BELLI Giuseppe Gioachino poeta esalta la scienza del cuoco. Arrangiamento del suo testo poetico

BELLI Giuseppe Gioachino poeta, sonetto : IL CUOCO.

Arrangiamento di Antimo Lorcassi

IL SAPERE DELLA CUCINA FA GLI AMICI

Tu, caro figlio, sai ben poco:

parli di studiare lingua latina:

matematica, legge, medicina

sono tutte sciapate, studi per gioco.

Ma la persona si conosce al fuoco,

ai fornelli un talento si scrutina;

la prima scuola vera è la cucina;

il più stimato personaggio è il cuoco.

E quando un cuoco soffre un torto, spesso

il mondo (e io so bene quel che dico)

lo guarda come un torto fatto a se stesso.

Basti sapere che il mio padrone antico

tanto ben visto, quando ebbe dismesso

il cuoco, non gli restò alcun amico.

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MIOLA Gabriele biblista studia la religiosità popolare di Israele nell’ottavo secolo a. C. dalla testimonianza del profeta Amos che condanna l’idolatria e il culto magico

MIOLA GABRIELE

LA VITA RELIGIOSA DEL POPOLO NEL  PROFETA  AMOS

ESTRATTO ABBREVIATO E RILETTO

Il biblista MIOLA Gabriele nel 1960 ha redatto una esercitazione nel Pontificio Istituto Biblico in Roma, riguardante TESTIMONIANZE DEL PROFETA AMOS SULLA CULTURA RELIGIOSA DEL POPOLO DI ISRAELE.

< N. d. r. Il popolo del regno d’Israele nell’VIII secolo è contaminato da forme di culto di varie divinità, mentre vive l’alleanza con Jahweh. L’attività profetica di Amos porta a cercare Dio nella sua assoluta trascendenza e ad onorarlo nel culto vero, mentre i concetti religiosi del popolo hanno perso la loro purezza e la loro forza contaminandosi a contatto con il paganesimo esteriore circostante. L’attesa del “giorno di Jahweh” fa sognare il trionfo di Israele su tutti i popoli. Al contrario il profeta proclama un tempo di purificazione e di ricerca della giustizia. La pratica religiosa popolare nei luoghi sacri regi è inquinata fortemente della pratica magica e assorbe il veleno della licenziosità immorale. Il regno scismatico d’Israele creato da Geroboamo I (930-909 a. C.) aveva creato una separazione religiosa dal regno di Gerusalemme nella Giudea. Amos vissuto al tempo di Geroboamo II (c. 783- 753 a. C.) nota l’abuso politico delle feste e dei culti per cui esprime oracoli contro diverse città e nazioni: Damasco e la Siria, Gaza e altre città filistee; Tiro, Edom, Ammon, Moab, Giuda, Israele. Il sacerdote di Baal in Betel, Amasia chiede che il re scacci Amos perché parla di disgrazie, ma Amos incoraggia alla conversione e infine proclama un oracolo favorevole di Iahweh: «Muterò le sorti del mio popolo Israele, ricostruiranno le città devastate e vi abiteranno»  (Am 9,14 Traduzione C.E.I.). >

I N D I C E

  • Bibliografia

PARTE 1° – Testi: (1) Amos  2,4b; (2)  2,7b-8; (3)  3,14; (4)  4,40; (5)  5,4s;

(6)  5,21-27; (7)  7,9; (8)  7,13; (9)  8, 5; (10)  8,14;

– PARTE 2° – La mentalità religiosa popolare deteriora

il concetto di Dio:

(a) La mentalità magica;

(b) Luoghi di Jahweh al modo dei Baalim;

(c) Il “giorno di Jahweh.

– PARTE 3° – La pratica religiosa popolare:

(a) Il loro Dio;

(b) luoghi di culto;

(c) il culto e il suo valore

BIBLIOGRAFIA

La letteratura sul tema è quanto mai vasta, specialmente se si entra nel campo archeologico; mi limito ad indicare solo quelle opere che il tempo e le possibilità mi hanno permesso di consultare; altre sono state indicate nelle note al testo.

 

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  2. Prophets and Priest in old Israel 1953

WRIGHT, G. E., Biblical Archaeology, Philadelphia 1957.

1° ANALISI DEI TESTI

.1.

Amos 2,4-5   «Così dice il Signore: «Per tre misfatti di Giuda e per quattro non revocherò il mio decreto, perché hanno disprezzato la legge del Signore e non ne hanno osservato i decreti; si son lasciati traviare dai loro idoli che i loro padri avevano seguito; appiccherò il fuoco a Giuda e divorerà i palazzi di Gerusalemme».

Per il popolo che rigetta Dio cfr. 1Re 11,4-8, 15,12; 2Re 11, 18; 2Cr 15,8,21,11,23,17, 25,14.

.2.

Amos 2, 7-8  «  essi che calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri e fanno deviare il cammino dei miseri, e padre e figlio vanno dalla stessa ragazza, profanando così il mio santo nome. 8Su vesti prese come pegno si stendono presso ogni altare e bevono il vino confiscato come ammenda nella casa del loro Dio».

Per la prostituzione nel culto di divinità cfr. Os 4,14; 1Re 14, 24;15,12;22,46; 2Re 23,7; Deut 28, 17. Per il mantello preso in pegno cfr. Es 22,25; Deut 24,12

.3.

Amos 3,14 «Quando colpirò Israele per i suoi misfatti, colpirò gli altari di Betel; saranno spezzati i corni dell’altare e cadranno a terra».

Per i corni, parti di altare cfr. 1Re 1,50; 2,28.

.4.

Amos 4, 4s «Andate pure a Betel e peccate, a Gàlgala e peccate ancora di più! Offrite ogni mattina i vostri sacrifici e ogni tre giorni le vostre decime. Offrite anche sacrifici di lode con pane lievitato e proclamate ad alta voce le offerte spontanee, perché così vi piace fare, o figli d’Israele» dice il Signore».

Espressioni ironiche contro i pellegrinaggi per i culti idolatrici a Betel cfr. Gen 12,8; 13,3s; 28,19;31,13; 35,3-5. Culti naturistici (cfr. Mic 6,5) a Gàlgala cfr. 1Sam 10,8;11,14s; 13,4.7ss; per il divieto di offerta de pane lievitato Lev 2,7.11; 6,17;Es 23,18.

.5.

Amos 5,4s  «Poiché così dice il Signore alla casa d’Israele: «Cercate me e vivrete!  Non cercate Betel, non andate a Gàlgala, non passate a Bersabea, perché Gàlgala andrà certo in esilio e Betel sarà ridotta al nulla».

Sulla distruzione dei luoghi idolatrici Os 12,12; Mic 1,10-15.

.6.

Amos 5,21-27  «Io detesto, respingo le vostre feste solenni e non gradisco le vostre riunioni sacre; anche se voi mi offrite olocausti, io non gradisco le vostre offerte, e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo. Lontano da me il frastuono dei vostri canti: il suono delle vostre arpe non posso sentirlo! Piuttosto come le acque scorra il diritto e la giustizia come un torrente perenne. Mi avete forse presentato sacrifici e offerte nel deserto per quarant’anni, o Israeliti? Voi avete innalzato Siccut come vostro re e Chiion come vostro idolo, e Stella come vostra divinità: tutte cose fatte da voi. Ora, io vi manderò in esilio al di là di Damasco», dice il Signore, il cui nome è Dio degli eserciti».

Il profeta Amos nota che nei santuari regi le feste e le offerte sono idolatriche con manifestazioni esteriori non gradite da Jahweh il quale ne è nauseato e farà giustizia.

Quando il popolo era nel deserto le offerte erano fatte con cuore sincero.

Al veder onorate le divinità di idoli assiri, il profeta prevede la deportazione.

.7.

Amos 7,9 «Saranno demolite le alture d’Isacco e saranno ridotti in rovina i santuari d’Israele, quando io mi leverò con la spada contro la casa di Geroboamo».

Per l’idolatria cfr. Os 4,12-14.

Per i culti in “altura” cfr. 1Sam 9,13; 1Re 14,23; 2Re 17, 9ss:

Per la punizione 2Re 18,12.

.8.

Amasia contro Amos 7,13  « a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno».

Betel era santuario del re scismatico cfr. 1Re 12,31; 2Cr 11,15. Israele ha culto a Gerusalemme.

.9.

Amos 8,5 «voi che dite: «Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo l’efa e aumentando il siclo e usando bilance false».

Amos stigmatizza la mentalità affaristica oppressiva.

Il novilunio è festivo, giorno di sospensione di affari commerciali.

.10.

Amos 8,14 «Quelli che giurano per il peccato di Samaria e dicono: «Viva il tuo Dio, Dan!», oppure: «Viva la via sacra per Bersabea!», cadranno senza più rialzarsi!»

Il popolo idolatra cadrà in sventura cfr. Deut 12, 12; 1Re 14,23; 2Re 16,4; 23, 4; Os 4,13; Ger 3,6.

In Canaan la gente ha divinità antropomorfe che personificano le forze della natura ambientale onorate per mezzo di persone dedite al loro culto con sacrifici ed orge per la fecondità umana, animale e campestre.

 

Il profeta non dà un’esposizione unitaria della sua dottrina e della sua concezione teologica; i vari elementi dobbiamo coglierli e riunirli dall’insieme delle parole che furono pronunciate dal profeta in circostanze diverse e a scopi diversi, e che poi furono raccolte in un sol libro. (1)

 

 

 

 

 

2°   LA MENTALITA’ RELIGIOSA POPOLARE

DETERIORA IL CONCETTO DI DIO

 

Poco prima del profeta Osea, è Amos a svolgere la sua attività nel regno del Nord, e gli indizi del libro indicano che la svolge tutta sotto il regno di Geroboamo II (cfr. Am 7,12); mentre l’attività di Osea segue dalla fine del regno di Geroboamo II alla caduta di Samaria. Per quanto i due profeti siano quasi contemporanei, tuttavia parlano in modo molto diverso, non per questo però contraddittorio, della religione di Israele.

Ad una prima lettura balzano subito agli occhi le differenze. Amos soprattutto tende a svelare il pericolo di una falsa religione, del culto idolatrico dato a Jahweh in Betel e Dan, come pure a Galgala e Bersabea. Tali culti che il profeta considera illegittimi sono sotto la protezione del re e il popolo vi partecipa con entusiasmo e cieco fanatismo; il profeta rigetta una religione concepita come culto fatto di esteriorità e per di più infetta di una mentalità magica, senza alcun valore per influire sulla vita privata e pubblica delle persone.

Osea,da parte sua, rimprovera Israele perché ha abbandonato Jahweh, il vero e unico Dio e sono andati dietro a ad idoli baalim ed astaroth: gli israeliti sono entrati in una falsa strada che conduce inevitabilmente alla rovina; in questo modo agiscono come la moglie infedele che abbandona il suo marito per seguire i suoi amanti. Soltanto Jahweh è il vero Dio che ha dato ad Israele i segni e le prove di un affetto di sposo amoroso e di una fedele intimità coniugale e da sempre gli fa dono di ogni bene.

Al contrario baalim ed astaroth non sono dei, ma tronchi, legni, pietre, opere delle loro stesse mani, idoli, a cui tuttavia, quasi prostituendosi, il popolo, come sposa infedele ed impudica, offre sacrifici ed incensi, e innalza preghiere dinanzi ad essi per ottenere abbondanza di frutti; fecondità dei campi e degli animali quasi non fosse Jahweh il largitore munifico di questi doni (cfr. 2,7.10.15; 3,1; 4,12ss; 8,5; 11,2; l3,2).

Di fatto noi storicamente esploriamo la realtà sia in Amos che in Osea, in modo tale che si completano a vicenda, cogliendo nell’uno un aspetto della pratica cultica del popolo, che l’altro ha lasciato in ombra o illustrato in altra maniera. L’acre lotta tra Jahweh e Baal s’era conclusa sul monte Carmelo dove Elia aveva dimostrato chiaramente al popolo che il vero Dio non era Baal, ma Jahweh (1Re 18, 20-46).

Il re israelita Jehu dopo aver sterminato la dinastia di Omri, aveva restaurato il culto di Jahweh nel regno settentrionale, tuttavia non in quella forma pura voluta dai profeti, poiché aveva lasciato sussistere il culto illegittimo di Betel e di Dan.

L’opera di Jehu e della sua dinastia fu benefica in quanto distrusse il culto di Baal in quella forma aperta e quasi ufficiale che aveva sotto gli Omridi, ma fu perniciosa in quanto Jahweh ancora veniva venerato sotto la forma di vitello nei due santuari eretti da Geroboamo I, e in quanto le località sacrali, bamoth, erano invase completamente da elementi cultuali cananei, continuavano a vivere col consenso tacito almeno dei monarchi; e di fatto la Sacra Scrittura parlando dell’ultimo grande re della dinastia di Jehu, di Geroboamo II, sotto cui vivono Amos ed Osea, dice: «Egli fece quello che è male agli occhi del Signore; non si allontanò da nessuno dei peccati con i quali Geroboamo, figlio di Nebat, aveva fatto peccare Israele». (2 Re, 14,24).

La differenza nella predicazione e nel giudizio tra i Amos e Osea deriva dalla loro differente personalità, dal carattere, dalla formazione e dall’esperienza di ciascun profeta. Il nucleo essenziale del pensiero di Amos e di Osea è la verità primaria che onora Jahweh perché è il vero Dio di Israele, e Israele è il popolo eletto di Jahweh. I profeti applicano personalmente questa verità.

Amos, sebbene sempre tenga dinanzi agli occhi l’elezione del popolo come popolo eletto tra tanti, tuttavia, come base dei benefici di Dio pone i singoli individui dinanzi al Signore: il singolo come singolo tra molti, ha una relazione propria con Jahweh, perciò la relazione del popolo con Dio è relazione di molti con Uno e in questa prospettiva del bene individuale ognuno riceve la mercede del proprio operato. In questa luce Amos parla delle singole classi e dei singoli individui, della giustizia sociale, del culto, dei costumi.

La riflessione di Osea si porta più attentamente sull’elezione d’Israele a popolo eletto di Jahweh che è il beneficio unico e tra gli altri il maggiore a vantaggio di tutto il popolo cioè beneficio di ripercussione sociale. Osea penetra più acutamente e profondamente in quel mistero d’amore con cui Jahweh s’è legato alla sua gente eleggendola al Sinai, nel deserto, a popolo suo peculiare, dopo averlo strappato dalle mani del faraone, acquistandoselo e amandolo come la sua sposa, dandoglisi a conoscere come marito amoroso (2).

La relazione di tutto il popolo a Jahweh sono quelle della sposa verso il proprio marito: il profeta non considera i singoli individui, ma tutto il popolo come una persona, e questo popolo come ha sperimentato l’amore di Jahweh, così, ora che ha abbandonato il suo Dio, ne sperimenterà il giudizio e l’ira. Tutta la vita di questo profeta rappresenta in modo tragico una verità: la tragedia della vita matrimoniale di Osea, reale o simbolica, è una vivida rappresentazione della tragedia delle relazioni tra Jahweh e il suo popolo.

A scoprire quale era la mentalità religiosa del popolo cercheremo di cogliere, attraverso il profeta Amos, qual era il concetto popolare (3) di Dio (4).

Il concetto monoteistico di Dio, retaggio del popolo ebraico, dopo che aveva occupato la terra promessa, ebbe a subire due gravi prove: l’una al contatto del politeismo naturistico dei cananei; l’altra per l’introduzione delle immagini di Jahweh nel culto (5). L’introduzione ufficiale della immagine di Jahweh nel culto avvenne sotto Geroboamo I con lo scisma. L’unione politica delle dodici tribù d’Israele fu qualcosa di contingente che fu possibile sotto David e Salomone a causa della loro forte e potente personalità, ma la vera unità del popolo d’Israele è quella religiosa che raccoglie tutto il popolo intorno a Jahweh (6) e quest’unità religiosa prima di Salomone non aveva imposto un’unità cultuale, in un determinato luogo, ma la vita religiosa del popolo si svolse in più luoghi che erano i più vicini alla memoria della gente come Betel, Galgal, Mispa.

Il tempio di Salomone (dal 960 a. C.) portò all’unità del culto, che fu quanto mai solenne, realizzato con elementi tradizionali e con elementi importati dalla religione cananea purificati e resi atti ad esprimere il proprio pensiero religioso. Il monoteismo del popolo ebreo è stato l’unità cultuale, vissuta nel fasto e nella grandezza del culto nel tempio sul Sion, ma non fece distruggere gli altri luoghi tradizionali (7). Lo scisma di Geroboamo I (re da 922 asl 901 ca. cfr. 2Re 17,7-23) non era in alcun modo un rigetto dello javismo, perché questo re intendeva solo una decentralizzazione del culto in modo da mantenere, anche dal punto di vista religioso, lo scisma perpetrato sotto spinte e preoccupazioni politico-sociali, rafforzando la divisione delle dieci tribù settentrionali. Né dobbiamo dimenticare che tutto questo fu compiuto per comando di Jahweh e sotto la direzione del suo profeta. Il peccato di Geroboamo, come fa ben notare il testo sacro, non era la scissione politica e la decentralizzazione del culto, ma l’aver introdotto nuovi elementi che esulavano dalla pura tradizione ed erano veicoli che portavano il paganesimo, un falso culto, il deterioramento del concetto di Dio.

Il peccato grave fu l’aver eretto a Betel e a Dan raffigurazioni di Jahweh. Certamente il vitello fu eretto come simbolo di Jahweh e non di altra divinità (8). Jahweh era assimilato al simulacro stesso. La statua il vitello fu creata piuttosto come lo sgabello dei piedi e come trono di Jahweh. Questi nuovi elementi portavano altre implicazioni da cui furono tratte conclusioni tali che il vitello era simbolo di Jahweh, in un modo che forse eccedeva la mente di colui che l’aveva eretto, conclusioni però che erano consone alla mentalità popolare che non era abituata a distinzioni sottili e non sapeva percepirle.

In Canaan il toro era il simbolo di Baal-Hadad, divinità principale della regione, e simbolo della fecondità, e per il popolo il simulacro era la stessa divinità: per la mentalità semita la distinzione tra statua e cosa rappresentata è troppo sottile e il popolo pose il parallelo tra toro-statua e Baal-Hadad e toro-statua e Jahweh arrivando ad identificare il simulacro come divinità.

