. Don Vincenzo Cappella, viceparroco a Corridonia, con cui c’era una lontana parentela, mi fece dono del canto con la presenza della sua schola cantorum. I miei e il parroco, don Elio Jacopini, mi fecero festa in chiesa e prepararono il pranzo nella sala, ancora grezza, della casa parrocchiale. Il 24 Messa in seminario per i seminaristi; il 25 Messa a Loreto in santa casa e pranzo a casa di don Elia, mio primo parroco. Qualche giorno dopo tornai al seminario romano per la chiusura dell’anno accademico e per fare la licenza in teologia, che fu buona, ma non proprio brillante.

A rivedere i quattro anni alla Lateranense alla luce del cambiamento che è venuto poco dopo con l’elezione di Giovanni XXIII nel 58 e la parola d’ordine “aggiornamento”, mi accorgo che furono anni non dico sprecati, ma di poco interesse! Non ci fu dato l’amore alla teologia e alla ricerca, dovemmo conquistarcelo da soli; il punto fermo era attaccamento alla Chiesa e al suo magistero, che non ci mancava, ma staccato dalle esigenze della vita della Chiesa e della gente.

La conclusione di questa impostazione di vita in seminario e di studio all’università fu che, finita la teologia, non mantenni rapporti con nessuno, né con i superiori del seminario né con i professori della Lateranense. C’era più stimolo con alcuni compagni di seminario (Cerrato, Corso, Roncoroni) che con superiori e insegnanti.

\\\ 1958-1962 gli anni degli studi biblici.

Fatta la licenza in teologia alla Lateranense in luglio tornai in diocesi. Non ho ricordi precisi, andai ad ossequiare l’arcivescovo Perini, il vicario mons. Vagnoni, incontrai qualche professore del seminario, ma il mio rapporto era col rettore del seminario mons. Cardenà. Ci ritrovammo con i compagni di classe, che erano stati ordinati in giugno: decidemmo di ritrovarci in un giorno di giugno tutti gli anni (cosa che abbiamo fatto sempre fino ad oggi) e di dire l’ora sesta del breviario per noi, ricordandoci vicendevolmente.

Un giorno mi chiamò Mons. Cardenà e mi disse: la borsa di studio del seminario pio è per cinque anni, hai ancora un armo; vuoi fare un anno al seminario romano e al Laterano per avviare la tesi in teologia o vuoi andare il Biblico? Se vai al Biblico potrai stare al seminario romano ancora per un anno, ma poi per il secondo anno dovrai arrangiarti trovandoti una parrocchia di Roma che ti ospiti e ti permetta di studiare perché la diocesi non ti può pagare la permanenza in un collegio. Scelsi la seconda e anche i miei di casa mi lasciarono piena libertà. In settembre andai a fare l’iscrizione al Biblico, feci l’esame di ammissione di greco e di ebraico, che ho dovuto riprendere per conto mio, ma andavo poco al di là della semplice lettura! Comunque fui ammesso e in ottobre cominciai il Biblico.

Ottobre fu anche il mese dei grandi cambiamenti nella Chiesa. Il 9 ottobre morì Pio XII. Era il nostro papa, il papa del grande magistero. La sua figura ieratica ci affascinava, noi seminaristi del Romano, tenuti lontano dai veri problemi della Chiesa e ignari dei maneggi di curia, eravamo un tutt’uno col papa, quando andavamo a S. Pietro a gridare: viva il papa! Il 28 ottobre, quando venne la fumata bianca dal conclave, il solito gruppetto di amici eravamo a Piazza S. Pietro per sentire dalla viva voce il nome del nuovo papa. Il card. Canali dalla grande loggia della basilica annunciò: “Gaudium magnum! Habemus papam: Angelum S. R. E. cardinalem Roncalli”. Rimanemmo di stucco, sconsolati. Non pensavamo proprio a Roncalli. Lo conoscevamo di quella conoscenza superficiale tipica dei seminaristi, che si lasciano guidare dalle apparenze. Il cardinale di Venezia, anche lui del Romano, veniva ogni tanto al seminario, si fermava a pranzo e dopo pranzo gli piaceva fermarsi con i seminaristi che gli si facevano attorno volentieri. Domandava a quelli che stavano più vicini a lui di dove fossero e alla risposta aveva sempre da dire qualcosa o sulla località e su persone che conosceva di quel luogo e quando dopo un po’ i seminaristi cominciavano ad allontanarsi e rimanevano pochi chiudeva con qualche parola di esortazione e diceva: “ho capito, è ora che me ne vada anch’io!” Lo stimavamo un buon padre, vescovo e pastore alla buona perché conoscevamo poco o niente della sua vita. Dinanzi alla figura maestosa di Pio XII, per noi non era personalità irrilevante. Da qui la nostra delusione per l’elezione di Giovanni XXIII. Aveva 78 anni e ci dicemmo subito: un papa di transizione. Una prima sorpresa venne quando cominciò ad uscire dal Vaticano, ad andare nelle parrocchie di Roma perché diceva: io sono vescovo di Roma e un vescovo deve fare la visita pastorale al suo popolo; ma soprattutto quando dopo appena tre mesi dall’elezione, andò a S. Paolo per concludervi la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani e dette l’annuncio, da tutti assolutamente inaspettato, che voleva fere un sinodo per la diocesi di Roma, la revisione del Codice di Diritto Canonico e un concilio della Chiesa cattolica. Fu sorpresa, attesa e grande trepidazione. Sorpresa perché nessuno, almeno in Italia, pensava ad un concilio universale, anzi alcune scuole teologiche dicevano che dopo il Vaticano I, che aveva proclamato l’infallibilità del papa, non c’era più bisogno di un concilio, bastava il magistero del pontefice; attesa, perché non si sapeva che cosa ne poteva venire e ci si aspettava molto; trepidazione perché si temeva per un concilio rapido che sancisse solo tutte le direttive teologiche e pastorali di Roma. Emersero subito, infatti, (per usare termini di un linguaggio non proprio adatto, ma espressivo) correnti conservatrici e progressiste.

Cominciai il Biblico. Stavo al seminario romano, come preti eravamo liberi, stavamo in alcune vecchie stanze del corridoio vicino alla cappella, eravamo Corso, De Lillo, io e c’erano don Nicoletti e mi pare anche don Molari e qualcun altro che non ricordo. Si poteva uscire quando volevamo.

Mi prendeva molto lo studio: le lingue semitiche ebraico ed aramaico, e poi greco, storia e geografia biblica, e naturalmente esegesi: per l’AT p. Moran tenne un corso su l’esodo e l’alleanza, per il NT p. Zerwick sui vangeli dell’infanzia. Tra i compagni di corso ricordo Cortese, Ghiberti, Barbaglio, Ghidelli, Pettinato. Tutti nomi che poi, in un campo o nell’altro sono emersi negli studi biblci in Italia, ma ci interessavamo anche di vita attiva e particolarmente dei lavori delle commissioni preparatorie per il concilio.

Per la pastorale mi dissero di andare alla parrocchia di S. Ignazio d’Antiochia sull’Appia nuova, alla periferia sud di Roma, costituita di recente nel quartiere “Statuario”. Andavo alla domenica mattina, c’era una buona comunicazione da S. Giovanni in Laterano alla parrocchia col trenino delle Capannelle, che mi lasciava proprio dinanzi a S. Ignazio. Il parroco don Giovanni Scorza mi accolse benevolmente, mi faceva celebrare una Messa e predicare, confessare e un po’ di attività coi chierichetti e i ragazzi del catechismo secondo il metodo del “centro oratori” del Vicariato di Roma, fondato e diretto dal com. Canapa. La canonica era curata dalla mamma vedova Raffaella e dalla sorella signorina Caterina, che mi accolsero con molta simpatia e mi fecero sentire a mio agio. Dopo pranzo tornavo in seminario per studiare.

Alla fine dell’anno andai per due mesi in Inghilterra con l’intento di imparare l’inglese. Come compagni al Laterano avevo avuto studenti inglesi del collegio rosminiano, che stava a S. Giovanni a Porta latina. Avevo fatto amicizia con John Moss e Denis Cleary e chiesi loro se mi potevano ospitare. Non avevo possibilità di pagarmi un soggiorno londinese e tanto meno una scuola d’inglese. Furono molto gentili e così andai da loro nel Galles a Cardiff. E’ stato un bel soggiorno, ma tutti loro parlavano bene l’italiano perché erano stati studenti a Roma, per cui anch’io, nonostante cercassi di dire qualche parola in inglese, mi ritrovai a parlare italiano. Così per la lingua il soggiorno non fu produttivo! Passai l’ultima settimana a Londra, sempre presso i rosminiani, e potei visitare la città e specialmente il British Museum, di cui ammirai le sezioni orientale e greca.

Al Biblico ogni anno bisognava fare un esame di lingua straniera all’inizio di ogni anno; feci quello di francese, di inglese e poi cominciai a studiare il tedesco da solo e chiesi per l’estate una borsa di studio al Goethe Institut, ma non me la concessero, scrissi allora al vicariato di Monaco di Baviera per andare presso qualche parrocchia per prestar servizio, sperando di fare qualche progresso nella lingua. Non potevo permettermi di pagarmi un corso di tedesco in Germania. Mi assegnarono la parrocchia di S. Jakob a Voetting nella periferia di Freising. Per fortuna la Messa era ancora in latino e non c’era difficoltà per la liturgia. Il parroco Mathias Gammel mi accolse generosamente e mi trovai bene, ma lui poi andò in vacanza e mi lasciò solo in parrocchia. Trovai tanta difficoltà con la lingua e fu uno strazio anche se conobbi alcune famiglie, che mi accoglievano volentieri: la famiglia del prof. Raum, la famiglia dell’ing. Then, quella numerosa del maestro Gleixner. A Freising c’era il seminario teologico della diocesi e conobbi il biblista prof. Sharbert, che mi fece omaggio di qualche sua pubblicazione. Il secondo anno ottenni la borsa di studio dal Goethe e frequentai due mesi i corsi base a Murnau nella bassa Baviera, ma mantenni i contatti con il parroco Gammel presso cui tomai altre volte e nel 1960 partecipai con lui al Congresso Eucaristico Internazionale di Monaco.

Nel secondo anno del Biblico1959-60 oltre i corsi di ebraico 2 e greco 2, come seconda lingua semitica scelsi siriaco e poi i corsi di esegesi: sui Salmi (p. Vogt) e la lettera ai Romani (p. Lyonnet). Era stato chiamato al Biblico un professore nuovo p. Luis Alonso Schoekel, che tenne un corso libero “Lectio cursiva di ebraico”. Ci scrivemmo in molti. Lui leggeva il testo ebraico come si legge un qualsiasi testo in prosa o poesia nella propria lingua. Rimanemmo stupiti tutti e capimmo come fosse lontano il corso ufficiale di ebraico, tenuto dal p. Boccaccio, che ci faceva conoscere grammatica e sintassi, ma non ci dava il gusto della lingua e della lettura del testo, le conseguenze me le son portate poi sempre dietro.

Il secondo anno fu un anno duro, molto duro. Finita la borsa di studio al romano, bisognava trovare una parrocchia. Evidentemente chiesi ospitalità al parroco di S. Ignazio d’Antiochia, che mi disse subito di sì. Per andare al Biblico dovevo prendere due mezzi: dallo Statuario a S. Giovanni o a Termini col tram e poi o l’87 da S. Giovanni o il 64 da Termini per andare a piazza Venezia, che sta a due passi dalla Gregoriana e dal Biblico. In parrocchia era ospite già un prete indiano di Goa don Blasco Collaco, che stava frequentando scienze sociali alla Pro Deo. Con il parroco facemmo un programma: la mattina libera per tutt’e due per seguire i corsi all’università, il pomeriggio impegnati alternativamente, io e don Blasco, con l’oratorio, inoltre don Blasco seguiva il gruppo giovani ed io il gruppo ragazzi; la domenica mattina una Messa, confessioni e catechismo. Tutte le mattine dicevo Messa presso le suore Elisabettine alle 6.30, fatta colazione alle 7,20 prendevo il tram per Roma; arrivavo trafelato per le 8.15 al Biblico! Quei 45-50 minuti sui mezzi pubblici mi servivano per leggere! Alla fine dell’anno, tra tanti sacrifici, notti insonni e tante lacune, feci la licenza!

Mi iscrissi al terzo anno nel 60-61 senza avere la prospettiva di fare la tesi di dottorato, feci comunque tutti gli esami; mi iscrissi anche al quinto anno di teologia al Laterano, con l’idea di fare le tesi, feci tutti gli esami, ma, una volta tornato in diocesi, non sono mai riuscito a concludere. Intanto era scoppiato lo scontro tra il Laterano e il Biblico. Alcuni proff. del Laterano, Spadafora (che aveva sostituito Garofalo e Garcia), Lattanzi e Romeo attaccarono il Biblico accusandolo di progressismo e di eterodossia, specialmente i proff. Lyonnet e Zerwick. Lyonnet per l’esegesi della lettera ai Romani di 5,12 quasi riducesse il peccato originale ai peccati dei singoli e Zerwick che, applicando, secondo la DAS, i generi letterari ai racconti di Luca e Matteo 1-2, negasse la storicità dei racconti dell’infanzia. Circolavano ciclostilati con accuse e risposte, che noi studenti ci passavamo l’un l’altro. Un tipo di letteratura di bassa lega, che risentiva degli scontri che ormai si facevano sentire tra le correnti preconciliari. Noi parteggiavamo evidentemente per i nostri professori e rimanemmo male quando ai proff. Zerwick e Lyonnet fu tolto l’insegnamento. Accusavamo d’ignoranza e prepotenza il Laterano e il conservatorismo della facoltà teologiche romane e delle Congregazioni della Santa Sede.

\\\ 1961-62 l’anno più bello dei miei studi.

Tornato in diocesi chiesi prima al rettore mons. Cardenà e poi al vescovo mons. Perini se mi permettevano di andare un anno in Palestina. Al Biblico a Roma avevo saputo che lo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme accettava studenti a condizioni molto favoreroli: ‘Missa pro mensa’. Scrivemmo, io, Barbaglio, Cortese e le domande furono accettate. L’Arcivescovo Perini e mons. Cardenà acconsentirono, anche perché la diocesi non doveva fare spese. I miei genitori e i miei fratelli furono contenti. Durante l’estate misi da parte dei soldini, ebbi qualche offerta e così programmai la partenza via mare: Napoli-Cairo-Beirut. Nel programmare il viaggio m’incontrai presso la Custodia di Terra Santa con un teologo francescano tedesco ofm, di cui non ricordo il nome, che andava in Terra Santa allo Studium e organizzammo il viaggio. Le tappe erano sempre presso i conventi francescani della Custodia. Questo mi evitava tutte le spese di permanenza. Debbo immensa gratitudine alla Custodia, che mi ha dato tante possibilità di visite e di studio.

Sbarcammo ad Alessandria e facemmo breve sosta perché la città non offriva molto e avevamo i giorni contati. Andammo al Cairo, ospiti dei francescani: visita alle piramidi di Saqqara, di Ghiza, al Museo e anche alla parte islamica. L’antico Egitto ci si rivelò nel suo splendore: un mondo, una cultura, una meraviglia. Dal Cairo con il treno andammo ad Assuan: una notte di viaggio insieme ai fellahim, arrivammo al mattino pieni di sabbia (!). Visite: al lago e dintorni, a File. Non andammo ad Abu Simbel per mancanza di tempo e denaro, tornammo ad Alessandria.

Da Alessandria a Beirut con la stessa nave, ospiti sempre dai francescani: visita ai cedri, a Ugarit e a Baalbeck. Poi da Beirut a Damasco: visita al museo, ai luoghi paolini e poi andammo ad Aleppo. Da Damasco raggiungemmo Gerusalemme, e fummo ospitati allo Studium Biblicum Franciscanum. Qui ritrovai don Enzo Cortese e don Giuseppe Barbaglio

Ottobre 61-Maggio 62 un anno straordinario. Il rettore della casa era p. Donato Baldi, conosciuto per il celebre atlante biblico e per altri studi, ma ormai anziano non insegnava più. I professori erano tutti francescani: p. Psaller per archeologia, il giovane p. Guido Lombardi per geografia e le escursioni esplorative, p. Bagatti per archeologia del NT e Gerusalemme, p. Spjikermann per numismatica antica, p. Pax per esegesi del NT, p. Emanuele Testa per esegesi AT. Eravamo pochi studenti: alcuni pp. francescani, che avevano fatto teologia a Gerusalemme a S. Salvatore, tra cui p. Stanislao Loffreda, mio conterraneo perché originario della valle del Tronto, due pp. benedettini spagnoli del monastero di Montserrat e noi tre preti provenienti dal PIB, in tutti una quindicina.

Al mattino si andava a lezione, nel pomeriggio si studiava con libertà approfittando della biblioteca che si andava formando allora, si faceva vita conventuale, studenti e professori. I proff. più vicini erano quelli italiani, come p. Guido con cui organizzavamo le escursioni, p. Emanuele sempre faceto e divertente nel suo modo di parlare carico di battute, barzellette e osservazioni acute. A dire il vero non è che le lezioni ci entusiasmassero molto e quando potevamo approfittavamo per andare all’Ecole Biblique a sentire le lezioni di De Vaux, Benoit, anche se il direttore p. Baldi non voleva. P.E. Testa stava stampando la sua tesi di laurea “Il simbolismo giudeo-cristiano” e ci teneva lezione sull’argomento, ma era talmente confusionario che non ci faceva gustare la tematica, che pure era importante. Mentre i domenicani dell’Ecole Biblique avevano curato l’archeologia dell’AT e di Qumran, i francescani quella del NT e quella legata ai santuari, che per lo più erano affidati alle loro cure. I momenti più belli erano le escursioni con p. Guido. Abbiamo così imparato a conoscere la Giudea, la Samaria, la vallata del Giordano e la Giordania sempre con la Bibbia in mano.

La divisione della Terra Santa in due tra Israele e Giordania non ci permetteva di andare liberamente nella Galilea, la pianura di Sharon e il Negev; rimasero fuori così le zone archeologiche di Meghiddo e Bet-shean, Hazor, il Carmelo. La Gerusalemme storica, quella entro le mura di Solimano, era in mano giordana e quindi eravamo liberi di visitarla.

Noi studenti non francescani eravamo avidi di visite perché sapevamo che poi non avremmo avuto più occasioni. Così noi cinque: io, Barbaglio, Cortese, i due pp. benedettini Basilio Girbau e Antonio Figueras decidemmo di partire per visitare la Mesopotamia e la Persia. Organizzammo il viaggio scrivendo prima alle case religiose dei diversi luoghi, Bagdad, Mosul, Teheran per avere ospitalità e quindi in marzo del 62 partimmo servendoci dei mezzi pubblici. A Bagdad fummo ospiti in un grande collegio dei pp. gesuiti, a Mosul dei pp. Francescani, a Teheran dei salesiani. Visitammo il museo di Bagdad e i siti archeologici della cultura sumera, accadica, assira, neobabilonese, persiana: Ur, Warka, Larsa, Nippur, Aqarquf, Ninive, Korsobad ecc, e poi in Persia: Tchoga Zambil, Persepoli, Beishtum ecc. Furono quattro settimane stupende, che solo una certa spregiudicatezza giovanile ci permise di affrontare senza far conto di difficoltà e rischi.

Con maggio finiva la nostra permanenza presso lo Sudium Biblicum Franciscanum a Gerusalemme e per il ritorno noi tre italiani, Barbaglio, Cortese ed io decidemmo di far ritorno in Italia attraverso Siria, Turchia, Grecia. Ci organizzammo con lo stesso metodo: mezzi pubblici e ospitalità presso le case religiose, dove era possibile. Facemmo: Gerusalemme-Amman-Damasco. In Siria oltre Damasco e il suo museo visitammo: Mahalula e poi Paimira e lungo l’Eufrate: Mari, Deir ez-Zor e poi Aleppo e qui, le città morte a Qalaat-Sheman (cioè S. Simone stilita); andammo poi sul mare e visitammo Lataqie, Ugarit. Passmmo poi in Turchia e visitammo Antiochia, Tarso e poi andando verso Ankara ci fermammo alla capitale degli Hittiti: a Hattusha (Bagaskoej). Da Ankara in Cappadocia e poi sul Mediterraneo: Laodicea, Efeso. Mileto, Pergamo e arrivammo ad Istanbul. Dalla Turchia passammo in Grecia e visitammo i luoghi paolini: Filippi, Tessalonica, Berea; passammo alle Meteore, Delfi e ad Atene, Corinto. Ormai verso la fine del ritorno, passammo per Olimpia, ci imbarcammo a Patrasso e da qui a Brindisi. E con il treno prendemmo la via di casa.

Quando arrivai a Porto S. Giorgio c’era ad aspettarmi mio fratello Umberto. Appena mi vide, mi disse: “sei più nero di un africano!” In lambretta tornammo a casa a Piane di Falerone e finì l’anno più intenso e diverso dei miei studi.

\\\ 1962-68. I primi sei anni di prete in diocesi.

Furono anni di impegni vari in diversi campi piuttosto disparati. Mia residenza fu il seminario, dove sono rimasto fino ad oggi e forse vi rimarrò ormai fino agli ultimi giorni della mia vita. Elenco i diversi impegni:

.a). Impegni pastorali. Quasi subito mi fu assegnata la celebrazione dell’eucaristia al mattino alle ore sette presso il collegio “Matteo Mattei”; sostituendo don Armando Marziali. C’erano allora le suore della carità di S. Vincenzo. Qui conobbi Dolores Dolomiti che era portiera e sacrista, mi preparava il necessario per la celebrazione e dopo la Messa nella sala attigua alla portineria mi serviva la colazione; fu nominata anche applicata di segreteria presso l’amministrazione del collegio e quando fu chiuso, il “Matteo Mattei”, in quanto IPAB, passò in proprietà al Comune di Fermo, di conseguenza Dolores fu assunta come impiegata nell’amministrazione comunale. Dolores aveva come padre spirituale don Damiano Ferrini. Quando questi partì per il Brasile, me l’affidò. Nacque un’amicizia schietta, un affetto chiaro, venne in pellegrinaggio con me in Terra Santa, mi fece tanti lavoretti, curò la mia biancheria, venne a casa dei miei e divenne come una di famiglia. Quando partivo per i diversi pellegrinaggi o gite con gruppi dell’Opera Romana veniva spesso anche lei con me e mi faceva da segretaria. Quando divenni preside dell’ITM-ISSR la chiamai come addetta di segreteria e fece un ottimo lavoro di organizzazione e soprattutto instaurò contatti cordiali con tutti, professori e studenti, seminaristi e laici, creando un bel clima di relazioni cordiali e familiari. Faceva parte dell’UNITALSI e fu nominata anche segretaria dell’associazione. Due impegni significativi, fatti con senso di grande responsabilità e di servizio gratuito.

Mons. Vagnoni, vicario generale, per la domenica mi chiese di andare a Pedaso per aiutare don Attilio Mira, una figura simpatica, tradizionale, di prete. Fra l’altro, non ricordo perché e come, era amico di mons. Tondini, direttore delle lettere latine in segreteria di Stato in Vaticano, che veniva a passare qualche giorno di vacanza a casa di don Attilio, dove conobbe don Tommaso Mariucci jr., che s’era laureato da pochi anni in lettere classiche alla Cattolica di Milano e nel momento professore in seminario, e se lo portò a Roma. A Pedaso fu mandato un cappellano e l’anno seguente mi mandarono ad aiutare alla domenica don Angelo Panicciari all’Istituto S. Stefano di Porto Potenza Picena. L’amicizia di don Angelo mi fu cara e mi aiutò molto a superare un momento di crisi. A Porto Potenza feci amicizia anche con il parroco don Mauro Carassai perché mi chiamò a dire una Messa d’orario nella chiesa nuova e gli suggerii il tema del grande mosaico che fece realizzare nell’abside. Risolta la presenza di un altro prete al S. Stefano, fui mandato, sempre al sabato sera e domenica, a Casette d’Ete con il parroco don Primo Livi, gran pasticcione, ma di animo buono e grande. Ultimo impegno domenicale fu quello di Porto Civitanova nella parrocchia di Cristo Re con don Eliseo Scorolli, che aveva realizzato, su fondamenta precedenti, la chiesa nuova e la stava arricchendo di vetrate, lo aiutai insieme con don Raffaele Canali, ad esprimere tutta la storia della salvezza nelle vetrate, che affidò però ad un principiante, più fumettista che artista; belle invece quelle del timpano affidate all’artista Luchetti di Macerata.