All’inizio il pericolo non fu tanto grande, ma col passar degli anni il pericolo latente diveniva sempre più palese. Possiamo arguire ciò dal fatto che Elia non parla contro il culto di Betel e di Dan, ma la sua attività è tutta protesa a rigettare il culto di Baal che era sotto la protezione regia o piuttosto sotto quella dell’intraprendente regina Jezahel, di Tiro, moglie di Ahab. Alla metà del secolo VIII, Amos ed Osea combattono acremente contro il culto di Betel e di altri luoghi sacrali. L

La vera interpretazione dell’azione precedente di Geroboamo I la dà Osea: ” Con il loro argento e il loro oro si sono fatti idoli ma per loro rovina. Ripudio il tuo vitello, o Samaria! La mia ira divampa contro di loro; fino a quando non si potranno purificare i figli di Israele? Esso è opera di un artigiano, esso non è un dio: sarà ridotto in frantumi il vitello di Samaria.” (Os 8, 4b-6; cfr. 13,2): evoluzione operatasi nel corso degli anni poiché quando un secolo e mezzo prima Geroboamo esclamava: “ecco il tuo Dio, Israele, che ti condusse fuori dalla terra d’Egitto” facilmente un altro senso avevano le parole in bocca al primo re del Nord. (9)

Come il concetto di Jahweh si sia deteriorato lo cogliamo da questi tre elementi:

-a) mentalità magica che entra nel culto;

-b) modo di parlare di Jahweh localizzandolo in diversi siti come si faceva dei Baalim;

-c) concezione del giorno di Jahweh” e della nozione di “popolo eletto”.

-.a. Mentalità magica nel culto

Nella mentalità popolare Jahweh era diventato, sebbene non parlandone espressamente, ma realmente, una divinità tutelare locale, assimilato a Baal. Risulta questo dalla mentalità ritualistica, magica direi, con cui il popolo esercitava il culto. La vita morale privata e pubblica viene disgiunta dalla religione e dal culto: la religione si esaurisce nel culto fatto di riti e questo è pensato un valore assoluto dinanzi a Dio.

Quando sono fatte scrupolosamente le cerimonie e con la massima diligenza, con abbondanza di sacrifici ed oblazioni, con la celebrazione solenne delle feste, la divinità è contenta ed elargisce i suoi doni prescindendo da un impegno morale che animi la vita del fedele devoto. Jahweh si placa, volge il suo sguardo con benignità al suo popolo allora soltanto quando vede abbondanza di vittime, può respirare il buon odore dei sacrifici, può soddisfare alle sole necessità fisiche, e vede pellegrinaggi solenni arrivare ai suoi templi (10): tutto ciò placa necessariamente Dio, se adirato, ne ricupera la benevolenza se allontanata.

Della vita morale del popolo Jahweh non ha cura, è piuttosto qualcosa che esula dall’ambito della religione che si esaurisce tutta nel culto: le relazioni di Jahweh con gli uomini si concludono nella pratica rituale poiché egli non si cura della giustizia e della virtù degli uomini. Con questa mentalità religiosa si spiega come il popolo possa congiungere l’oppressione del povero con lo zelo per il culto nei santuari (cfr. Am 2,6-8; 5,11; 8,5).

Questo modo d’agire dimostra chiaramente come costoro ritenessero che Dio non chiede conto della propria vita e della propria condotta, né del male operato qualora essi adempivano il cerimoniale liturgico scrupolosamente. Ai contemporanei del profeta infatti è ben noto che ingiustizie, crimini sociali, immoralità sono male, ma pensano che i riti del culto stanno a cuore alla divinità più che non la vita morale del fedele: Jahweh si era spesso adirato con il suo popolo e lo aveva punito (ma ora tutto corre bene, in questo periodo di prosperità!), ma stimano che l’indignazione divina derivi non dall’incongruenza della vita morale separata dal culto, ma ha la sua ragion d’essere solo nella negligenza dell’osservanza dei riti.

Così Amos 4,4-12 mostra bene qual’è la mentalità del popolo e ciò che invece Jaweh vuole: il profeta pone una contraddizione tra l’assiduo cerimoniale di culto del popolo nei templi e il modo d’agire di Jahweh che invano punisce il suo popolo per ritrarlo dal male, mentre questi pensano che l’ira di Dio si scateni per l’insufficienza del culto. E così in Am 5,4-6: « Poiché così dice il Signore alla casa d’Israele: Cercate me e vivrete! Non cercate Betel, non andate a Gàlgala, non passate a Bersabea, perché Gàlgala andrà certo in esilio e Betel sarà ridotta al nulla. Cercate il Signore e vivrete» e il vero significato di queste parole è spiegato nel v. 14s: «Cercate il bene e non il male, se volete vivere, e solo così il Signore, Dio degli eserciti, sarà con voi, come voi dite. Odiate il male e amate il bene e ristabilite nei tribunali il diritto»: il culto non basta a cattivarsi il favore di Jahweh, ma è necessario operare il bene; fuggire il male, fare la giustizia poiché Jahweh è anzitutto giusto e cerca la giustizia.

A dire il vero, il profeta non usa mai l’aggettivo “giusto”. E’ chiaro che se Jahweh punisce l’ingiustizia questo lo fa poiché anzitutto egli è giusto. In 5, 21-24 leggiamo: ” Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni; anche se voi mi offrite olocausti, io non gradisco le vostre offerte e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo. Lontano da me il frastuono dei vostri canti: il suono delle vostre arpe non posso sentirlo!  Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne”.

Le idee di religiosità che dominano tra il popolo circa il valore assoluto del culto rituale sono comuni nella mentalità semita, e Israele le ha assorbite dai suoi vicini. I sacrifici vengono offerti con l’intenzione di piegare la volontà divina, di ridurla e condizionarla alla propria. Ciò rivela un concetto abnorme di Jahweh e quanto mai lontano dalla tradizione mosaica e dei padri, e completamente estraneo alla mentalità profetica (cfr. Am 4, 13).

Dio è concepito in modo antropomorfo non solo, ma con le necessità fisiche a cui gli uomini soddisfano, un dio che ha bisogno quindi della benevolenza e del favore degli uomini che gli offrano sacrifici e doni. Questo non è esplicitamente affermato, né si dice che Dio mangi i sacrifici offerti; certo però che il concetto di Jahweh ha perso la sua purezza e la mentalità degli israeliti si è avvicinata quanto mai alla mentalità pagana: offrendo i sacrifici si fa un bene alla divinità e in questo modo si attira la sua benevolenza; alla divinità poi poco importa della vita morale dell’uomo.

Pensando che egli non si cura della giustizia, si opera una frattura nella vita intima dell’individuo poiché il valore religioso della vita è separato dal culto esteriore.

Con questa concezione della religione intesa come “bene della divinità” e non come “bene dell’uomo” si nega implicitamente la trascendenza di Dio: i sacrifici ascendono ‘in alto’ (si dice) ma non comportano una mutazione negli oblatori affinché Dio doni loro la sua amicizia, mutazione che necessariamente deve essere nella vita spirituale e morale, ma salgono al cielo per soddisfare i bisogni di Dio.

Ecco la risposta di Amos che è precisa e mostra qual è la trascendenza e l’onnipotenza di Jahweh che forma il tuono, crea il vento e versa fiumi di acque sulle campagne: 5, 8 «cambia il buio in chiarore del mattino e stende sul giorno l’oscurità della notte; colui che comanda alle acque del mare e le spande sulla terra, Signore è il suo nome». (11)

.b. Vari luoghi di culti

Il testo di Amos 8,14 rivela ancora quanto forte fu l’influsso delle idee pagane presso gli israeliti che trasferirono a Jahweh certe nozioni pagane comuni tra i popoli vicini. Israele, in questo periodo, aveva ridotto Jahweh ad essere una specie di divinità tutelare, una divinità locale al modo dei baalim. Il testo, secondo l’interpretazione più probabile implica che nella mentalità popolare Jahweh viene localizzato in differenti santuari e quindi, corrispondentemente, pensano forse a differenti Jahweh come si pensava a differenti Baal: Am 8,14 «Quelli che giurano per il peccato di Samaria e dicono: “Per la vita del tuo dio, Dan!” oppure: “Per la vita del tuo diletto, Bersabea!», cadranno senza più rialzarsi!“: dal testo risulta che gli Israeliti giurano per divinità di Samaria, di Dan, di Bersabea: questo giuramento rivela un sottofondo religioso nella coscienza popolare, poiché il giuramento era fatto generalmente in nome della divinità adorata da colui che emetteva il giuramento, di conseguenza giurare nel nome di una divinità era un ammettere, anche se indirettamente, che quella era la divinità riconosciuta (ad esempio, cfr. Deut.6,13; 10,20; Ger 12,16; Is 48, 1) a cui si presta servizio e a cui si affida il valore del proprio giuramento.

La rivelazione di Dio al Sinai e la vocazione del popolo ad essere il servitore di Jahweh implicava una divisione profonda di Israele dalle altre nazioni.

I popoli semiti, per quanto fossero lontani tra loro spiritualmente e culturalmente, pure avevano questo in comune, che le loro divinità facevano parte di uno stesso pantheon e ogni divinità, per sé, non era da più di quelli dei popoli vicini: ognuno aveva il suo dio che era come il padre e il datore dei beni e ogni gente, come ogni terra aveva il suo nume.

La rivelazione del Sinai è quanto mai lontana da questa concezione, essa implica la fede nell’esistenza di un solo Dio che è il creatore della terra, il largitore si ogni bene; comporta la fede che Dio è santo e giusto, senza vita sessuale e quindi senza mitologia; Dio invisibile; che non è ristretto ad una parte della terra , che la sua dimora è tanto il cielo che la terra, tanto il deserto che Canaan. Egli ha eletto Israele con un patto che implica da parte del popolo servizio devoto ed assoluto secondo la legge donatagli, da parte di Jahweh vengono protezione e benedizione. (12)

Questa elevata concezione non fu pienamente afferrata dal popolo: di fatto Jahweh fu riconosciuto come il Dio della nazione, ma una volta entrati in Canaan essi vennero a contatto dei Baalim che erano in quella terra come padroni di essa e dispensatori di beni, di frumento e di vino, di olio e di frutti (cfr. Os 2,10). Si verificò quindi una tensione nella mentalità popolare tra Jahweh e Baal, tra il Dio di essi conquistatori, e quelli della terra occupata, tensione che si risolse però con un compromesso in cui Jahweh nominalmente soppiantò i baalim come Signore di Canaan, ma il cui concetto fu degradato al livello quasi di una divinità naturistica con l’assorbimento di elementi cananei nella mentalità e nel culto (Am 2,4).

Al contrario, per i profeti, per Amos come per Osea, Jahweh e Baal si escludono a vicenda e in quanto il carattere di una religione è determinato non tanto dal nome della divinità, ma dal modo di concepirla e di prestarle servizio, i profeti non esitano a caratterizzare la religione popolare come adorazione di Baal sotto il veto dell’adorazione di Jahweh (13). Sotto questa luce debbono essere letti i vv. 13-14 del capitolo 8: «In quel giorno appassiranno le belle fanciulle e i giovani per la sete. Quelli che giurano per il peccato di Samaria e dicono: “Per la vita del tuo dio, Dan!” oppure: “Per la vita del tuo diletto, Bersabea!”, cadranno senza più rialzarsi!» (14)

.c. Concezione del giorno di Jahweh

Una peculiarità della concezione religiosa semita, sta nel fatto che tutti i popoli hanno le loro divinità e ogni popolo riconosce l’esistenza e la realtà degli dei delle altre nazioni concependo però i propri come più forti e superiori (15). La divinità e tutto il clan o tribù o nazione erano considerati una cosa unica e la potenza e la sorte del Dio erano la stessa quale la potenza e la sorte del popolo: una divinità può sì punire e mandar dei mali alla propria gente sia per la carenza di culto che per altre offese, ma nel caso estremo in cui una nazione veniva vinta e distrutta dai nemici questo avveniva solo perché il Dio era inferiore e senza potenza dinanzi agli dei del popolo vincitore (16).

I cananei e i popoli semiti in genere concepivano le relazioni tra la divinità e il popolo a modo quasi di generazione fisica; questo concetto era estraneo al popolo ebreo tuttavia esercitò un nefasto influsso sul concetto fondamentale del patto tra Jahweh e Israele. L’elezione sinaitica e il patto, nella concezione popolare come nella mentalità delta classe sacerdotale e di quella dirigente, legano Jahweh al popolo in modo che sempre ed assolutamente Jahweh difende la sua nazione dai nemici, dalla sconfitta, dalla cattività, indipendentemente da ogni condizione, dalla vita e dai costumi: l’onore di Jahweh era implicato incondizionatamente alla sorte e all’onore della nazione. Questo concetto in fondo nega la libertà di Jahweh e la sua trascendenza.

Il popolo e i militari specialmente aspettano ansiosamente il “giorno di Jahweh” il giorno fatale della rivelazione della potenza del Signore con la distruzione dei loro nemici, come il giorno della gloria di Israele (cfr. Am 5,18). Si sentivano sicuri e pensavano che non sarebbero colti alcun male (cfr. 9, 10; 6,1-7).

Gli studi di Morgenstern spiegano bene (17) i presupposti storici e religiosi di questa concezione del “giorno di Jahweh“. La speranza escatologica fu sempre viva in mezzo al popolo, ma in questo periodo del sec. VIII a. C. prese un significato materialistico di universale dominio terreno del popolo israelitico con implicazioni che, a giudizio del profeta, erano fuori della retta via. I presupposti storici a questa riviviscenza furono la potenza e l’apparente fermezza del regno di Geroboamo II; la distruzione della Siria da parte degli Assiri, il che permise l’espansione del regno di Geroboamo, mentre era presente la debolezza dell’impero assiro dilaniato da lotte intestine per la successione al trono (18). I presupposti religiosi furono l’involuzione del concetto di “elezione” e delle relazioni tra Jahweh e il suo popolo: Jahweh avrebbe destinato Israele alla potenza e al dominio di tutta la terra poiché per mezzo del suo popolo avrebbe conquistato tutti i regni e dominato su di essi; il giorno del Signore è concepito come il “giudizio” delle nazioni e dei loro dei, il trionfo di Jahweh e l’esaltazione del suo popolo sopra ogni altro.

Contro queste concezioni combattono sia Amos che Osea. Di fatto Amos ed Osea concordano con i loro uditori circa il privilegio d’Israele poiché veramente fu eletto fra tanti e reso oggetto da parte di Dio di una speciale ‘conoscenza’ o predilezione (19), ma mentre il popolo vede in questa elezione un incondizionato privilegio e un’affermazione assoluta della protezione di Jahweh (cfr. Am 9,10; Mic 3,11) i profeti al contrario insistono nell’assoluta gratuità del dono divino (Am 9,7). Nell’elezione vedono un’esigenza di giustizia morale e tanto maggiore quanto più grande è l’amore di Dio verso il popolo: perciò se il popolo eletto si mostra infedele sarà certamente punito.

Così Amos: 3,2; «Soltanto voi ho conosciuto tra tutte le stirpi della terra, perciò vi farò scontare tutte le vostre colpe»; 9,10: «Di spada periranno tutti i peccatori del mio popolo, essi dicono: “non si avvicinerà e non giungerà fino a noi la sciagura. (20).

Senza dubbio questo insistere del profeta sull’imminente punizione e distruzione di Israele quando non vivranno in rettitudine e non cercheranno Jahweh, è cosa dura agli orecchi di tutti gli israeliti che fervidamente invece aspettano il giorno del Signore, il giorno della loro gloria e del loro dominio. (21) Il testo eloquente tra altri è Amos 5,18-20; «Guai a coloro che attendono il giorno del Signore! Che cosa sarà per voi il giorno del Signore? Tenebre, e non luce! Come quando uno fugge davanti al leone e si imbatte in un orso, come quando entra rincasa, appoggia la mano al muro, e un serpente lo morde. Non sarà forse tenebra, non luce, il giorno del Signore? Oscurità senza splendore alcuno?»: Guai a coloro che desiderano il loro giorno del Signore.

Nell’opinione popolare il giorno del Signore era concepito come giorno di trionfo e di felicità, giorno in cui Jahweh manifesterebbe alle genti la sua potenza per cui Israele trionferebbe dei suoi nemici per acquisire il dominio della terra. Del resto perché non doveva avvenire questo, proprio ora che Jahweh era considerato contento del suo popolo, del culto solennemente offerto, del numero di sacrifici ed oblazioni? L’attesa di quel ‘giorno’, la tensione escatologica che era una caratteristica peculiare d’Israele, era stata sempre viva in mezzo al popolo ed ora è diventata più acuta, ma aveva deviato per una falsa strada sotto l’influsso di idee pagane. Questa tensione è comune nel popolo, ma con una enorme differenza rispetto ai profeti, anzi in una posizione irriducibilmente antitetica.

Amos da una parte si oppone alla concezione popolare del giorno del Signore, dall’altra presenta la vera concezione escatologica. Certo è vicino il giorno di Jahweh, ma questo giorno sarà “tenebre e non luce”: questo giorno sarà il giorno di Jahweh, ma non sarà il giorno d’Israele, il giorno di Jahweh per una punizione tremenda, giorno di distruzione per Israele e non di loro gloria, il giorno dell’ira e non del suo favore verso il suo popolo.

Qui le concezioni di Dio del profeta e quelle correnti si oppongono: l’idea precisa e chiara che Amos ha delle relazioni tra Dio e il suo popolo è l’idea dell’assoluta trascendenza di Jahweh. Questa fa chiaramente vedere ad Amos che non necessariamente debbono essere congiunti il giorno di Jahweh e il giorno di Israele, il trionfo di Jahweh e quello del popolo. Quello è anzitutto il trionfo della giustizia, ma quando l’iniquità in largo e in lungo è diffusa in Israele, allora il giorno di Jahweh sarà il giorno dalla punizione.

Quest’aspetto negativo conduce peraltro Amos alla considerazione di un aspetto positivo del rinnovamento nel giorno del Signore, espressa nell’ultima parte del libro: dopo la purificazione d’Israele, nel fiorire della giustizia, allora sarà la pace e la gloria della casa di Giacobbe.

L’ultima pericope del libro di Amos e precisamente 9,8 b-15 non è da tutti gli studiosi riconosciuta come autentica: «… io lo sterminerò dalla terra, ma non sterminerò tutta la casa di Giacobbe. Oracolo del Signore. Ecco, infatti, io darò ordini e scuoterò, fra tutti i popoli, la casa d’Israele, come si scuote il setaccio e non cade un sassolino per terra. Di spada periranno tutti i peccatori del mio popolo; essi che dicevano: “La sventura non si avvicinerà, giungerà fino a noi”. In quel giorno io rialzerò la capanna di Davide che è cadente, ne riparerò le brecce, ne rialzerò le rovine, la ricostruirò come ai tempi antichi, affinché conquistino il resto di Edom e tutte le nazioni sulle quali è stato invocato il mio nome. Oracolo del Signore che farà questo. Ecco, verranno giorni -oracolo del Signore – in cui chi ara s’incontrerà con chi miete, e chi pigia l’uva con chi getta il seme; i monti stilleranno il vino nuovo e le colline si scioglieranno. Muterò le sorti del mio popolo, Israele; ricostruiranno le città devastate e vi abiteranno; pianteranno vigne e ne berranno il vino; coltiveranno giardini e ne mangeranno i frutti. Li pianterò nella loro terra e non saranno mai divelti da quel suolo che io ho dato loro, dice il Signore, tuo Dio».

Il profeta che ha parlato già della distruzione di Israele, qui sembrerebbe negare se stesso e la sua missione prospettando un futuro glorioso a quel popolo a cui aveva già prospettato il castigo di Dio, ora proclama la speranza messianica e la restaurazione del vero Israele: Amos infatti menziona la casa di David e la futura pace e prosperità del popolo eletto. Questa speranza in Amos è come in boccio, ma si sviluppa, si chiarifica e si precisa sempre più nei profeti seguenti: già in Osea si articola in modo più chiaro (cfr. Os 2,18-23; 3,5) e questo è motivo sufficiente a che non si possa negare a priori ad Amos la pericope (9, 8b-15) che completa bene la sua opera e getta un raggio di luce in mezzo a tanta oscurità.

3°   LA PRATICA RELIGIOSA DEL POPOLO 

Il libro di Amos fa conoscere la reazione del profeta di fronte alla religiosità nei diversi luoghi di culto (21) che il popolo frequentava mentre le autorità politiche avevano dato loro un carattere nazionale di promozione del dominio del re.

Nel seguito si analizzano la pratica religiosa del popolo e la concezione del proprio Dio nei santuari del re, per capire come quel culto non è raccordato con la retta coscienza del culto spirituale, ma ridotto a cerimoniale idolatrico. Betel era il maggior santuario del regno del nord e dovette essere anche il centro dell’attività profetica di Amos (22) che per risvegliare le coscienze alla rettitudine giunge a proclamare qualche previsione apocalittica.

Illustrativo a questo riguardo è il passo autobiografico che è inserito nelle visioni profetiche. Amos: 7,7-17 «Ecco ciò che mi fece vedere il Signore Dio: il Signore stava sopra un muro tirato a piombo e con un piombino in mano. Il Signore mi disse: «Che cosa vedi, Amos?». Io risposi: «Un piombino». Il Signore mi disse: «Io pongo un piombino in mezzo al mio popolo, Israele; non gli perdonerò più. Saranno demolite le alture d’Isacco e i santuari d’Israele saranno ridotti in rovine, quando io mi leverò con la spada contro la casa di Geroboamo». Amasia, sacerdote di Betel, mandò a dire a Geroboamo re di Israele: «Amos congiura contro di te in mezzo alla casa di Israele; il paese non può sopportare le sue parole, poiché così dice Amos: Di spada morirà Geroboamo e Israele sarà condotto in esilio lontano dal suo paese». Amasia disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritirati verso il paese di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno». Amos rispose ad Amasia: «Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un pastore e raccoglitore di sicomori; Il Signore mi prese di dietro al bestiame e il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele. Ora ascolta la parola del Signore: Tu dici: Non profetizzare contro Israele, né predicare contro la casa di Isacco. Ebbene, dice il Signore: Tua moglie si prostituirà nella città, i tuoi figli e le tue figlie cadranno di spada, la tua terra sarà spartita con la corda, tu morirai in terra immonda e Israele sarà deportato in esilio lontano dalla sua terra».

La pericope ha due parti: i vv. 7-9 : visione del piombino: w. 10-17 e scontro di Amos con Amasia, capo dei sacerdoti di Betel. Questo tratto autobiografico, che ci illumina un po’ sull’attività di Amos e ci chiarisce la sua vocazione, è qui inserito occasionalmente in dipendenza della visione del piombino e dell’oracolo che preannuncia la caduta e la distruzione della casa regale di Geroboamo II. L’episodio ci indica che Betel, in relazione al fatto che era il santuario principale nel regno del Nord e che doveva essere meta frequente di grandi pellegrinaggi e di solenni fastose adunate e celebrazioni religiose, doveva essere il centro in cui il profeta svolge la missione affidatagli: ivi certamente incontra l’animo schietto e sincero del vero israelita che riconosce nella sua parola la ‘voce di Dio’, ma ivi incontra anche i più forti contrasti con quanti vedono nel culto solenne e fastoso il segno tangibile della presente fortuna della nazione e il pegno del glorioso avvenire d’Israele: più viva fra le altre è la reazione da parte di coloro che nel culto trovano la loro ragion d’essere e interessi vitali alla propria economia e al proprio commercio. Di fatto il brano ci riporta una reazione o meglio una denunzia ufficiale fatta da un sacerdote, di nome Amasia, che doveva tenere un posto chiave nel santuario ed essere rivestito d’autorità. Alla denunzia di Amasia segue l’ordine della corte di allontanare l’importuno profeta dal santuario e l’ordine è eseguito dal capo del sacerdozio di Betel con fare sprezzante dando del “visionario” al profeta di Jahweh. La risposta di Amos, precisa e quanto mai chiara, controbatte Amasia opponendo mentalità a mentalità: son come due mondi che si scontrano: «Non ero profeta io né figlio di profeta (23), ero un mandriano e coltivavo piante di sicomori. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: “Va, profetizza al popolo mio Israele». Amos con questa risposta non poteva meglio definire se stesso, caratterizzare la sua missione e riassumere la sua predicazione. Oppone la sua vocazione profetica al mestierantismo di Amasia e delle scuole profetiche e degli associati alla sequela della corte (24), stabilisce il mandato che ha ricevuto da Dio, ove si può vedere l’animo del profeta che compie la sua missione per un impulso superiore, vuol richiamare il popolo alla sincerità d’una vita nella giustizia e nel retto spirito religioso. L’episodio è una documentazione dello scontro tra il sacerdozio ufficiale, gretto, attaccato alla materialità dei riti, fossilizzato in formule anguste e il vero profetismo sostenuto dalla coscienza di possedere l’autentica parola divina (cfr. Os 4,5-14; 5,1-9; Is 28,7-13; Ger 19,14; 20,6). (25)

L’espressione in bocca ad Amasia: “ questo è il santuario del re e il tempio del regno”, ci presenta un momento della vita religiosa del regno del Nord. Betel, come inizialmente era nella mente di Geroboamo I, era dal punto di vista religioso, la Gerusalemme del Nord. Qui il tempio di Betel con il ‘toro’ era il parallelo del tempio di Gerusalemme e godeva della speciale protezione del re: ivi si svolgevano quelle feste solenni e tutti i riti religiosi qui diventati ormai tradizionali e che avevano avuto il loro inizio nel tempio salomonico; e quei riti avevano perso il loro significato intimo e s’erano ridotti ad essere una parata ipocrita da cui Jahaweh stornava il suo sguardo (Am 5,21ss.) Con Betel Amos nomina altri santuari che se non avevano la stessa portata di Betel, pure erano meta frequente d’incontri religiosi, e precisamente Dan e Galgala (cfr. Am 2,4).

Con le invettive Amos va direttamente contro questo culto degenere ufficiale che aveva esternamente tutti i caratteri dell’ortodossia, contro il culto di più evidente provenienza straniera e più prettamente pagano, cioè il culto dei baalim ed àstaroth, al culto delle baamoth, di cui dà cenni.

La parola di Osea sembra più direttamente rivolta contro le abominazioni pagane e le false divinità. Così in Os 2,7.10 rivolgendosi a Gomer, la sua sposa infedele, simbolo di Israele, il popolo che è la sposa infedele: «La loro madre, infatti, si è prostituita, lo loro genitrice si è coperta di vergogna perché ha detto: “ Seguirò i miei amanti che mi danno il mio pane e la mia acqua, la mia lana e il mio lino, il mio olio e le mie bevande … Non capì che io le davo grano, vino nuovo e olio, io la coprivo d’argento e d’oro che hanno usato per Baal». (cfr. anche 2,15.18s. e cap. 3; ed Ez 8,14). In Os 4,13 «Sulla cima dei monti fanno sacrifici e sui colli bruciano incensi sotto la quercia, i pioppi e i terebinti, perché buona è la loro ombra. Perciò si prostituiscono le vostre figlie e le vostre nuore commettono adulterio». Queste espressioni son tutti accenni ai culti proibiti: cfr. Num 33,52; 1Re 14,23; 22,44; per i sacrifici sotto le ombre cfr. 2Re l6,4; Ger 2,20; 3,6; Deut 12,2. Questo profeta esplicitamente dice che il culto di Betel e di Dan, e quello reso al vitello d’oro, sono idolatria cfr. 8,4s; 13,2.

Osea evidentemente accentua le tinte nella sua prospettiva. Di fatto gli abusi più gravi nel campo religioso erano stati tolti con la riforma di Jehu; ma questa riforma condotta sulle tracce della reazione dei profeti, di Elia e di Eliseo e delle loro scuole, pure non ne aveva saputo cogliere chiaramente lo spirito: se le abominazioni pagane più vistose, come Baal di Samaria, le ‘alture’  e altre usanze erano state distrutte da Jehu e si era avuta una restaurazione del culto javista, questo però era rimasto impregnato dello spirito pagano ed aveva assorbito gran parte dei riti con tutta l’atmosfera esteriore materialistica e magica che era proprio a questi riti naturistici cananei (26).

La parola di Amos coglie realmente lo stato attuale della vita religiosa di Israele: e ne tocca la piaga: sotto il culto ufficiale reso a Jahweh c’è paganesimo pratico ed idolatria.

Ha scritto Amos con un’espressione a lui cara: «Poiché così dice il Signore alla casa d’Israele: «Cercate me e vivrete! … Cercate il Signore e vivrete …», (5,4.6.15), ma il Signore va cercato non nel formalismo rituale esteriore, bensì nel servizio umile di Dio nella vita pratica seguendo il bene e ritraendosi dal male, nella conversione del cuore che conduce alla giustizia. Con questa conversione Amos vede il vero giorno di Jahweh e del popolo, la manifestazione della sua gloria e della grandezza del popolo eletto.

.a. Il concetto di Dio

Nella mentalità popolare il concetto di Dio s’era molto deteriorato a contatto del paganesimo circostante. La reale religione autentica del popolo era lo javismo, ma in pratica era ridotta ad un paganesimo e l’apparenza di legalità era più pericolosa. Amos 2,4: «Si sono lasciati traviare dagli idoli che i loro padri avevano seguito». L’espressione va riferita al peccato di idolatria con probabile allusione al peccato dei padri nel deserto quando vollero rappresentare Jahweh in un vitello d’oro e adorarlo sotto questa figura. La parola “lueg” = bugia, menzogna, qui riferita alle immagini, esprime bene il pensiero del profeta: quelle immagini tanto diffuse non fanno che traviare, mandare errando e vagando l’animo dei fedeli. Se l’accenno dei padri, si riferisce ad Es 32,4s Amos mostrerebbe evidentemente qual è il pericolo a danno del culto di Jahweh (come appunto in Es); quando i loro padri vollero adorare Jahweh sotto figura di vitello, e la riprovazione che ha il Signore di tale culto poiché in Es è narrata anche la severa punizione degli incipienti idolatri.

Am 2,7b- 8: «e padre e figlio vanno dalla stessa ragazza, profanando così il mio santo nome. Su vesti prese come pegno si stendono presso ogni altare» L’espressione mostra che queste pratiche (la prostituzione sacra?) erano fatte in onore di Jahweh. E ne abbiamo attestazioni esplicite in Osea 4,14. Scrive Rinaldi (27) che Amos, usando il vocabolo ‘fanciulla’, ragazza, forse intende spogliare anche il frasario del residuo di ipocrisia che esso conserva pretendendo di collegare un turpe crimine con l’idea di sacro.

La pretesa di onorare la divinità (Jahweh stesso nei santuari di Betel, Dan, Galgala e nelle ‘alture’) con un disordine morale, non tollerabile e punibile in sede di giustizia civile, che nel caso particolare ha l’aggravante della specie morale dell’incesto (cfr. Lev 20,11) appare così un empio capovolgimento del male in bene (cfr. Am 5,7) e quasi dichiarazione di una indifferenza di Dio di fronte alle esigenze della rettitudine morale. Questa disgiunzione del culto dall’etica è uno dei dati presi maggiormente di mira dagli strali della predicazione di Amos, assertore tenace della inutilità e del danno di una pratica religiosa disgiunta o nemica della purezza, della santità interiore e della giustizia.

La satira di Amos è pungente in 4,4.5 contro la religiosità che pure si dirigeva a Jahweh in Betel e in Galgala, una religiosità vuota, senza vero senso di pietà profondale in 5,21-25  «Io detesto …  Non gradisco … Lontano da me …» Il profeta fa una più esplicita condanna di questa vita e pratica religiosa affondata ed esaurita nel formalismo e nel ritualismo.

Di fatto Amos non parla esplicitamente di stranieri cui formalmente gli israeliti si dirigessero per il loro culto agli idoli. Ci sono accenni alle ‘alture’, ma senza specificare se si tratta di un culto reso a Jahweh, sebbene illegale, oppure alle divinità pagane. Abbiamo l’unica eccezione in 5,26 in cui vengono nominate due divinità pagane, Sakkut e Kewan, degli Assiri.

Ma se è giusta l’interpretazione (29) (se la correzione apportata al testo masoretico sulle tracce del Sellin e del Sant, serve ad ammettere che sono inserzioni posteriori introdotte nel testo di Amos, allora) resta provato che il punto centrale in Amos è quello di far notare come la presente religione d’Israele sia rivolta a Jahweh, ma è insieme gravemente macchiata delle colpe del paganesimo e impregnata di un senso naturalistico e di una mentalità magica proprie delle religioni pagane. Israele vive una vita ipocrita e perciò dal Signore rigettata.

.b. I luoghi di culto.

In Amos sono nominati cinque luoghi, come centri di culto e di raccolta nelle solennità religiose; sono: Samaria, Betel, Dan, Gàlgala, Bersabea. Tra questi Betel teneva un posto preminente ed era il santuario del regno; comunque gli altri luoghi avevano la stessa vita religiosa e liturgica condotta con più o meno solennità.

Amos 7,9: «Saranno demolite le alture d’Isacco e saranno ridotti in rovina i santuari d’Israele, quando io mi leverò con la spada contro la casa di Geroboamo». Il profeta insinua che il culto delle bamoth non era differente, per lo meno nel loro oggetto, da quello dei templi. Sulla costituzione delle ’alture’ riferendoci anche ai dati dell’archeologia studiati da Vincent, la parola “bamah” indica l’uso cultuale di una collina o di un monte (30) quale soggiorno di predilezione della divinità e di conseguenza un luogo di uso normale per l’adorazione e per il culto, poi è divenuto espressione usuale per indicare l’istallazione cultuale stessa. Poiché le popolazioni pagane di Canaan vi introdussero elementi idolatrici e licenziosi, le bamoth furono in pratica severamente represse, sebbene in linea di principio fossero compatibili con il culto reso a Jahweh. Amos usa la parola bamah nella sua accezione cultuale solo qui nel nostro testo, comunque al suo tempo del regno d’Israele, questi luoghi di culto erano molto diffusi. Ce ne dà certezza il libro dei Re a più riprese e quando con monotonia, quasi esasperante, a conclusione dei profili biografici dei monarchi di Israele e di Giuda, riporta la frase: “tuttavia le bamoth non furono abbandonate, il popolo continuava ad offrirvi sacrifici e a farvi oblazioni” lo ripete a proposito del re Joas (2Re 12,3s), di Amasia (14,3s), di Azaria (14,4), di Johatan (15,34s); la riforma che si è avuta sotto Ezechia mette al centro, insieme con l’imposizione delle prescrizioni della legge, anche la riforma cultuale e la distruzione delle bamoth con relative as’erim e massebòth (2Re 18,4). Bamoth in Os 4, 3.10.

Amos mettendo in parallelo i termini templum e excelsum altura sacra pone sullo stesso piano il culto dei templi e il culto delle alture: per il profeta entrambi sono da condannare e dovranno essere distrutti, mentre Osea parla più specificamente di un culto idolatrico delle alture in quanto celebrato per altri e non per Jahweh. Amos, dal suo punto di vista, vede esternamente in tutti quei luoghi il popolo che offre sacrifici ed oblazioni all’indirizzo di Jahweh, ma constata un culto ipocrita che in fondo non è altro che idolatria e magia.

Sotto Geroboamo II, ai tempi di Amos, il culto di Baal è ufficialmente rigettato e questo è un principio politico che il monarca aveva trovato nella sua casa fin dal fondatore Jehu e che in tutta la dinastia s’era mantenuto rigorosamente; ma ciò non impediva in Israele l’invasione dei culti stranieri, o meglio si verificava in questo periodo una specie di sincretismo religioso cultuale che snatura il vero javismo. Amos centra su questo punto la sua predicazione; mentre Osea, un po’ più tardi, dopo la caduta della dinastia di Jehu, si trova dinanzi ad un irrompere aperto, oltre che nella mentalità, anche esternamente, di culti idolatrici. Per questo Osea più esplicitamente ed a lungo parla del culto idolatrico reso a Baal e compara Israele ad una sposa infedele che si va prostituendo dietro ai suoi amanti, cioè dietro ad ogni divinità. In fondo Osea vede l’esplosione di quella penetrazione lenta ma sempre ascendente del paganesimo nella vita religiosa, sociale e morale in Israele, mentre Amos, col suo occhio illuminato da Dio, denuncia questa involuzione e penetrazione, e mette in guardia dalle terribili conseguenze. (31)

.c. Il culto e il suo valore.

La terminologia che il profeta Amos usa nel descrivere il culto è pressoché tradizionale e rispecchia lo stato organizzato del culto nel periodo monarchico e nell’epoca deuteronomica.

Il passo Am 4,4s è una mordace ironia contro il culto d’Israele, culto tanto meticolosamente osservato quanto purtroppo interiormente vuoto. I vocaboli tecnici: sacrificio cruento, decime, pane, offerte volontarie, feste, suoni, canti, vari riti sacrificali in varie festività sono usati da Amos usa per dire qual era il culto praticato dal popolo sono: ‘sacrificio cruento’ in genere, diverso delle ‘decime’ sui beni e sui frutti che i fedeli dovevano offrire al tempio e ai sacerdoti per il culto e per il sostentamento degli addetti al tempio; il ‘pane lievitato’; era proibito offrirlo in sacrificio di lode (cfr. Lev 2,7.11; 7,13; Es 23,18), con uno zelo e un’intenzione fuori modo dato che il popolo pensava di fare oblazioni gradite e tali da per assicurarsi l’approvazione della divinità. Il riferimento del profeta appare polemico e di condanna. Quache studioso dubita che Amos consideri illegale tutto l’apparato sacrificale, da condannare globalmente. Si direbbe piuttosto che Amos condanna un tipo specifico di usanza sacrificale illegale, ma la sua predicazione non è diretta a colpire il dovere del culto. Egli critica evidentemente tutto quanto è ipocrita e contrario al vero spirito religioso. Il pane lievitato, che viene offerto, di per sé, è come sacrificio di lode e di ringraziamento. (32)

Per le ‘offerte volontarie’ la legge non faceva alcuna prescrizione e su esse l’offerente non s’era vincolato con alcuna promessa o voto. Il termine vuol mettere, nel contesto, maggiormente in evidenza il grande affluire di sacrifici al tempio, il che, agli occhi del profeta, non fa che maggiormente rivelare l’insensatezza delle pretese del culto, quelle del popolo che accresce le pretese di propri diritti sulla protezione divina.