.b. Impegno primario fu l’insegnamento. Il prefetto degli studi era mons. Orlando Perfetti, ma di fatto faceva tutto il rettore mons. Cardenà. Questi mi assegnò alcuni dei suoi insegnamenti nel primo anno di teologia: introduzione biblica generale, ebraico, greco biblico e i libri sapienziali nei corsi riuniti di teologia.

Erano gli anni del concilio e seguivo svolgimento, dibattiti e crisi attraverso articoli e resoconti di Raniero La Valle su L’Avvenire d’Italia e con don Romolo Illuminati, coetaneo e prof. di Storia della Chiesa, ci si accalorava sulle innovazioni e le aperture che il concilio portava: era lo scontro tra tradizionalisti e progressisti. Quando andavo a Roma incontravo don Alberto Roncoroni, che frequentava Liturgia a S. Anselmo e mi introdusse presso il prof. Tommaso Federici, laico prof. a S. Anselmo, amico di Vagaggini e di Marsili, tra i teologi e liturgisti più noti e significativi in Italia. Federici mi indirizzava sulla bibliografia più innovativa, soprattutto francese, in campo biblico, liturgico e teologico. Fu una relazione, un’amicizia bella ed arricchente. A Fermo invece lo scambio teologico e culturale era pressoché inesistente; al di là di qualche scambio d’idee con don Illuminati per il resto era silenzio, sembrava che il concilio non interessasse! Don Bonifazi era affaccendato in altre cose. Del resto l’arcivescovo Perini non ci diceva niente; non era contento dell’andamento del concilio perché s’aspettava trattazioni teologiche, documenti che dovessero concludersi con la proclamazione delle verità di fede e l’anatema per chi non le accettava, come nei precedenti concili o indicazioni pastorali precise sul catechismo o altri campi; il vescovo ausiliare, mons. Michetti, parlava ammirato della grande assise conciliare, ma non si esponeva sulle tematiche controverse e tantomeno sugli scontri tra progressisti e tradizionalisti. Nel 1963 morì papa Giovanni XXIII e gli succedette papa Montini col nome di Paolo VI. Fu il timoniere del concilio sulle strade nuove che si erano aperte, del resto era un buon conoscitore della teologia francese e di Maritain. Dette libertà ai padri conciliari anche se si riservò alcuni temi scottanti, come quelli sulla vita del clero.

Gli anni 62-68 (ma anche gli anni 70) furono belli e disgraziati insieme per il mio insegnamento. Mancavano insegnanti in teologia ed erano gli anni dell’innovazione. Don Bonifazi diceva di star poco bene, intanto si andava laureando in filosofia ad Urbino, don Giorgio Cupidio doveva finire la laurea in lettere classiche a Firenze. All’inizio di ogni anno, veniva mons. Cardenà e mi diceva: nessuno vuol far scuola, vedi di prendere questo corso! In quegli anni mi fecero fare di tutto: oltre alle discipline assegnatemi, mi fecero insegnare teologia fondamentale e teologia della rivelazione, storia della salvezza, ecclesiologia, storia e teologia delle religioni, storia del movimento ecumenico e quasi non bastasse insegnai anche latino e greco in ginnasio e liceo. Si stava facendo la pratica ministeriale della parificazione del nostro liceo interno: Bonifazi, che nel frattempo si era laureato in filosofia ad Urbino e aveva fatto l’abilitazione, non volle accettare di fare il preside e fu chiamato un laico in pensione, il prof. Scattolini. Io mi ero iscritto alla facoltà di lettere classiche a Bologna, avevo fatto alcuni esami tra cui quello di greco (il noto prof. Del Grande mi fece portare, invece degli autori classici, tutto il NT: per greco 1 i vangeli e per greco 2 S. Paolo), dovetti prendere, fino alla venuta di don Cupidio, greco e latino nel liceo interno. Che dire? Feci il tappabuchi in tutto e non combinai nulla: non ho fatto la tesi in teologia, né mi son laureato in lettere anche se mi mancavano solo due esami!

In questi stessi anni ebbi anche l’insegnamento di religione al liceo classico A. Caro di Fermo. Don Armando Marziali, che stava realizzando l’opera di Villa Nazareth, convinse don Savino Ciccioli, direttore dell’Ufficio Catechistico Diocesano, a accettare le sue dimissioni e convinse me a prendere le 9 ore di religione. Mi trovai bene con colleghi come i proff. Tulli, Tosco, Valentini ed altri, ma sperimentai quanto fosse difficile insegnare religione con giovani che spesso erano contro la Chiesa per tradizione familiare o che già respiravano l’aria di un’iniziale contestazione. Cercai di portare gli aspetti nuovi del concilio su la Bibbia, l’ecclesiologia, la libertà religiosa e altro, ma mi scontrai con un muro di gomma, che respingeva tutto. I ragazzi mi apprezzavano, ma non riuscivo a coinvolgerli nei grandi temi, con una classe fu un insuccesso completo. Mantenni una certa amicizia e oggi me li son ritrovati professionisti nei diversi campi, soprattutto in medicina.

Un’altra attività di questi anni, dal 66 al 70, furono gli incontri zonali col clero sui grandi temi del concilio. Mons. Perini (o forse meglio mons. Michetti) volle far conoscere il concilio in diocesi, ma più che farlo direttamente, del resto era già anziano, affidò il compito all’ausiliare, che cooptò me e don Rolando Di Mattia. Mons. Michetti mi fece parlare sui documenti principali, mi dovetti leggere commenti ed articoli e affrontare costituzioni, decreti e dichiarazioni: Dei Verbum, Lumen Gentium, Sacrosantum Concilium, Gaudium et Spes, ma anche Dignitatis Humanae e Nostrae AEtatis , io esponevo e poi lui guidava il dialogo. Che delusione quando vedevo incapacità di percepire la novità e a volte disinteresse e discussioni accese. Invece quando si arrivava a trattare temi come la verità della Bibbia, il carattere sapienziale di Gn 1-11, i preti anziani, come don Lorenzetti, don Verdini, che io stimavo per la loro attività, mi facevano accuse di eterodossia. Per fortuna che mons. Michetti mi difendeva! Fu in questi anni che conobbi don Rolando Di Mattia, di cui apprezzai la cultura, l’apertura ai temi conciliari, la forza di lavoro. Sono rimasto legato a lui per sempre con profonda amicizia, anche se aveva venti anni più di me.

\\\ 1968-72 quattro anni come assistente dei seminaristi teologi (o vicerettore).

Furono anni difficili. La contestazione giovanile, iniziata in USA, da Parigi e dall’Europa era passata in Italia e se ne respirava l’aria anche in seminario. L’impostazione educativa tradizionale, pietà, disciplina, studio, controllata con una forte struttura interna non reggeva più. Il rettore mons. Cardenà faceva fatica, i giovani teologi scalpitavano, volevano fiducia, libertà. Contestavano a scuola i professori, arrivarono a contestare apertamente il vescovo di Ascoli mons. Morgante, che insegnava, mi pare, diritto canonico.

Da più parti si chiedeva un cambiamento, e mons. Arcivescovo Perini convocò in maggio o giugno 68 una riunione di superiori e insegnanti. Sentì i pareri di tutti, ascoltò qualche consiglio e a un certo momento don Romolo Illuminati disse: “io vedrei bene tra i teologi don Miola, come educatore”. Tutti annuirono, si sentirono liberati da un peso, che videro volentieri gettato sulle mie spalle! D’accordo il vescovo e tutti i presenti. Nel liceo classico <A. Caro> prese l’insegnamento di Religione Cattolica don Romolo Illuminati. Fece bene; pian piano ebbe la cattedra completa di 18 ore e l’ha mantenuta fino al pensionamento, cioè fino al 2004. Si dedicò solo all’insegnamento e non accettò mai altri impegni né in ITM-ISSR né in diocesi.

Lasciata la scuola di religione, mi trasferii in ima cameretta al reparto dei teologi, presi lo studiolo all’angolo del secondo piano dove c’erano da una parte alcune camerette degli studenti e dall’altra il corridoio e le aule di ricreazione; le aule di teologia stavano al primo piano.

Cominciai con loro l’anno 68-69. Il seminario teologico contava una trentacinquina di studenti, composto dai seminaristi di Fermo e di Ascoli Piceno, perché mons. Morgante, per scarsità di alunni, aveva mandato i teologi al seminario di Fermo. Lui, compagno di studi di mons. Cardenà al seminario pio-romano, controllava la situazione venendo da Ascoli una volta la settimana per tenere un corso in teologia. Aveva lasciato l’insegnamento in quell’anno dopo la contestazione che aveva avuto in classe. A scuola venivano anche i teologi della congregazione dei Figli dell’Amore Misericordioso, circa una quindicina, italiani e spagnoli.

Al seminario minore della media era stato già chiamato come rettore don Giuseppe Trastulli, al liceo furono posti come assistenti non più dei teologi, ma dei preti: don Armando Marziali, don Valentino Lauri, che era anche professore di matematica; poi don Remo Agostini e poi don Vittorio Rossi, con i quali collaboravo; ma il mio compito specifico era quello di seguire i teologi, Mons. Cardenà era il rettore generale.

Non feci programmi, mi proposi di condividere la vita con loro e di ascoltarli molto. La cosiddetta pedagogia del tempo parlava di educazione in piccoli gruppi di condivisione e lasciai che si organizzassero in gruppi tra di loro; si parlava di iniziare i teologi all’attività pastorale e furono mandati alla domenica in parrocchia; cercai di stimolarli allo studio intenso e personale della teologia, ma fu cosa per pochi, la maggior parte non andava al di là delle lezioni. S’era in tempo di riforma liturgica, sfrondammo tante devozioncelle e centrammo tutto sulla liturgia eucaristica, la meditazione della parola, la liturgia delle ore, lodi al mattino con uno spazio di meditazione e vespro alla sera. La Messa per lo più fu celebrata alla sera e dopo le letture io tenevo quasi sempre l’omelia o si lasciava spazio di riflessione. Gli esercizi spirituali e i ritiri si andava a farli fuori sede invitando qualche prete diocesano o esterno come guida. La figura del padre spirituale ne rimase ridimensionata, per fortuna c’era quel sant’uomo di don Marcello Manfroni, che rimase punto fermo di riferimento per diversi giovani; altri erano più legati a don Armando Marziali, che andavano a trovare a Villa Nazareth.

Si sentiva un’attesa quasi spasmodica dell’estate come tempo d’esperienza, col pretesto di presenza e conoscenza dei problemi del mondo, si voleva lavorare per guadagnare ed essere autonomi dalle famiglie e per condividere il lavoro con altri giovani. Fu così che organizzammo per le vacanze periodi di lavoro e lo trovammo per due-tre armi in luglio e agosto all’AIA di Verona, una grande azienda per la lavorazione del pollame: ospiti in una cascina, messa a disposizione da un medico, si andava a lavorare in azienda per otto ore mattino e pomeriggio, si prendevano i pasti alla mensa comune, alla sera dopo il lavoro ci si ritrovava in cascina, ma la vita era dura e si sentiva la voglia di evadere. La domenica, celebrata l’Eucaristia, uscivano in gruppetti tra di loro e con giovani e ragazze, amici nuovi fatti in azienda. Alla sera era difficile ritrovarsi per fare sintesi della settimana o della giornata. L’esperienza non fu negativa, ma si capì che non poteva essere la normalità dell’esperienza estiva di teologi.

Questa libertà era sentita come positiva. Mons. Cardenà ne soffriva e me lo disse apertamente. L’arcivescovo Perini, nonostante le critiche che sentiva mi lasciò fare e mi dette fiducia. Era evidente che molti teologi in questo clima furono rafforzati e maturarono una vocazione più sentita, diversi ne furono travolti. Sentivo che s’era perso l’amore al seminario come luogo di formazione, anche perché si parlava e si scriveva di altri metodi di formazione al sacerdozio. Si facevano le ipotesi più varie: si diceva di preparare i teologi a gruppi presso i preti stando nelle parrocchie, si parlò del seminario della cattedrale come era prima di Trento! In questa babele di ipotesi era difficile convincerli della necessità della struttura del seminario. Qualcuno mi diceva: “vedrai che l’anno prossimo dei liceali, fatta la maturità, nessuno verrà in teologia” e di fatto fu così; altri dicevano: “io non dirò mai a ragazzi di venire in seminario, il seminario è finito!”

L’arcivescovo Perini intanto aveva presentato le dimissioni e nel settembre del 70 giunse come amministratore apostolico, a sede piena, mons. Cleto Bellucci. Di origine anconetana, era stato vicerettore del seminario regionale di Fano, dove aveva studiato, poi per lunghi anni rettore del seminario regionale abruzzese di Chieti, poi vescovo ausiliare di Taranto con sede a Castellaneta. Per i problemi del seminario e dell’impostazione educativa dei teologi ci fu sintonia, mi capì e mi sostenne.

\\\ 1972-77 per cinque anni rettore del seminario.

Mons. Bellucci si trovò ad affrontare la crisi del seminario o dei seminari. L’arcivescovo volle che facessi il rettore e nominò il rettore, mons. Cardenà, vicario generale.

Per il seminario formò un’equipe: me, rettore generale, ma mi occupavo della teologia; don Trastulli rettore della media; nel ginnasio c’era don Armando Monaldi, che era professore di francese, nel liceo don Vittorio Rossi, poi venne don Angelo Fagiani. Ogni settimana, in un mattino libero per tutti dalla scuola o da altri impegni, ci si riuniva, si affrontavano i problemi del seminario, collaboravamo con l’animatore vocazionale dei pp. della Consolata, p. Bonomi, che sembrava avere in tasca la panacea per risolvere ogni crisi.

Organizzammo incontri con ragazzi di quarta-quinta elementare e le parrocchie a turno alla domenica ne mandavano tanti. I teologi li intrattenevano con incontri al mattino, li preparavano alla Messa, dopo pranzo li guidavano nella ricreazione e nel pomeriggio facevano un trattenimento in teatro con canti e piccoli sketsh e si chiudeva la giornata. Era un lavoro faticoso, ma ci si impegnava nella speranza di avere frutti e invece vedevamo che ogni anno calavano le entrate dei ragazzi nella media, che era stata parificata e ben organizzata, ma d’altra parte la media, dopo l’introduzione dell’obbligo, ormai stava in tutti i paesi. Il vecchio criterio per cui si accoglievano in seminario molti ragazzi e poi nel corso degli anni avveniva la selezione verso la teologia e il presbiterato era finito!

Vedevano più chiaro i giovani teologi che non noi superiori! Nel giro di quegli anni la scuola media finì; rimaneva il liceo parificato, aperto agli esterni, che man mano vedeva sempre più la prevalenza degli esterni, che dei seminaristi interni. Don Trastulli andò parroco alla pievania di Montegranaro, io rimasi con la teologia e alcuni ragazzi di liceo. La crisi era generale, erano stati chiusi i seminari minori nelle Marche e non solo, e tuttavia le critiche del clero, soprattutto anziano, erano feroci: io e i miei collaboratori eravamo gli affossatori del seminario! Mons. Bellucci era consapevole della crisi e non recepiva, per nostra fortuna, le critiche e ci sosteneva nello scoramento generale.

Per di più in quegli anni di crisi mons. Bellucci dovette affrontare la questione della permanenza del nostro seminario teologico. Il seminario regionale di Fano, finito il liceo, ridotto il numero dei teologi, si vide costretto ad abbandonare il grande edificio, proprietà della S. Sede, perché dispersivo e perché i seminari regionali erano passati alle dipendenze delle conferenze episcopali regionali, mentre il Vaticano reclamava la possibilità di vendere l’immobile. Ci furono grandi discussioni su dove portare il seminario regionale. La sede più appropriata sembrava Loreto perché era fuori da accaparramenti delle diverse diocesi marchigiane in quanto era prelatura a sé stante, ma i vescovi interessati non trovarono un accordo. Volevano che anche la diocesi di Fermo in quanto diocesi più grande in regione aderisse all’unificazione in un solo seminario maggiore, ma mons. Bellucci sostenuto dai superiori del seminario e dal clero diocesano non aderì.  Giustamente disse: il seminario maggiore con il suo corpo docente è un bene grande per una diocesi, io ce l’ho e non vedo perché dovrei disfarmene. Aprì il seminario teologico diocesano ad accogliere teologi di altre diocesi, specialmente di vocazioni adulte e di seminaristi inviati dai rispettivi vescovi per motivi diversi e così ospitò teologi aquilani, teramani, pugliesi e andò avanti abbastanza bene. L’Istituto teologico era affiliato alla Pontificia Università Lateranense con i quattro anni di teologia e un quinto per poter fare il baccellierato.

Il seminario regionale trovò ospitalità in una villa a Montesicuro, se ricordo bene, stabilì i corsi teologici nel collegio dei saveriani in Ancona in zona Posatora, aperto anche ai religiosi; noi di Fermo collaborammo con qualche professore come Bonifazi, ci incontrammo diverse volte con i seminaristi, io feci amicizia con il rettore di allora don Delio Lucarelli (poi vescovo di Rieti).

Come rettore, dialogando con i giovani, continuai a proporre una buona liturgia: lodi e meditazione al mattino, vespro ed eucaristia con omelia alla sera; il rosario libero a gruppetti; incontri quindicinali o mensili di revisione comunitaria della vita di seminario, attività pastorale alla domenica in parrocchia, l’arcivescovo fu d’accordo per mandarli in parrocchia fin dal sabato pomeriggio; una certa libertà per uscire, avvisando il rettore. Un turno per le pulizie, oltre alle proprie stanze, anche dei corridoi e del refettorio. Esercizi spirituali di tre giorni all’inizio e prima della fine dell’anno e ritiri nei tempi liturgici forti e in altre occasioni. Il padre spirituale era sempre don Marcello, stimato per la sua pietà, ma ormai non teneva più le meditazioni, se non raramente. Fungeva anche da padre spirituale don Marziali, che i teologi andavano a trovare a Villa Nazareth. Ero fermo nel chiedere la presenza ai momenti comunitari, specialmente al mattino, mentre qualcuno rivendicava una ‘certa libertà’, ma non la consentivo per educarli alla precisione e alla correttezza verso gli altri.

La vita di comunità era imprescindibile per me, che venivo dalla disciplina del seminario romano, e mi dava fastidio vedere la fatica o meglio la trascuratezza dei teologi, almeno di alcuni. Negli anni settanta si parlava molto di vita di comunità, ma si guardava fuori, c’era una certa smania di andare a fare esperienze, che a me non piaceva, ma che dovevo tollerare. Fu così che l’arcivescovo Bellucci permise ad alcuni, finita la teologia, di andare un anno dai focolarini, se ben ricordo a Grottaferrata, e mi stupivo quando qualcuno, dopo quattro anni di teologia, al ritorno diceva: “adesso sì che ho imparato che cos’è il cristianesimo e la comunione!”

Tenevo allo studio e cercavo di farne capire l’importanza, spinsi mons. Bellucci a mandare giovani capaci a fare delle specializzazioni a Roma: mandò Giustozzi al Capranica e fece la Gregoriana; dopo la teologia a Fermo, fece laureare don Orazi in lettere classiche e lo mandò al Patristico e don Scarabotto prima e don Filippo Concetti dopo a fare liturgia a S. Anselmo. Petruzzi cominciò teologia dopo la laurea in lettere, ma poi andò al seminario lombardo a Roma e fece storia alla Gregoriana.

Con l’introduzione delle lingue popolari nella liturgia si sentiva la difficoltà di cantare il gregoriano; invece dell’organo si preferiva la chitarra! Convinsi il maestro don Celsi a musicare testi italiani e compose diverse parti per le celebrazioni in cattedrale, antifone della settimana santa ed altri testi, che ancor oggi piacciono e si cantano. Ma i teologi erano più portati alla musica moderna e invece di suonare il pianoforte o l’organo, chiedevano di avere un complessino; l’economo del seminario non ne volle sapere, mi venne in mente allora di chiederlo al prof. Patrizio Astorri, chirurgo e proprietario della clinica “Villa verde”, che conoscevo bene, e me lo finanziò.

Durante l’estate approfittavo del tempo libero per andare con l’Opera Romana Pellegrinaggi (ORP), di cui avevo conosciuto il direttore mons. Bianchi, per andare come assistente di pellegrinaggi nei paesi biblici, visitai così più volte l’Egitto, la Giordania, la Siria, la Turchia, tornai spesso in Terra Santa come guida di gruppi dell’ORP o che io stesso organizzavo. Approfittavo anche dell’amicizia e dell’ospitalità che mi dava don Rolando Di Mattia a Loro Piceno e mi preparavo qualche esame da fare all’università di Bologna presso cui mi ero iscritto a lettere classiche.

L’economo del seminario era da anni mons. Giuseppe Roscioli. Teneva in mano l’amministrazione, non accettava richieste e innovazioni, sapeva amministrare, e sapeva anche vantare il suo operato. Personalmente non ci prendevamo molto; ad un certo punto lasciò, quasi improvvisamente, il seminario perché fu chiamato all’amministrazione dei beni della prelatura di Loreto. Fu nominato economo don Dino Scoppa, che aveva i suoi punti, ma ci sentivamo almeno più spesso. Non ricordo precisamente in quale anno, quando ci trovammo ad affrontare il fatto che le suore della congregazione di Maria Bambina, presenti in seminario ab immemorabili, addette alla cucina, alla lavanderia e al guardaroba del seminario, se ne andarono a Loreto chiamate proprio da don Roscioli. Don Scoppa dovette immettere personale laico e forse fu anche un bene.

Mi occupai in quegli anni anche dell’”aggiornamento” del clero. Questa parola di papa Giovanni era diventata un richiamo impellente e in quegli anni invitai a tenere giornate di studio i professori che avevo conosciuto all’Istituto S. Anselmo e vennero proff. come Federici, p. Marsili, p. Nocent, p. Pinell, che crearono un bel clima per la recezione della riforma liturgica. Mons. Bellucci, sollecitato da me, da don Rolando Di Mattia e da don Lino Ramini, oltre agli incontri zonali, accettò di farci organizzare settimane estive residenziali di studio. Si teneva una settimana a fine giugno e una a fine agosto in località piuttosto lontane da Fermo per far sì che il clero si fermasse. Si sceglieva un tema di attualità, si chiedeva ai docenti del nostro istituto teologico di tenere delle relazioni e si invitava qualche noto teologo italiano. Furono settimane di convivenza cordiale e d’impegno, molto vivaci, intramezzate con qualche escursione a luoghi vicini d’importanza storica.

Ricordo le settimane di villa Immacolata in diocesi di Pescara sul rinnovamento della morale, quelle di Frontignano di Ussita sulla riconciliazione e quella sull’amministrazione economica della parrocchia, poi quelle presso gli alberghi gestiti dalla cooperativa di don Lino Ramini sulle Dolomiti. Un’esperienza che durò per diverso tempo tra gli anni settanta-ottanta.

\\\ 1977-1988 dieci anni di vicario generale di Mons. Bellucci

In occasione di riunioni ristrette era stato suggerito più volte all’arcivescovo di fare una visita pastorale e concluderla con la celebrazione di un sinodo diocesano. Nel giugno del 76 mons. Bellucci era succeduto formalmente a mons. Perini, come arcivescovo di Fermo. Di fatto non cambiava nulla perché era  (già) amministratore sede piena con diritto di successione e fin dall’inizio lo si considerò arcivescovo della diocesi. Mons. Perini era rimasto in episcopio e mons. Bellucci convisse con lui per sette anni. Perini morì il 9 dicembre del 77, alla bella età di 92 anni, mentre si trovava a Busto Arsizio, ospite in una casa di riposo fondata dal suo fratello senatore. Nell’estate di quell’anno mons. Bellucci, avviando la visita pastorale, nominò mons. Cardenà vicario per la visita e nominò me vicario generale e nominò rettore del seminario don Paolo De Angelis. Al posto di mons. Lorenzetti nominò don Giuseppe Paci direttore dell’ufficio amministrativo

Costituì anche una specie di consiglio episcopale chiamando mons. Rolando Di Mattia a fare il vicario per la pastorale, mons. Giuseppe Di Chiara vicario per gli uffici di curia e don Lino Ramini come consulente per l’amministrazione. L’arcivescovo ci riuniva poche volte, ma io, don Rolando, don Peppe e don Lino ci riunivamo quasi tutte le settimane a casa di don Di Chiara a Monte San Pietrangeli. Si tenevano presenti i problemi della diocesi, le situazioni del clero, l’attività del vescovo ed io mi facevo portatore presso il vescovo, ma a titolo personale, delle indicazioni che emergevano dai nostri incontri.

Il 6 agosto 1978 morì Paolo VI, fu eletto papa Luciani, che morì dopo appena 33 giorni di pontificato e nell’ottobre, con vera sorpresa di tutti, fu eletto Giovanni Paolo II.

Mons. Bellucci era persona sui generis, aveva un’attenzione particolare all’arte e si circondava di amici. Aveva insegnato arte sacra per molti anni al seminario regionale di Fano e poi in quello di Chieti e aveva arricchito la sua sensibilità con visite a luoghi di storia e d’arte; il suo motto episcopale era: “dixi vos amicos” e selezionava amicizie, che poi sapeva mantenere con incontri, telefonate, ricordi ed auguri per ogni ricorrenza. Gli altri non contavano o contavano poco. Aveva un’ottima memoria visiva per cui ricordava volti e persone, luoghi ed occasioni, particolari che in genere a molti sfuggono. Teneva banco nella conversazione e sapeva parlare di tutto, non solo di arte, ma di storia e politica, di culinaria e di vini, di prodotti tipici regionali italiani ed esteri. Il primo impatto poteva essere di attenzione ammirata, ma più spesso poi di noia. Alla venuta a Fermo, trovò il palazzo vescovile in rovina nel senso che portava tutti i segni della sua vetustà e di un’incuria di manutenzione durata secoli poiché gli interventi fattivi erano stati solo occasionali e mai risolutivi. Ebbe il coraggio di affrontare il problema funditus e di metter mano ad un rifacimento radicale ab imis: seminterrato, archivio, piano terra con gli uffici di curia, piano di rappresentanza, piano notte e piano soggiorno. Curò i particolari di rifinitura e di arredamento degli ambienti: ingressi in ferro battuto, stucchi e affreschi rifatti, quadri, pezzi storici. Il risultato fu quello di un palazzo antico splendido. Passò la maggior parte del suo episcopato tra la polvere dei lavori nel palazzo, ma sembrava che ci guazzasse! Un bel coraggio, soprattutto economico perché in tempi di crisi dell’agricoltura il reddito della mensa vescovile era quasi nullo; dovette far fronte con i cosiddetti “cantieri di lavoro” messi a disposizione dal Ministro dei Lavori Pubblici per varie occasioni, sottraendoli, dicevano i parroci, alla destinazione parrocchiale. I suoi discorsi cadevano perciò spesso, se non sempre, sull’andamento dei lavori e i progetti di ripristino del palazzo. Io mi domandavo: “come fa a tener dietro ai lavori? E il denaro dove lo prende?” E mi lasciava l’insicurezza di un’incapacità mia personale a far fronte ad impegni simili. Una volta messo a posto il soggiorno al piano più alto, da cui si godeva un panorama splendido sul territorio degradante verso il mare, vi invitava personalità ed amici a pranzo, ricevuti e serviti con tratti principeschi. Qualcuno scherzava: “peccato che l’arcivescovo di Fermo abbia perduto, con la riforma di Paolo VI, il titolo di ‘principe’!” Mise a posto anche un’antica casa parrocchiale di Torre di Palme, che era rimasta libera dopo la morte di don Ferdinando Angelici, che era venuto ad abitare in seminario, poiché le due parrocchie di una frazione di poche centinaia di persone erano proprio inutili. In una posizione alta, splendida di fronte al mare, la ristrutturò conservando le caratteristiche delle linee medioevali. Una volta sistemata, ci invitava degli amici o anche noi del consiglio episcopale per qualche riunione. Diceva che si sarebbe ritirato qui quando avrebbe dato le dimissioni una volta raggiunti i settantacinque anni, come di fatto è stato. Dovette affrontare anche i lavori per la revisione del tetto della cattedrale perché ci pioveva dentro; prese occasione di questi lavori per ampliare gli spazi esterni nord a fianco della cattedrale per farvi il museo diocesano; strutturò gli ambienti ma non riuscì a refinirli e a sistemarli col materiale raccolto. Fu poi aperto dal successore mons. Franceschetti. Qualcuno l’accusava di avere la malattia del mattone, di fatto però sistemò ambienti strettamente necessari.

Con una personalità di tal fatta il lavoro pastorale in realtà passava in second’ordine. Non che se ne scordasse, ma vi portava un interesse superficiale e mai conclusivo. Lasciava l’impressione che la sua mente e il suo cuore stessero altrove, tanto più che i suoi rari interventi scritti e la sua predicazione erano generici e di una ripetitività asfissiante: la storia della salvezza e l’amore di Dio. Temi alti, ma con il rischio di banalizzarli. Qualche prete acutamente diceva: “è un esteta, e tutto vede con occhio estetizzante!”

Il mio lavoro di vicario generale si concentrò sulle relazioni con i preti e sulla pastorale. Mons. Bellucci si riservò tutto l’aspetto economico che affrontava con persone di sua fiducia come l’amministratore della mensa vescovile mons. Sabatini, il cassiere di curia prima mons. Contigiani e poi don Muccichini. Mi lasciò spazio invece nelle relazioni con i preti giovani nella sistemazione delle parrocchie, nell’aggiornamento teologico-pastorale dei preti nell’approfondimento delle linee pastorali della CEI, nelle iniziative che prese o gli furono suggerite come: la visita pastorale, il congresso eucaristico diocesano, il sinodo. Il mio rapporto col clero fu buono e in genere trovai accoglienza sulle proposte, anche di cambiamenti. Una sola mi creò problemi e rottura con don Silvestro Contigiani. Lui era parroco a S. Giuseppe alla periferia di Civitanova, vi aveva costruito la chiesa nuova, ma non la canonica, viveva in città con la sorella; era stanco e mi chiese di cambiare e di poter andare a fare il cappellano all’ospedale della città. I parroci della zona erano più che favorevoli ed io proposi a don Ginesio Cardelli di prendere la parrocchia; accettò la proposta. Quando orami tutto era concluso don Silvestro, che era andato a vedere la sua camera all’ospedale e resosi conto del lavoro, vide in don Ginesio un concorrente e non volle più andare cappellano all’ospedale. Rimasi fermo nella decisione, del resto presa concordemente, ed avvenne la rottura, e dopo non mi parlava. Mi dispiacque e me ne dispiace.

Il lavoro per la visita pastorale non mi impegnò tanto perché ci si era dedicato mons. Cardenà. S’era concordato con lui un ampio questionario da mandare prima ai parroci e poi seguì lui tutto il lavoro. Il questionario e la visita dovevano essere una premessa al sinodo: oltre tutti i rilevamenti riguardanti la chiesa parrocchiale (e le altre chiese) e la sacrestia con tutti i beni e le suppellettili, l’amministrazione dei beni di proprietà parrocchiale, il questionario affrontava le tematiche pastorali secondo la triplice divisione: evangelizzazione e catechesi, liturgia e pietà popolare, attività pastorali di ambito sociale e organizzazioni varie. Era complesso e non tutti lo presero seriamente e mons. Cardenà fece fatica a ferli compilare. Una volta ritirati i questionari e fattane una sintesi andava a discuterne con il parroco o, se c’era, con il consiglio pastorale della parrocchia. Rivista la sintesi, ne passava copia all’arcivescovo. Mons. Cardenà si lamentava ogni tanto con me che mons. Bellucci non lo chiamasse per parlarne insieme e aveva il sospetto che non le leggesse e non ne tenesse conto. Fu un lavoro improbo per due anni e più dal 78 all’81, difficile per mons. Cardenà anche perché non guidava la macchina e quindi aveva bisogno di concordare tempi e orari con i parroci che venivano o mandavano a prenderlo. Cominciò la visita, purtroppo si vide subito che non poteva portare i frutti che ci si aspettava. L’arcivescovo prese la visita come una sua presenza celebrativa, non si faceva accompagnare da chi l’aveva preparata, cioè da mons. Cardenà, se non rare volte, e tutto finiva con una Messa solenne, il successivo pranzo e qualche incontro in parrocchia con i gruppi e la gente. Era stata prevista una nota da trasmettere alla parrocchia dopo la visita come guida in base ai rilievi fatti, ma, mi pare, ne fece pochissime e generiche. Il lamento del vicario per la visita era costante e forse ne arrivò eco all’arcivescovo. Con me e con il consiglio episcopale non parlava volentieri della visita pastorale; non aveva in simpatia mons. Cardenà, anche se diceva di stimarlo, e forse per questo lo fece sentire emarginato. Furono due anni non del tutto persi, ma quasi; e soprattutto non creò consensi attorno all’arcivescovo.

Mons. Di Mattia era molto critico nei confronti dell’arcivescovo per il suo modo esteriorizzante e, secondo lui, superficiale di condurre la diocesi, lui chiedeva all’arcivescovo prese di posizione chiare anche in campo sociale-politico, non ricordo precisamente per quale questione, ma ad un certo momento, dopo un colloquio faccia a faccia, se ne andò da vicario per la pastorale; don Rolando mi invitò a lasciare, ma rimasi al mio posto.

Non aveva ancora finita la visita pastorale in molte grandi parrocchie che volle indire un congresso eucaristico diocesano. Mi dovetti sobbarcare a questo lavoro, ma non malvolentieri pensando che poteva essere un’occasione per un approfondimento della celebrazione dell’Eucaristia e del culto eucaristico. Don Filippo Concetti, professore di Liturgia al nostro Istituto teologico, ed io preparammo un bel testo servendoci di sussidi di altre diocesi e di consigli del prof. Federici, dividendo il materiale in otto temi e altrettante schede da usare durante l’anno di preparazione in tempi lasciati alla programmazione parrocchiale. L’accoglienza fu fredda, forse per la delusione della visita pastorale e il lavoro di approfondimento sull’Eucaristia non fu né molto né efficace.

Nell’83-84 fu indetto da Papa Giovanni Paolo II l’anno santo della redenzione; la diocesi vi partecipò con un grande pellegrinaggio. Ci fu un’adesione massiccia; don Luigi Traini s’incaricò dell’organizzazione delle autocorriere e tra gente andata con i pullman e macchine private a Roma eravamo circa dodicimila persone. Ci fu concessa la celebrazione eucaristica in S. Pietro all’altare basilicale presieduta dall’arcivescovo e un’udienza del S. Padre nella sala Paolo VI. La diocesi offrì al papa una bella somma di danaro per la carità e un evangeliario in argento, che io feci preparare in sbalzo dall’artista prof. Pancione, che allora insegnava all’istituto d’arte di Fermo.

Si arrivò al maggio dell’85 e organizzammo la chiusura del congresso eucaristico diocesano con iniziative durante il mese di maggio e la settimana conclusiva. Tra le personalità più significative invitate: mons. Chiarinelli, il p. benedettino di S. Anselmo prof. Scicolone, il prof Campanini e soprattutto per la giornata dei giovani madre Teresa di Calcutta. Andammo a prenderla a Roma alla casa delle suore sulla Casilina io, il dott. Raffale Astorri e la signorina Dolores. Rimanemmo esterrefatti quando ci disse che, nonostante gli accordi presi già da un anno, non poteva venire perché impegnata con il ritiro delle suore che dovevano fare alla domenica la professione solenne. Dopo insistenze, dinanzi alla sua fermezza, mi venne l’idea di dirle: avvisiamo il vescovo che la sta aspettando con tremila giovani Quando dopo la telefonata le dissi che il vescovo la voleva assolutamente a Fermo, chinò la testa e disse: “debbo ubbidire!” Mi fece impressione questo senso di ubbidienza ai vescovi! Facemmo il viaggio con la macchina del dott. R. Astorri in due ore e quindici minuti dalla Casilina al palazzetto dello sport di Porto S. Elpidio. Fu un delirio tra i giovani che non finivano di applaudire. L’ascoltarono veramente in religioso silenzio sebbene lei parlasse in inglese e mia nipote Mariagrazia traducesse. Segno proprio che la santità s’impone da sé. Dopo l’incontro con i giovani venne al duomo di Fermo dove c’erano gli anziani, li salutò e subito dopo ripartì per Roma. Mons. Di Chiara le consegnò un assegno della Caritas di sette milioni per i suoi poveri. La celebrazione conclusiva del congresso si tenne al Girfalco di Fermo la domenica di Pentecoste, si prevedeva la partecipazione di più di settemila persone, ne vennero dalla città e dai paesi circa cinquemilacinquecento. Dopo il congresso curai un volume con gli atti dell’ultimo mese.

Dopo la firma del nuovo concordato tra Stato italiano e S. Sede nel 1984 si avviò la riforma delle parrocchie e di tutto il sistema beneficiale. A mio parere fu una benedizione perché ormai il sistema beneficiale, fatta eccezione per pochissimi casi, non reggeva più e si doveva ricorrere ad altri mezzi per il sostentamento del clero, come la creazione di vicarie curate che permettevano ai preti titolari di ricevere la cosiddetta congrua. Il sistema di perequazione con un assegno mensile, anche se piccolo, garantiva il minimo, per qualsiasi tipo di ministero svolgesse, ad ogni prete, che non avesse altre entrate. Tutto il lavoro di ristrutturazione della parrocchie, dopo alcune riunioni di avvio, fu fatto da mons. Giuseppe Paci, direttore dell’ufficio amministrativo diocesano.

La visita pastorale continuò anche durante il tempo di preparazione al congresso eucaristico diocesano ed io cominciai a parlare della preparazione al sinodo, cui servivano da premessa e l’una e l’altro. Io andavo spesso dal vescovo, almeno una volta alla settimana o comunque quando era necessario. Un giorno di novembre dell’85 mi fece chiamare, mi consegnò una lettera della congregazione dei vescovi, in cui mi si trasmetteva la proposta di nomina a vescovo per la diocesi di Fano-Fossomhrone-Cagli-Pergola. Posso ora ricordare la cosa liberamente perché Mons. Bellucci, dopo il mio rifiuto, lo ha detto a tutti in più occasioni. Gli manifestai il mio disagio, mi disse di pensarci e di pregare, mi preparò lui stesso una lettera di accettazione, ma risposi che non me la sentivo di affrontare un tale ministero. Non ero spiritualmente preparato e il modello che avevo davanti con tutto l’impegno profuso nei problemi edilizi e nelle relazioni sociali ed amicali non mi piaceva, inoltre la situazione dei miei familiari era pesante. Mia madre era morta nel maggio dell’83, babbo andava vieppiù perdendo forze e lucidità, mio fratello Pietro, handicappato per una poliomielite infantile, era spesso in ospedale per problemi ortopedici ed urologici e non me la sentii di lasciare mio fratello Umberto e la sua famiglia a far fronte a tutte le difficoltà anche se mia cognata Fulvia si era prodigata sempre e in modo ammirevole nella lunga infermità di mamma e nella cura di mio padre e di mio fratello Pietro. Mons. Bellucci se ne dispiacque e tentò di rimediare mandandomi personalmente prima dal sottosegretario della congregazione, mons. Moreira Neves, cui ripetei le mie difficoltà, la mia incapacità e indisponibilità a questo servizio. Nel gennaio successivo mi mandò dal nunzio, di cui non ricordo il nome, che mi ventilò a voce un’altra proposta, quella di Camerino, ed egualmente ripetei il mio diniego. Mi chiese se desiderassi un’altra sede, ma risposi che non mi sentivo adatto ad assumere il servizio episcopale. Oggi debbo dire che non me ne sono mai pentito.

Nell’86, se ricordo bene, mons. Armando Marziali mi propose un’iniziativa, che io condividevo e a cui pensavo da tempo: organizzare una scuola di preparazione per il diaconato permanente. Mi disse che ne aveva parlato col vescovo, che gli aveva dato mandato di organizzarla come meglio credeva. Alcune diocesi italiane l’avevano già fatto, esisteva un centro diaconale a Reggio Emilia, che stampava anche una rivistina sul diaconato e le diverse esperienze connesse. Dopo averne parlato a lungo, sentiti anche diversi preti, piuttosto scettici però, decidemmo di partire. Lui avrebbe pensato a trovare nelle parrocchie uomini capaci e disponibili, a curare la formazione spirituale con incontri personali e di gruppo, io dovevo pensare alla scuola. Stabilimmo un cammino lungo di otto anni, che dovevano servire sia allo studio, ma soprattutto a sperimentare chi lungo questo tempo sarebbe rimasto fedele e avesse mostrato capacità di svolgere un ministero di cui ancora in pratica non si vedeva la specificità. Per la scuola stabilimmo corsi piuttosto impegnativi sulle diverse discipline teologiche: scrittura, dogmatica, morale, liturgia, storia, pastorale. Marziali volle che si tenessero le lezioni al sabato mattino e le stesse al sabato pomeriggio per dare la possibilità più ampia di partecipazione. Ci fu un numero discreto di iscrizioni, ma la difficoltà più grossa fu quella di trovare insegnanti perché la scuola impegnava tutto il sabato, mattino e pomeriggio, e non c’erano compensi! Bonifazi ed Illuminati si trincerarono dietro il fatto che secondo loro questa scuola non doveva esistere perché chi voleva diventare diacono avrebbe dovuto frequentare l’Istituto di Scienze Religiose! Ma quali uomini, professionisti o lavoratori sarebbero potuti venire a lezione tre volte alla settimana? Così io dovetti fare Bibbia e Liturgia, don Luigi Valentini Morale e Storia. Lasciammo ampia possibilità di fare gli esami: nei giorni stabiliti o in qualsiasi giorno, quando l’avessero preparati. Non coincidevamo in tutto io e don Marziali sia sul nome perché io volevo chiamarla; non “scuola per il diaconato”, ma “scuola di formazione teologica”, inoltre Marziali voleva che, partecipassero solo gli uomini scelti io invece volevo che fosse aperta anche alle donne, alle catechiste. Comunque partimmo. Le prime ordinazioni furono di due giovani uomini sposati provenienti da fuori diocesi: Gherardi Silvano, di origine piemontese, aveva fatto licenza in teologia a Roma col prof. Federici, che mi raccomandò di prenderlo in diocesi perché era sposato con una signora di Francavilla d’Ete e il parroco don Paolo era entusiasta di lui; l’altro di origine veneta, Luigi Mizia, collaborava con la comunità di Capodarco, completò qui da noi gli studi Mons. Bellucci li ordinò, ma purtroppo non si rivelò un buon inizio: il primo si impegolò in questioni di politica paesana e fu causa di divisione del paese; il secondo di carattere non si prese molto con la popolazione locale con cui aveva cominciato un corso biblico. In seguito con i nostri candidati locali l’esperienza è stata positiva. La scuola di formazione teologica esiste ancor oggi, ha formato una ventina di uomini ordinati diaconi, oggi è aperta anche alle donne ed attualmente nel 2006 ci sono una quarantina di iscritti.

Fu fatta una commissione per la preparazione del sinodo. Don Vinicio Albanesi, don Paolo Petruzzi e don Giovanni Cognigni proposero di prendere un unico tema, quello dell’evangelizzazione, e prepararono anche uno studio e un progetto; io proponevo una revisione della vita diocesana e pastorale su scala più ampia e prospettavo di porre alla base del lavoro le tre prerogative del popolo di Dio, sacerdotale, profetico e regale e quindi dì prevedere dopo un periodo di analisi di affrontare le tematiche: evangelizzazione e catechesi (profezia), liturgia e preghiera (sacerdozio), società e impegno nel mondo (regalità). Ci fu un lungo periodo di stasi e, alla ripresa della discussione, il vescovo appoggiò la proposta più ampia e si decise, ormai a più di venti anni dal concilio, di verificarne la recezione, di rimeditare i documenti conciliari e quelli postconciliari della S. Sede e della CEI, di dedicare un anno per ogni ambito con dei testi guida da discutere nelle riunioni distrettuali e vicariali e dopo tre anni di lavoro e di coinvolgimento di clero e laici, preparare, in base a quanto emerso, dei documenti, per ognuno dei tre ambiti, che sarebbero dovuti essere materia di discussione nelle assemblee sinodali. Si previde così un periodo di cinque-sei anni. Di fatto il lavoro cominciò nell’87 e terminò nel 94; il vescovo fece pubblicare il volume del sinodo nel 1995 nel 25° del suo episcopato a Fermo.

Gli anni 80 sono stati un po’ duri per la morte di mamma nell’83 e poi nel marzo 86 per la morte di babbo. Sono loro grato perché mi hanno lasciato piena libertà di scelta nella mia vita, mi hanno sostenuto sempre e mi hanno dato un esempio prezioso di fede, di vita cristiana, di pazienza nelle difficoltà, di perdono verso tutti, di laboriosità, di serenità. Ma anche anni duri per la salute. Non stavo bene perché mi aveva colpito una forte asma dovuta ad allergie, particolarmente da acari, a causa dello studio angusto, le cui pareti avevo foderato di libri. Feci vaccini per diversi anni, ma senza vantaggi. Feci una visita in Ancona dal dott. Floriano Bonifazi, mi trovò polipi nasali e mi consigliò di farmi operare a Fano dal dott. Citroni; da allora sono stato meglio, sotto controllo del centro allergologico di Ancona; mi segue la dott. Garritani. Chiesi al vescovo Bellucci di poter usufruire dell’appartamentino a fianco del mio studio, che era sempre libero e disponeva di un locale in cui avrei potuto sistemare i miei libri; me lo permise e mi trasferii e ci sono rimasto fino ad oggi. Furono anni difficili anche per i frequenti e lunghi ricoveri di mio fratello Pietro per problemi urologici all’ospedale di Pesaro. L’ho dovuto assistere per settimane e settimane per fortuna in periodo estivo; nello stesso periodo anche mio fratello Umberto ebbe problemi urologici e per un po’ di tempo stettero tutt’e due ricoverati allo stesso reparto.

I miei rapporti con l’arcivescovo erano sempre schietti e cordiali, ma forse non tollerava certe mie richieste, di cambiare, ad esempio, dalla funzione di cassiere di curia don Armando Muccichini che era anche suo segretario personale, perché i preti non lo volevano; d’altra parte s’era approfondita una certa frattura del vescovo con il clero quando fu pubblicata la lista degli iscritti alla loggia massonica P2, in cui figurava, insieme con alti prelati d’Italia e della curia romana, anche il suo nome. Il vescovo smentì la notizia, ma la cosa gettò ombre sulla sua figura. Si serviva sempre più della consulenza di don Vinicio Albanesi e di don Lino Ramini, che erano preti in vista e di rilievo diocesano e nazionale per le loro opere (la comunità di Capodarco e la cooperativa 13 maggio per la gestione delle case per ferie), in qualche modo ammirati, ma non accettati da tutto il clero diocesano per certe espressioni ed atteggiamenti laicali e per le loro aperture sociali e politiche. Io già da tempo chiedevo di lasciare l’incarico di vicario generale e nel giugno 88 in una riunione si parlò di cambiamenti e l’arcivescovo nominò suo vicario generale mons. David Beccerica e vicario per la pastorale don Domenico Follenti, ma volle che continuassi il lavoro per il sinodo diocesano e mi nominò vicario per il sinodo.