Il passo Am 5, 21-27 parla di feste detestate, riunioni sacre non accolte da Signore, olocausti, offerte, vittime, canti e suoni che non pacificano e esigono giustizia e ci dà un altro quadro della vita religiosa del popolo durante il florido periodo di Geroboamo II. Il popolo godeva di relativa pace esterna e di prosperità interna e per questo con ebbra gioia si dava alle feste. Queste feste a cui Amos si riferisce sono senza dubbio le feste religiose e quelle più tradizionali e più solenni, quelle stabilite dalle Legge: festa degli azimi (Es 23,16), delle settimane (Deut 16,16), dei tabernacoli (Lev 23,24) e forse altre feste nazionali e particolari. Queste feste comportavano un pellegrinaggio al tempio (Betel?) e offerte di sacrifici in assemblee generali. Feste e sacrifici erano accompagnaci da suono di strumenti e canti che davano splendore al culto e incantavano attraendo l’anima popolare con fascino, ma che per lo spirito del profeta sensibile ai veri valori religiosi era non gloria del Signore ma strepito assordante per lui. I sacrifici offerti sono diversi: c’è il grande sacrificio che consiste nell’offrire una vittima e bruciarla tutt’ intera sugli altari: c’è il sacrificio pacifico in cui della vittima immolata si bruciano le parti grasse e il sangue veniva sparso intorno all’altare, mentre con le altre parti facevano banchetto gli offerenti e i sacerdoti. Non ogni dono ha esclusivamente né necessariamente significato religioso: può essere un dono dato sia al re sia al Signore (cfr. Gen 4,3ss; 1Sam 2,17; 26,9; 1Re 18,28), può essere di cereali o di animali (Num 16,15; 1Sam 2,17.29; 26,19; Is; 1,13) e in genere nella liturgia è un’offerta di cereali crudi o di farina o sotto forma di focaccia (Lev 2,1; 6,7ss; 7,9s; 10,12) (33) Nelle feste venivano fatte processioni(v. 26) in cui venivano portati lungo le strade forse il ‘vitello'(di Betel e di Dan) o altri idoli (cfr. v. 26 del testo masoretico) mentre si suonava, e si cantava. (34)

In 2,7s il quadro presentato senza dubbio è quello di una festa presso un tempio. Il profeta dice che tutta la festa non è che un susseguirsi di cose sgradite e offese verso Jahweh. Oltre alle ingiustizie sociali, alle oppressioni dei poveri da parte dei potenti, c’era anche la grave piaga della prostituzione, profondamente penetrata nella religione d’Israele dai culti cananei, per cui padre e figlio vanno alla medesima femminetta per profanare il santo nome divino. Questa piaga aveva fatto irruzione nella religione javista legalizzando così, sull’esempio del culto di Astarte, ogni pratica immorale: e la penetrazione fu così profonda che penetrò anche nel tempio di Gerusalemme (2 Re 23,7; cfr. 1Re: 15,12; 22,47; Os 4,13s; Deut 23,17s).

Amos, in 8,5, di passaggio, fa menzione di altre feste che il popolo celebra, una settimanale, il giorno di riposo dedicato a Jahweh e una mensile al novilunio. La festa settimanale del sabato era di antica tradizione: (35), ma della festa della luna nuova non si fa menzione nella legge. Il profeta attesta che la festa della ‘luna nuova’ era una festa assimilata al sabato per la sospensione del lavoro e degli affari. Altri accenni di tale usanza li troviamo in 2 Re 4,23, e in Os, che in 2,13 enumera la ‘neomenia’ in mezzo alle solennità annuali e alla festa settimanale; in questo giorno si celebrano sacrifici e si fanno manifestazioni a carattere religioso e rituale (cfr. Is 1,13s; 1Sam 20,5.24).

Il profeta nota la tremenda contraddizione negli affarismi di chi vuol onorare Jahweh con feste e sacrifici, ma nello stesso tempo vede nelle feste una perdita di tempo per non poter sbrigare i propri affari, accumular danaro. Tutto questo avviene a danno del povero “frodando sul peso e sulle misure”. Il profeta rivelando i pensieri nascosti di tale gente ne stigmatizza la mentalità materialista che li domina e li dirige. Così anche questo accenno fatto di passaggio serve a chiarire in realtà la pratica poco spirituale e la religiosità non disinteressate del popolo.

Dinanzi a questo male che incatenava la nazione e che s’era così largamente diffuso, Amos prende nella sua predicazione un atteggiamento di moralizzatore, un atteggiamento polemico contro questa vita in realtà lontana da Dio. La posizione prima di Amos non è quella del legislatore, quanto piuttosto quella di chi riporta gli altri al rispetto e all’osservanza della Legge in uno spirito nuovo; ed è per questo che si trovano spesso nel suo libro accenni aperti o sottintesi a quella che poteva essere una legge scritta o norma tradizionalmente tenuta ed amministrata (36). Mettendoci da questa punto di vista dobbiamo considerare criticamente se Amos nelle sue invettive contro la vita religiosa d’Israele abbia condannato il culto in quanto tale o solo quell’uso cultuale ipocrita che nascondeva, agli occhi degli uomini, uno stato morale miserando e riprovevole, e pretendeva nasconderlo anche agli occhi di Dio. Certamente alcuni passi di Amos se presi a sé e completamente staccati dal contesto e dall’ambiente in cui sono stati pronunciati, suonano come aperta condanna del culto; ma bisogna precisare che i brani vanno considerati nel tutto e che questi brani sono concatenati con altri che toccano problemi analoghi e di non minor importanza; inoltre Amos fa il predicatore e non il legislatore e quindi bisogna sondare le sue espressioni tenendo conto dell’accento retorico e polemico di questi brani. E’ chiaro, infine, che Amos vuol correggere la vita morale del popolo per ricondurlo alla purezza della fede dei padri nella forma e nello spirito, e che non vuol correggere il rituale e il culto in quanto tale, ma lo spirito personale nella pratica ipocrita.

Le frasi di Am 2,4; 3,14; 8,14 intese nel contesto storico in cui furono pronunciate non esprimono avversità contro il culto javistico, anzi, più che porre Amos contro il culto, chiariscono la posizione di schietta avversità contro il falso culto. Basta leggere i libri dei Re e vedere gli interventi contro il culto illegale cfr. 1Re 15,14; 22,44; 2Re 12,13; 15,4; 2Cr 20,23 e paralleli: in questi passi c’è l’aperta condanna del culto illegale, ma, senza alcun cenno ad una condanna globale del culto in quanto tale.

Am 4,4s. e 5,21-26 esprime aperta condanna del culto che viene particato in modo esteriore, non animato dall’obbedienza ai comandi di Jaweh. Il profeta lo vuol correggere per tutto quanto rispecchia una mentalità blasfema. Nel primo brano cap. 4 i vv. 4 e 5 vanno collegati con i precedenti in cui c’è una forte invettiva contro le donne che per acquisire danaro e saziare le loro brame di godimento opprimono deboli e poveri e inducono i loro mariti a commettere ogni sorta di ingiustizie (vv.1-3: vacche di Basan che saranno scacciate) e poi pensano che i sacrifici sontuosi e il loro frequente “pellegrinare” ai santuari siano sufficienti a quietare la loro coscienza, mentre non fanno che aggiungere colpa su colpa.

Lo stesso valore va attribuito al secondo brano di Amos, specialmente se visto sotto la luce del 5,24 “come le acque scorra il diritto e la giustizia come un torrente perenne“; unito contestualmente ai vv. precedenti 18-23 in cui il profeta mostra quale sarà il giorno di Jahweh, su cui Israele tanto fidava e che pretendeva affrettare e accaparrarselo attraverso i riti di un culto spettacolare con abbondanti sacrifici. Ed ecco invece «Che cosa sarà per voi il giorno del Signore? tenebre e non luce» (5,18b) cioè schianto e abbattimento e non gloria, e a nulla valgono i sacrifici. Dio nemmeno li riguarda, né lo commuove lo spettacolo di festa che si vede intorno ai suoi templi: quello è frastuono e non inno di lode. Manca l’anima della lode cioè la coscienza retta che umilmente si rivolge al Signore. L’esame delle frasi del profeta sul culto nel contesto loro ci mostra che da essi non si può trarre nessuna decisiva condanna del culto in quanto tale; Amos vuol correggere lo spirito del culto.

Am 5,25 «Mi avete forse presentato sacrifici e offerte nel deserto per 40 anni, o Israiliti?» ha una risposta nel contesto storico (37). Il pensiero di Amos, crudamente espresso non è diverso da quello di Os 6,4ss. e di Is 1,10-17; di Ger 7,21 e al pari del nostro profeta condannano il culto e il sacrificio quando non sono accompagnati da retta coscienza. Questi testi, se guardati senza pregiudizi, danno la via della vera religione e del vero culto. (38)

In conclusione Amos non rigetta l’adorazione esterna, ma è fermamente contrario ad ogni culto religioso che non sia l’espressione di una interna vita spirituale tale che trova la sua manifestazione più viva e fedele nella retta condotta della vita quotidiana. Ai vv. 5,21-25 Amos sembra dar eco alla parola che Isaia mette sulle labbra di Dio: «Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue» (Is.1,15) come diceva Amos.

La vita religiosa del popolo del regno d’Israele del sec. VIII come raffigurata nel libro di Amos e in altri contemporanei documenti riflette le condizioni sociali del tempo: il rituale ricco era dovuto alla ricchezza, alla prosperità materiale sotto Geroboamo II. Il culto fatto con ogni solennità e pompa specialmente in Betel era profondamente corrotto nello spirito poiché in netto contrasto con la condotta quotidiana moralmente depravata. E’ vero che il culto era basato sulla adorazione di Jahweh, ma Dio, il Dio dei padri e della rivelazione Mosaica, era ridotto al livello delle divinità fenicie, di un Baal cananeo, rappresentato in un vitello e probabilmente anche con altre immagini. Il profeta non intende condannare il culto rituale, ma era profondamente colpito dalla sua ipocrisia, poiché era diventato, al seguito dei culti pagani, fonte d’immoralità, causa della morale corruzione dei popoli. (39)

Ha scritto Amos con un’espressione a lui cara: «Poiché così dice il Signore alla casa d’Israele: «Cercate me e vivrete! … Cercate il Signore e vivrete …», (5,4.6), ma il Signore va cercato non nel formalismo rituale esteriore, bensì nel servizio umile di Dio nella vita pratica seguendo il bene e ritraendosi dal male, nella conversione del cuore che conduce alla giustizia. Con questa conversione Amos vede il vero giorno di Jahweh e del popolo, la manifestazione della sua gloria e della grandezza del popolo eletto.

L’atteggiamento che Amos assume nella sua predicazione va spiegato solo in base alla mentalità religiosa, morale e sociale del popolo israelita del sec. VIII; e la mentalità religiosa d’Israele culminava in questo secolo in un sincretismo ipocrita del culto tradizionale mescolato con i culti idolatrici fenici dei baalim. Questo stato di cose ha provocato gli attacchi di Amos contro le pratiche rituali che vedeva. E in base all’episodio sopra analizzato, dello scontro tra Amos e l’avversario Amasia, sacerdote di Betel, possiamo anche concludere che di fatto nella religione s’era avuta una specie di intrusione politica, una secolarizzazione statale, una subordinazione degli interessi religiosi a quelli del consenso al potere del regno. Per Amasia e nella mentalità popolare il ‘santuario’ Betel è “santuario del re” e “casa reale”: la vita religiosa a Betel è subordinata al prestigio del re ed è al suo onore. In altre parole la casa della divinità Betel è vassalla della casa di Geroboamo re. Non per nulla Amos fa la sua condanna del sacerdozio di Betel, della casa reale, dei santuari e di tutto il culto che aveva sotto i suoi occhi. (40)

N O T E

(1) – Sulla struttura del libro di Amos, cfr. NEHER e altri qui citati.

(2) – OESTBORN, pag. 80 ss: Jaweh the God of covenant.

(3) – Circa le tante discussioni sull’origine del monoteismo ebraico e il concetto di Dio, suscitate dai razionalisti, e sul concetto di religione popolare in Israele cfr. KORTLEITNER

(4) – LEAHY, pagg. 68-73.

(5) – DE VAUX, pagg. 82 ss.

(6) – NOTH, BWANT  10.

(7) – DE VAUX, a.c., pag. 87.

(8) – ALBRIGHT, From the Stone age  pagg. 298-301.

(9) – DE VAUX, loc. cit.

(10) – Tale mentalità viene energicamente rigettata, dal punto di vista storico e teologico, con un appello alla storia e alla rivelazione, nel salmo 50(49).

(11) – Anche Am 5,8; 8,6. Sull’origine ed il significato di tali inni in Amos, e l’uso polemico di essi VACCARI, pag.184.

(12) – cfr. ALBRIGHT, Archaeology and the Religion pag.110-119; ID. Jaweh and the goods of Canaan; cfr. anche F.S.A.C. pagg.196-199.

(13) – Amos ed Isaia accettano la professione del popolo che la loro religione è indirizzata a Jaweh, al contrario Osea e Geremia la criticano.

(14) – Per i toponimi e i culti in dati luoghi: cfr. voci nei Dizionari e Repertori biblici; DU BUIT, ALBRIGHT; LEAHY

(15) – Cfr. ad esempio come si esprime la stele di Mesa; cfr. anche Num 21,29; Mic 4,5; cfr. SMITH

(16) – v. 2Re, 18,22. 34s.: il messo di Sargon lancia una sfida ad Ezechia e conferma le sue asserzioni dicendo: «Dove sono gli dèi di Camat e di Arpad? Dove gli dèi di Sefarvàim, di Ena e di Ivva? Hanno forse liberato Samaria dalla mia mano? Quali mai, fra tutti gli dèi di quelle regioni, hanno liberato la loro terra dalla mia mano, perché il Signore possa liberare Gerusalemme dalla mia mano?”» 2Re, 18,34-35.

(17) – MORGENSTERN, pagg. 410 ss.

(18) – MORGENSTERN, loc. cit.; A. POHL, pagg. 86-92.

(19) – Conoscenza nel senso di elezione, amore, idea espressa tante volte nella Sacra Scrittura, Gen 18,19; Os 13,5; Ger 1,5; Deut 7,6; 9,24; 14,2; Es 33,12.

(20) – Osea 9,7ss ironicamente mette a confronto la visione del profeta e la superba sicurezza di Israele. Il profeta nota che ormai la misura è colma e la punizione di Dio è prossima e ricorda agli uditori uno storico esempio, il peccato e la conseguente punizione di Baalfegor.

(21) – WELCH ripetutamente ritorna su questi concetti in tre studi: – Prophet and Priest in old Israel, 1953, pagg. 76-102; – Religion of Israel under the Kingdon, 1912, pagg. 59-96; – Kings and Prophets in Israel, 1953 pagg. 107-129.

(22) – Il profeta richiama i culti favoriti dal re a Betel, Galgala, Dan, Bersabea.

(23) – Recenti studi fanno delle scuole profetiche e dei profeti degli affiliati ai templi e al culto: cfr. SAYDON, pag. 75.

(24) – Sull’espressione del testo biblico cfr. Mc CORMACK, in Exp. Tim. 67/10, 1956, pag. 318; P.R. ACKROYD, in ET; 68/3, 1956, pag. 94; e soprattutto E. VOGT, in ET 68/10, 1957, pag. 301, che spiega: Ich bin kein Prophet das ist kein Prophetensohn (=Berufprophet).

(25) – Vedi l’episodio del profeta Michea ed Acab: 1Re 22,1-28.

(26) – RINALDI, G., pag. 382.

(27) – HARPER, pag. 88.

(28) – RINALDI, I profeti minori: Amos, cit. pag. 165

(29) – SANT, loc. cit.

(30) – Per le “alture” sacre cfr. VINCENT

(31) – NEHER, apre altre prospettive, pag. 82-85.

(32) – Van HOONACKER, commenta sulla base dei LXX, e di congetture con un’interpretazione diversa da altri; traduce: “Proclamer sur dehors sacrifice de louange….”  vocaboli di sua ricostruzione.

(33) – Numerazione dei sacrifici in Lev 1-3 ove sono elencati nello stesso ordine che in questo testo di Amos.

(34) – Frequenti accenni nei salmi inoltre cfr. 1 Re, 18,26ss; Is 28,7; 45,20; 46,9; Ger 10,5.

(35) – Sull’origine, l’evoluzione e il significato della festa del sabato presso gli ebrei cfr. MORAN (dispensa ad uso privato), pag. 74ss. < forse William L. MORAN, “A Kingdom of Priests

(36) – Per Amos e la legge scritta o tradizionale SANT, pag. 42-47.

(37) – Se si negasse il culto di Israele nel deserto, oltre a non cogliere il vero pensiero di Amos e travisare il contesto storico e psicologico del profeta, si negherebbe tutta la tradizione di Israele.

(38) – La lettura di Amos è conforme a tutta la tradizione orientale che si rivela dalla letteratura e dai monumenti oggi sempre in maggior numero messi in luce dall’archeologia cfr. CRIPPA, pag 140.

(39) – SANT, pag. 47. Nel giorno di Jahweh si realizza la salvezza. Il popolo eletto dal Signore, Israele, viene a manifestare la divina sovranità sul mondo intero.

(40) – NEHER, pag. 9: ha suggestivi suggerimenti; ma trae conclusioni di cui a malapena in Amos e si può trovare lo spunto.

 

 

 

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MIOLA GABRIELE BIBLISTA RICORDA il collega DON RAFFAELE CANALI Istituto Teologico Fermo

«In memoriam. Don Raffale Canali (6.11.1940-9.1.1992)» a cura di A. Nepi, Fermo 1992 – Presentazione di MIOLA Gabriele biblista

\ Questo fascicolo in memoriam è stato preparato da don Tonino Nepi, prima discepolo e poi successore di don Raffaele Canali sulla cattedra di Esegesi Biblica dell’Istituto Teologico e dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Fermo. Vi sono presentati una nota biografica ed una bibliografica e due articoli tra gli ultimi pubblicati dal prof. Canali. E’ un doveroso, grato ricordo di don Raffaele, che con la sua scomparsa prematura, ci ha fatto toccare maggiormente con mano il suo prezioso lavoro di docente di S. Scrittura ed appassionato annunziatore della Parola di Dio.

In più di venti anni di insegnamento tanti seminaristi teologi ed ora preti e poi tanti laici, dei quali molti ora sono Insegnanti di Religione, hanno potuto apprezzare da una parte la sua preparazione scientifica e dall’altra la passione per quella Parola “ispirata da Dio, utile per insegnare, convincere, correggere e educare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2 Tim 3,16).

Questi due aspetti hanno caratterizzato la personalità del prof. Canali: la scientificità e il servizio alla parola.

La licenza in S. Scrittura conseguita al Pontificio Istituto Biblico di Roma e il suo perfezionamento in Archeologia e Topografia biblica allo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme lo hanno preparato al metodo filologico, al rigore della ricerca storico-critica. I corsi di esegesi del prof. Canali erano apprezzati non solo per il cumulo di conoscenze che trasmetteva, ma soprattutto per quella capacità di condurre dentro il testo sacro e di insegnare a leggere nella profondità inesauribile della Parola di Dio. Era un prendere per mano l’alunno e metterlo nella condizione per cui il discepolo stesso poi fosse in grado di essere a sua volta esegeta. Per questo gli studenti lo sentivano non tanto come professore quanto piuttosto come “testimone e maestro”.

Sempre con lo spirito di una attenta ricerca scientifica negli ultimi tempi aveva approfondito i metodi dell’esegesi rabbinica e la lettura patristica della Bibbia. La sua biblioteca personale, costruita con tanti sacrifici, come ricorda nel suo testamento, s’era arricchita del Talmud Babilonese, dei volumi dello Strack-Billerbek, di Diez Macho, di Neri e di tanti altri. Aveva il gusto della tradizione della lettura della Bibbia all’interno della storia del popolo di Dio.

I riconoscimenti per questa sua preparazione non gli sono mancati e lo testimonia il fatto di essere stato chiamato ad insegnare oltre che nei nostri Istituti di Teologia di Fermo anche all’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Tomolo” di Pescara e chiamato come assistente alla Pontificia Università Gregoriana di Roma.

Il servizio alla Parola di Dio è stato vasto anche al di fuori delle cattedre degli Istituti di Teologia.

I primi contributi li ha dati alla serie di incontri del progetto “Comunità e Bibbia” e le sue lezioni, raccolte in fascicoli, hanno fatto il giro della Diocesi e sono serviti a tanti gruppi. Tutti conosciamo il suo lavoro di biblista per i monasteri delle Benedettine di Fermo, di Offida, di Ascoli Piceno, di Amandola, di Monte S. Martino, di Potenza Picena e di altri. La tradizione monastica della lectio divina lo affascinava e per questo vi ha lavorato con passione e la sentiva come uno scambio di doni con chi nella semplicità del cuore si apriva all’ascolto della Parola. Lo proponeva come metodo per accostarsi alla Parola di Dio anche ai teologi, per i quali il Vescovo Mons. Bellucci lo aveva nominato padre spirituale. Nel Cammino Neocatecumenale ha portato la ricchezza di una lettura spirituale e attualizzante della Bibbia, che tutte le comunità hanno apprezzato; lui vi vedeva realizzata la potenza della Parola che crea e trasforma.

Questo lavoro, vasto e profondo insieme, forse gli ha impedito di dedicarsi con più frutto, di quel che ha potuto fare, alla cura delle sue pubblicazioni, che sono rimaste per molta parte “pro manuscripto” e che il prof. Nepi ha elencato nella nota bibliografica, che speriamo di poter completare man mano che saranno riordinate le carte di don Raffaele.

Nel suo testamento, che ha scritto l’ultimo giorno del 1991, quasi presago di quanto sarebbe accaduto, si legge: “Ringrazio Dio che mi ha dato la possibilità di studiare a Roma per otto anni interi e di aver potuto studiare Scrittura. Ho dato la vita per essa … Dio mi ha fatto tanti regali, oltre la Scrittura, la sua Parola, di aver potuto conoscere la Terra Santa, il mio cuore”.

Quando accettò di venire a Fermo, don Raffaele prese con gioia gli insegnamenti che io dovetti lasciare perché chiamato ad altro lavoro ed ora ringrazio il Signore, con quanti hanno gioito della sua parola e della sua persona, per avercelo donato.

Indimenticabili di don Raffaele sono il suo sorriso e la sua amabilità; erano espressione di quella festa che aveva in cuore per la Parola che portava e annunziava. Per questo, chiudendo il suo testamento, e quasi vedendo i suoi alunni, i suoi amici, le comunità neocatecumenali intorno alla sua bara scrive: “Fate una gran festa. Cantate i canti più belli del Cammino (soprattutto dal Cantico dei Cantici), ma cantate con gioia. E’ una gran festa. Tutti saremo in Cristo per stare sempre con lui. Il Signore ci ama. Siate contenti. Amate il Signore”. E concludeva in ebraico: “Hallelu Jah hodu lejhwh ki tov ki lecolam hasdo – Alleluja, lodate il Signore perché è buono, perché eterno è il suo amore”.

don Gabriele Miola                                                        Fermo 17.02.1992

In altro volumetto a cura di Gabriele Nepi «D. Raffaele Canali» Fermo 1992 pp. 17s

Come lo ricorda Mons. Gabriele Miola

Nell’accogliere la richiesta del prof. Gabriele Nepi di una testimonianza che ricordasse don Raffaele, ho pensato di richiamare episodi personali, che sottolineano il nostro comune amore della Terra Santa e un aspetto del suo carattere.

A proposito del suo attaccamento alla Terra Santa ricordo ancora con gioia il pellegrinaggio dei teologi del nostro seminario, che guidammo insieme nell’agosto del 1975. Un giorno propose di fare a piedi la strada del deserto dal Khan del Buon Samaritano fino a Mar Kossiba e a Gerico: camminava spedito sotto il sole di agosto, tirava il gruppo con lena, tanto che alcuni non riuscivano a seguirlo e cominciarono a gridare perché allentasse il passo. Era sorprendente come lui relativamente basso di statura riuscisse a tenere un’andatura così accelerata senza stancarsi e superando tutti. Della Terra Santa amava tutto, la città santa e i siti archeologici, il deserto e il mar di Kinnereth, la petrosa Giudea e la verde Galilea, le regioni aride e morte del mar di Sale e lo splendore della pianura e le sue cascate e la sabbia del Neghev e dell’Araba.

Per poter dialogare con la gente del luogo aveva seguito corsi di lingua araba e di ebraico moderno; nella comunità araba cristiana aveva stretto profonde amicizie. Vedeva in queste comunità la linea continua, che partiva fino ad oggi; il suo popolo, mai decaduta.

Con ragione ha scritto nel suo testamento: “La Terra Santa, il mio amore”: in essa ritrovava le radici della fede, rileggeva gli eventi della storia della salvezza, la manifestazione di Dio in Gesù di Nazareth, il Cristo e il Signore.

Quando nel ‘75 passò un anno a Gerusalemme, nei giorni di Pasqua arrivai nella città santa con un pellegrinaggio; poiché la data della Pasqua ortodossa quell’anno era differita di una settimana, partecipammo insieme alla Veglia Pasquale degli Ortodossi al S. Sepolcro e la domenica pomeriggio andammo insieme a Emmaus e tornammo a piedi: avevamo in cuore la stessa gioia dei due discepoli che allo spezzar del pane avevano riconosciuto Gesù risorto.

Un altro aspetto che mi piace sottolineare di don Raffaele è la sua timidezza, che proveniva da un animo delicato e riservato. Si appartava spesso, non amava la compagnia chiassosa. Era espansivo invece là dove trovava corrispondenza d’animo di chi si apriva alle cose di Dio, del Vangelo, della Chiesa. Rifuggiva da atteggiamenti superficiali e banali e quando inaspettatamente vi si trovava coinvolto, salutava con un sorriso delicato e se ne andava.

Era timido anche nel chiedere. Ricordo con quanta delicatezza veniva a presentare un’iniziativa o a chiedere un permesso quando ero rettore del Seminario e in questi ultimi anni vice-prefetto dell’Istituto Teologico o solo quando mi chiedeva se potevo prestargli un libro che sapeva che io avevo nella mia biblioteca. Quando vedeva che la sua richiesta incontrava qualche difficoltà o poteva creare intralcio se ne scusava e cercava di provvedere da sé in altro modo.

Questa timidezza, quasi timore di arrecare fastidio, gli ha creato anche delle difficoltà quando cominciò ad avvertire i primi sintomi del suo male, cercando altrove quel che gli poteva offrire anche la comunità del seminario.

Timido era don Raffaele, ma anche fermo nelle sue scelte. Ricordo che un’unica volta ci siamo trovati forse su sponde opposte; dico ‘forse’ perché poi non erano sponde tanto lontane. Fu quando, ai primi anni del cammino neocatecumenale nella nostra diocesi, si dibatté il problema della celebrazione della Veglia Pasquale separatamente tra parrocchia e comunità. Io, come vicario generale allora, chiedevo che la celebrazione della Veglia Pasquale trovasse unita tutta la parrocchia nel momento liturgico più vivo e più solenne dell’anno; don Raffaele difese la libertà delle comunità neocatecumenali di celebrare la Pasqua da sole, come momento che riassumeva tutta un’esperienza e un cammino che altri cristiani non avevano condiviso e che quindi non potevano comprendere. La discussione, fatta insieme con altri, pur vivace, non ci divise, anzi, servì a mettere in rilievo aspetti positivi dall’una e dall’altra parte.

Il Signore ce lo ha tolto presto, ma il suo ricordo, caro e indimenticabile, ci unisce nella sua stessa fede: “Tutti saremo in Cristo, per stare sempre con Lui”.

Fermo li 5/4/1992                                                         Don Gabriele Miola

 

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QUARESIMA prima domenica anno A: il parroco Blasi Mario evangelizza la preparazione alla Pasqua

I QUARESIMA (Mt.4,1-11)

 Il parroco Blasi don Mario invita alla Quaresima per la Pasqua di Risurrezione di Gesù  Cristo

“Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.

     Per vivere l’esperienza della Quaresima, è necessario mettersi in ascolto della Parola di Dio. La Quaresima oggi è ancora sentita come tempo forte dell’anno liturgico per la vita della Chiesa e della comunità cristiana?

Nella Quaresima la Chiesa propone brani biblici che si prestano ad un confronto concreto con le situazioni diverse delle assemblee della comunità.

Tre sono le opere della Quaresima per ogni comunitàdigiuno, elemosina e preghiera. Sono opere che devono caratterizzare la vita cristiana di ogni tempo, ma nella Quaresima devono risvegliare in modo particolare la coscienza di ogni credente.

Il digiuno consiste nel saper risparmiare qualcosa per donare in elemosina. L’elemosina è il gesto che si compie per aiutare il povero; c’è più gioia nel donare che nel ricevere; ciò significa che l’uomo è fatto per amare. “Senza la gioia di donare, una società non riesce a far fronte nemmeno alla necessità dello sviluppo della crescita. L’elemosina è un gesto realista, non eccezionale.  Realista perché prende atto che il bisogno dei poveri intorno a noi è tale che tante nostre pretese e lamenti suonano spesso addirittura indegni. E si tratta di un gesto non eccezionale, perché dovrebbe avvenire, come ricorda il Vangelo, senza che la mano sinistra sappia ciò che fa la destra”. La Quaresima è il tempo in cui la Chiesa si riunisce con una intensità particolare per professare la sua fede; è il tempo in cui si verifica e si ristruttura la fedeltà del credente. Che posto ha Dio nelle vita del credente oggi? Il credente deve sempre guardare Gesù come modello di vita. Gesù vive ed attua sempre la volontà del Padre.

Gesù, nel deserto, supera le prove mettendo Dio sempre al primo posto. Così deve agire il cristiano nella vita. Gesù è condotto nel deserto dallo Spirito per essere tentato da Satana. E’ lo Spirito che introduce Gesù alla prova. “Gesù non ha cercato la tentazione, ma vi è stato introdotto misteriosamente dallo Spirito Santo, potremmo quasi dire suo malgrado”. Gesù insegna “che si deve affrontare la tentazione con una preghiera vigilante, rivolta al Padre per non soccombere alla prova”. Gesù supera tutte le prove con la Parola di Dio.

La prima tentazione di Gesù nel deserto è: il pane. Gesù risponde al tentatore:

Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.

La Parola di Dio e la Sua Grazia sono la base della vita di Gesù nel deserto. “Il Figlio è innanzitutto un “povero di Spirito” sottomesso alla Parola che diventa suo alimento”. Con la Parola di Dio Gesù si salva e si sfama. Il cristiano viva sempre gioioso con la Parola di Dio nel cuore.

QUARESIMA 2008: PREGHIERA, DIGIUNO ED ELEMOSINA

“La Quaresima offre una provvidenziale occasione per approfondire il senso e il valore del nostro essere cristiani, e ci stimola a riscoprire la misericordia di Dio perché diventiamo, a nostra volta, più misericordiosi verso i fratelli. Nel tempo quaresimale la Chiesa si preoccupa di proporre alcuni specifici impegni che accompagnino concretamente i fedeli in questo processo di rinnovamento interiore: essi sono la preghiera, il digiuno e l’elemosina. Quest’anno, nel consueto Messaggio quaresimale, desidero soffermarmi a riflettere sulla pratica dell’elemosina, che rappresenta un modo concreto di venire in aiuto a chi è nel bisogno e, al tempo stesso, un esercizio ascetico per liberarsi dall’attaccamento ai beni terreni. Quanto sia forte la suggestione delle ricchezze materiali, e quanto netta debba essere la nostra decisione di non idolatrarle, lo afferma Gesù in maniera perentoria: “Non potete servire a Dio e al denaro” (Lc 16,13). L’elemosina ci aiuta a vincere questa costante tentazione, educandoci a venire incontro alle necessità del prossimo e a condividere con gli altri quanto per bontà divina possediamo.

Nel Vangelo è chiaro il monito di Gesù verso chi possiede e utilizza solo per sé le ricchezze terrene. Di fronte alle moltitudini che, carenti di tutto, patiscono la fame, acquistano il tono di un forte rimprovero le parole di san Giovanni: “Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il proprio fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3,17).

 Il Vangelo pone in luce una caratteristica tipica dell’elemosina cristiana: deve essere nascosta. “Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra”, dice Gesù, “perché la tua elemosina resti segreta” (Mt 6,3-4). E poco prima aveva detto che non ci si deve vantare delle proprie buone azioni, per non rischiare di essere privati della ricompensa celeste (cfr Mt 6,1-2).

L’elemosina, avvicinandoci agli altri, ci avvicina a Dio e può diventare strumento di autentica conversione e riconciliazione con Lui e con i fratelli”.

(Messaggio di Papa Benedetto per la Quaresima 2008)

 

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LA CITTA’ E LA DIOCESI DI FERMO in un profilo del docente PRETE Serafino 1962

Fermo: CITTA’ E DIOCESI – Profilo storico

Studio di PRETE Serafino docente di storia del Cristianesimo e della Chiesa

Città –

Fermo fu antica città del Picenum, prima ancora che Roma la conquistasse e facesse sua colonia al principio della prima guerra Punica (264 a.C.). Ne è conferma una vasta necropoli scoperta recentemente (1956) con numerose tombe a cremazione di tipo « villanoviano » riferibili al sec. VIII a.C. Il rinvenimento è considerato la prova indubbia di uno stanziamento nella zona di un grosso nucleo « villanoviano » ed è di importanza eccezionale per la storia del Picenum.

Divenuta Fermo colonia romana e mantenutasi fedele a Roma, Augusto ne rinnovellò la costituzione e per questo fu considerato padre della medesima (parens coloniae). La memoria del fatto, sempre viva nella storia cittadina, fu ricordata in una famosa epigrafe, che la tradizione dice antica, ma che la critica recente vorrebbe rinascimentale; essa si legge tuttora nella sede Comunale, sotto l’emblema di un’aquila scolpita, che si disse donata dall’imperatore alla città; si formò così la nota ‘legenda’ dello stemma della città : Firmum firma fides Romanorum colonia (A. CAMPANA, Giannozzo Manetti, Ciriaco e l’Arco di Traiano ad Ancona, « Italia Medioevale e Umanistica » II [1959] p. 498 n. 2).

Colla caduta di Roma e durante gli sconvolgimenti causati dalle invasioni barbariche, specialmente sotto i Goti e poi ancor più sotto i Longobardi, Fermo subì irreparabili rovine: furono distrutti gli edifici monumentali, il teatro, le terme e la cattedrale, dei quali oggi rimangono importanti resti. Col formarsi dello stato e del potere temporale della S. Sede, Fermo venne a trovarsi nel territorio a questa soggetto: Adriano I accolse gli abitanti del « ducatus firmanus » che giurarono fedeltà a S. Pietro (Liber Pont., ed. DUCHESNE, 1 496); seguì poi le vicende del ducato di Spoleto e della Marca d’Ancona, emergendo, spesso, con qualcuno dei suoi comites e con forme di governo autonomo (Marchia Firmana, sec. XI).

La funzione di Fermo come centro cittadino, dominante il contado e il vasto territorio dagli Appennini al mare Adriatico, dal fiume Tronto al Chienti riprese vigore nell’età dei liberi Comuni: alla fine del sec. XII risalgono le prime testimonianze del regime comunale a Fermo, il quale si andò consolidando, sotto l’alto dominio dei Papi, ponendo le basi duna legislazione statutaria cittadina. La prima compilazione degli Statuti di Fermo è assegnata al 1380, mentre la sua definitiva promulgazione è posteriore e la stampa è del 1507 (S. PRETE, I magistrati dell’«Officium Maleficiorum» a Fermo nel sec. XV (1447-1496) « Studia Picena » 28 [1960], p. 8). Nelle lotte tra Chiesa e Impero, che caratterizzarono il sec. XII e XIII e che divisero i Comuni delle Marche, Fermo fu, per lo più, dalla parte della Chiesa scegliendo i suoi alleati fra le più potenti città guelfe della regione. (Cfr. W. HAGEMANN, Fabriano im Kampf zwischen Kaisertum u. Papstum bis 1272 « Quellen u. Forschun- gen aus Italienischen Archiven u. Bibliotheken » 30 [1940] p. 88- 136; 32 [1942] p. 51-109; Iesi im Zeitalter Friedrich:s II « Quellen u. Forschungen » 36 [1956] p. 138-187; Studien u. Dokumente zur Geschichte der Marken im Zeitalter der Staufer, I, « Quellen u. Forschungen» 37 [1957] p. 103-135; 41 [1961] p. 48-136).

Nel sec. XIV si formarono « signorie » locali, spesso degenerate in tirannie, come quella di Mercenario da Monteverde (1331- 1340) e di Gentile da Mogliano (1348-1355), fino a quando il card. Egidio De Albornoz, riconquistati i territori dell’Italia centrale alla S. Sede, sottomise anche Fermo, che affidò a Giovanni Visconti da Oleggio (1360-1366) e che fu temporaneamente sede del Governo Generale (Curia Generalis Marchiae) (S. PRETE, Documenti Albornoziani nell’Archivio Diplomatico di Fermo « Studia Picena » 27 [1959] p. 56-76).

Così fu sancita quella trasformazione del governo comunale in quella città-stato, sotto la dipendenza, almeno nominale, dalla Santa Sede: Fermo fu centro di un vasto dominio con giurisdizione sopra 48 comunità (castra), aventi a loro volta una certa autonomia amministrativa ma soggette al capoluogo.