<La Voce delle Marche – anno 2006>

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PREGHIERA TESTAMENTO DEL BIBLISTA DON MIOLA Gabriele scritta nel 2006 defunto nel 2017

Preghiera – <Testamento>

Grazie, Padre Santo, che mi hai chiamato alla vita e tre giorni dopo la mia nascita al fonte battesimale su di me hai detto: “tu sei mio figlio”. Nel tuo Figlio mi hai fatto figlio e per lo Spirito mi hai reso partecipe della tua vita divina. Non finirò mai in questa vita di renderti grazie e gloria per l’amore che hai riversato su di me; solo nell’eternità potrò conoscere la grandezza del tuo disegno d’amore e lodarti per sempre.

Grazie per i miei genitori, babbo Angelo e mamma Pierina, attraverso di loro ho imparato a pregarti e da loro ho ricevuto gli insegnamenti della fede.

Grazie per il bene che ho avuto dalla scuola, dai miei insegnanti e dai miei compagni e soprattutto per la vocazione che hai fatto sbocciare in me attraverso l’allora seminarista Damiano Ferrini. Grazie per il seminario in cui ho compiuto gli studi dalla media al liceo e dove attraverso i superiori ho potuto maturare e confermare la tua chiamata.

Ti ringrazio particolarmente per avermi chiamato ad essere prete nella tua Chiesa e per avermi dato l’opportunità di fare gli anni della teologia a Roma e soprattutto di avermi aperto la porta, attraverso i miei superiori, per fare gli studi biblici e di vivere intensamente, appena dopo l’ordinazione, gli anni del Concilio.

Ogni periodo, Padre, è stato ricco della tua presenza amorosa e pieno delle mie incorrispondenze e dei miei peccati, debbo dire, sempre più numerosi e gravi man mano che passavano gli anni e crescevano le responsabilità. Imploro misericordia e perdono per tutte le mie infedeltà e tutti i miei peccati, Padre di ogni misericordia.

Ti ringrazio, Padre santo, per tutte le persone che mi hai poste accanto: oltre ai miei genitori, i miei fratelli Pietro e Umberto, che si sono prodigati in ogni modo per rendermi possibile il cammino di seminario e di studio verso il sacerdozio; anche mia cognata Fulvia, la moglie di Umberto, mi è stata vicina nel mio cammino di prete ed io le sono stato vicino nella sua precoce vedovanza. Ti ringrazio per i due miei nipoti, Massimo e Mariagrazia, e poi per le persone, i preti, i superiori, i vescovi che mi sono stati vicini e mi hanno arricchito con le loro premure e del loro affetto.

Ti ringrazio per il Concilio Vaticano II, celebrato proprio all’alba del mio ministero, e perché in questa stagione conciliare mi hai fatto toccare con mano la forza rinnovatrice del tuo Spirito e una nuova fioritura primaverile per la tua Chiesa. Donaci di essere fedeli a quello Spirito che ci ha dato il Vaticano II e che coloro che hai posto come pastori della tua Chiesa, in mezzo al turbinio dei cuori accecati dall’orgoglio, rimangano saldi a guidare i passi, altrimenti incerti, dei tuoi figli.

Non so, Padre, quanto ancora di vita mi darai in questa terra; donami fede e fa che ti possa lodare per “sora nostra morte corporale, dalla quale nullo homo vivente può scappare”; fin d’ora voglio accoglierla quando e come tu verrai mi venga incontro. Ti prego che tutte le benedizioni, con le quali mi hai benedetto in Cristo Gesù, portino per me frutto di pace, di amore e di vita eterna nella tua casa, Padre, per la forza del tuo Spirito, per lodarti in eterno, Santa Trinità, insieme alla Santa Vergine Maria, madre del tuo Figlio e mia, e insieme agli angeli, ai santi e, lo credo con tutto il cuore, insieme ai miei cari AMEN.

4 Giugno 2006                                        Miola sacerdote Gabriele

 

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IL VANGELO SORGENTE DI FELICITA’ E FONDAMENTO ECCLESIALE DI PACE E EQUILIBRIO. Prefdicazione dagli scritti di Piccaretta L.

Il vangelo negli scritti della Serva di Dio Luisa Piccarreta – vol. 23; Gennaio 18, 1928. Ecco sue rivelazioni.

Da Gesù\ “ Le tante verità sorprendenti, le promesse dei tanti beni che devo dare ai figli del Fiat Voluntas tua: saranno il Vangelo, la base, la sorgente inesauribile [a] cui tutti attingeranno la vita celeste, la felicità terrestre, ed il ripristinamento della loro creazione. Oh, come si sentiranno felici chi con ansia berrà a larghi sorsi in queste sorgenti delle mie conoscenze, perché esse contengono la virtù di portare la vita del cielo e di sbandire qualunque infelicità”.  \ dalla B. V. Maria … Devi dire, soprattutto ai miei figli prediletti (sacerdoti), di insegnare la parola di Dio e parlare del Vangelo, non voglio vedere i miei figli precipitare nell’abisso. Ora, figli, il mio Gesù è misericordioso

Equilibrio e pace interiore =

Dagli scritti di Piccaretta Luisa. Vol.11; maggio 18, anno 1914: “ … ti raccomando d’essere equilibrata in tutto; il mio Essere è in pieno equilibrio in tutto, e mali ne veggo, ne sento, amarezze non me ne mancano, eppure non mi squilibro mai; la mia pace è perenne, i miei pensieri sono pacifici, le mie parole sono melate di pace, il palpito del mio cuore non è mai tumultuante, anche in mezzo ad immense gioie ed interminabili amarezze; lo stesso operato delle mie mani nell’atto di flagellare, scorre sulla terra inviluppato nelle onde di pace. Sicché se tu non ti conservi in pace, stando nel tuo cuore mi sento disonorato.”

 

 

 

 

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MIOLA mons. Gabriele narra la sua esperienza umana, sacerdotale, conciliare ecclesiologica in un’intervista del 2017

□Nicola Del Gobbo, sac. Direttore de “La Voce delle Marche” pubblica un’intervista a mons. Gabriele Miola *\  il 14 maggio 2017, n. 7- Trascritto per gentile concessione del Direttore. Qui abbreviato per le notizie parimenti edite in ‘Firmana’ nn. 49 e 67.

<Nota del Direttore >     Mons. Gabriele Miola … il sacerdote che ha portato nella arcidiocesi di Fermo il rinnovamento del Concilio Vaticano II. Ha traghettato la Chiesa Fermana attraverso i marosi del rinnovamento conciliare. È lui che ha girato in lungo e in largo la diocesi per far conoscere la Dei Verbum (Sacra Scrittura), la Lumen Gentium; e la Gaudium et spes (Chiesa), la Sacrosantum Concilium (Liturgia) … Ha insegnato per tanti anni nell’lstituto Teologico di Fermo facendo conoscere la straordinaria novità dei documenti conciliari. Ha insegnato teologia della rivelazione, teologia ecumenica, esegesi, storia della salvezza, greco biblico, ebraico. È lui che poi ha presieduto l’Istituto di Teologia di Fermo affiliato alla Pontificia Università Lateranense … Ha fortemente voluto un clero preparato suggerendo ai vescovi di far continuare gli studi teologici a molti giovani meritevoli.

Mons. Miola è stato più di un insegnante, un maestro. Un insegnante si limita a trasmettere nozioni in maniera più o meno efficace, un maestro invece introduce nella verità. Indica come Giovanni Battista “Ecco l’agnello di Dio”. Mostra una meta, traccia un cammino, incarna la verità nella semplicità. Fa in modo che i suoi alunni arrivino anche più avanti di lui nella verità.

La diocesi di Fermo infatti ha un corpo insegnanti da fare invidia alle Marche: qualificato, brillante, vivace. Molti insegnanti fermani sono docenti nell’Istituto Teologico Marchigiano di Ancona …  I vescovi di Fermo, mons. Cleto Bellucci prima, mons. Gennaro Franceschetti poi e mons. Luigi Conti hanno voluto un clero preparato anche teologicamente.

Più volte Mons. Miola è stato chiamato dal Santo Padre a rivestire i panni dell’episcopato ma ha sempre rifiutato. “Non me la sentivo – ha confidato a qualcuno – di entrare in collisione con qualche altro vescovo. Conoscevo la loro mentalità preconciliare, non la capivo e non la condividevo”.

Vicario generale, docente, Preside dell’lstituto Teologico Marchigiano.

Curriculum <breve> di vita e di studi di mons. Gabriele Miola, traghettatore della chiesa fermana nel post Concilio …Nasce a Montegiberto il 19 Febbraio del 1934. All’età di tre anni inizia a vivere a Falerone con la sua famiglia. Entra nel Seminario di Fermo nel 1945 e vi frequenta le Scuole medie e il Liceo, fino al 1954. Frequenta il Corso di teologia a Roma al Laterano, alunno del Seminario Romano.

<intervista> Domanda: “A chi deve la sua vocazione?”\

*\ – A don Elia Malintoppi, primo parroco di Piane di Falerone. Molti non lo ricordano, ma per me è stato significativo. Fu nominato parroco da mons. Norberto Perini. La frazione di Piane era, allora, una parrocchia di comunisti, don Elia invece era un feroce anticomunista. Apertamente attaccava i comunisti, senza paura. Entrò così in rotta con la popolazione. Mons. Perini fu costretto a mandarlo a Potenza Picena, nel santuario e parrocchia di S. Girio.

Fu lui, don Elia, però a suggerirmi di entrare in Seminario. Fu lui ad accompagnarmi agli esami di ammissione a Fermo. Io non ero mai uscito da Piane di Falerone. Per me fu un’avventura venire a Fermo. Era la prima volta. Ricordo come fosse adesso quando salimmo sul trenino. E, quando, dopo gli esami, mi portò a visitare la Cattedrale e il Girfalco. Tante volte mi viene in mente quando davanti al parapetto di granito del Girfalco, don Elia indicandomi l’orizzonte mi disse: “Guarda laggiù. Quell’azzurro che vedi è il mare!”. Non lo avevo mai visto! In seminario fu mio sostegno Damiano Ferrini, allora teologo.

Per l’esame di ammissione alla scuola media di Montegiorgio fui preparato dalla maestra Lina Macchini, sorella dei famosi Macchini impegnati in politica. Ricordo con piacere la scuola media < a Fermo in seminario> dove il livello era buono. Del Ginnasio e del Liceo, negli anni 1948-54, ho un ricordo piuttosto negativo per la mancanza di professori impegnati con noi.

D- “Come le è venuto in mente di studiare Bibbia?”\

*\- Dopo l’esame di maturità, il rettore di allora <nel seminario>, mons. Stefano Cardenà, mi chiese di andare a Roma a studiare teologia presso la Pontificia Università Lateranense, per la formazione presso il Pontificio Seminario Romano, erano gli anni ’54-’58. Io accettai. La formazione era sulla stessa linea di quella di Fermo: disciplina, studio e pratiche di pietà. Ci accorgevamo però di alcune storture nella formazione. Ma il fatto che la Lateranense era una grande università che raccoglieva molti studenti provenienti da altri Seminari, permetteva confronto, dibattiti e apertura. La teologia, il più delle volte, si studiava purtroppo in funzione degli esami.

Mi entusiasmarono invece gli anni al Pontificio Istituto Biblico che frequentai dal 1958 al 1961. Abitavo allora nella parrocchia di S. Ignazio sull’Appia Nuova. Erano due le università pontificie dove si studiava bibbia. Formavano le due scuole di riferimento: il biblico dei gesuiti, progressista e la Lateranense, conservatrice. Ricordo gli insegnanti di allora, dei giganti, come Max Zerwick e Stanislas Lyonnet.

Dovevo discutere la laurea in teologia, ma capitò l’opportunità di perfezionare gli studi biblici a Gerusalemme e colsi quella opportunità. Negli anni ’61-’62 ho frequentato i Corsi nell’Istituto Biblico Francescano di Gerusalemme. Terminai il corso con due amici: Giuseppe Barbaglio (morto il 28 marzo 2007) e Enzo Cortese, di Aqui Terme. Con loro visitammo per lungo e per largo la Palestina, la Giordania, il Sinai, l’Egitto, ci spingemmo a visitare la Mesopotamia, l’Iraq, Babilonia, Ur dei Caldei, l’Eufrate.

  1. – “Come fu il suo ritorno in Diocesi?”\

*\-  Venni ordinato sacerdote il 22 Marzo 1958. Nel 1962 rientrai in diocesi e mi fu chiesto di insegnare greco e latino in ginnasio. In teologia poi insegnai tante discipline: teologia dogmatica, liturgia, ecumenismo, introduzione all’Antico Testamento, ebraico e greco biblico. Dopo aver affiancato come vice-rettore mons. Cardenà, l’allora arcivescovo, mons. Cleto Bellucci mi nominò rettore del Seminario nel 1972 e vi rimasi fino al 1978. Furono anni cruciali. Cercai di guidare quella effervescenza dei tempi post-conciliari e i malcontenti che serpeggiavano tra i seminaristi teologi. Si cercavano esperienze nuove nei movimenti ecclesiali. Alcuni seminaristi vollero fare esperienza nel movimento dei Focolari o nei gruppi di Gioventù Studentesca. Cercai di impostare la vita su una liturgia rinnovata. Fu resa più viva la celebrazione dell’Eucaristia secondo le direttive del Concilio. Vennero mandati in parrocchia i seminaristi per l’attività pastorale al sabato e alla domenica. Alcuni sceglievano le parrocchie di origine, altri no. Per conoscere il mondo degli operai furono fatte esperienze di lavoro in azienda durante l’estate. Dal 1978 al 1988 fui nominato Vicario generale della diocesi di Fermo.

  1. – “Come trovò la diocesi di Fermo?”

*\-      Piuttosto tradizionalista. L’Arcivescovo Mons. Norberto Perini, mons. Marconi, mons. Perfetti erano tutti perplessi sul Concilio Vaticano II. L’unico innovatore fu don Rolando Di Mattia, parroco a Loro Piceno a cui ero legato da una profonda amicizia. Con lui trascorrevo i mesi estivi di ritorno da Roma.

Con lui pensammo di far conoscere i documenti del Vaticano II in Diocesi. Chiedemmo collaborazione. Si formò un gruppo che doveva girare per la diocesi a far conoscere lo spirito del Concilio. A questo gruppo appartenevano don Rolando Di Mattia, don Angelo Fagiani, don Duilio Bonifazi (che poi lasciò per frequentare filosofia ad Urbino), don Romolo Illuminati (che poi lasciò perché prese l’insegnamento di Religione Cattolica al liceo classico di Fermo), don Filippo Concetti. Chiedemmo al vescovo di riunire i preti in incontri zonali. Dividemmo la diocesi in 6 vicarie. Ogni mese incontravamo i preti e facemmo conoscere la SC, la DV, la LG, la GS. Ciò che si diceva creava sorpresa sui preti. Alcuni addirittura facevano opposizione. Avevano paura che con il rinnovamento la chiesa perdesse la sua capacità di guida. Negli anni ’8o è stata promossa una Scuola di Formazione Sociale e Politica a Civitanova Marche.

  1. – “Come è nata l’idea?

*\-  Le scuole di partito erano scomparse. Ci si improvvisava amministratori, sindaci, assessori. Volevamo allora accompagnare i politici locali ad una preparazione più ampia non solo amministrativa. Volevamo coinvolgere gli assessori, gli uomini politici, i giovani che volevano affacciarsi alla politica. Volevamo indicare l’uomo nella sua interezza, nella sua globalità, nel suo essere immagine di Dio nel mondo. Insomma volevamo offrire una preparazione a 360 gradi: antropologia, economia, teologia, Bibbia. Volevamo proporre una scuola, non soltanto alcune conferenze. All’inizio furono tanti i partecipanti. Ma quando fu il momento degli esami, molti abbandonarono. E quindi, dopo tre anni, quell’esperienza unica nelle Marche, fu chiusa.

  1. – “Quali furono i cambiamenti nell’insegnamento della Teologia a Fermo?

*\-  Mons. Cardenà fu un bravo rettore. Riguardo alla Sacra Scrittura, disciplina che insegnava, era molto aperto. Mi lasciò il corso sulla Genesi. Insegnavo che nei primi capitoli non si racconta una storia, ma si legge un discorso sapienziale. Non è un libro storico. Ricordo che ebbi molte resistenze. Allora ebbi l’idea di chiamare a Fermo i miei professori del Biblico per fare aggiornamento. Vennero due liturgisti, Max Zerwick, e Stanislas Lyonnet, tre liturgisti: Tommaso Federici, Salvatore Marsili, padre Benedetto Calati; altri. Servì molto per far conoscere agli studenti di teologia, e non solo, il mondo della cultura cattolica.

Chiesi al Vescovo che tutti i giovani capaci cogliessero l’opportunità di formarsi a Roma per approfondire discipline teologiche.

  1. – “Perché la Diocesi di Fermo ha investito in teologia e le altre diocesi marchigiane molto poco?

*\-  Perché Fermo aveva la fortuna di avere un Seminario e un Istituto Teologico. Aveva bisogno di un corpo docente ben preparato, competente e formato. Ricordo che mons. Perini spinse presso la Congregazione perché l’Istituto Teologico di Fermo avesse il privilegio di rilasciare i titoli Accademici di Baccellierato e Licenza. Non ci riuscì. Ci riprovò senza esito anche mons. Cleto Bellucci, il quale ci teneva molto a che i sacerdoti avessero i titoli accademici. Purtroppo però qualche docente di Fermo ha fatto il doppio gioco. Ha svalutato l’lstituto teologico di Fermo parlandone male e facendolo passare come un istituto di progressisti.

C’è da dire che se l’Istituto Teologico Marchigiano Regionale è nato è grazie all’opera della Conferenza Episcopale Marchigiana e può andare avanti grazie a molti docenti dell’Arcidiocesi di Fermo.

  1. – “Lei è stato Vicario Generale, poi si è dimesso …

*\-  Per correttezza debbo dire che la mia decisione fu appoggiata da don Rolando Di Mattia. Senza il suo consiglio e il suo conforto non avrei fatto questa scelta. Fu verso la fine degli anni ’80. Si voleva una partecipazione corale dell’intera diocesi anche nei conti nell’amministrazione diocesana. Volevamo che il clero diocesano sapesse le spese della diocesi. Purtroppo <su> appoggio di prelati romani, non si volle questo tipo di trasparenza. Ci fu un momento in cui il suo segretario era economo e anche cassiere della Curia. Noi volevamo che la responsabilità economico-amministrativa diventasse comunitaria, nella diocesi. Invece continuò ad essere personale (…) sotto la pressione del clero diedi le dimissioni.

Nella memoria di molti è rimasta la giornata per i giovani celebrata al Palazzetto dello Sport di Porto S. Elpidio con la presenza di Madre Teresa di Calcutta. Si ricorda anche la celebrazione finale della domenica di Pentecoste, nel parco dinanzi alla Cattedrale con più di 15.000 persone.

  1. – “Come ricorda quell’incontro con Madre Teresa, oggi santa?

*\ –  Umile e obbediente. Così la ricordo. Avevamo programmato la sua presenza per la Giornata dei Giovani. Andai ad incontrarla un anno prima. Poi lei partì per l’India dove rimase per 6 mesi. Durante la sua permanenza in India le scrissi diverse volte, ma non mi rispose mai. Di ritorno dall’India andai a Roma ma lei declinò l’invito per impegni sopraggiunti. Allora chiamai al telefono il vescovo e lo feci parlare con Madre Teresa. Alla parola del Vescovo divenne obbediente e ribadì la sua presenza in Diocesi.

Per non farle perdere tempo allora andai a prenderla in macchina. Fu il dottor Astorri che mi accompagnò con la sua auto. Madre Teresa era avvolta dalla presenza di Dio. Ricordo che era maggio. Percorrevamo la strada Salaria. La Madre aveva il volto attaccato al finestrino e guardava ammirata la natura fiorita e lussureggiante di verde e del giallo delle ginestre. Il sabato incontrò i giovani al palazzetto dello Sport di Porto Sant’Elpidio e nel pomeriggio dopo l’adorazione in cattedrale parlò agli adulti. Quindi ripartimmo immediatamente perché la Madre aveva impegni. Le offrimmo per le sue opere di carità nove milioni di lire.

  1. – “Come vede il prete nel futuro?

*\-  Lo vedo come un uomo di Dio pieno di zelo che deve continuamente aggiornarsi. Il Concilio ha indicato alla Chiesa di saper leggere i segni dei tempi. Quindi c’è bisogno di un aggiornamento costante. Non è più tempo di dire “qui comando io!”.

D.- “Non c’è solo la Chiesa gerarchica, ma la Chiesa ’popolo di Dio’ ”.

*\ –  Il sacerdote allora deve essere un ponte tra Dio e il mondo. Deve essere competente in teologia e in antropologia, deve conoscere Dio e le persone. Deve essere un pastore che cresce nella conoscenza delle esigenze della Chiesa e della vita sociale. Papa Francesco indica il sacerdote come il pastore che “prende l’odore delle pecore”, che conosce l’ovile, i pascoli erbosi e la sorgente di acqua zampillante.-

<Nota del Direttore>:   Mons. Miola non rimpiange niente della sua vita. Si è sempre sentito parte della Chiesa. E ha lavorato alacremente nella Chiesa fermana. Oltre ad essere preside dell’Istituto Teologico Marchigiano per la sede di Fermo, è stato direttore dell’Ufficio diocesano per l’Insegnamento della Religione Cattolica, direttore dell’Ufficio diocesano per la Pastorale della salute. Con Mons. Rolando Di Mattia che è stato tra i fondatori della rivista “Firmana”./

  1. – “Guardando … la strada percorsa finora, qual è il giudizio che darebbe?

*\ –  Quel che desideravo e che si è realizzato solo in parte, era raggiungere uno spirito di collegialità a tutti i livelli: tra vescovo ed organismi di partecipazione, tra clero nelle vicarie, tra parroci, tra preti ed organismi parrocchiali, tra preti e laici in genere, tra insegnanti negli Istituti di teologia.

Con una visita pastorale, un congresso eucaristico, un sinodo e tante settimane di aggiornamento non sono esplose quella comunione e quella collegialità che l’ecclesiologia del Vaticano II e tutto il Concilio avevano messo a fondamento del rinnovamento della Chiesa. Mi sembra che sia un cammino lento ancor oggi.

  1. – “E ora, la Religione Cattolica. Direttore dell’Ufficio Catechistico Diocesano (UCD)

*\ –  Dopo don David Beccerica, mons. Bellucci aveva nominato vicario generale don Giuseppe Trastulli e don Beccerica direttore dell’Ufficio Catechistico Diocesano (UCD). Come vicepreside dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose (ISSR) m’intesi con don David per una formazione degli Insegnanti laici di religione cattolica (IRC) e cominciammo un primo corso di aggiornamento. Ma don Beccerica volle lasciare l’ufficio e il vicario don Trastulli un giorno mi chiamò e mi forzò a prenderne la successione. “Ti aiuterà il diacono Antonio Petrelli, mi disse, (che del resto collaborava con don Beccerica) e non avrai molto da fare”.

Accettai e nell’agosto-settembre 1993 mi trovai a fare le nomine degli IRC nelle scuole. Mi resi subito conto che erano necessarie alcune cose:

  1. – fare una graduatoria pubblica con i nominativi per l’insegnamento con ordine e trasparenza;
  2. – creare posti di lavoro per coloro che si diplomavano all’ISSR o all’ITM;
  3. – dare una formazione permanente agli stessi IRC.

Formai una commissione composta: da tre membri eletti dagli stessi IRC (uno per ogni grado di scuola: superiori, medie ed elementari), dal diacono Petrelli che fungeva da segretario, da un prete docente di religione nelle scuole pubbliche, da un rappresentante della curia. Con la commissione redigemmo un regolamento per formulare la graduatoria e lo sottoposi all’approvazione in un’assemblea agli IRC. Mi riservai però nel regolamento anche una certa libertà per immettere insegnanti preti, che fossero presentati dal vescovo o per determinati IRC nelle scuole di una certa importanza, come ad esempio i vari licei di Fermo e Civitanova. Lasciai ai tre rappresentanti di formulare la graduatoria sulla base della documentazione che ogni insegnante doveva mandare entro giugno per l’anno seguente. Nonostante i dubbi espressi dai preti e dallo stesso vescovo, la cosa andò bene e dette serenità agli IRC.

Per il secondo aspetto vedevo che non c’era altra possibilità che inserire gli IRC nelle scuole elementari e materne, in cui l’insegnamento di religione cattolica era affidato alle maestre curriculari. Queste non avevano alcuna preparazione e per di più non facevano le due ore di religione stabilite dall’Intesa Governo-CEI, dicevano qualcosa su Gesù a Natale e a Pasqua e usavano le ore per le altre discipline. Del resto le maestre ormai non venivano più dall’Istituto Magistrale “Bambin Gesù”, dove avevano una qualche formazione, se non teologico-biblica almeno cristiana, ma venivano dal magistrale pubblico dove non tutte del resto sceglievano quell’ora facoltativa di religione che è prevista nella scuola. Scrissi ai Direttori didattici, che sono i responsabili della nomina dei docenti nella scuola elementare e materna. Scrissi loro che l’incarico di religione poteva essere conferito solo a maestre che avessero fatto corsi di aggiornamento. Organizzai corsi biblici di 30 ore, prima per due anni in sedi diverse, a Fermo, a Servigliano e a Civitanova e poi per quattro anni solo a Fermo e mi sobbarcai a questo lavoro stressante. Incontrai così tante maestre alle quali spiegavo che l’insegnamento della religione doveva avere un aspetto culturale come le altre discipline e che a ciò non erano state preparate dalla scuola, dicevo che lasciando le due ore di religione loro non perdevano niente sullo stipendio, ci guadagnava la sicurezza dell’insegnamento come orario e come contenuto e che comunque se volevano continuare a fare le due ore di religione, dovevano aggiornarsi e frequentare i corsi. All’inizio ci fu una gran protesta, ma poi lentamente capirono, loro e i dirigenti; le partecipanti da principio erano tante, ma nel corso degli anni diminuirono sempre di più, lasciarono le due ore di religione ed entrarono come insegnanti per religione persone nuove diplomate all’ISSR.

Per la formazione permanente chiesi agli IRC di fare due corsi di aggiornamento ogni anno di almeno 20 ore ciascuno, uno obbligatorio per tutti e uno a scelta, e poi di fare due ritiri spirituali nel pomeriggio di due domeniche, una in Avvento e una in Quaresima, e una domenica completa verso la fine dell’anno scolastico. Per i corsi di aggiornamento mi aiutarono i professori dell’ITM, a volte chiamai relatori di fuori, affidai qualche corso a docenti inviati dall’Ufficio Nazionale; per i ritiri di Avvento e Quaresima chiamai soprattutto proff. laici come Mancini, Alici, Giacchetta, Virgili. Per la giornata di fine anno scolastico andammo presso monasteri o santuari offrendo anche la possibilità di esperienze diverse, invitai dei preti e detti la possibilità di celebrare il sacramento della riconciliazione. Furono esperienze belle e ben accolte dalla maggior parte. Invitai tutti a fare l’abbonamento al Foglio di Collegamento Pastorale (FCP) e ad abbonarsi a riviste di didattica della religione e a riviste biblico-teologiche. Per dare un compenso ai relatori e per le spese di gestione dell’UCD chiesi loro un contributo di cinquanta euro all’anno, che tutti, mi sembra, dettero volentieri.

Con questa politica gli IRC laici, che nel 1993 erano una quarantina, quando lasciai l’UCD nel 2004 erano quasi cento. Questo diede respiro anche all’ISSR che ebbe un buon numero di iscritti ogni anno fino al presente <2017>.

D – L’Istituto Teologico di Fermo: una conquista. Mons. Miola ha creato un ampio gruppo di docenti di teologia.

*\-     Ho sempre insegnato nell’ITM-ISSR, fin dal 1962 appena tornato dalla Terra Santa, dove avevo frequentato un anno presso l’Istituto Biblico tenuto dai Francescani. Ho insegnato anche quando ero vicario generale o impegnato con il sinodo, con la Scuola di formazione all’impegno sociale-politico (SFISP) e altro. Facevo le Introduzioni bibliche di Antico e Nuovo Testamento all’Istituto Teologico Marchigiano sezione di Fermo (ITM) e all’Istituto Superiore di Scienze Religiose (ISSR). Per l’insegnamento di esegesi era venuto don Raffaele Canali: era prete della diocesi di Ascoli, aveva fatto la licenza al Pontificio Istituto Biblico (PIB), era del Seminario Romano, compagno di don Paolo De Angelis, che me lo segnalò. In Ascoli non c’era più il seminario teologico, non trovò una cattedra e il vescovo Mons. M. Morgante gli permise di venire a Fermo. Mons. Bellucci lo accolse in diocesi, gli assegnò la cappellania di Stella Maris a Civitanova e i corsi di esegesi in seminario cominciando a sostituire mons. Cardenà. Diventammo amici e collaborammo. Trovò subito buona accoglienza e gli studenti erano entusiasti di lui. Faceva parte del cammino neocatecumenale e ne era un punto di riferimento in diocesi. L’intesa tra noi fu sempre buona; ci scontrammo solo in un punto. Come vicario generale avevo richiamato i neocatecumenali sulla celebrazione della veglia pasquale. La liturgia propone una celebrazione solenne e unitaria e chiesi ai neocatecumenali di partecipare alla veglia parrocchiale. Vennero in commissione per sostenere la loro prassi di una veglia propria, c’era anche don Raffaele, ci scontrammo su questo punto, ma non essendoci direttive specifiche sul movimento e le loro liturgie non ottenni nulla, anche perché l’arcivescovo Cleto, che si diceva d’accordo con la linea che avevo proposta, in pratica tollerò la prassi dei neocatecumenali. Rimanemmo amici anche se con qualche ombra.

Don Canali divenne rettore del seminario neocatecumenale Redemptoris Mater di Macerata e continuava ad insegnare. Nel 1991 accusò una cardiopatia, gli consigliarono di fare un intervento in una clinica specializzata di Roma. Sottoposto ad intervento chirurgico non si risvegliò dall’anestesia. Erano i primi giorni del gennaio 1992. Quasi presago della fine, poco prima del ricovero in clinica, lasciò uno scritto, come una preghiera e un testamento, veramente toccante, ricco di fede; vi annunciava la sua eventuale morte come l’incontro gioioso con Cristo ed invitava a celebrare l’eucaristia del suo funerale con i canti festosi tipici del “cammino”.

Mons. Bonifazi era l’incaricato per la cultura in diocesi e in seminario. Dopo il dottorato in teologia alla Pontificia Università Lateranense, si era laureato in filosofia, aveva fatto l’abilitazione, aveva pubblicato insieme al prof. Luigi Alici “Il pensiero del novecento” un testo di storia della filosofia, aveva vinto il concorso a preside e fece due anni il preside in una scuola superiore di Falconara, era sempre presente a convegni culturali e politici. Faceva un solo corso di teologia nell’lTM e ne conservava la presidenza. Preferiva insegnare all’ITM di Ancona e all’ISSR, che opportunamente da Loreto era stato trasferito nel capoluogo regionale. (… Un giorno) l’arcivescovo mi chiamò e mi pregò di prendere la direzione dei due Istituti di teologia. Così nel 1991 mi sobbarcai anche a questo non piccolo compito.

Mio primo impegno fu quello di tenere unito il corpo docente e per quanto possibile di farlo lavorare, consapevole però che Istituti di periferia come i nostri non potevano essere grossi centri di studio e di produzione. Per i due I. T. M., dipendenti dalla Pontificia Università Lateranense, due sedi: Ancona e Fermo, ma la direzione e la segreteria generale stavano nel capoluogo; l’ISSR, anch’esso collegato alla PUL, aveva le sedi a Loreto e a Fermo, ma direzione e segreteria stavano a Loreto. Ci tenni a dare risalto alla nostra sede sia perché a mio parere aveva un corpo docente più qualificato e sia per il numero superiore di iscritti. Alcuni nostri docenti preferivano avere più ore di insegnamento a Loreto e in Ancona perché c’era una retribuzione per ore di lezione e un consistente rimborso viaggi.

Feci un consiglio a Fermo e portammo avanti diverse iniziative. Organizzammo incontri di buon livello. Chiesi collaborazione al Segretariato per Unità dei Cristiani, cioè al sottosegretario Mons. Fortino, che conoscevo bene, e al Pontificio Istituto Biblico, di cui ero stato alunno e presso cui don Antonio Nepi, don Andrea Andreozzi e la signora Rosanna Virgili erano studenti. Cominciò così una serie di giornate di studio con relatori specialisti su temi ecumenici, biblici, teologici e di attualità. Da qui il passo alla pubblicazione di una rivista dell’ITM-ISSR fu breve. Don Rolando Di Mattia, la cui amicizia mi sostenne sempre, mi spronava ad una pubblicazione culturale-pastorale per il clero e mi promise il finanziamento del primo numero. Con lui trovai il titolo per la rivista rifacendoci al nome che i Capranica, vescovi di Fermo, nel ‘500 dettero al collegio romano che accoglieva studenti di Fermo: Sapientia Firmana. Tolsi quel Sapientia che mi sembrava troppo pretenzioso e lasciai Firmana dandogli un colorito neutro di “cose fermane” e aggiunsi come sottotitolo: Quaderni di teologia e Pastorale. Organizzammo un primo convegno su “Giustizia e violenza” e invitammo relatori di prestigio come il prof. Bovati del PIB e il prof. Penna della Pontificia Università Lateranense (PUL). Tutte le relazioni formarono il primo numero della rivista.

Fu un successo tanto che ci fu richiesta da diversi Istituti e docenti. Il mio lavoro fu di far collaborare i professori e trovai risposta da Nepi, Virgili, Petruzzi, Giustozzi, Castelli, Albanesi, Tosoni e da altri. Bonifazi, se richiesto, scriveva. Problema grosso fu poi quello di trovare i soldi per la stampa, ma tra abbonamenti ed offerte di preti, un finanziamento della Carifermo e di qualche laico, come il dott. Patrizio Astorri, feci fronte alle spese. Collaboratrice preziosissima fu la signorina Dolores Dolomiti, che chiamai come applicata di segreteria e mi faceva il paziente lavoro di sbobinatura delle relazioni registrate dei professori invitati, che io correggevo prima di mandarle agli autori per una revisione. La rivista uscì piuttosto regolarmente e s’impose anche nei confronti di Quaderni di Scienze Religiose edita dalla sede di Loreto.

D’accordo con i professori reimpostammo l’orario delle lezioni, stabilimmo lezioni di 45 minuti e così dalle 8.15 alle 12.30 venivano 5 lezioni ogni giorno con la possibilità di dare più ore alle discipline principali, di avere spazi per i corsi opzionali, e lezioni per latino e greco per alunni che ne erano digiuni. Io ero sempre presente negli Istituti e seguivo le vicende di ciascuno. Il segretario, don Ferdinando Pieroni, pur tra impegni di scuola di religione e parrocchia, riuscì, comunque, ad affrontare e sbrigare diversi problemi.

Ci tenni ad invitare professori laici come Luigi Alici prima e poi Roberto Mancini, professori di Filosofia a Macerata; convinsi l’arcivescovo ad investire sui laici che volevano fare teologia e ad aiutarli anche finanziariamente. Fu così che Mons. Bellucci dette sussidi alla Virgili, alla Serio, a Gobbi, mentre Tosoni, Castelli, De Marco, che avevano alcune ore di religione alla scuola statale si pagarono le spese per conto proprio. Sono poi tutti entrati come docenti in ITM-ISSR.

Attenzione posi anche alla biblioteca, strumento indispensabile di lavoro. La biblioteca del seminario era sfornita di recenti opere di teologia, di S. Scrittura, soprattutto di riviste. L’arcivescovo aveva permesso l’affitto alcuni spazi del seminario in modo d’avere entrate per far fronte alle spese di manutenzione di uno stabile immenso; pose mano ad alcuni lavori urgenti: risistemò le camere dei teologi che erano senza bagni interni, spostò i locali di teologia al pian terreno e riportò la biblioteca egualmente al pian terreno vicina all’ingresso del seminario creando così uno spazio omogeneo tra ITM-ISSR e biblioteca. I problemi della biblioteca erano enormi: catalogazione, fondi per l’acquisto di libri e per abbonamenti a riviste. Chiesi ai singoli professori pareri ed indicazioni di acquisti per ogni disciplina e controllai che le somme di spesa stabilite fossero effettivamente fatte (…). Nell’elenco delle riviste io e don Di Mattia mettemmo a disposizione i nostri personali abbonamenti in maniera tale che studenti e professori potevano sempre richiederle. Le cose certamente migliorarono, ma molti problemi rimasero irrisolti, anche perché nessuno si voleva prendere l’incarico di dirigerla.

Un momento delicato per l’ITM fu il passaggio da Istituto “affiliato” ad “aggregato” alla PUL. Si era nell’anno 1994-95. (…) Il vescovo di Senigallia, Mons. Odo Fusi-Peci, incaricato della CEM per gli Istituti Teologici di Ancona e Fermo, avviò presso la Congregazione per l’Educazione Cattolica la pratica per il passaggio dell’lTM da “affiliato” ad “aggregato”. (…) Don Albanesi, come professore di diritto, redasse un preambolo allo statuto, che riservava diritti essenziali all’arcivescovo e alla sede di Fermo, come la presentazione dei professori, del vice-preside, l’autonomia amministrativa…

D-\ Un seme senza frutto. La “Scuola di formazione all’impegno sociale e politico

*  Nella seconda metà degli anni ‘80 giunse al culmine una grande crisi della politica italiana e si sentiva l’esigenza di un rinnovamento. La vecchia DC aveva uomini non davano più affidabilità, l’avanzata del PCI, nonostante la crisi scoppiata nell’URSS e nei paesi satelliti, era irrefrenabile. Si fece interprete della situazione il card. di Milano Carlo Maria Martini lanciando le “Scuole di formazione all’impegno sociale – politico” (SFISP). Se ne fece un gran parlare in tutta Italia, sembravano la via aperta per una presa di coscienza nuova della presenza dei cattolici nella società. In diocesi se ne fece interprete don Lino Ramini, che chiese al vescovo di dare inizio alla scuola. Il vescovo accettò, anche perché la “Cooperativa 13 Maggio” se ne assunse l’onere finanziario. Il vescovo me ne affidò la direzione e tra lo scetticismo della maggior parte e l’entusiasmo di pochi facemmo un progetto e secondo il desiderio di don Ramini decidemmo di aprire la scuola a Civitanova. L’iniziativa della diocesi di Milano era di carattere popolare, da noi si decise di dare un taglio formativo per persone disposte ad entrare nella vita politica locale, comuni e province.

Il progetto era ambizioso: due giorni di lezioni al pomeriggio dalle 16 alle 20, coinvolgemmo docenti universitari: Ferretti, Totaro e Mancini di Macerata, Gatti di Perugia, Niccoli di Ancona ecc. Io mi assunsi l’incarico di tenere lezioni di Bibbia. Fu scelta la sede nella nuova zona commerciale di Civitanova, nei locali di proprietà della diocesi, di facile accesso perché vicino all’uscita dell’autostrada, ma distante dal centro storico della città. Facemmo conoscere l’iniziativa in diocesi e a Macerata, avemmo una trentina di giovani iscritti e nell’ottobre 1989 partimmo.

La “Cooperativa” mise a disposizione venti milioni all’anno, il prof. Andrea Rebichini era il segretario ed aveva l’incarico dell’organizzazione e del compenso ai docenti. L’entusiasmo iniziale fu tanto, ma dopo Natale si cominciò a sentire che l’impegno di frequenza e di studio era grande e quindi cominciarono a diminuire le presenze e lo scacco fu grosso quando a giugno solo pochissimi si dissero disposti a fare i colloqui, che di fatto poi non sostennero. Ci facemmo coraggio, sentimmo gli iscritti, decidemmo di tenere le lezioni solo un giorno la settimana.

Si cominciò il secondo anno col fiatone, andammo avanti ancora per due anni e nel 1993 si chiuse l’esperienza. Lo smarrimento fu profondo, ci consolava il fatto (amara consolazione!) che quasi tutte le SFISP di qualsiasi tipo sorte in Italia ebbero più o meno lo stesso travaglio, compresa quella di Milano. \

D.-  Il sinodo diocesano. Un evento di partecipazione e un parto difficile

*\   Nel dicembre 1988, dopo Natale, nella domenica dedicata alla S. Famiglia, venne a Fermo il papa Giovanni Paolo II. Era stato invitato dal Cammino Neocatecumenale per presiedere la celebrazione dell’invio in missione di alcune famiglie del Cammino. L’iniziativa era partita dai fondatori del Cammino Kiko e Carmen senza la mediazione dell’arcivescovo, ma mons. Bellucci chiese ed ottenne che prima che il papa andasse al centro neocatecumenale passasse nella cattedrale di Fermo. Nel discorso di saluto l’arcivescovo ricordò la storia e la vita della diocesi e richiamò le ultime attività diocesane e particolarmente l’avvio del sinodo diocesano. Da qualche mese non ero più vicario generale e quel giorno io rimasi al margine. Il papa nella risposta sottolineò l’importanza della celebrazione di un sinodo per una chiesa locale.

Il lavoro di preparazione per il sinodo cadde tutto sulle mie spalle. Feci una commissione preparatoria con i vicari zonali e con qualche collega dell’Istituto teologico. Con don Filippo Concetti preparai tutti gli schemi di analisi e di lavoro del primo anno su evangelizzazione e catechesi, che sottoposi alla commissione. Il lavoro di rilevamento fatto nella visita pastorale non ci fu di molto aiuto perché non c’era una sintesi per distretto o zona pastorale dal momento che il lavoro fatto da mons. Cardenà era centrato sulla parrocchia.

Cominciai poi ad andare nelle riunioni di distretto o di vicaria per seguire e animare la riflessione sia nelle riunioni del clero che in quelle del dopocena con i laici. Spesso erano più interessati i laici che i preti e questo da una parte mi rallegrava, ma dall’altra mi faceva male, mi faceva toccare con mano la situazione culturale e pastorale del nostro clero. Lo stesso feci per il secondo anno, don Filippo preparò il materiale su liturgia e preghiera; ci mise tutta la ricchezza della sua cultura e spiritualità perché univa allo studio, fatto a S. Anselmo, anche il peso della sofferenza per la sua salute. Per il terzo anno mi servii di altri apporti, di don Angelo Fagiani, don Vinicio Albanesi e altri, per gli ambiti sociali: famiglia, associazioni, scuola, economia, politica e altro. Tre anni e più di lavoro, che, a dire il vero, non fu molto partecipato; il lavoro per il sinodo diocesano non era sentito né dal clero né dai colleghi dell’lstituto Teologico e il vescovo appariva poco partecipe. Più che un approfondimento teologico-pastorale i preti volevano arrivare a norme pastorali che fossero chiare e a direttive obbligatorie per tutti, si era in tempi in cui tutto si sentiva come provvisorio.

Il 90-91 fu dedicato alla preparazione immediata del sinodo. Con una commissione allargata furono preparati quattro schemi di sintesi da sottoporre ai sinodali: il primo sulla diocesi, come chiesa locale, poi sui temi trattati nei tre anni di lavoro: 1) evangelizzazione e catechesi; 2) liturgia, fonte e culmine della vita della Chiesa; 3) testimonianza della carità e presenza della Chiesa nella diocesi e nella società. I testi furono elaborati sul materiale raccolto nei tre anni di preparazione e tenendo presenti i documenti conciliari, i documenti fondamentali come le esortazioni post-sinodali del papa e i testi della CEI. Si pensò a come formare l’assemblea sinodale con rappresentanza del clero, dei laici dalle parrocchie e vicarie, dei religiosi e religiose, delle associazioni e movimenti ecclesiali, degli uffici di curia. Fu stabilito anche il regolamento per la conduzione delle assemblee sinodali, fu proposto don Francesco Monti come segretario del sinodo. Furono fatte le elezioni per la rappresentanza del clero e dei laici da ogni vicaria e furono stabilite le domeniche pomeriggio per le assemblee sinodali, due per ogni mese da ottobre a maggio per un primo anno, in vista poi di un secondo. Furono mandati i testi preparati come base di discussione ai membri eletti e a quelli nominati. In vista delle assemblee l’attenzione e l’interesse per il sinodo si ravvivarono.

Domenica 22 novembre 1992, festa di Cristo Re, l’arcivescovo aprì il sinodo con una solenne celebrazione in cattedrale. Si susseguirono poi le assemblee secondo il calendario stabilito. Sottolineo solo alcuni momenti più vivi di discussione. L’inizio fu quasi turbolento perché alcuni preti e laici contestarono tutta l’impostazione dei documenti dicendo che erano generici e troppo ambiziosi con la pretesa di esaminare e dire tutto; proponevano di rifarli più brevi e solo su un qualche aspetto più importante della pastorale. L’assemblea si animò e corsero anche parole forti. Come responsabile del lavoro fatto, allora, considerai inutile prolungare la discussione. Si misero a votazione se i testi potevano diventare base per il sinodo oppure no. … Fu fatta la votazione e la stragrande maggioranza votò per la prosecuzione dei lavori!

Altri momenti di forte discussione:

  1. il rapporto tra chiesa locale e chiesa universale nel delineare la visione della diocesi, suscitata soprattutto dai preti focolarini;
  2. il rapporto tra diocesi ed associazioni e movimenti ecclesiali nella pastorale parrocchiale;
  3. rapporti tra AC e movimenti;
  4. ) vivissima fu la discussione sui testi per il catechismo;
  5. non minore quella con i neocatecumenali sulla celebrazione della pasqua in parrocchia, sulla iniziazione cristiana, e su tante altre.

Discussi i tre testi, integrati con le osservazioni fatte nelle riunioni zonali, alla fine fu aggiunto un documento sulle strutture amministrative della diocesi. I lavori durarono fino a tutto l’avvento del 1994. Osservazioni e proposte venivano raccolte dal segretario che poi sintetizzava il documento in proposizioni, che vennero sottoposte a votazione. Il lavoro del segretario don Francesco Monti fu molto prezioso per la capacità, la chiarezza e la rapidità di sintetizzare il tutto. A Pentecoste del 1994 in una solenne liturgia nella chiesa di S. Francesco (al duomo c’erano i lavori), alla presenza di quasi tutti i vescovi delle Marche, fu chiuso il sinodo.

Il vicario generale mons. David Beccerica fece un saluto e sottolineò l’importanza del sinodo in una diocesi, io feci la sintesi del lavoro e presentai le aspettative del popolo di Dio della nostra diocesi guardando al futuro, cioè all’attuazione del sinodo. Consegnai a nome dell’assemblea sinodale all’arcivescovo i cinque documenti e il testo delle proposizioni, divise secondo i cinque ambiti, perché le rivedesse e le pubblicasse come testo ufficiale del sinodo.