Instaurazioni di « tirannie » di signorotti locali si ripeterono nel corso del sec. XIV e XV: tristemente famose rimasero quella di Rinaldo da Monteverde, figlio di Mercenario (1376-1379) cacciato a furore di popolo e poi decapitato; di Francesco Sforza (1433- 1445) contro cui un’altra ribellione popolare, in cui si demolì pietra su pietra la Rocca del Girfalco, riportò la città all’obbedienza della Chiesa Romana; di Oliverotto Euffreducci (1502) fatto uccidere da Cesare Borgia (duca Valentino) con cui Fermo pure fu incorporata al fortunoso stato creato per pochi anni dal nipote di Alessandro VI.

Nei secc. XVI e XVII la città si rivolse con preferenza al culto della scienza e dell’arte, abbellendosi di monumenti, di chiese e di edifici artistici; ed in questo stesso periodo ebbe grande sviluppo la Università, fondata da Bonifacio IX nel 1398 (H. DENIFLE, Die Universitäten des Mittelalters bis 1400, I [Berlin 1885] p. 630 sg.) ma che iniziò veramente la sua attività con Sisto V (1585) che la dotò ed arricchì di privilegi. Il governo e le magistrature cittadine furono modellati sulla falsariga degli Statuti e sull’ordinamento amministrativo dello Stato Pontificio (IVES- MARIE BERCÉ, Troubles frumentaires et pouvoir centralizateur: l’émeute de Fermo 1648, I « Mélanges d’Archéologie et d’hist. » 73 [1961] p. 471498).

Riordinata l’Amministrazione dello Stato, coll’istituzione della « Congregazione del Buon Governo fatta da Clemente VIII (1592), Fermo ebbe come governatore ordinariamente il Cardinal Nepote, prefetto del nuovo Dicastero; in seguito fu istituita una « Congregazione Fermana » a parte per la città, la quale, però, dopo il 1761 fu riassoggettata, come il resto dello Stato, alla Congregazione della Consulta e del Buon Governo. (Archivio di Stato di Roma, E. LODOLINI L’Archivio della S. Congregazione del Buon Governo 1592-1847. Inventario, Ministero degli Interni. Pubblicazioni degli Archivi di Stato, 20, Roma 1956).

Colle nuove circoscrizioni introdotte dalla Rivoluzione e dal regime Napoleonico in Italia, Fermo fu capoluogo del Dipartimento del Tronto. Nel riassetto delle province pontificie operato dalla restaurazione fu sede di « delegazione » riprendendo la sua funzione naturale di centro economico e culturale del territorio. Cessata la dominazione Pontificia, Fermo votò la sua annessione al nuovo Regno d’Italia (1860) (E. LODOLINI, L’amministrazione periferica e locale nello Stato pontificio dopo la Restaurazione, « Ferrara viva » 1 a.1959 p. 5-32).

Diocesi

Le origini del Cristianesimo nella regione del Picenum, di cui Fermo era uno dei capoluoghi, rimangono tuttora oscure a causa della scarsezza delle testimonianze storiche e monumentali. L’ipotesi dello Harnack (Die Mission u. Ausbreitung d. Christentums in den drei ersten Jahrhunderten, Leipzig 1924, II 816) della esistenza nella regione di circa 15 comunità cristiane con vescovo, nel IV sec., tra le quali Fermo resta ancor valida. Una memoria cristiana pure del IV sec., a Fermo è il noto sarcofago conservato nella cripta della Cattedrale (G. WILPERT, I sarcofagi cristiani antichi, Roma 1929-1936, testo I 119, tav. I 116 n. 3). Non autentica <?> è da ritenere la epigrafe di Maxima fro(na) chri(stiana) (S. PRETE, Una iscrizione sepolcrale cristiana a Fermo « Studia Picena » 15 [1940] p. 188-190). Nulla di certo si può affermare sulla introduzione del Cristianesimo nel Picenum antecedentemente al sec. IV: ipotesi ed opinioni espresse da eruditi e storici locali circa l’apostolato di S. Apollinare nel I sec. o di S. Feliciano di Foligno e di S. Emidio di Ascoli nel III secolo non sono provate. Martire autentico dei Picenum è S. Marone (Mart. Hieron. 15 april.) il quale, quindi, potrebbe considerarsi un evangelizzatore della regione e, forse, del fermano; ma la cronologia del suo martirio non può riportarsi al T sec., come pretendono gli Atti leggendari (BHL 6063- 6065). La tradizione locale a Fermo venera S. Alessandro (Mart. Rom. 11 gennaio) e S. Filippo (22 ott.) quali protomartiri e protovescovi della città, vittime della persecuzione di Decio (249), ma non conosce altri vescovi fino al VI sec. Si tratta di una tradizione, nata probabilmente dalle reliquie dei due martiri, romano il primo e di Eraclea il secondo, venerati a Fermo e ritenuti in seguito, secondo un processo leggendario non raro nella storia delle Chiese, del luogo. Nel periodo infatti che va dal sec. XIII al XV i calendari locali non conoscono i predetti martiri come propri a Fermo: solo annotazioni, aggiunte in corsivo nei detti calendari, avvertono la presenza delle loro reliquie nella chiesa Cattedrale. Nel sec. XVI l’attribuzione dei due martiri a Fermo è già compiuta e se ne chiede ed ottiene il riconoscimento ufficiale dal Card. Baronio coll’inserzione nel Martirologio Romano, alla cui compilazione l’erudito Filippino attendeva intorno al 1580. In seguito, nei sec. XVII e XVIII si aggiunsero altri dati storici e cronologici alla leggenda, che fu diffusa e volgarizzata dall’Arciv. di Fermo, il Alessandro Borgia (1724-1764) (S. PRETE, I SS. martiri Fermarli nel Martirologio Romano. « Studia Picena » 14 [1939] p. 128; IDEM, La leggenda nell’agiografia fermana antica « Rivista di Arch. Cristiana » 18 [1942] p. 113-140).

I primi vescovi di Fermo, indicatici da documenti sicuri, appartengono al sec. VI: nel 580 circa il vescovo Fabio riscattò dai Longobardi i chierici Passivo (poi suo successore) Demetriano e Valeriano (M. G. H., Gregorii I, Ep., IX 52). Passivo (598 c.), il successore, spiegò una notevole attività anche nelle chiese limitrofe. Egli consacrò un oratorio a S. Savino a Fermo, un altro allo stesso Santo in Ascoli e l’oratorio di S. Pietro a Teramo. Dietro invito di papa Gregorio M. visitò la ecclesia, Aprutina (Teramo) e chiamò Oportunus, invitandolo ed ammonendolo a ricevere gli ordini sacri per divenire vescovo di quella chiesa, da tempo vacante (Greg. I, ep. XII 4). Intorno a questo tempo la Ecclesia Firmana comprendeva un vasto territorio; verso sud era limitato dalla ecclesia asculana, però aveva assorbito la vicina chiesa di Truentum, alle foci del Tronto; a nord aveva pure assorbito alcuni vescovati che erano in vita nel sec. V, quali la ecclesia Potentina (Potenza Picena), Falerionensis (Falerone) e Pausulae (Corridonia).

Cronotassi dei vescovi

Liste dei vescovi di Fermo sono fornite da opere di storia generale (Ughelli, Cappelletti, Gams), di storia locale (Catalani, Trebbi) e da Annuari (Annuario dell’Archidiocesi di Fermo Statistica. Fermo 1935; L’Archidiocesi di Fermo Guida Ufficiale a. 1955. Fermo 1955), ma l’una deriva dall’altra e nessuna è senza lacune ed errori, in particolare nella cronologia. (Cfr. L. BARTOCCETTI, Serie dei vescovi delle diocesi marchigiane. « Studia Picena » 14 [1939] p. 129-135 pure fitta di errori). Per il periodo più antico, dal VII al XII sec., non è facile ricostituire la serie né correggere errori; ci limitiamo ad annotare che il vescovo Lupus, assegnato a Fermo, in base alle sottoscrizioni del Sinodo Romano dell’826 (episcopus firmensis: MANSI [Venetiis 1769] XIV, col. 1000), da altri è, invece, attribuito, in base alla diversa lezione, a Furconium (episcopus furconiensis, presso L’Aquila) (U. CAMELI, Note di storia Fermana : I. Il vescovo Lupo presente al Concilio Romano nell’anno 826 « Studia Picena » 12 [1936] p. 169 sg.).

Preminenti autorità ed influsso sembra avesse esercitato il vescovo di Fermo sopra la regione Aprutino-Picena fino al sec. IX: nell’879 al vescovo Eodicio è affidata, insieme con altri vescovi, la causa di Teoderona de Vivelata, costretta, in seguito alla vedovanza, a prender il velo di monaca (KEHR, It. Pont., IV 312 n. 5). Nel periodo della riforma Gregoriana debbono essere ricordati. Olderico (Ordericus 1057-1074) amico e corrispondente di S. Pier Damiani (Ep. 4, 9, PL 144, 311-318; cfr. S. PRETE, S. Pier Damiani, le Chiese marchigiane e la Riforma nel sec. XI « Studia Picena » 19 [1949] p. 119-128); Pietro (1075) e Wolfgang (Gualfarangus 1076-1078) che fu scomunicato e deposto da Gregorio VII con altri vescovi della regione (Reg. Gregorii VII, VI 17, KEHR, It. Pont., IV 137). Il successore è ignoto ma un partigiano dell’antipapa Clemente III, certo Ugo Candido, fu vescovo di Fermo in quegli anni. Figura di grande rilievo nel sec. XII fu il vescovo Presbitero, consacrato da Lucio III nel 1184; egli si adoperò per il ritorno alla S. Sede del patrimonio e delle terre contese tra Chiesa e Impero nella Marca d’Ancona. Celestino III gli indirizzò nel 1197 un invito a cooperare in tal senso con il vice legato e con l’abate di Farfa (KEHR, It. Pont., IV 138 n. 19).

Per la stessa ragione Presbitero si trovò a lottare con il mar¬chese imperiale Marcualdo, che gli rese difficile la permanenza nella sua sede e gli proibì di sostare nelle città della Marca (KEHR, IV 138, n. 17).

Per il periodo che va dal XIII al XV sec. la cronologia e la successione dei vescovi di Fermo possono essere ricostituite in base ai documenti dell’Archivio Vaticano e ne riproduciamo qui la cronotassi (Cfr. EUBEL, I 249) :

Adenulfus (1205-1213)

Hugo (1214-1216)

Petrus (1216-1223)

Rinaldus Monaldi (1223-1227)

Philippus de Monte dell’Olmo (1229-1250)

Gerardus (1250-1272)

Philippus (1273-1300 c.)

Albericus Visconti (1301-1314)

Amelius de Lautrico (1317 Amministratore)

Franciscus de Mogliano (1318-1325)

<1325-1328:sede vacante – vicari capitolari>

Franciscus ep. Florent. (1328 Amministratore)

(Vitalis de Urbino, intruso dell’antipapa Niccolò V 1328)

Iacobus de Cingulo O. P. (1334-1348)

Bonjoannes ep. Bosnensis (Diacovar, 1349-1363)

Alfonsus de Tauro O. Min. (1363-1370)

Nicolaus Marciari de Pesaro (1370-1374)

Antonius de Vetulis (1374-1385)

Angelus Pierleoni (1386 sg. <1389>)

Antonius de Vetulis (1390-1405)

Leonardus Physici (1406 sg.-<1409>)

Joannes de Bertoldis de Serravalle O. Min. (1410)

Franciscus Rustici (1412)

Joannes ep. Ascul. (1412)

<Johannes de Firmonibus 1417sg.>

Jacobus de Melioratis (1418-1424 Amministratore)

Dominicus Capranica (1424-1458)

I Capranica tennero l’episcopato fermano per più di mezzo secolo, fino al 1485, e ordinariamente in administrationem: si susseguirono Domenico, che eletto cardinale, riprese poi la diocesi di Fermo definitivamente nel 1435 fino al 1458; Niccolò, Angelo card., Girolamo e Giovanni Battista; furono anche commendatari dell’abbazia di S. Bartolomeo della diocesi di Fermo (U. CAMELI, Il monastero di S. Bartolomeo de « Campo Fullonum » e i prelati di casa Capranica. «Studia Picena» 11 [1935] p. 81 sg.). Alla fine del secolo successero i Piccolomini, Francesco (1485), Agostino e Francesco, tutti a titolo in administrationem.

La cronotassi dell’ultimo periodo, dalla riforma Tridentina ad oggi, non presenta difficoltà né interesse storico particolari. Nel 1589 Fermo fu eretta in Metropolitana da Sisto V con bolla Universi Orbis del 24 maggio.

L’applicazione dei Decreti Tridentini di riforma ha lasciato a Fermo ragguardevoli testimonianze nelle relazioni di Visite Apostoliche, come in quella nota di G. B. Maremonti nel 1573 (S. PRETE, La visita Apostolica di G. B. Maremonti a Fermo nel 1573 « Rivista di storia della Chiesa in Italia » 7 [1953] p. 415-434); in quegli anni fu istituito il Seminario (1573 c.); fu continuata la serie dei Sinodi Diocesani, il primo dei quali era stato celebrato dal card. Angelo Capranica nel 1473 (l’ultimo fu tenuto nel 1900 sotto R. Papiri) <il nuovo 1995>; fu dato impulso al canto sacro nella Cattedrale, furono istituite nuove Confraternite e fatte rifiorire le vecchie: delle prime menzioniamo la Confrat. del SS. Sacramento (1546), l’arciconfraternita della Pietà (1564), della S. Spina (1573), di Maria SS. del Pianto (1585).

  •                        Monasteri ed Abbazie

La loro storia nella Chiesa fermana risale alla primitiva diffusione dei Benedettini, ma purtroppo, per la maggior parte dei monasteri, ci mancano i documenti sulla fondazione e sulla origine (S. PRETE, I monaci Benedettini nella Chiesa fermana. « Studia Picena » 18 [1948] p. 77-93). Tra i più antichi vanno ricordati:

+ S. Savino, sorto accanto all’antico oratorio omonimo del vescovo Passivo. Era fiorente nel sec. XI e S. Pier Damiani ne ricorda l’abate Firmus (Liber qui appellatur Gratissimus, 29). Nel 1488 fu unito al Capitolo Cattedrale, poi fu ceduto ai Cappuccini, successivamente ai PP. Gesuiti; oggi è completamente scomparso.

+ S. Claudio al Chienti, di origine antica, non però del VI sec, come scrive qualche autore; la documentazione storica risale ai sec. XI-XII e forse era di pertinenza dei monaci di Classe (Ravenna). Superstite è la chiesa (XII), esempio di romanico con evi-denti influssi di arte ravennate (L. SERRA, L’arte nelle Marche I [Pesaro 1929] p. 57).

+ SS. Rufino e Vitale (Amandola) con notevoli resti della chiesa antica (XII) e della precedente fondazione (<poi> cripta).

+ S. Maria al Chienti (SS. Maria Annunziata – Montecosaro), monastero farfense, non anteriore al sec. IX; decadde nel sec. XV e rimane la monumentale chiesa romanica (sec. XII).

+ S. Croce al Chienti, che si crede fondato dal vescovo Teodosio nel sec. IX; abbandonato nel sec. XV, ha notevoli avanzi della chiesa romanica (XII). Un gruppo di monasteri si ricollega alla storia dell’imperiale abbazia di Farfa, la quale, a partire dal sec. IX, estese una fitta rete di monasteri, di oratori e di possessi nel territorio fermano.

+ S. Ippolito e S. Giovanni. Si discute sulla identità, essendo tuttora incerto se si tratta di due o di un solo monastero (= SS. Ippolito e Giovanni) e sulla ubicazione, essendo scomparsa ogni traccia e documento relativo (U. CAMELI, Note di storia fermana II: I monasteri dei SS. Ippolito e Giovanni in Selva. « Studia Picena » 12 [1936] p. 174 sg.). Nel monastero di S. Ippolito in città si ritirarono gli abati di Farfa Fulcoaldo e Wandelperto; quest’ultimo ne divenne abate (IX). {

+ S. Vittoria in Matenano. In seguito all’invasione dei Saraceni nell’898, l’ab. Pietro di Farfa fu costretto ad abbandonare l’abbazia e si rifugiò con un gruppo di monaci sul colle « Matenano », dove più tardi l’ab. Ratfredo costruì un nuovo monastero e vi trasferì le reliquie della martire S. Vittoria (a. 934); la nuova fondazione, che prese il nome di S. Vittoria in Matenano, fu centro irradiatore nel territorio fermano del monachesimo farfense ed ebbe alle sue dipendenze monasteri filiali, cappelle e possessi fiorenti nel sec. XI-XII (U. BALZANI, Il Regesto di Farfa di Gregorio di Catino [Biblioteca della Società romana di Storia Patria I-V] Roma 1892-1914: vedi Indici).

–                                            <Le memorie di > Monasteri femminili appartengono, in genere, a età più recenti:

Nel sec. XIII si stabilì a Fermo una comunità di Francescani (Chiesa di S. Francesco 1240), di Domenicani (S. Domenico 1233) e di Agostiniani Eremitani (S. Agostino 1250 c.); nel periodo della riforma Tridentina vi si stabilirono i Filippini (S. Filippo 1594) i Gesuiti (S. Ignazio o Chiesa del Gesù sec. XVII) e i Cappuccini (sec. XVI).

Una menzione a parte merita la Chiesa Cattedrale. Gli scavi fatti negli anni 1934-1940 portarono alla luce la Basilica paleocristiana (m. 22,50X14,30), con notevoli avanzi di decorazioni e costruzioni ed il mosaico pavimentale dell’abside che raffigura un cantharus con due pavoni affrontati, che vi attingono (G. CICCONI, La Metropolitana di Fermo ed i recenti rinvenimenti archeologici sotto il suo pavimento, Fermo 1940). La basilica, danneggiata gravemente durante le invasioni dei Goti e Longobardi subì modifiche e restauri notevoli, dei quali fanno testimonianza avanzi di pilastri e di bassorilievi preromanici (sec. VIII-IX). Bruciata e distrutta dal Cancelliere Imperiale Cristiano di Magonza nel 1176, fu ricostruita nel sec. XIII dal magister Giorgio di Como, come ricorda l’epigrafe che si trova sul portale del lato sud, del 1227: di questa imponente costruzione romanico-gotica sono state messe in luce e ripristinate alcune colonne e l’atrio.

Nel 1781, sotto l’Arciv. Andrea Minucci il tempio fu compieta- mente modificato nella struttura e decorazione, secondo la maniera neo-classica, su disegno di Cosimo Morelli imolese, lasciando intatta dell’antica la sola facciata ed in questo stato si è conservata fino a noi.

Chiese Parrocchiali.

Chiudiamo con l’elenco delle Parrocchie della città, segnando con asterisco quelle scomparse.

. S. Gregorio

. S. Angelo in Pila (oggi S. Michele Arcang.)

. SS. Cosma e Damiano (dal 1868 trasferita nella Chiesa di S. Caterina V. M.)

. S. Maria delle Vergini (oggi S. Francesco)

. S. Leone (* 1576)

. S. Salvatore (* 1609)

. S. Martino (trasferita dal 1808 nella Chiesa di S. Ignazio)

. S. Giuliano (* 1586)

. S. Lucia

. S. Zenone (sec. XII)

:S. Pietro ( sec. XIII)

.S. Bartolomeo (Chiesa d. Pietà)

.S. Spirito

.S. Matteo

Queste tre ultime furono fuse nel sec. XVI nell’unica di S. Matteo: distrutta la chiesa omonima, la Parrocchia fu trasferita nella Chiesa del Carmine e poi a S. Filippo; attualmente, di nuovo, nella Chiesa del Carmine.

BIBLIOGRAFIA

N.B. – Per la storia più recente della Diocesi di Fermo esiste un ricco materiale negli Archivi: della Curia (sec. XV-XX), Capitolare e nell’Archivio Parrocchiale di S. Vittoria in Matenano (sec. XII-XVI); per altri Archivi cfr. E. LODOLINI, Gli Archivi storici dei Comuni delle Marche (Quaderni della « Rassegna degli Archivi di Stato » 6) Roma 1961.

–                                                                    Opere Generali

  1. LUBIN, Abbatiarum Italiae brevis notitia, Roma 1651; UGHELLI, II 670- 729; CAPPELLETTI, III 586 sg.; GAMS, p. 692; L. DUCHESNE, Les évechés d’Italie et l’invasion lombarde « Mélanges d’Archéologie et d’hist. » 1903, p. 83, 116; KEHR, It. Pont. IV 134-146; LANZONI, I 395-397; EUBEL, I 249.

–                                                                     Opere di storici locali

Fermo ADAMI, De rebus in civitate firmana gestis fragmentorum libri duo, Romae 1591; C. OTTINELLI, De Firmio Piceni urbe nobilissima elogium ad Sixtum V P.M., Roma 1589; A. BORGIA, Omelie… dette in varie funzioni pontificali, Fermo 1739; 1749; 1757; 1759; M. CATALANI, De Ecclesia Firmana eiusque episcopis et archiepiscopis commentarius, Fermo 1783; G. COLUCCI, Delle Antichità Picene, tomi 32, Fermo 1786-1796 (per Fermo v. III Diss. preliminare); A. AMATORI, Le Abazie e monasteri piceni, Camerino 1870; G. DE MINICIS, Cronache della città di Fermo (Documenti di Storia italiana. R. Deputazione di Storia patria per la Toscana etc. IV) Firenze 1870; G. Fermo TREBBI-G. FILONI, Erezione della chiesa Cattedrale di Fermo a Metropolitana. Nel III Centenario. Fermo 1890; S. PRETE, I SS. Martiri Alessandro e Filippo nella Chiesa Fermana. Contributo alla storia delle origini (Studi di Antichità cristiana 16) Città del Vaticano 1941; Fermo MARANESI, Fermo. Guida turistica. Fermo 1957; <nuova: G. NEPI, Guida di Fermo e dintorni, Fermo 1983>.

 

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PRETE Serafino docente di storia del Cristianesimo illustra le origini delle Chiesa Fermana sicure al secolo III con San Marone nel primo secolo martire del Piceno

 

LE ORIGINI DELLA CHIESA FERMANA

La Chiesa fermana, costituita in una comunità organizzata e con gerarchia non appare nei nostri documenti che nella metà del VI secolo (n1= Il Piceno allora contava 15 Diocesi tra le quali anche Fermo. L. DUCHESSE, Les évêchés d’Italie et l’invasion Lombarde, in: “Mélanges d’arch. et d’hist.” 1903, pp. 96-97)

Nel 580 all’incirca governava quella chiesa il Vescovo Fabio (n2= GREGORII M. Ep. IX, 52, (“Monumenta Germ. Hist.” Gregor. I. Reg. t. II, p. 77 (ed. Hartmann); PL. LXXVI, 960).

Il primo vescovo di cui abbiamo notizia, e che ebbe un episcopato funestato da terribili invasioni longobardiche (580-598?). (n3= La Chiesa fermana aveva subito dei gravi danni. Il Chierico Passivo con tutta la sua famiglia, fatti prigionieri, furono potuti riscattare con denaro preso dal tesoro della chiesa stessa (Greg. M. Ep. IX, 52, Hartmann, II, 77; PL. LXXVI, 960). Il Vescovo Fabio si vide costretto ad assicurare il patrimonio della chiesa, depositandone il tesoro presso la chiesa anconitana. ( Greg. M. Ep. IX, 51, Hartmann, II, 77; PL. LXXVI, 960). Cfr. DUCHESNE, Les évêchés d’Italie, in: Mélanges, 1903, p. 96.)

Nel 598 vi troviamo già il Vescovo Passivo e con lui i chierici Demetriano e Valeriano (n4= Sotto Fabio (c. 580) è ricordato chierico e padre di Demetriano e Valeriano, catturato dai longobardi e fatto prigioniero insieme ai suoi. (Ep. IX, 52. Hartmann, II, 77; PL. LXXVI, 960). Cfr. DUCHESNE, art. cit., Mélanges, 1903, p. 96.) Valeriano anche notarius della chiesa fermana. (n5= Ep. IX, 58, Hartmann, II, 81; PL. LXXVI, 1007. Sull’Officio del — notarius — nella chiesa cfr. MARTIGNY, Dictionnaire des Antiquités chrétiennes, Paris, 1899, pp. 516-17; e F. X. KRAUS, Real-encyclopadie der christl. alter- tümer, Freiburg in Br. 1886, p. 5024. Evidentemente qui non si tratta di un semplice — exceptor — o — amanuensis — ma d’un quasi — segretario — coll’Ufficio di — chartarius — (archivista) della chiesa, e amministratore dei suoi beni. (Vedi CATALANI, De Ecclesia Rirmana, Fermo, 1873, p. 101). Nell’epigrafia cristiana non è ignoto questo ufficio. Cfr. un’iscrizione cristiana del V sec. di un — notarius — della chiesa spoletina. (DE ROSSI, “Bullettino”, 1871, p. 113).

Fu in questi anni che sorse, per opera di Valeriano, un oratorio in onore di S. Savino, dedicato poi dal Vescovo Passivo. (n6= Greg. M. Ep. IX, 58. Hartmann, II, 81 PL. LXXVI, 1007. Il papa scrisse anche al vescovo di Spoleto, Cristiano, perché inviasse — sanctuaria — da riporre nell’oratorio fermano. (Ep. IX, 59. Hartmann, II, 82; PL. LXXVI, p. 113)

La chiesa fermana non era certo fra le ultime del Piceno se Gregorio Magno affidò in quegli anni al Vescovo Passivo l’officio di visitatore della chiesa dì Teramo, allora vacante. (n7= Ep. IX, 71. Hartmann, II, 90; PL. LXXVI, 1225-6. La Chiesa di Aprutium di cui parla Gregorio M. era la chiesa di Teramo (Interamnia Praetutiorum) rimasta vacante per le invasioni longobarde (DUCHESNE, Les evéchés d’Italie... in: Mélanges, 1903, p. 96; vedi anche LANZONI, Le Diocesi d’Italia dalle origini al principio del sec. VII, Faenza, 1927, I, 396)

La vacanza si protrasse per qualche anno perché tre anni più tardi della lettera precedente, nel novembre del 601 Greg. M. invitava Passivo ad esaminare il monaco Oportuno per vedere se non fosse il caso di consacrarlo vescovo di Aprutìum (Ep. XII, 4. Hartmann, II, 350; PL. LXXVI, 1226-7) ed altri incarichi (n8= Nel 602 il Papa invitava Passivo a consacrare un monastero a S. Savino, nell’Ascolano (Ep. XIII, Hartmann, II, 385: PL. LXXVI, 1271). Più in là di questo anno, 602 non abbiamo notizie di Passivo. Gregorio ci dà notizia di un viaggio del vescovo fermano a Roma (Ep.IX, 51, Hartmann, II, 77; PL. LXXVI, 960)

sul finire del secolo VI essa era già compieta- mente stabilita e perfettamente organizzata. (n9= Su Fabio e Passivo (598-620;) vedi: UGHELLI, Italia Sacra, II, 683. CAPPELLETTI, Le Chiese d’Italia, III, 588 sq.; GAMS, Series episcoporum, p. 692; A. BORGIA, Omelie, Fermo, 1757, p. 346 sq. (omel. Natale 1756) p. 402 (omrl. Natale 1751); CATALANI, pp. 97-98)

Di questo periodo possediamo qualche memoria monumentale. La cattedrale fermana, distrutta nel 1176 (10= Fu incendiata e distrutta dalle truppe del Barbarossa nella festa di S. Matteo (21 sett.) di quell’anno. Ne ricordano l’avvenimento: la lettera di Alessandro III del 1177 (CATALANI, De Ecclesia Firmana. Appendice, doc. XXXII); la cronaca di Antonio di Nicolò (DE MINICIS, Cronache, p. 3); una nota del — Breviarium — al 15 agosto e poi tutti gli autori locali. (Cfr. CATALANI, p. 36))

e risorta poi nel secolo XIII (n11= Fu compiuta nel 1227, come ne fa testimonianza una iscrizione ancora conservata su un ingresso laterale, (cfr. DE MINICIS, Eletta di monumenti più illustri della città di Fermo, Roma, 1841, I, p. 48, 55, CATALANI, 36-38 etc.). Ma poi nel 1789 il Card. Arcivescovo Minucci la rinnovò completamente secondo il gusto dei tempi, conservando solo dell’antica l’artistica facciata)

fu edificata sulle rovine di una basilica anteriore la quale può essere riportata con tutta probabilità a questo periodo. (n12= Gli scavi recenti, ancora non ultimati, l’hanno per ora confermato. E’ arbitraria e priva di fondamento l’affermazione del Catalani (De Ecclesia Firmana, p. 36) secondo il quale essa si sarebbe cominciata ad edificare nel IV o V secolo. Il mosaico pavimentale rinvenuto sull’abside di questa primitiva basilica non può riportarsi a quest’epoca. Al contrario la tradizione che essa sorgesse su un antico tempio pagano (CATALANI, p. 36-7) pare confermata dai recenti scavi che hanno messo in luce un grande basamento di colonna, appartenente probabilmente ad un edificio pagano, o tempio, su cui poggia un muro dell’abside)

I predecessori dei Vescovi Fabio e Passivo ci sono ignoti. Un vescovo di nome Justus <Giusto>, dei primi del VI secolo, e intervenuto al Concilio Romano del 502, fu attribuito a Fermo (n13= UGHELLI, II, 682; GAMS, Series episcoporum, p. 692; CATALANI, p. 97 etc. )

ma quel vescovo era di Segni e non di Fermo (n14= Al Sinodo romano del 502 sotto p. Simmaco (498-514) si sottoscrisse — Justus episcopus ecclesiae Sieninae —- (“Monumenta Germ. Hist.” Auctores antiquiss. Auctores antiquiss. Cassiodori variae (ed. Mommsen) p. 455. Cfr. LANZONI, I, 936).

Teodicio e Vittorino, che vari autori fanno vescovi fermani anteriori a Fabio e Passivo (n15 UGHELLI, Italia Sacra, II, 682; A. BORGIA, (Omelie, Fermo 1767) dice Teodicio vescovo del VI sec. (p. 238; Omelia Natale 1748) e Vittorino del V(pp. 190-2, Om. Natale, 1747)), a giudizio anche di autori locali sono da rigettarsi (n16= CATALANI, De Ecclesia Firmana, p. 81-2. LANZONI, I. 395).

Nel V secolo v’era a Fermo la cattedra episcopale? Non ci è dato saperlo ma ci è lecito supporlo. Il Piceno allora contava varie chiese episcopali (n17= Nei Sinodi Romani del 487 495 compaiono vari Vescovi Piceni, tra i quali: di Pausula (Corridonia), Numana,Tolentino e Urbisaglia, città vicine a Fermo, (Monumenta Germ. Hist. Auctores antiquis., XX, Cassiodori variae, ed. Mommsen, p. 505) Potentia (Picena) aveva per vescovo Faustino, legato papale nella questione Pelagiana (418-22) (L. DUCHESNE, Histoire ancienne de L’église, III, 243); Papa Gelasio I, (492-96) rimprovera — universis episcopis per Picenum constitutis — di esser ligi al Pelagianesimo. Cfr. P. JAFFÉ – S. LOEWENFÈLD, Regesta Pontificum Romanorum. Leipzig, 1885, 621)

talune delle quali di non maggiore importanza che Fermo (n18= Ciò è soltanto probabile. Papa Gelasio I scrive ai vescovi — Respecto et Leonino — per affari attinenti all’episcopus faleronensis di Falerone nel Piceno presso Fermo (a. 492-6, JAFFÉ – LOEWENFELD, 687). Il Catalani opina che l’uno dei due sia stato il vescovo di Fermo (CATALANI, p. 96-7). Ma con quale fondamento? Respectus probabilmente invece era di una diocesi dell’Abruzzo (cfr. JAFFÉ – LOEWENFELD, 648). In un negozio che riguardava il — vicus cluentensis — (presso l’odierna Portocivitanova) molto vicino a Fermo, p. Gelasio I affida la cosa ai vescovi Filippo e Geronzio (JAFFÉ – LOEWENFELD, 633; cfr. anche 705); l’uno era vescovo di Numana (LANZONI, I, 386; F. KEHR, Italia Pontificia, IV, 145) e l’altro di Valva! (S. Pelino nell’Abruzzo) – (JAFFÉ – LOEWENFELD, 648)).

Ma spingersi oltre il V secolo e affermare che nel IV secolo Fermo fosse già sede episcopale è una ipotesi che non pare sostenuta da sicure ragioni (n19= A parte gli autori locali, A. HARNACK ha supposto che la sede episcopale fermana già esistesse nel 325 all’incirca. (Die Mission und Ausbreitung des Christentums, Leipzig, 1924, II, 816) come anche quelle di Ancona, Ascoli etc. (ibid., p. 815) ma fondandosi sulla venerazione dei martiri in dette chiese. Ora questo criterio è tutt’altro che sicuro (LANZONI, II, 1072) e per Fermo di poco valore).

Se nel quarto secolo vi furono delle chiese episcopali nel Piceno, Fermo non è tra le più probabili (n20= Infatti nessuna diocesi picena può dimostrarsi esistente nel IV sec.; solo di alcune di esse può ritenersi con molta probabilità come Ancona, Osimo che vanta dei martiri, e Tolentino. (LANZONI, I, 1070)).

Nel IV secolo tuttavia a Fermo era entrato il Cristianesimo. E’ precisamente del IV secolo un sarcofago cristiano (n21= L. SERRA, (L’arte nelle Marche, p. 12) lo dice della fine del III; ma è da ritenersi invece del — pieno — secolo IV. (G. WILPERT, I, Sarcofagi cristiani antichi, Roma, 1929-36. Testo I, p. 119; Tavole I, 116/3. Cfr. anche Testo II, p. 229; I, p. 162; così anche il TOESCA (Storia dell’Arte, Torino, 1927, I, 78)

probabilmente di arte locale (n22= G. WILPERT, Testo I, 118; vi si nota la rudezza e l’impaccio di un’arte provinciale. La fronte del Sarcofago ha 4 scene riferentisi a S. Pietro apostolo; le due a sinistra rappresentano la resurrezione di Tabita (Actus IX, 36-40) le due a destra la liberazione di Pietro)

che si conserva nella cripta della Cattedrale (n23= Cfr. DE MINICIS, Sarcofago cristiano nel tempio metropolitano di Fermo illustrato, Fermo, 1843. Il De Minicis (p. 15) afferma che ivi fossero riposte le spoglie dei martiri e vescovo Filippo! Ma dove ha preso la notizia? Quello che può dirsi di certo è che ivi nel sec. XVII si veneravano le reliquie dì un Philippus. m., creduto anche vescovo. Un caso simile a Lucca; in un sarcofago del secolo IV furono venerate e ancora si venerano le reliquie di un — Paolinus m. — creduto pure vescovo di Lucca. (LANZONI, I, 603, 605).

Ma ad eccezione di questo monumento non abbiamo altra memoria di questo periodo (24= Un’iscrizione sepolcrale cristiana, l’unica che si conosca a Fermo, fu rinvenuta nella metà del secolo scorso negli scavi della — Piscina — e oggi si conserva nella Biblioteca comunale. MAX(ima) BO(na) CRIS(tiana) KA(rissima) MU(lier) IN P(ace) ANTE (diem) SEP(timum) KA(lendas) JUNIAS QUE FECIT CUM MAR(ito) AN(nos) XV ET PERIT PLUS Ml(nus) AN(norum) XXX TANTUM. Ma è spspetta. (Corpus Inscr. Latin., IX, 5419). ).

Quando entrò il Cristianesimo a Fermo?

Secondo la Passio, S. Emidio, protovescovo di Ascoli (5 agosto) e, secondo la stessa narrazione, martire dell’ultima persecuzione (25= BHL, 2535-7. AA. SS. aug. II, 18-36, (ed. 1867))

sarebbe venuto nel territorio fermano e vi avrebbe operato conversioni e prodigi (26= Picenorum civitatem adiit … (Fermo ) e — iuxta fluvium Tennae — (territorio fermano) avrebbe distrutto un tempio d’Apollo (AA. SS. aug. II, 35). Cfr. COLUCCI, Antichità Picene, III, XXV-VII, CATALANI, pp. 63-4, G. PORTI, Tavole sinottiche, p. 17).

Ma questo documento è di valore dubbio (27= I Bollandisti lo dissero molto sospetto (AA. SS. aug. II, 19) e il Lanzoni, favoloso, fantastico e tardivo (I, 398). Da notare che il leggendista del sec. XI-XII non mette in relazione la venuta nel territorio fermano di S. Emidio con vescovi locali, come furono poi ritenuti Alessandro e Filippo!).

Anche di S. Feliciatìo, vescovo e martire del III secolo di Forum Flaminii presso Foligno (28= Della Passio (BHL 2846-51) si hanno varie redazioni: \ a) AA. SS. ian. III, 196-7 (ed. 1863).\  b)  Cod. sec. XIV della Biblioteca d’Hannover; pubblicato da E. Bodemann in: Zeitschrift fuer Kirchengeschichte XII (1890) pp. 77-81.\  c)  Cod. Vallicelliano del sec. XVI in: Anal. Boll. IX (1890) pp. 381-92; \ d) L. JACOBILLI, Vita di S. Feliciano m. v. et protettore della città di Foligno, in Fuligno, 1626. Cfr. Anal Boll. IX (1890) p. 380. Dello stesso, Vite dei Santi e Beati di Foligno, Foligno 1628, (trad. in latino in: AA. SS. ian. Ili, 198-202 (ed. 1863)), si narra che sia venuto nel Piceno e abbia evangelizzato varie città (29= Così a Fossombrone (cfr. anche VERNARECCI, Fossombrone dai tempi antichissimi ai nostri, Fossombrone 1907, I, 99), Ancona, Osimo etc. (Recensione c) Anal. Boll. IX, 1890 p. 387; L. JACOBILLI, Vite dei Santi e Beati di Foligno, in AA. SS. ian. III, p. 200. ) e tra queste anche Fermo (30= Cfr. anche CAPPELLETTI, (Le Chiese d’Italia, IV, 410-12); COLUCCI Antichità Picene, III, XXIII-V; Catalani p. 4).