L’arcivescovo impiegò più di un anno a rileggere tutte le proposizioni, portò solo qualche leggera variante e rese pubblico, in un’assemblea liturgica, il libro sinodale il 27 settembre 1995 nel venticinquesimo del suo episcopato a Fermo.

 

 

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MIOLA Gabriele biblista rilascia intervista 2017 a Nicola del Gobbo Notizie biografiche e fermane

Miola Gabrile (1934-2017) intervista pubblicata nel periodico fermano LA VOCE DELLE MARCHE 14 maggio 2017 n. 7

Nota biografica di Mons. MIOLA Gabriele

Il prof. mons. Gabriele Miola, per oltre quarant’anni stimato docente di Sacra Scrittura dell’Istituto Teologico Marchigiano, nato il 19 febbraio 1934 ed è stato ordinato presbitero a Fermo il 22 maggio 1958. Nel corso della sua lunga vita ministeriale ha ricoperto innumerevoli servizi ecclesiali, tra cui quello di rettore del seminario di Fermo (1972), vicario generale  (1978), vicario episcopale per il sinodo (1991), vicepreside della sede di Fermo dell’Istituto Teologico, fondatore della rivista «Firmana», responsabile dell’insegnamento della religione cattolica della diocesi di Fermo, assistente ecclesiastico del MEIC. Benemerita la gratitudine dell’Istituto per il fecondo servizio di docenza e di coordinamento, per la sua cultura enciclopedica, la passione per la Scrittura, l’accompagnamento nei pellegrinaggi in Terra Santa, la recezione del concilio Vaticano II nella chiesa locale, l’ecumenismo, il laicato, le sfide culturali del tempo presente. Il 17 dicembre 2017 nella sua pace del Signore.

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Notizie derivate con qualche abbreviazione dal periodico diocesano di Fermo LA VOCE DELLE MARCHE 14 maggio 2017 n. 7. Intervista di don Nicola del Gobbo.-

<Miola Gabrile> Ho insegnato nell’ITM-ISSR, fin dal 1962 appena tornato dalla Terra Santa, dove avevo frequentato un anno presso l’Istituto Biblico tenuto dai Francescani. Ho insegnato sempre, anche quando ero vicario generale o impegnato con il sinodo, con la SFISP e altro. Facevo le introduzioni bibliche di Antico e Nuovo Testamento all’Istituto Teologico Marchigiano sezione di Fermo (ITM) e all’Istituto Superiore di Scienze Religiose (ISSR). Per l’insegnamento di esegesi era venuto don Raffaele Canali. Don Raffaele era prete della diocesi di Ascoli, aveva fatto la licenza al Pontificio Istituto Biblico (PIB), era del Seminario Romano. In Ascoli non c’era più il seminario teologico, non trovò una cattedra e il vescovo Mons. M. Morgante gli permise di venire a Fermo. Mons. Bellucci lo accolse in diocesi, gli assegnò la cappellania di Stella Maris a Civitanova e i corsi di esegesi in seminario, cominciando a sostituire mons. Cardenà. Diventammo amici e collaborammo. Trovò subito buona accoglienza e gli studenti erano entusiasti di lui. Faceva parte del cammino neocatecumenale e ne era un punto di riferimento in diocesi. L’intesa tra noi fu sempre buona. Come vicario generale avevo richiamato i neocatecumenali sulla celebrazione solenne e unitaria della veglia pasquale. Essi sostennero la loro prassi di una veglia propria. L’arcivescovo Cleto, che si diceva d’accordo con la linea che avevo proposta, in pratica tollerò la prassi dei neocatecumenali. …

Mons. Bonifazi, dopo il dottorato in teologia alla pontificia università Lateranense, era l’incaricato per la cultura in diocesi e in seminario. … Era sempre presente a convegni culturali e politici. Faceva un solo corso di teologia nell’ITM e ne conservava la presidenza. Preferiva insegnare all’ITM di Ancona e all’ISSR, che opportunamente da Loreto era stato trasferito nel capoluogo … Poi l’arcivescovo <mons. Cleto Bellucci> mi pregò di prendere la direzione dei due Istituti di teologia <Loreto e Ancona>. Così nel 1991 mi sobbarcai anche a questo non piccolo compito.

Mio primo impegno fu quello di tenere unito il corpo docente e per quanto possibile di farlo lavorare, consapevole però che Istituti di periferia come i nostri non potevano essere grossi centri di studio e di produzione. I due Istituti sono dipendenti dalla Pontificia Università Lateranense (PUL), l’ITM aveva due sedi: quella di Ancona e quella di Fermo, ma la direzione e la segreteria generale stavano nel capoluogo regionale; l’ISSR, anch’esso collegato alla PUL, aveva sede a Loreto e a Fermo, ma direzione e segreteria stavano a Loreto. Ci tenni a dare risalto alla nostra sede perché a mio parere aveva un corpo docente più qualificato e aveva un numero superiore di iscritti …

Feci un consiglio di sede e portammo avanti diverse iniziative. Organizzammo incontri di buon livello. Chiesi collaborazione al Segretariato per Unità dei Cristiani, cioè al sottosegretario Mons. Fortino, che conoscevo bene, e al Pontificio Istituto Biblico, di cui ero stato alunno e presso cui don Antonio Nepi, don Andrea Andreozzi e la signora Rosanna Virgili erano studenti. Cominciò così una serie di giornate di studio con relatori specialisti su temi ecumenici, biblici, teologici e di attualità. Da qui il passo alla pubblicazione di una rivista dell’ITM-ISSR fu breve. Don Rolando Di Mattia, la cui amicizia mi sostenne sempre, mi spronava ad una pubblicazione culturale-pastorale per il clero e mi promise il finanziamento del primo numero. Con lui trovai il titolo per la rivista rifacendoci al nome che i Capranica, vescovi di Fermo, nel ‘500 dettero al collegio romano che accoglieva studenti di Fermo: ‘Sapientia Firmana’. Tolsi quel Sapientia che mi sembrava troppo pretenzioso e lasciai ‘Firmana’ dandogli un colorito neutro di “cose fermane” e aggiunsi come sottotitolo Quaderni di teologia e Pastorale. Organizzammo un primo convegno su “Giustizia e violenza” e invitammo relatori di prestigio come il prof. Bovati del PIB e il prof. Penna della Pontificia Università Lateranense (PUL). Tutte le relazioni formarono il primo numero della rivista.

Fu un successo tanto che ci fu richiesta da diversi Istituti e docenti. Il mio lavoro fu di far collaborare i professori e trovai risposta da Nepi, Virgili, Petruzzi, Giustozzi, Castelli, Albanesi, Tosoni e da altri. Bonifazi, sempre prodigo di giudizi e di consigli su tutto, … se richiesto, scriveva. Problema grosso fu poi quello di trovare i soldi per la stampa, ma tra abbonamenti ed offerte di preti, un finanziamento della Carifermo e di qualche laico, come il dott. Patrizio Astorri, feci fronte alle spese. Collaboratrice preziosissima fu la signorina Dolores Dolomiti, che chiamai come applicata di segreteria e mi faceva il paziente lavoro di sbobinatura delle relazioni registrate dei professori invitati, che io correggevo prima di mandarle agli autori per una revisione. La rivista uscì più o meno regolarmente e s’impose.

D’accordo con i professori reimpostammo l’orario delle lezioni, stabilimmo lezioni di 45 minuti e così dalle 8.15 alle 12.30 venivano 5 lezioni ogni giorno con la possibilità di dare più ore alle discipline principali, di avere spazi per i corsi opzionali, e lezioni per latino e greco per alunni che ne erano digiuni. Io ero sempre presente negli Istituti e seguivo le vicende di ciascuno. Il segretario, don Ferdinando Pieroni, tra impegni di scuola di religione e parrocchia non era molto presente, comunque seppe affrontare e sbrigare diversi problemi.

Ci tenni ad invitare professori laici come Luigi Alici prima e poi Roberto Mancini, professori di Filosofia a Macerata; convinsi l’arcivescovo ad investire sui laici che volevano fare teologia e ad aiutarli anche finanziariamente. Fu così che Mons. Bellucci dette sussidi alla Virgili, alla Serio, a Gobbi, mentre Tosoni, Castelli, De Marco, che avevano alcune ore di religione alla scuola statale si pagarono le spese per conto proprio. Sono poi tutti entrati come docenti in ITM-ISSR.

Attenzione posi anche alla biblioteca, strumento indispensabile di lavoro. La biblioteca del seminario era sfornita di opere di teologia, di S. Scrittura, soprattutto di volumi recenti e riviste. L’arcivescovo aveva permesso l’affitto di spazi del seminario in modo d’avere entrate per far fronte alle spese di manutenzione di uno stabile immenso; pose mano ad alcuni lavori urgenti: risistemò le camere dei teologi che erano senza bagni interni, spostò i locali di teologia al pian terreno e riportò la biblioteca egualmente al pian terreno vicina all’ingresso del seminario creando così uno spazio omogeneo tra ITM-ISSR e biblioteca. I problemi della biblioteca erano enormi: catalogazione, fondi per l’acquisto di libri e abbonamenti a riviste. Chiesi ai singoli professori pareri ed indicazioni di acquisti per ogni disciplina e controllai che le somme di spesa stabilite fossero effettivamente fatte, perché gli amministratori … sviavano i fondi della biblioteca per spese, secondo loro, più urgenti. Nell’elenco delle riviste io e don Di Mattia mettemmo a disposizione i nostri personali abbonamenti in maniera tale che studenti e professori potevano sempre richiederle. Le cose certamente migliorarono, ma molti problemi rimasero irrisolti, anche perché nessuno si voleva prendere l’incarico di dirigerla.

Un momento cruciale per l’ITM fu il passaggio da Istituto “affiliato” ad “aggregato” alla Pontificia Università Lateranense. Si era nell’anno 1994-95. …. Il vescovo di Senigallia, Mons. Odo Fusi Peci, incaricato della CEM per gli Istituti Teologici di Ancona e Fermo, avviò presso la Congregazione per l’Educazione Cattolica la pratica per il passaggio dell’ITM da “affiliato” ad “aggregato”… L’arcivescovo Bellucci in base a un preambolo allo statuto, riservava diritti essenziali all’arcivescovo e alla sede di Fermo, come la presentazione dei professori, del vice-preside, l’autonomia amministrativa ……

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NICOLA DEL GOBBO ha pubblicato altre notizie come Direttore del periodico on line di Fermo LA VOCE DELLE MARCHE Num. 1 anno 2018 Qui solo alcune frasi, vedi FIRMANA n. 67 anno 2018 \2 con ricordi riediti anche nel sito internet: luoghifermani.it.

\\\ Mons. Gabriele Miola: un ponte, una finestra aperta, una Bibbia scritta in ebraico. Sono questi tre i simboli che mi vengono in mente per rappresentare la vita di Mons. Gabriele Miola nato all’eternità il 22 dicembre all’età di 83 anni.

=   È stato un ponte. Ha lavorato spendendosi fino all’inverosimile. Ha voluto che tanti uomini e donne, sacerdoti e religiose potessero attraversare il fossato che si era costruito tra chiesa e mondo, tra clero e laicato. Gli archi di questo ponte li ha costruiti con la Parola di Dio e con i documenti del Concilio Vaticano II. Non si è mai tirato indietro, ogni volta che qualche parroco lo chiamava per parlare ai catechisti, alla comunità. L’Istituto Teologico di Fermo si è formato grazie alla scienza, alla laboriosità e all’impegno che don Gabriele ha profuso. Voleva a tutti i costi che gli operatori pastorali fossero formati teologicamente e spingeva tanti laici e laiche a continuare gli studi a Roma. Aveva la certezza che il futuro si sfida prima di tutto con la competenza teologica …

==   È stato una finestra aperta. Ha aiutato tante persone ad avere una prospettiva diversa… Dove sembrava esserci aria asfittica, egli ha portato una folata di Spirito … con ottimismo il futuro. E non si è mai arreso. Fino all’ultimo giorno della sua vita, sopra il suo tavolo c’erano il libro delle Ore e il Novum testamentum graece et latine di Agostino Merk. È il segno evidente che la Parola di Dio è stata luce ai suoi passi.

===   L’ultimo segno con cui voglio ricordarlo è quella Bibbia scritta in ebraico appoggiata sopra la bara durante la celebrazione delle esequie in Cattedrale, domenica 24 dicembre …  Ha dato valore a quel libro sacro perché è Parola di Dio per ogni persona. Racconta la storia di ciascuno. È la Parola che fa diventare “carne”.

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MIOLA MONS. GABRIELE RICORDATO DALLA NIPOTE MARIA GRAZIA CHE LO RINGRAZIA

<Il ricordo  di Maria Grazia Miola figlia di Umberto fratello di don Gabriele. – La ringraziamo>

A zio Gabriele

Ricordo ancora la gioia del giorno in cui mi fu espressa la volontà di raccogliere gli scritti di zio Gabriele, editi ed inediti, in un unico testo cartaceo o digitale <luoghifermani.it>. Era un’idea che mi balenava in mente da tempo e subito mi resi conto che quella era la grande opportunità per poterla realizzare, così eccomi qua a parlare di lui in veste di parente più prossima. Sono già passati due anni dalla sua scomparsa ma il suo ricordo è talmente intenso e vivo che quasi sembra che sia ancora qui con noi. E non nascondo che anche tutti i libri, gli scritti e la grande mole di appunti per le sue lezioni trovati nello studio del suo appartamento in seminario abbiano contribuito a farci scoprire molto più della sua figura e della sua immensa cultura.

Cercherò di proiettarmi nel passato più remoto e più prossimo per svelare ciò che zio è stato veramente per noi famigliari, in particolare per mio fratello Massimo e me, i suoi due nipoti, in certi momenti della nostra vita. I ricordi iniziano a farsi nitidi all’età di dieci-undici anni, quando attendevamo la domenica per averlo in casa a pranzo con noi e sbalorditi ascoltavamo i suoi racconti di viaggi fatti in paesi lontani, di gente incontrata e culture scoperte. Inconsciamente ci stava preparando ad amare il mondo oltre i confini dell’ambito familiare o paesano e in un certo senso a diventare cittadini globalizzati. Poi sono arrivate le estati delle partenze e il primo viaggio fu a Roma in 500, ospiti presso la parrocchia di Sant’Ignazio d’Antiochia, da don Giovanni e sua sorella Caterina. Una settimana alla scoperta dei luoghi più belli e significativi di Roma con gli occhi attenti di una bimba affascinata dalla novità e da tanta magnificenza, sotto la guida di uno zio esperto e pratico di questa città. Che meraviglia Roma dal terrazzo della Cupola di San Pietro, un panorama davvero unico da godere e da lasciare impresso nel cuore!

Poi venne l’anno della scoperta della Sicilia grazie ad una serie di conferenze tenutesi ad Erice. Conobbi gente squisita, di una rara cordialità e, in tour nell’isola, zio ci diede modo di scoprire le imponenti vestigia architettoniche di templi e teatri, le grandi cattedrali con gli stupendi mosaici bizantini e gli immensi panorami marini. Ma non dimenticò di farci toccare con mano la devastazione della Valle del Belice in seguito all’evento sismico della notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1968: Gibellina, Salaparuta ed altre località ridotte a cumuli di macerie, spettrali, senza più segni di vita. Rimasi talmente colpita da questa realtà che la visione del tutto rimase per anni scolpita nella mia mente e all’esame di maturità scelsi il tema sulla solidarietà che mi permise di parlare anche di questa esperienza vissuta.

Ma non era finita qui, c’era la terra di Gesù da esplorare e così ci invitò a seguirlo in quelle zone a lui tanto care. Partiti un po’ come turisti, ritornammo pellegrini con una fede più autentica e viva, toccati nel profondo del cuore dalla vista dei luoghi in cui visse Gesù. Nazareth, Betlemme, Gerusalemme, ovunque lettura dei brani evangelici di riferimento, spiegazioni illuminanti e momenti di profondo raccoglimento e preghiera. Zio era talmente in sintonia con quei luoghi che avevamo l’impressione che fosse uno che aveva sempre vissuto lì: quella terra faceva parte della sua vita, era la sua seconda patria, e credo che sia stato così fino agli ultimi anni, quando ancora manifestava il desiderio di ritornare a Gerusalemme e spendere del tempo lì da solo, non come guida per gruppi di pellegrini ma come uomo alla scoperta del non ancora rivelato.

Qualche giorno fa ho provato a rovistare tra le carte di cassetti chiusi da tempo e con mia grande meraviglia ho ritrovato tutto il materiale di quel viaggio, così ora voglio provare a raccontarlo e riviverlo nei dettagli. Era il lontano luglio 1971 e a presiedere il gruppo di partecipanti – moltissimi erano sacerdoti – c’era S.E. Rev.ma Mons. Cleto Bellucci, Amministratore Apostolico di Fermo. Mio zio Gabriele era il Direttore Tecnico e Spirituale. Spendemmo i primi quattro giorni a Gerusalemme e facemmo escursioni a Gerico, al Mar Morto, Qumran e Betania. A Gerusalemme i momenti più toccanti furono all’Orto degli Ulivi e alla Grotta del Getsemani dove zio ci invitò a riflettere prendendo spunto dalla lettera di San Paolo agli Ebrei (5, 7-10), il Salmo 22 e il vangelo di Luca (22, 39-46). Nel giardino del Getsemani si trovano ulivi vecchi più di 3000 anni che ancora danno frutti. “Allora venne Gesù con loro in un podere, detto Getsemani, e disse ai discepoli: sedete qui, mentre io mi allontano a pregare” (Matteo 26). Pregammo anche noi perché era il luogo che meglio esprimeva la sofferenza di Cristo uomo e la presenza divina.

Il giorno seguente partimmo alla volta di Hebron e Betlemme, la città della Giudea che si estende su un fertile altopiano coperto di pascoli, campi e frutteti. Su questi campi lavorò Ruth, qui nacque il Re Davide e qui, mille anni dopo, i pastori di Betlemme furono i primi a udire “la buona novella”. “Voi troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia…Gloria a Dio nel più alto dei Cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà” (Luca 2). Ed altre ancora furono le letture sulle quali ci soffermammo a riflettere: in particolare la lettera di S. Paolo agli ebrei e il prologo al vangelo secondo Giovanni nel quale si parla del Verbo venuto nel mondo, mandato dal Padre, per compiervi una missione, cioè trasmettere al mondo un messaggio di salvezza. Sul pavimento sotto l’altare della Natività, incassato nel marmo, brilla una stella d’argento incorniciata da un’iscrizione latina “Hic de Virgine Maria Jesus Christus Natus Est” <qui è nato Gesù Cristo dalla Vergine Maria>: ricordo ancora la grande emozione che provai nel realizzare che stavo posando i piedi proprio nel punto in cui Gesù era venuto al mondo.

Poi Nazareth, il luogo dell’Annunciazione, dove l’Arcangelo Gabriele venne inviato “ad una vergine fidanzata ad un uomo di nome Giuseppe, della casa di Davide; la vergine si chiamava Maria… e l’angelo le disse…ecco, tu concepirai e darai alla luce un figlio al quale porrai nome Gesù” (Luca, 1).  Qui un altro richiamo alla riflessione fu la lettura tratta dal libro del profeta Isaia (7, 10-16) dove si parla della nascita di un figlio il cui nome, Emmanuele, cioè “Dio con noi”, è profetico e annuncia che Dio sta per proteggere e benedire Giuda.  Insomma, in ogni luogo zio cercava di offrirci spunti di riflessione per ravvivare e rinsaldare la nostra fede alla luce di testi biblici tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento che ci parlavano di Gesù e in un certo senso ci permettevano di calcare le sue orme.

L’indomani ci dirigemmo al Monte Tabor che si erge maestoso tra la pianura di Esdraelon e la Galilea. Nella tradizione cristiana il Tabor è considerato il Monte della Trasfigurazione. “Il Tabor e l’Hermon nel tuo nome esultano”, si legge nei Salmi (Salmi, 89). Ci vennero proposte letture di riferimento tratte dalla seconda lettera di San Pietro (1, 16-19) e dal vangelo secondo Matteo (17, 1-9). Nella prima lettura Pietro e gli apostoli si fanno trasmettitori di fatti di cui sono stati testimoni oculari e che le Sacre Scritture avevano preannunciato. La manifestazione gloriosa del Cristo sul monte della trasfigurazione ha permesso di vederne una prima realizzazione. Nella seconda lettura Gesù trasfigurato appare come il nuovo Mosè; la voce celeste ordina ai discepoli di ascoltarlo come tale e questi si prostrano in ossequio del Maestro. Quando l’apparizione termina resta solo Lui perché basta lui come dottore della legge perfetta e definitiva.

Il giorno prima del rientro in Italia visitammo Cana, il Monte delle Beatitudini e Cafarnao.  Cafarnao è sulla riva settentrionale del Lago di Tiberiade; era una città di frontiera tra la Galilea e il territorio del Golan, sulla strada principale che conduce da Damasco alla costa mediterranea e all’Egitto. Cafarnao divenne per Gesù una seconda patria dopo aver lasciato Nazareth ma vi ritornò a più riprese. Qui Gesù guarì la suocera di Simon Pietro (Luca, 4), curò il servo del centurione romano e risuscitò la figlia di Giairo, il capo della Sinagoga (Luca, 8). Il Monte delle Beatitudini è alto circa 150 m e si erge sul lago di Tiberiade. È il luogo del Discorso della Montagna dove Gesù insegnò ai suoi discepoli a distaccarsi dai beni terreni, ad evitare giudizi affrettati e a pregare. Per riflettere e comprendere meglio il messaggio evangelico zio ci propose la lettura della prima lettera di San Giovanni (4, 7-16) in cui ci veniva suggerito che amare è proprio dei figli di Dio perché è proprio di Dio. La missione del Figlio unico come salvatore del mondo manifesta che l’amore è da Dio perché Dio stesso è amore e fa partecipare all’amore il credente figlio di Dio. Nel vangelo secondo Matteo (5, 1-12), tra i temi principali zio individuava e ci proponeva i seguenti spunti di riflessione: quale spirito deve animare i figli del regno, con quale spirito essi devono perfezionare le leggi e le pratiche, il distacco dalle ricchezze, le relazioni con il prossimo, scelte decise che si traducano in opere.

Così, con la Bibbia in mano letta, ascoltata e vissuta, stava per concludersi il nostro pellegrinaggio in Terra Santa con zio Gabriele: un pellegrinaggio gioioso, un’esperienza religiosa unica, un viaggio verso le fonti che ci aveva indotti verso una migliore comprensione e ad una più profonda conoscenza e avrebbe inciso fortemente nella nostra vita per sempre.

Passarono gli anni e poi fu la volta di un’altra esperienza forte e toccante: l’incontro a Porto S.  Elpidio con Madre Teresa.  Era il lontano 1985 e per la chiusura del congresso eucaristico diocesano furono organizzati diversi incontri, tra questi quello per la giornata dei giovani con Madre Teresa di Calcutta.  Mio zio andò a prenderla a Roma alla casa delle suore sulla Casilina insieme al dott. Astorri e a Dolores e sulla strada del ritorno mi chiamò al telefono dicendo che dovevo recarmi al palazzetto dello sport di Porto S. Elpidio per fare da interprete a Madre Teresa. Non mi aveva avvertito prima e rimasi senza parole ma capii che non potevo tirarmi indietro così “ubbidii”. Da una parte rimasi toccata dalla sua minutezza e dall’altra sbalordita dal gran numero di giovani che erano accorsi ad ascoltarla. Come disse più volte zio parlando di questo momento speciale “Fu un delirio tra i giovani che non finivano di applaudire e ascoltavano in religioso silenzio. Segno proprio che la santità si impone da sé”. Io ascoltavo e traducevo e nel mio intimo cercavo di far penetrare quante più parole possibili, toccata dalla loro profondità e dalla verità delle stesse. In quel periodo ero in attesa di Michela, la mia primogenita, così lo dissi alla Madre e le chiesi una benedizione: con semplicità ci benedisse e posò le mani sulla mia pancia. Mi commuovo ancora al ricordo di quel giorno, di quei momenti che hanno segnato così profondamente la mia vita e rimarranno per sempre incisi nella mia memoria.

Un ultimo aspetto sul quale vorrei soffermarmi è la presenza costante e l’aiuto che zio ha assicurato alla sua famiglia durante i lunghi periodi di sofferenza e malattia. Gli anni ’80 furono particolari da questo punto di vista: nell’83 la morte di nonna Pierina, i frequenti ricoveri in ospedale di zio Pietro che aveva bisogno di assistenza e poi la morte di nonno Angelo nel marzo dell’86. Eravamo sette in famiglia, otto quando veniva a trovarci zio Gabriele, e lentamente stavamo diminuendo di numero, ma sempre rimanendo saldi nella fede e nei principi cristiani, ancorati a grandi esempi di pazienza nelle difficoltà, di perdono verso tutti, di laboriosità, di serenità e umiltà. E zio Gabriele era con noi! Quando si trattò di fare scelte importanti per la sua vita, come scrisse nelle sue memorie, non se la sentì di lasciare babbo Umberto e la sua famiglia a far fronte a tutte le difficoltà nonostante mamma Fulvia si fosse prodigata sempre e in modo ammirevole durante tutte le varie infermità.

Questo e molto altro ancora è stato zio Gabriele per me in certi momenti della mia vita. Penso anche che molto sia stato per la diocesi di Fermo per aver fatto conoscere e vivere il rinnovamento del Concilio Vaticano II.  Dal profondo del cuore ringrazio il Signore per avercelo dato!

<Maria Grazia Miola figlia di Umberto fratello di don Gabriele>

 

 

 

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MIOLA Gabriele biblista indaga sulle versioni della storia della monarchia di David e Salomone nella recente storiografia

MIOLA, Gabriele. L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore” (1 Sam 16,17). David e l’attesa del re ideale nell’AT. In “Il politico e la politica nella Bibbia”, a cura di Bruno Tarantino; Todi: Tau, [2008- Atti del Convegno tenutosi a L’Aquila.] pp. 27- 43

–< Qui note al termine del testo>

L’UOMO GUARDA L’APPARENZA, IL SIGNORE GUARDA IL CUORE (1 Sam 16,7) DAVID E L’ATTESA DEL RE IDEALE NELL’AT.

Le parole citate nel titolo sono dette da Dio a Samuele quando questi viene inviato dal Signore alla casa di Jesse a Bethlehem per consacrare David, giovinetto, ma chiamato ad essere il re che dovrà sostituire Saul, ripudiato da Dio per la sua condotta.

Questa espressione coinvolge tre personaggi: Samuele al quale Dio da questo messaggio; Saul, il re ripudiato perché non risponde al piano di Dio; David, l’eletto, che è scelto perché è giovane che ha un cuore secondo il disegno del Signore. La storia di questi tre personaggi è contenuta nei due libri che portano il titolo del giudice-profeta, cioè 1-2 Samuele.

Dividerò questa relazione in tre momenti. Vedremo prima la frase nel contesto narrativo biblico, poi ci domanderemo qual è il valore storico di questi testi biblici, cioè dei libri che portano il nome di Samuele e quindi la base storica dei suoi tre personaggi, servendoci di alcuni studi recenti; infine cercheremo di coglierne il senso teologico e il messaggio per l’oggi.

.1. –  II contesto biblico

La frase si trova nel quadro della storia di Saul e David nel momento in cui il profeta è stato inviato da Dio alla casa di Jesse in Bethlehem perché Dio ha ripudiato Saul e ha scelto il suo nuovo consacrato dalla casa di Jesse. Samuele, ultimo dei “giudici”, compie la missione affidatagli, va di nascosto di Saul a Bethlehem alla casa di Jesse e questi gli presenta i suoi figli a cominciare da Eliab, il maggiore, giovane robusto e aitante. Potrebbe essere lui il prescelto, ma Dio dice a Samuele: “Non guardare al suo aspetto né all’imponenza della sua statura. Io l’ho scartato, perché io non guardo ciò che guarda l’uomo. L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore” (1 Sam 16,7).

.1.1. –  II giudice-profeta Samuele.

Samuele, stando al testo biblico, gioca un grande ruolo nel passaggio dal tempo dei Giudici a quello della prima monarchia, un passaggio che si può porre intorno all’XI-X, verso il 1000 a. C. Samuele, ultimo dei Giudici, segna una svolta epocale e proprio perché è stato un grande personaggio, il racconto biblico ne narra le origini. Samuele è un figlio donato da JHWH ad una coppia sterile, Elkana ed Anna, quando questa donna aveva implorato tra le lacrime una maternità. Ottenutala, aveva consacrato il figlio al servizio di Dio sotto la guida del sacerdote Eli presso il santuario di Shilo, dove si trovava l’arca dell’alleanza. Per il comportamento irresponsabile di Eli, che non aveva condannato e punito la condotta immorale dei figli, il Signore rifiutò Eli, i suoi due figli e tutta la sua famiglia, che fu sterminata durante la guerra contro i Filistei. Samuele gli succedette come giudice: aveva la sua residenza a Mizpa, giudicava Israele e lo liberò dall’oppressione dei Filistei. Sono i capp. 1-7 del primo libro di Samuele.

Quando Samuele divenne vecchio e il potere dei Filistei si fece sempre più minaccioso e d’altra parte i suoi figli non si comportavano bene, come s’era comportato il padre, gli Israeliti intimiditi dalla pressione sempre più forte del nemico filisteo. chiesero a Samuele di costituire per loro un re, così come tutti gli altri popoli vicini ne avevano. Si svilupparono così in Israele due tendenze o due partiti: uno contrario all’istituzione monarchica e uno favorevole. Quello favorevole vedeva nella figura del re l’opportunità di una concentrazione di forze di fronte al nemico, unificando le tribù finora autonome e disperse; l’altro pensava che volere un re fosse un attentato alla sovranità di JHWH su Israele e che il monarca avrebbe diminuito la loro liberà imponendo tassazioni, facendo la coscrizione dei giovani per l’esercito ed esigendo il mantenimento della corte.

Samuele consultò il Signore, che disse al giudice Samuele di accogliere le richieste di consacrare un re per Israele nonostante tutti i presagi negativi. Si giunse così alla scelta di Saul, figlio di Kish della tribù di Beniamino. Il racconto procede su due linee: da una parte JHWH sceglie direttamente il suo consacrato e indica a Samuele il giovane Saul mentre questi si avvicina alla sua casa per interrogarlo dove potesse ritrovare alcune asine, che si erano smarrire, dalla stalla di Kish suo padre. Allora il Signore rivela a Samuele che il giovane è l’eletto e Samuele all’insaputa di tutti nella sua casa lo unge re su Israele; dall’altra parte si narra come Saul aveva riportato una grande vittoria contro gli Ammoniti e come, guerriero provato e vittorioso, viene sorteggiato nell’assemblea delle tribù d’Israele a Gai- gala (cfr. 1 Sam 8-12).

Di fatto lo scontro fra le due correnti non è che la visione, come vedremo, dell’autore deuteronomista di questi libri, che ha un giudizio negativo sulla monarchia. Samuele ha avuto comunque un grande ruolo facendosi propugnatore di una visione potremo dire “laica” della monarchia, presentandola non come un assoluto e tanto meno come una realtà divina, tipica delle culture viciniori, ma relativizzando la figura del re in quanto legato ad un patto con Dio e col popolo, patto che lui stesso deve osservare per primo (cfr. 1 Sam 10,25)(n.1)

.1.2. –  Il re Saul

I capp. 13-15 accennano appena alle vittorie di Saul sui Filistei, sugli Ammoniti, sugli Edomiti e sugli Amaleciti (1 Sam 14,47), sottolineano invece più fortemente gli errori di Saul: si arroga il diritto di offrire sacrifici prima di attaccar battaglia e poi non attua la legge del herem o dello sterminio nei confronti degli Amaleciti riservando per sé una parte del bottino invece di consacrarlo tutto alla divinità. Il racconto sembrerebbe sottintendere una divisione dei poteri, quello sacerdotale, quello militare, quello tribale; ma Saul, come primo re, ha dinanzi i modelli cananei, che conoscono un solo potere, quello assoluto del re. La condotta di Saul porta alla rottura con Samuele, che per ordine di Dio rifiuta Saul e viene mandato dal Signore a scegliere un altro re. È qui che Samuele, per ordine di JHWH, va a Bethlehem e tra i figli di Jesse, per elezione divina, viene scelto il più piccolo, il giovane David, che “era fulvo, con begli occhi e gentile di aspetto”; poteva sembrare poco atto alle armi e ad essere re, ma Dio dice a Samuele: “Io non guardo ciò che guarda l’uomo. L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore” (1 Sam 16,7).

Il narratore commenta: “lo consacrò con l’unzione in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore si posò su David da quel giorno in poi” (v. 13).

.1.3. –  Il re David

Troviamo poi la storia di David nel seguito di 1 Sam 16-31. Vi si narra l’insorgere dell’invidia di Saul nei confronti di David, dopo la sua vittoria sul gigante Golia, la persecuzione del re contro David. David, anche quando viene braccato da Saul, è presentato come uomo che confida nel Signore, pur perseguitato è rispettoso di Saul perché lui è il consacrato di JHWH e, pur avendo l’occasione di sbarazzarsi del persecutore uccidendolo, non lo elimina in attesa di un giudizio di Dio; è costretto a rifugiarsi presso il nemico filisteo, ma non partecipa alla guerra che costoro muovono contro Saul, che muore sui monti di Gilboa nella battaglia decisiva tra Israele e i Filistei.

Tutto il secondo libro di Samuele narra del regno di David, raccontando le lotte tra David e la famiglia di Saul (1-4), l’unificazione di tutte e dodici le tribù d’Israele nell’unico regno davidico e l’occupazione di Gerusalemme, che diventa la capitale e la città di David, dove il re porterà l’arca dell’alleanza (5-6); momento culminante è l’oracolo di Natan, che da una legittimazione religiosa alla casata di David con la promessa divina della stabilità della discendenza davidica sul trono di Gerusalemme, perché Dio stesso costruirà una casa a David (cap. 7). Seguono poi le vicende tragiche familiari con le lotte per la successione, come conseguenze del peccato di adulterio e di omicidio perpetrato da David (10-20). David però rimarrà per sempre il re ideale perché Dio, che “guarda il cuore’’, ha fatto di David il suo eletto, il suo servo, come di lui si canta nel salmo 89,4-5.20-38: “ho trovato David, mio servo, con il mio santo olio l’ho consacrato” (v. 20).

.2. –   Una lettura critico-storica

La lettura dei due libri di Samuele è affascinante, dominata da un alone di soprannaturalità in cui l’intervento dei profeti, di Samuele prima e poi di Gad e soprattutto di Natan, lascia trasparire una storia che si realizza secondo un disegno comunicato dall’alto, in cui la presenza di Dio è costante. Questi racconti lasciano l’impressione di una storia quasi fiabesca, in cui si muovono insieme gli uomini e Dio per realizzare un progetto straordinario, cioè il regno ideale d’Israele. Dinanzi a racconti siffatti, abituati come siamo ad una storia che si sviluppa secondo l’azione e i progetti degli uomini, attenti ad una lettura critica degli eventi e delle azioni dei diversi personaggi, si rimane sconcertati. Ad esempio, che significato ha, da un punto di vista storico, ungere re prima Saul e poi David in segreto all’insaputa di quel popolo su cui dovranno regnare?

Da quando la critica letteraria e storica da Noth in poi, cioè da metà del secolo scorso, si è concentrata sullo studio della corrente deuteronomistica, che sarebbe all’origine dell’opera che va dal libro di Giosuè al libro dei Re, si è detto che questi libri rappresentano la storia d’Israele e che è un’opera storiografica fondamentale, che rilegge unitariamente sulla base di fonti antiche, trasmesse ed acquisite, il disegno della storia d’Israele (n.2).

La storiografia deuteronomista sorge all’epoca del re riformatore Giosia alla fine del VII secolo, ma viene completata dopo l’esilio al ritorno da Babilonia nel V-IV secolo.

Gli studiosi di questo periodo storico avevano diviso la storia deuteronomista in due fasi: una leggendaria o prestorica, quella dei “giudici”, che sono figure di eroi tribali, trasmesse dalla fantasia popolare e circondate da un alone leggendario, e una fase storica, che ci trasmetterebbe la realizzazione del regno d’Israele incipiente con Saul e arrivato al suo fulgore con David. Si faceva così cominciare la possibilità di una lettura storica con gli inizi della monarchia al X secolo a. C.

La guerra con i Filistei, David e la capitale Gerusalemme, le conquiste di David al sud fino al Mar Rosso e al di là del Giordano fino a Damasco e a tutta la Siria e poi il regno di Salomone, la costruzione del tempio e delle fortezze, nonché la flotta e i commerci erano ritenuti dati storici accettabili.

Più recentemente, possiamo dire all’incirca negli ultimi trent’anni, la critica storica e letteraria ha rivisitato tutta la costruzione deuteronomista della storia d’Israele vedendola come proiezione giustificativa di periodi più tardivi. Facciamo riferimento ad alcuni studi recenti, fermandoci su quelli accessibili in lingua italiana.

Due archeologi israeliani, Finkelstein e Silberman, hanno recentemente pubblicato i risultati delle loro ricerche archeologiche (n.3) tirandone conseguenze per la datazione degli scritti biblici.

Due momenti sono particolarmente illustrati: il passaggio dall’età del tardo bronzo (sec. XV-XII) a quello del ferro I (sec XII-XI) e il periodo di David-Salomone (sec. X). Per quanto riguarda il primo passaggio i due autori dicono che sulla base dei reperti archeologici si può affermare che in terra di Canaan, dal periodo del bronzo antico (sec. XXX- XXIII) all’età del ferro I (sec XII-X) si susseguirono periodi alternati di sviluppo e di distruzione nei quali le popolazioni locali passavano da stanziali, caratterizzate da sviluppo urbano e commerciale, a gruppi se¬minomadi e di piccoli villaggi. Alla fine del periodo del tardo bronzo (sec. XVI-XII), l’archeologia attesta la ripresa di nuovi insediamenti con attività pastorizie ed agricole, che danno origine a quella continuità che crea la storia d’Israele (n.4).

I due archeologi concludono: “Il processo che qui descriviamo è in effetti l’opposto di quello che viene rappresentato nella Bibbia: l’apparizione dell’antico Israele fu il risultato e non la causa del collasso, della caduta cananea. La maggior parte degli israeliti non arrivò a Canaan da fuori, ma emerse al suo interno. Non ci fu un esodo di massa dall’Egitto, come non ci fu una conquista violenta di Canaan. Inizialmente Israele fu costituito per la maggior parte da popolazioni locali, le stesse che incontriamo nell’altopiano nell’età del bronzò e in quella del ferro: colmo dell’ironia, anche i primi israeliti erano originari di Canaan!”

(n.5).

Anche per il periodo di David e Salomone i due autori affermano che dell’epoca d’oro della dinastia davidica non ci sono tracce; le conquiste di David e il grande regno unito di tutte le tribù d’Israele al tempo di David e le grandi realizzazioni edilizie di Salomone non possono essere documentate. È documentabile invece il regno del nord a partire dalla dinastia di Omri (sec. IX) quando in Giudea invece risultano insediamenti rarefatti e Gerusalemme non era che poco più di un villaggio, il cui sviluppo comincia invece ad essere documentabile archeologicamente a partire dalla fine dell’VIII sec., cioè dopo la distruzione di Samaria nel 721 per opera degli Assiri, quando la popolazione del nord si sarebbe riversata nella Giudea dando sviluppo nuovo al regno del sud, che aveva piccole, lontane origini nella dinastia davidica (n.6).

La storia deuteronomista ha invece descritto un unico grande regno al sec. X, al tempo di David e Salomone, per giustificare l’espansione di Gerusalemme verso le regioni del nord al tempo del re riformatore Giosia alla fine del VII sec., dal 622 in poi.

Concludono i due archeologi: “Lo storico deuteronomistico trasmette al lettore un messaggio duplice e in qualche modo contraddittorio. Da un lato raffigura Giuda e Israele come stati fratelli, dall’altro sviluppa un forte antagonismo fra loro. L’ambizione di Giosia era di espandersi a nord e di conquistare i territori dell’altopiano che una volta appartenevano al regno settentrionale. Così la Bibbia sostiene quell’ambizione spiegando che il regno settentrionale era stato fondato sui territori della mitica monarchia unita ed era stato governato da Gerusalemme, che era uno stato fratello israelita, che il suo popolo era composto da israeliti i quali avrebbero professato il culto a Gerusalemme, che gli israeliti ancora presenti in quei territori dovevano nuovamente volgere lo sguardo a Gerusalemme e che Giosia, l’erede del trono di David e della eterna promessa che JHWH aveva fatto a David, era l’unico legittimo erede dei territori dello sconfitto stato d’Israele” (n.7).

Questa lettura critica della storia deuteronomistica è accolta negli studi recenti e già J.L. Ska l’aveva esposta nel suo libretto: La parola di Dio nei racconti degli uomini e recensendo il volume di Finkelstein-Silberman si dice d’accordo nella ricostruzione fatta dai due autori su base archeologica, anche se pensa che non si possa attribuire a Giosia tutto il peso della formazione letteraria degli scritti deuteronomistici, che Ska abbassa al periodo postesilico (n.9).

Un’autorevole Storia di Israele, quella di A. Soggin, che nella prima edizione del 1983 presentava la monarchia di David e Salomone come sostanzialmente storica, nella seconda recente edizione del 2002 si allinea ad una lettura “mitica” di quell’epoca, come proiezione giustificativa di esigenze tardive, pone questo periodo nell’ambito delle «tradizioni sulla preistoria del popolo» e fa cominciare la storia d’Israele dal sec. IX con la dinastia di Omri (n.10).

L’orientalista M. Liverani ha pubblicato due anni fa il volume: Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele (n.11). Anche per lui la storia documentabile d’Israele comincia solo con il IX sec., le epoche precedenti sono ricostruzioni ideologiche per giustificare situazioni posteriori. Significativa l’impostazione del volume, che intitola la parte seconda: Una storia inventata e vede nella storia deuteronomistica una costruzione sorta nel periodo tardo persiano, quando gli esuli che tornano da Babilonia debbono difendere le loro pretese di fronte agli israeliti che erano rimasti in Giudea o di fronte alle nuove popolazioni importate che avevano occupato i territori lasciati liberi dai deportati. Ecco i titoli dei capitoli della seconda parte che rivelano da soli la lettura che Liverani fa della storia degli inizi d’Israele: 13. Reduci e rimanenti: l’invenzione dei Patriarchi; 14. Reduci e alieni: l’invenzione della conquista; 15. Uno stato senza re: l’invenzione dei Giudici; 16. L’opzione monarchica: l’invenzione del regno unito; 17. L’opzione sacerdotale: l’invenzione del tempio salomonico; 18. L’auto-identificazione: l’invenzione della Legge. Questi titoli vanno presi con riserva perché hanno più il sapore di titoli giornalisti che di valore oggettivo. Del resto l’autore stesso ne è consapevole perché non nega che l’invenzione affondi le sue radici nelle tradizioni antiche d’Israele. Questa storia desta sorpresa, ma una sorpresa salutare, che invita ad una lettura più critica e quindi più storica d’Israele e delle sue istituzioni (n.12).

.3. –  Prospettiva teologica

A quanto detto fin qui il regno di Saul fu ben piccola cosa. Liverani lo descrive così: “A giudicare dalle indirette connessioni cronologiche tra la figura di Saul e figure o eventi ad esso collegati siamo intorno al 1000… Lo scenario del regno – una volta eliminate tardive generalizzazioni del tipo e tutto Israele o da Dan a Bersabea e simili – è limitato al territorio di Efraim e Beniamino” (n.13). Per il regno di David, che dopo la morte di Saul unisce sud e nord nella sua persona, scrive: “Il regno di David si estende a questo punto a tutti gli altopiani centro-meridionali, ma resta pur sempre una modesta formazione politica sotto l’egemonia dei Filistei” (n.14).

Salomone eredita il regno del padre David e viene descritto nella sua estensione, che va “dal fiume (l’Eufrate) alla regione dei Filistei e al confine dell’Egitto” (I Re 54). A proposito Liverani scrive: “l’estensione indicata … corrisponde alla satrapia persiana della Transeufratene” (n.15), cioè alle proiezioni utopiche territoriali del postesilio.

La fama di Salomone in 1 Re è legata soprattutto alla costruzione del tempio di JHWH e del palazzo reale, ma, scrive Liverani: “Questi edifici, nelle dimensioni riportate dal testo biblico, superano di molto lo spazio disponibile nella piccola Gerusalemme che l’archeologia consente di assegnare al X secolo … Si tratta di progetti di età persiana, proiettati indietro al tempo di Salomone per conferir loro un valore fondante” (n.16). Alla morte di Salomone, le due tribù di Beniamino e Efraim, che formavano il piccolo regno di Saul, poi unite da David, fecero scelte differenti: Beniamino confermò i suoi legami con Gerusalemme e quindi alla tribù e al regno di Giuda, Efraim invece si collegò con Manasse, che aveva ascendenza comune (entrambe si rifacevano all’antenato Giuseppe) costituendo una entità nuova, che assunse o gli fu dato il nome di Israele, come già risulta per quel territorio dalla stele di Meren-ptah (n.17).

I racconti della elezione di Saul e di David fanno parte della redazione deuteronomistica, che ci ha dato, oltre i libri di Giosuè e Giudici, 1-2 Samuele e 1-2 Re. Essa vuol mettere in evidenza che l’origine della monarchia risponde al volere di Dio. Raccontare delle due unzioni, fatte da Samuele per ordine del Signore, assolutamente all’insaputa del popolo (1 Sam 10,1-2 per Saul e 1 Sam 16,13 per David), consacrati già re prima di ogni rapporto con esso, significa affermare che il sorgere della monarchia in Israele risponde al disegno di Dio. Ma la corrente deuteronomista sa che i re di Samaria erano idolatri e che la maggior parte dei re della dinastia davidica si era allontanata dalla fedeltà jahwista. Per questo le Scritture di redazione deuteronomistica hanno una chiara intonazione antimonarchica.

La tonalità antiregalista risulta chiara fin dall’apparire delle prime tendenze di chi vuol affermare un potere regale assoluto tra le tribù d’Israele. La tradizione ce ne ha dato tracce evidenti nelle pagine del libro dei Giudici con la storia di Abimelek, figlio di Gedeone.

Questi aveva rifiutato l’offerta di diventare re e aveva risposto a chi lo sollecitava al regno: “Io non regnerò su di voi né mio figlio regnerà; il Signore regnerà su di voi” (Gs 8,23). Ma Abimelek, il figlio natogli da una concubina di Shekem, assetato di potere, dopo la morte del padre, sterminò tutti i fratelli, figli di Gedeone, per regnare sulla città, ne scampò solo uno, Jotam. Il deuteronomista raccoglie dalla bocca di Jotam una favola imperniata sugli alberi che vanno in cerca di un re: costoro domandano alle piante più nobili del territorio di accettare il regno e chiedono successivamente all’ulivo, al fico e alla vite di regnare su di loro, ma queste si scherniscono perché hanno da pensare ai loro frutti squisiti; lo chiedono infine ad un rovo, che accetta purché tutti si mettano sotto la sua ombra (Gdc 7,9-15). La favola ha un sapore sarcastico nei confronti della monarchia: questa è un potere che schiaccia e che inaridisce la vita, come tutto ciò che spunta all’ombra di un rovo. Anche al sorgere effettivo della monarchia con Saul, il deuteronomista evidenzia la sua tendenza antimonarchica. Samuele, l’ultimo dei giudici, ne è il portavoce, egli afferma che richiedendo un re il popolo commette un duplice peccato: peccato contro JHWH perché pretendendo un re rifiuta la signoria del Signore e non si fida del suo aiuto contro la forza dei Filistei, e peccato contro la propria indipendenza e libertà perché il re sottoporrà il popolo a tributi e ne requisirà le proprietà migliori (1 Sam 8,6-11).

Il giudizio critico del deuteronomista sulla monarchia si risolve però in una utopia monarchica, di un re cioè che risponderà totalmente al piano di Dio e che applicherà la legge di JHWH. Questo avviene con l’inizio della letteratura deuteronomista, secondo Finkelstein-Silberman, al tempo del re Giosia. Questi è il vero re, che approfittando della debolezza dell’impero assiro e della ancora non affermata potenza neobabilonese tra il 640 e li 609, occupa le terre del nord cioè dell’ex-regno d’Israele e unifica nord e sud, questi è il re che fa di Gerusalemme uno splendore, questi è il re giusto che distrugge l’idolatria e fa la grande riforma sulla base della nuova legge che prevede un monoteismo assoluto, la centralizzazione del culto jhawista nell’unico tempio di Gerusalemme e un unico sacerdozio levitico, come è descritto in 2 Re 22,3-23,28 e nel rotolo della legge di Dt 12-26.

Per giustificare l’espansione del regno e la riforma, la linea deuteronomistica ne proietta l’anticipazione agli inizi della casata davidica, al sec. X, al tempo del capostipite, il re David. Scrivono i due autori: «Nella Storia Deuteronomistica, si venne a creare un’unica epopea della conquista di Canaan … (n.11) potente e prospero regno settentrionale, alla cui ombra Giuda era vissuto per oltre duecento anni, fu condannato come aberrazione storica, scisma peccaminoso della vera eredità israelita. I soli governanti giusti di tutti i territori israeliti erano i re della stirpe di David. È chiaro che molti dei personaggi descritti nella Storia Deuteronomistica, come il pio Giosuè, David ed Ezechia e gli apostati Acaz e Manasse, sono ritratti speculari in positivo e in negativo di Giosia» (n.18). Liverani invece sposta l’ideologia monarchica e tutta la formazione della letteratura deuteronomistica nel post-esilio e scrive: «Che inizi con David a noi pare ovvio, poiché fu David a fare di Gerusalemme la sua capitale … È un segnale chiaro di come la storiografia filo-monarchica, da Giosia a Zerubbabel, abbia in mente non la semplice rivitalizzazione del regno di Giuda, ma la costituzione di un regno che comprenda “tutto Israele”, compreso il nord …S’immaginò (dovremmo dire si postulò), come dato inconfutabile, un regno unico sotto David e Salomone, esteso quanto l’intera satrapia della Transeufratene, accentrato attorno alla dinastia reale e al tempio di JHWH, invincibile in guerra, e interamente caratterizzato da giustizia e sapienza» (n.19).

La frase: l’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore (1 Sam 16,7), oggetto di questo contributo, fa parte della visione deuteronomista della regalità. Nel racconto biblico Samuele lo dice in rapporto a David, ma il deuteronomista la dice in rapporto a Giosia o ad un re che risponda al suo ideale. Solo JHWH conosce il cuore dell’uomo (leb o lebab), cioè cuore, nel linguaggio biblico indica il luogo delle decisioni, quindi dell’intelIetto e della volontà (n.20), perciò dire che il Signore conosce il cuore dell’uomo significa dire che ne conosce le direttive decisionali della vita , la vita della persona nei suoi aspetti relazionali con Dio, con la sua Legge, con il prossimo. Il cuore dell’uomo è profondo (‘amoq) dice il Sal 64,7, è come un abisso o un baratro, perché impenetrabile all’occhio dell’estraneo e del soggetto stesso, ma Dio, che scruta gli abissi, penetra al fondo del cuore dell’uomo e lo scruta. Il Signore conosce l’intimo del cuore perché tutto l’uomo è sua opera, liricamente canta il salmo 139,13: “Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto (sakak, tessere, intrecciare) nel seno di mia madre”.

JHWH può intervenire nel cuore dell’uomo, può renderlo buono, retto, fermo, puro, tenero, anche quando l’uomo, che si è traviato e indurito nel male, invoca il Signore perché lo converta e gli cambi il cuore, ma può anche indurire il cuore quando l’uomo non vuol aprirsi alla comprensione del suo piano e della sua volontà (n.21).

Il deutronomista sa che anche David ha peccato e ha portato le conseguenze del suo adulterio e del suo omicidio con le lotte fratricide all’interno della sua famiglia per la successione al trono (2 Sam 13-20) e Salomone, che aveva costruito il primo tempio, viene biasimato per aver introdotto culti ido-. latrici a Gerusalemme in favore delle donne straniere che aveva sposate e accolte nel suo harem (1 Re 11,1-13), ma nonostante tutto l’ideologia regalista al tempo di Giosia (Finkelstein-Silberman) o nel postesilio (Liverani) esaltano David e Salomone per avallare la riforma e le istanze di Giosia o i tentativi di una possibile restaurazione della monarchia al tempo di Zerubbabel.

La frase “l’uomo guarda le apparenze, Dio guarda li cuore” nel contesto deuteronomista è messa in bocca a JHWH per dire quali debbono essere il cuore, cioè la mente, le intenzioni e i progetti del re secondo l’ideale monarchico. Il rotolo della legge del tempo di Giosia (2 Re 22,3-23,27), tramandatoci in Dt 12-26 mette la proclamazione della legge in bocca a Mosè per dare ad essa un’autorevolezza assoluta e stabilisce la natura della monarchia e i compiti propri del re. Evidentemente parla al futuro perché è Mosè che legifera. Si stabilisce che il re dev’essere un israelita, deve ricordare che è stato JHWH a stabilire Israele come popolo quando lo ha liberato dall’Egitto e che quindi ne è il vero Signore, non dovrà avere molte mogli, né molte ricchezze o eserciti e soprattutto deve conoscere, leggere ogni giorno la legge scritta e attenervisi, di essa deve avere copia presso di sé. Gli esegeti dicono che questa figura di re, delineata in Dt 17,14-20 più che la figura di David, di Giosia o di un qualsiasi altro re storico, è il re ideale, che somiglia più a un rabbino studioso e osservante della legge che a un monarca, tanto più che in tale testo legislativo si prevede che il re non abbia poteri giudiziali perché ci sono i giudici (16,18-20) e i leviti (17,8-13) che amministrano la giustizia e ci sono i sacerdoti per il culto (18,1-8) (n.22).

Dai libri postesilici di Esdra-Neemia e dai profeti Aggeo e Zaccaria si può intuire un qualche tentativo di restaurare la monarchia con i discendenti diretti della linea davidica Sheshbassar e Zerubbabel, ma poi o per l’opposizione della potenza persiana, che aveva facilitato la ricostruzione di un piccolo Israele in Gerusalemme e nella Giudea, o per le lotte interne alle fazioni dei sionisti tornati a Gerusalemme, il sogno di una restaurazione monarchica con un re che rispondesse all’ideale coltivato dagli esuli a Babilonia ed espresso nella corrente deuteronomistica, tramontò e si instaurò invece una teocrazia sotto l’egida del sommo sacerdote, una struttura che durò fino a metà del II sec. a.C. Così la figura del re diventò durante questo periodo solo una figura ideale messianico del discendente davidico.

Nell’ultimo periodo dell’AT, quello greco (301-67 a.C.), quando la Palestina dal dominio dei Tolomei d’Egitto (301- 199) a. C.) passò sotto il dominio dei Seleucidi di Siria (199- 67 a. C.) e Israele subì la persecuzione di Antioco IV Epifane, che voleva imporre anche religiosamente l’ellenismo, scoppiò la ribellione di Matatia e del figlio Giuda, che dette come esito politico una monarchia. I due fratelli di Giuda infatti, Gionata e Simone, riuscirono a concentrare nelle proprie mani ogni potere. Fu loro riconosciuto dalla Siria il titolo di etnarca, cioè capo del popolo con poteri civili-amministrativi, il titolo di stratega cioè capo dell’esercito e il titolo di archiereus cioè di sommo sacerdote (n.23). I discendenti di Simone costituirono una vera e propria monarchia, quella degli Asmonei per passare poi, al tempo di Gesù, ad Erode e alla sua famiglia. Furono tutti re che garantirono l’indipendenza e particolarmente la libertà religiosa d’Israele, ma furono tutti monarchi di tipo ellenista, di vita pagana e miscredenti, ben lontani da quell’ideale sognato dalla teologia deuteronomistica.

Dove stava ormai il David ideale? Per questo in Israele sorsero diversi movimenti religiosi che si rifugiarono nell’apocalittica cioè sull’attesa del giudizio escatologico di Dio che avrebbe distrutto il male e inviato il vero re-messia, il sacerdote che avrebbe riformato il culto, il profeta che avrebbe portato la parola definitiva di Dio (n.24).

Potremmo concludere dicendo che Dio guardò il cuore del Figlio, il quale rispose: “Ecco io vengo. Sul rotolo del libro di me è scritto che io faccia il tuo volere (Sal 40,8; Eb 10,5-7) e solo in Gesù si sono realizzate definitivamente le attese dell’AT perché lui è per noi e per tutti il vero re-messia, cioè il Cristo, il profeta e il sommo sacerdote.

N O T E

.1. – Sugli aspetti religiosi della monarchia in Israele e sul confronto con le monarchie di altri popoli cfr. H. GAZELLES, II Messia della Bibbia, Boria, Roma 1981; ID., Royauté sacrale, in DBS, vol 10 col. 1056-1077; ID., Sacral Kingship, in ABD, vol 5 pp. 863-866.

.2. – M. NOTH, Storia d’Israele, Paideia, Brescia 1975, p. 221. Nella traduzione sulla seconda edizione tedesca del 1954 scriveva: ”La tradizione davidica deve essere in gran parte considerata una storiografia, quindi come «un’opera dotta», mentre per il periodo storiografico fino a Saul possediamo quasi solo racconti popolari … Per la storia di David disponiamo infatti di un insieme di fonti, grazie alle quali possiamo comprendere gli avvenimenti storici, e soprattutto le loro concatenazioni …”

.3. – I. FlNKELSTEIN – N.A. SILBERMAN, Le tracce di Mose. La Bibbia tra storia e mito, Carocci edit., Roma 2003. Il titolo originale in inglese esprime meglio il contenuto del libro: The Bible Unearthed. Archeology’s New Vision of Israel and the Origin of Its Sacred Texts (Jemsalem 2002).

.4. – Ibidem, pp. 127-131.

.5. – Ibidem, p. 133.

.6. –  Per una sintesi differente cfr. il volume, tradotto da poco in italiano, di R. Albertz, Storia della religione nll’Israele antico .1. Dalle origini alla fine dell’età monarchica, Paideia, Brescia 2005, & 3.1 (orig. 1996). La formazione di uno stato territoriale monarchico (pp. 166-178), che, pur partendo dai dati dell’analisi archeologica di Finkelstein, riconosce un vero stato unitario con David e Salomone.

.7. –  I. FILNKELSTEIN, op. cit., p. 181.

.8. – J. L. SKA, La parola di Dio nei racconti degli uomini, Cittadella, Assisi 2000, pp. 90- 92.

.9. – Cfr. RdT 2003/1, pp. 133-139; sulla stessa linea si esprimono G. NIKAN- D. NOC- QUETN, Introduction à l’Ancien Testament, Labor et Fides, Genève 2004, pp. 291-295; più critico invece J.-M. Van Cangh, « La Bible dévoilée» de Finkelstein et Silberman, NRT 2004, pp 446-457.

.10. – SOGGIN, Storia d’Israele. Seconda edizione interamente rifatta, e aggiornata., Paideia, Brescia 2002. Cfr. prefazione alla seconda edizione.

.11. –  M. LIVERANI, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Edit. Laterza, Bari 2003.

.12. – Una recensione molto positiva del volume fa il prof. J.L. Ska, che, dopo alcuni rilievi, conclude: « Il est certain que parmi les nombreuses histoires d’Israel sur le marché toutes ne son pas de meme valeur, mais celle de Mario Liverani est certainement à classer parmi les meilleures et les plus à jour » in Biblica 2005/2 p.179-283. Molto critica invece, più nei particolari che nell’insieme, quella di A. ROFÉ in Henoch, 2003/3, pp. 361-371. A Rofé non piace la titolazione della seconda parte dell’opera come “storia inventata” e richiama i possibili agganci della storia deuteronomistica alle tradizioni del passato.

.13. – M. LIVERANI, op. cit. p. 100.

.14. – Ibidem, p. 107.

.15. – Ibidem, p. 109.

.16. – Ibidem, p. 113. Per una discussione sui regni di David e Salomone su base archeologica si può vedere l’ampia appendice in B. HAUPERN, I demoni segreti di David, Paideia, Brescia 2004, pp. 423-475.

.17. – Cfr. M. LIVERANI, op. cit p. 117.

.18. – Ibidem, pp. 297-298, ma cfr. tutto il cap 11 pp. 289-309.

.19. – Ibidem, pp. 346-347, ma cfr. intero cap 16 intitolato: L’opzione monarchica: l’invenzione del regno unito.

.20. – Cfr. H.-J. FABRY, Leb- Lebab in GLAT, Paideia, Brescia 2004 (vol. IV. coll. 636-682, specialmente & IV, 4-5).

.21. – Cfr. per il rinnovamento del cuore Sai 51,12; Ez 36,26 e altro.; per rindurimento Es 4,21 ecc. Vedi H.-J. FABRY, op. cit.

.22. – Su questa tematica si possono consultare diversi articoli in «Parola Spirito Vita. Quaderni di lettura biblica», n° 51, 2005, su Il Potere con contributi di: A. VENIN, Gli inizi della monarchia in Israele: racconti per riflettere sul potere, pp 33-50; D. SCAIOLA, Il modello del re giusto: Giosia, Giosuè e la tradizione deuteronomista (p. 51-62); J.L. SKA, Divisione e condivisione dei poteri secondo il Deuteronomio (Dt 1.6,18-18,22). Cfr anche AA.VV., Davide: modelli biblici e prospettive messianiche, numero monografico di «Ricerche Storico Bibliche», 1995/1; B.M. LEVISON, The reconceptualization of Kingship in Deuteronomy and thè Deuteronomistic History’s Trasformation of Torah, VT 2001/4, pp. 511-534; R. VlGNOLO, Il Libro e la Terra. La torah mosaica nella storia deuteronomistica, Teologia 2001/2, pp. 185-212.

.23. – Cfr. 1 Mc 10,20.65

.24. – Questo tema, vasto e importante, esula dal nostro compito. Rimandiamo ad al tri studi.

 

 

 

 

 

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Tre libri di Vinicio Albanesi sulla fiducia nella vita. Recensione di Gabriele Miola

 

GABRIELE MIOLA fa la recensione in FIRMANA  Quaderni di teologia e pastorale N. 27 – anno 2001 dicembrepp. 192- 194

ALBANESI, Il Dio della compagnia. Per una spiritualità della condivisione, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1998.

ALBANESI, Le tribù dell’antico mondo. Lettera ai nipoti sulla fine del millennio, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1999.

ALBANESI, La dolcezza di Dio, EDB, Bologna 2000

Don Vinicio, così lo chiamiamo noi familiarmente, è da moltissimi anni professore di Diritto Canonico nella sede di Fermo dell’Istituto Teologico Marchigiano; è Officiale del Tribunale Ecclesiastico Regionale, animatore della Comunità di Capodarco e presidente del C.N.C.A. Don Vinicio è noto in tutta Italia per i suoi frequenti interventi in campo sociale in TV, sulle riviste e sui giornali.

Quando a Capodarco ci fu la presentazione del primo libro, Il Dio della compagnia, fui invitato a dire alcune parole. Ricordo che di questo libro dissi che nella lettura vi avevo colto questi due aspetti: un libro apologetico e sapienziale. Mi spiegai così: apologetico perché difende una spiritualità, quella caratteristica della comunità di Capodarco; sapienziale perché lo stile e il contenuto si avvicinano a quello dei libri sapienziali della bibbia, come il libro dei Proverbi e ancor più a quello del Siracide.

La comunità di Capodarco, fondata da un prete, don Franco Monterubbianesi, guidata attualmente da don Vinicio, formata da portatori di handicap e da persone sane, non si propone tanto di fare assistenza quanto di valorizzare tutte le persone in un reciproco sostegno e secondo le capacità di ognuna di esse. La comunità per la sua impostazione “laica”, che accoglie tra i suoi membri praticanti e non, credenti e non, che è frequentata più da persone che non si rifanno ad esperienze ecclesiali che da persone di Chiesa, che non chiede ai presenti ritmi di preghiera e di culto, che pure sono offerti nella struttura della comunità, si è fatta la nomea di comunità outsider, fuori dai contesti ecclesiali e per questo quasi rifuggita da preti e gruppi diocesani. Con questo primo libro mi è parso che don Vinicio volesse dire: questa è la spiritualità della comunità di Capodarco. Il prefatore del libro, il giornalista Michele Serra, che si definisce ‘non uomo di Chiesa’, di questo libro dice proprio all’inizio: E’ un libro di uomo di Chiesa e ne mette in risalto i valori trasmessi e il coinvolgimento che provoca nel lettore.

Il libro rivela l’esperienza meditata di don Vinicio nella comunità, che alle spalle ha una grossa sorgente di fede, ma propone giudizi, atteggiamenti, consigli in maniera ferma senza dire apertamente della sorgente che li alimenta, la lascia intuire, vi annuisce costantemente, ma vi fa raramente aperto riferimento, come nel capitolo intitolato individualità (p.76ss). Il suo riferimento, e non poteva essere altrimenti, è Gesù e il suo vangelo, il Vaticano II e particolarmente la Gaudium et Spes. Il suo stile è uno stile sapienziale Con questo intendo uno stile asciutto, immediato, che riassume una realtà vissuta, consiglia, esorta, ammonisce, ma non offre argomentazioni, ti mette dinanzi alla tua responsabilità e ti chiede una decisione. Don Vinicio sceglie 11 temi, che espone in altrettanti capitoli. Sono parole astratte: memoria, male, condivisione, giustizia, comunità, mondialità, povertà, affettività, politica, individualità, preghiera, che diventano concrete nell’esperienza della vita di don Vinicio e nella proposta che ne emerge. Sono quadri che non si lasciano riassumere e in uno stile irrepetibile; per questo bisogna leggere queste pagine per gustarle.

L’altro libretto Le tribù dell’antico mondo, scritto sul volgere del millennio, come dice il sottotitolo (Lettera ai nipoti sulla fine del millennio), è uno scritto che ha intento pedagogico: vuol aiutare i nipoti, i ragazzi e i giovani di oggi, a leggere con occhi aperti il mondo in cui vivono, a vederne gli aspetti positivi, ma soprattutto quelli negativi. Don Vinicio ha maturato la sua esperienza accanto ai portatori di handicap, accanto agli emarginati dell’emisfero nord, il nostro mondo dell’opulenza, e dell’emisfero sud, quello della povertà, e il suo occhio è distaccato, può leggere senza veli il mondo odierno del benessere. Con una grossa dose di humor e una illuminata ironia fa passare davanti ai nipotini i diversi aspetti del quotidiano creato dal mondo degli adulti, di cui costoro godono senza vederne i limiti, anzi invitando a immersivisi quasi fosse il mondo della perfezione e della gioia. Scegliendo ben 24 verbi: nascere, crescere, giocare, studiare… fino a soffrire, invecchiare, morire fa scorrere quadri in cui scorgi la condivisione per i benefici e i vantaggi apportati dal progresso tecnologico, ma anche il bisturi che squarcia veli che coprono il vuoto di una vita assorbita dalle cose, lo stordimento degli animi da una parte tutti presi dal gioco dell’economico e dall’altra intorpiditi nel molle adagiarsi nei piaceri, estranei al mondo dei più perché chiusi in quello dei pochi. Lo stile di don Vinicio non cambia, rimane secco, però più descrittivo sorridendo con una fine ironia del mondo del millennio che volge al tramonto. Il nuovo sarà diverso? No, dice don Vinicio. Il tempo scorre sempre uguale, tocca ai nipotini accorgersi della realtà che li circonda e don Vinicio li aiuta a leggerla nella speranza che i nipoti non vi rimangano invischiati o addirittura che la possano cambiare. Per questo offre qualche consiglio scandagliando cinque parole vecchie e nuove nello stesso tempo, che hanno un sapore “laico” e “religioso” insieme: il dubbio, la lezione, l’idolo, il dono, la lode. Dubitando su quanto ti viene offerto, cioè interrogandoti su quanto ti circonda, imparando sempre la lezione dall’esperienza della vita, rifiutando gli idoli e aprendoti al dono di te verso l’altro e con l’animo grato e pieno di lode per il mistero della vita che ti è data di vivere, dice don Vinicio all’ipotetico nipote, potrai non cambiare il mondo, ma dargli un soffio nuovo di vita vera.

La dolcezza di Dio è il volume più recente, pubblicato anno scorso e in qualche modo è il più impegnativo. Nell’introduzione don Vinicio dice come è nato questo libro; scrive in apertura: “Questa riflessione nasce dall’impegno di aver dovuto commentare per una rivista cattolica (Famiglia cristiana), i vangeli della domenica”.

E’ quindi una riflessione già nota a chi, settimana dopo settimana, segue Famiglia cristiana e ha approfittato delle suggestioni, che don Vinicio ha offerto per un approfondimento dei brani evangelici della liturgia, che in questo caso erano quelli di Matteo, cioè quelli proposti nel ciclo A. In un anno, di domenica in domenica, si legge quasi per intero, un vangelo e don Vinicio ha ripreso quelle riflessioni, le ha rielaborate e le ripropone non come omelie domenicali, ma per tematiche che seguono i blocchi narrativi del vangelo di Matteo, senza trascurare riferimenti agli altri vangeli; è come se avesse meditato di nuovo sull’intero vangelo. Basta vedere lo sviluppo dei capitoli: 1. Nato da donna (Mt 1-2) ; 2. La tentazione (Mt 4,1-11); seguono tre capitoli sul discorso della montagna: 3. Beati voi tutti (Mt 5,3-12); 4. Pregate (Mt 6,5-15: commento al “Padre nostro”); 5. La vita dei discepoli (insegnamenti di Gesù da Mt 5-7); 6. Miracoli (Mt 8-9); 7. La missione (Mt 10); 8. Dubbi e calunnie (Mt 11- 12); 9. Le parabole (Mt 13); 9. La comunità (da Mt 14-18); 10. L’ora della prova (Mt 19-23); 10. Il momento finale, cioè la prospettiva escatologica (Mt 24-25); 11. La morte (Mt 26-27); 12. Risurrezione (Mt 28). Don Vinicio, seguendo il vangelo di Matteo, come afferma lui stesso, non fa esegesi, per così dire scientifica, ma sottolinea il percorso con riflessioni profonde e un’attualizzazione penetrante, con un linguaggio asciutto e immediato, che scuote il lettore e gli trasmette quel fascino della persona di Gesù che ha afferrato prima don Vinicio. Mi piacerebbe riportare tante suggestioni che don Vinicio ci offre, ma non è qui possibile, voglio sottolineare invece l’impressione globale che mi ha lasciato la lettura: un circolo ermeneutico che parte da don Vinicio e dalla sua larga esperienza va al vangelo e alla sua comunità e riparte dalla comunità per approdare di nuovo attraverso don Vinicio al confronto col vangelo In questo circolo, dice don Vinicio stesso, ha assaporato la dolcezza di Dio, che si manifesta nell’umanità di Gesù, che ci rivela il Dio della vita, della felicità, un Dio generoso, coraggioso, onesto (dall’epilogo), il Dio della compagnia.

GABRIELE MIOLA

 

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