Ora l’apostolato di questo santo nel Piceno non è troppo sicuro e molto meno il suo apostolato a Fermo (31= La Passio, compilata circa il VI o VII sec., ricca di soverchi particolari, ispirata a quelle sorelle dell’Umbria e a quella non meno sospetta dei SS. Abdon e Sennen (BHL, 6-7) non è certo attendibile, (LANZONI, I, 452) ma non da rigettarsi del tutto. Con tutta probabilità è da ritenersi quanto dice sull’episcopato del Santo a Forum Flaminii (S. Giovanni Profiamma presso Foligno) di cui fu protovescovo, non di Foligno, sebbene ivi sepolto e venerato protettore (LANZONI, I, 450, 452 etc.) né di Spoleto (LANZONI, I, 433). Ma della cronologia non è da fidarsi; la Passio lo fa contemporaneo di p. Vittore (189-99) e da lui ordinato vescovo, e poi martire sotto Decio (249-51). Che dovrà dunque concludersi per il suo apostolato nel Piceno? Forse si volle estendere anche al vicino Piceno quello che il Santo, con più probabilità, fu per l’Umbria; uno dei primi e più grandi apostoli. (Cfr. LANZONI, I, 453). ).

Nel martirologio di Beda (32= QUENTIN, Les Martyrologes historiques, p. 96; così poi in Adone. (QUENTIN, p. 482); in autori locali come il COLUCCI, (III, XXIX) la notizia è stata accettata)

si dice che Anatolia martire della Sabina (33= P. PASCHINI, La Passio delie martiri sabine Vittoria e Anatolia, Roma 1919, (Lateranum I) pp. 8 sq.)

sia stata nel Piceno e ivi abbia operato prodigi; ma la notizia non è che un errore di topografia (34= Beda non conoscendo precisamente il teatro delle gesta della santa e del suo martirio, lo designò con l’indicazione di una regione vicina Pi cenum (P. PASCHINI, o. C. p. 70))

. Anche di S. Apollinare, protovescovo Ravennate, si affermò che avesse evangelizzato il Piceno, ma senza fondamento sicuro (35= Infatti la Passio (BHL. 623) per quanto leggendaria non ne parla. La notizia è dovuta a scrittori del sec. XVI che vollero riattaccare le origini delle loro diocesi a questo famoso apostolo dei tempi apostolici (LANZONI, I, 747; I primordi della Chiesa faentina, Faenza, 1906, pp. 8-14). Per Fermo vedi CATALANI, pp. 34).

Un autentico apostolo del Piceno è invece S. Marone.

La Passio di questo martire (36= BHL. 6063-5: AA. SS. mai, III, 11-12 (ed. 1866). Cfr. anche BHL. 2789) fa parte di quella, dei celebri martiri romani Nereo e Achilleo e compagni (37= BHL. 6058-66. H. ACHELIS, Acta SS. Nerei et Achillei, Leipzig, 1893)

tutti, secondo la detta Passio, del 1° secolo. S. Marone avrebbe precisamente subito il martirio al 130° miglio da Roma sulla via Salaria sotto l’Imperatore Nerva (96-98) (38= Tutti gli autori fermani parlano di S. Marone accettandone integralmente la storia della Passio. (Cfr. A. BORGIA, Omelie, Fermo, 1749, p. 257. (Om. Natale 1741). CATALANI, De ecclesia firmana, pp. 1-3 p. 54; COLUCCI, Antichità Picene, III, XIIT-XX. G. PORTI, Tavole sinottiche, p. 17.

Ma questo documento non merita troppa fede a giudizio di alcuni critici, in modo particolare per la cronologia (39= LANZONI, I, 54. Il MASSETANI tentò di rivendicarne l’autenticità (S. Marone primo apostolo del Piceno. Civitanova Marche 1898); ma vedi Anal. Boll. XVIII (1899) 185).

Di più Nereo ed Achilleo molto difficilmente possono riferirsi al 1° secolo (40= Il De Rossi lo credette (Bullettino 1874, pp. 19-26) fondandosi sul noto carme Damasiano (Inscriptiones Christianae, II, 31 (74), vedi anche II, 67 (28), 101 (20) etc.; IHM, Damasi epigrammata, Leipzig, 1900, p. 12) ove vedeva nel — tyrannus — indicato da Damaso l’Imperatore Nerone (54-68). Ma la supposizione non regge. (P. FRANCHI dei Cavalieri, I SS.. Nereo ed Achilleo, Note agiografiche, III, (1909) (Studi e Testi 22) pp. 43-55)

mentre non pochi argomenti li fanno ritenere martiri dell’ultima persecuzione (41= Pio FRANCHI, Note agiografiche, 1. c. p. 45, 55. Il ch.mo autore ricorda che ad eccezione di Pietro e Paolo, i martiri della persecuzione neroniana sono anonimi; osserva che se il Carme Damasiano li fa martiri di Nerone perché non così la Passio? E ancora: perché Damaso avrebbe taciuto dell’età apostolica del loro martirio? Trova infine una conferma della sua ipotesi nel fatto che i 2 Milites Nereo ed Achilleo, supposti martiri dell’ultima persecuzione ben si inquadrano su quanto ci enee il carme Damasiano).

Potrà dunque ritenersi che l’intero gruppo, compreso il nostro S. Marone, sia del 1° secolo? (42= Il MASSETANI lo ritiene (Ricerche sull’epoca del martirio di S. Marone, primo apostolo del Piceno, Civitanova Marche 1926, p. 12-14). Ma se non lo sono i martiri più celebri del gruppo, si potrà affermarlo degli altri? e se la Passio ha errato per gli uni, dirà il vero per gli altri? (LANZONI, I, 394))

. Quello che invece può concludersi con sicurezza è che S Marone sia un martire del Piceno (n43= DELEHAYE, Origines, p. 314; LANZONI, 393; il Martirologio Geronimiano lo conferma: (al 15 aprile. DELEHAYE, Commentarius perpetuus in Mart. Hieron. AA. SS. nov. II, p. post. Bruxelles 1931 191/1). Così anche il culto del Santo diffuso in varie località del Piceno. (LANZONI, I, 393-4)) di località non ben precisata ancora (n44= La indicazione topografica del Martirologio — in Monte aureo — (Comm, 191/1) pare trovi riscontro in più d’una località del Piceno. (N. MASSETANI, Ricerche sul luogo del martirio di S. Marone, Alba 1927, p. 6). Se le buone ragioni addotte dal MASSETANI per Civitanova (Marche) (DELEHAYE, Origines, p. 314) fossero decisive, ciò sarebbe di grande importanza per la vicina Fermo e suo territorio che potrebbero vantare giustamente S. Marone come loro apostolo).

In conclusione: l’introduzione del Cristianesimo nella Chiesa fermana, è, per così dire, anonima, e non avendo nessuna memoria particolare, può ricevere un po’ di luce solo dall’introduzione del Cristianesimo nel Piceno.

Agli inizi del IV secolo il Piceno conosceva il Cristianesimo perché contava perfino dei martiri (n45= Abbiamo ricordato S. Marone; sono da aggiungere i martiri Fiorenzo e Diocleziano, (16 maggio) di Osimo, ricordati nel Mart. Geronimiano {Comm. 257/15; LANZONI, I, 387-8); Fossombrone (propriamente non dell’antico Piceno) ne vanta di martiri secondo la tradizione (VERNARECCI, Fossombrone dai tempi antichissimi… I, 101-5) ma non sono locali {Comm. 77/2; LANZONI, I, 496). Per Ancona, cfr. sotto); ma era esso già entrato nel III secolo?

Per quanto sappiamo il Cristianesimo venne al Piceno da due centri: da Roma attraverso l’Umbria e dall’Oriente attraverso Ancona (n46= E’ noto che in Occidente il centro di diffusione fu Roma, in specie per l’ltalia. Roma comunicava col Piceno per la Via Salariale Flaminia, che attraversavano l’Umbria e venivano nei Piceno conducendo, con vari diverticoli, alle principali città della regione. (K. MILLER, Itineraria romana, Stuttgart, 1916, c. 302, 315, 318, etc.). Per queste vie romane penetrò il Cristianesimo nell’Umbria (LANZONI, I, 433-4) e nel Piceno (I, 381). Cfr. anche LANZONI, Le origini del Cristianesimo e dell’episcopato nell’Umbria Romana. Estr. “Rivista storico-critica delle scienze teologiche, a. III”, Roma, 1907, p. 5).

L’Umbria contava già Cristiani nel II secolo e nel III le prime comunità cristiane organizzate (n47= LANZONI, Le origini del Cristianesimo e dell’episcopato nell’Umbria Romana. (Estr. Riv. Storico-critica di Scienze Teol. a. Ili), Roma 1907, p. 33; DE ROSSI, Spicilegio d’Archeologia cristiana nell’Umbria, Bullettino 1871, p. 92. Nel primo secolo, l’Umbria non conosceva il Cristianesimo (LANZONI, Le Diocesi d’Italia, I, 333)); non più tardi quindi del III secolo; si diffuse il Cristianesimo nel vicino Piceno (n48= Per tutte le notizie a proposito vedi: LANZONI, La prima introduzione del Cristianesimo e dell’episcopato nel Piceno, in: «Scuola Cattolica» 1919, luglio-agosto. Cfr. anche dello stesso autore: Le diocesi d’Italia, II, 1076-1092).

Ancona poi, la principale città del Piceno e centro importante di commercio coll’Oriente (n49= LANZONI, I, 381. In modo particolare da vedere: M. NATALUCCI, Antichità cristiane d’Ancona «Collana di studi anconitani, I», Ancona 1934, pp. 7-12) molto verosimilmente da quest’ultimo dovette ricevere il cristianesimo (n50= NATALUCCI, o. c. p. 12, 17. LANZONI, I, 383. La memoria di S. Stefano esistente in Ancona, di cui parla S. Agostino (Sermo 322, 323, 324. PL. XXXVIII, 1444-5-6 ed. 1841 e S. Gregorio M. (Dial. 1, 5, PL. LXXVII, 1778) e in cui, secondo la tradizione si venerava una pietra della lapidazione di S. Stefano, portatavi nel primo secolo, da un navigante, lo conferma chiaramente.), e in epoca abbastanza remota (n51= Non è dato precisarle Ma se non nel primo secolo, in un’epoca poco posteriore (LANZONI, I, 382); NATALUCCI, Antichità Cristiane a Ancona, p. 17) a sua volta ne fu un centro diffusore nel Piceno (n52= ll nucleo primitivo cristiano nel Piceno infatti si formò intorno ad Ancona (Ancona – Osimo) (LANZONI, I, 383). E’ molto probabile che l’influsso si sia esteso anche a Fermo. Le relazioni tra la Chiesa Anconitana e la Fermana lo fanno supporre. Due sante, ritenute martiri locali, Palazia e Laurenzia (8 ott.) secondo la leggenda (BHL. 6414. Vedi AA. SS. ott. IV, 47-9 ed. 1866) molto sospetta (LANZONI, I, 382-3) avrebbero subito il martirio a Fermo e a Fermo sarebbero state molto in venerazione (CATALANI, PP.53-55). Altri santi venerati nella Chiesa anconitana come S.Pellegrino, S. Liberio, sono venerati anche nella Chiesa fermana. Fabio, vescovo fermano fu in relazione con la Chiesa Anconitana).

Insomma nel III secolo il Cristianesimo a Fermo pare fuori dubbio (n53=Vedi Lanzoni, Introduzione del cristianesimo … nel Piceno l. c., e Le diocesi d’Italia, II, 1076, e sq.), mentre prima di quell’epoca non abbiamo finora documenti pienamente sicuri per dimostrarne l’esistenza (54= F. SAVIO, Alcune considerazioni sulla prima diffusione del Cristianesimo. «Rivista di Scienze storiche», Pavia 1904, fasc. III, pp. 200-204 ).

Da «Studia Picena» 13 (1938) 131-138

 

 

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MIOLA GABRIELE BIBLISTA A FERMO spiega il matrimonio in Efesini, 5: mistero cristiano

“QUESTO MISTERO È GRANDE” : IL MATRIMONIO IN EF 5,21-33

MIOLA Gabriele biblista a Fermo

Ed. in “Firmana” nn.12\13 anno 1996 pp. 77-90 <qui note al termine del testo traduzione Bibbia CEI 2008>

La prima generazione cristiana è tutta centrata sull’annuncio del vangelo della salvezza in Gesù di Nazareth, per la sua morte e risurrezione, “costituito Signore e Cristo” (At 2,36),“capo e salvatore” (5,31), al di fuori del quale, “in nessun altro c’è salvezza” (4,12), e non è preoccupata di portare nuove leggi e codici etici. Ma già con Paolo e poi soprattutto alla fine del primo secolo i cristiani sentono la necessità di darsi delle regole di vita, dei codici morali che regolino i diversi aspetti del quotidiano. Non potevano riferirsi direttamente a regole date da Gesù, perché non pare che Gesù abbia avuto la preoccupazione di dettare leggi e precetti, quanto piuttosto di indicare delle mete, delle linee di tensione da cui far scaturire comportamenti nuovi e creativi.

Gesù ha riassunto tutta la legge e l’insegnamento dei profeti in due comandamenti: ”Il primo è: … amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore… Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come Te stesso…” (Mc 12,30-34 e paralleli); in Mt Gesù precisa che il secondo simile al primo (cfr. Mt 22,39), in Lc Gesù, stimolato dalla domanda dello scriba, chiarisce il concetto di prossimo con la parabola del Samaritano indicando nel prossimo chiunque può aver bisogno di un aiuto, chiunque esso sia per il semplice fatto che chi è bisognoso è uomo e quindi figlio di Dio. Con la parabola del buon Samaritano Gesù supera l’interpretazione delle scuole rabbiniche di Lev 19,18 sul prossimo inteso come “il connazionale” per dargli una prospettiva universalistica. E questo un ammaestramento nuovo che ha caratterizzato la prima generazione cristiana tanto che S. Paolo lo riprende più volte nelle sue lettere (cfr. Rom 12,8-10; Gal 5,14). Spesso il discorso del Mente di Matteo 5-7 è stato chiamato la nuova legge, ma più che di leggi e precetti si tratta di atteggiamenti interiori, che debbono trasformare la vita dall’interno in modo tale quasi da non aver più bisogno di una legge che determini singoli atti (nota1).

Per quanto riguarda il matrimonio Gesù, provocato dalla domanda dei farisei, ha ripristinato il disegno di Dio sul matrimonio così come era nel piano della creazione: “l’uomo lascerà suo padre e sua madre, si unirà a sua moglie e i due saranno un’unica carne” (Gen 2,24) e nello stesso tempo abroga la legge di Dt 24,1 sul divorzio perché Mosè l’aveva data a causa della durezza del cuore del suo popolo (Mt 19,2-9). Ma Gesù non dà codici di comportamento o precetti da osservare nella vita coniugale, indica solo la volontà di Dio sull’unità del matrimonio. Da questa prospettiva di Gesù sul matrimonio Paolo aveva tirato alcune conclusioni pratiche per i cristiani di Corinto sia per quanto riguarda la vita matrimoniale sia per quanto riguarda l’unità del matrimonio, che deve essere sempre salvaguardata anche nel caso di impossibilità di convivenza della coppia. Paolo infatti, che pur conosceva bene tutta la casistica delle scuole rabbiniche in quanto cresciuto alla scuola di rabbi Gamaliele (n2), in caso di impossibilità a vivere insieme consiglia ai coniugi la separazione, ma non il divorzio (1 Cor 7,3-5.10-11) (n3).

Ma nelle lettere più tardive del Nuovo Testamento, lettera ai. Colossesi, agli Efesini ed al tre (n4), troviamo dei veri e propri codici familiari di comportamento con indicazioni che riguardano la vita dei coniugi, dei figli, degli schiavi, il comportamento verso, le autorità e le leggi sociali. E’ una parenesi che si va sviluppando per la vita delle famiglie nelle comunità cristiane contornate dal mondo di cultura greco-romana.

Il brano che ci interessa di Ef 5,21-33 sul matrimonio fa parte di un codice più ampio che riguarda il comportamento dei membri di una casa ove si trovano a vivere genitori, figli, domestici, schiavi in un contesto sociale più largo. Troviamo codici familiari simili anche in Col 3,18-4,1; 1 Pt 2,11-3,75 (n5).

Prima di analizzare Ef 5,21-33 diamo uno sguardo alla situazione del matrimonio nel I sec. dell’era cristiana nel cui contesto sono state scritte le lettere agli Efesini, ai Colossesi e la 1 Pietro.

1.IL MATRIMONIO NEL I SECOLO DELL’ERA CRISTIANA

Il matrimonio è un’istituzione fondamentale della vita della società e quindi in tutte le culture circondata sempre da un alone di dignità e di sacralità. In rapporto al matrimonio si pone poi la vita della donna nella famiglia, la vita e l’educazione dei figli, la visione della sessualità. Uomo, donna, sesso, figli, famiglia sono aspetti strettamente congiunti ma anche separati. In tutte le culture il matrimonio è un momento solenne circondato da riti e feste perché è legato al fatto sociale per molteplici aspetti: la generazione e la crescita della società, le famiglie e i patrimoni di beni immobili, l’amministrazione pubblica ecc. La sessualità è vissuta all’interno del matrimonio, ma anche slegata da esso sebbene, anche in questi casi, il giudizio di valore sottende il rap-porto alla coppia e alla famiglia.

Nel mondo greco il matrimonio è un fatto religioso “cerimonia compiuta presso l’altare domestico dinanzi alla vista degli dei della nuova famiglia” (n6); il matrimonio e’ monogamico, ma reso ampiamente instabile dalla pratica comunissima del divorzio, quale diritto del marito che poteva sempre ripudiare la moglie senza appellarsi a validi motivi. Il matrimonio è combinato per i giovani dai loro genitori, ma questo non toglie che specialmente il ragazzo non avesse una certa possibilità di scelta della sua futura moglie. La situazione della donna è di “grande inferiorità rispetto al marito e al padre dei suoi figli, restandogli sottomessa e sotto tutela, come rimane sottomessa, alla morte del marito, ai fratelli e ai parenti di lui” (n7). Questi matrimoni “combinati soprattutto in vista della procreazione, non erano quasi mai molto fecondi, sia perché il marito trovava facilmente soddisfacimenti al suo istinto sessuale fuori del matrimonio, sia perché, per povertà o per egoismo, si temeva di avere troppe bocche da sfamare” (n8). L’adulterio era moralmente condannabile, oggetto di risa e di lazzi per gli intrighi con cui era accompagnato, ma anche ampiamente tollerato; i figli erano accolti ed educati, ma spesso anche esposti: “l’esposizione, vale a dire l’abbandono del neonato dentro un vaso o una marmitta di argilla in un luogo deserto, senza alcun nutrimento, e così pure l’aborto, erano, pratiche correnti ammesse dalla legge e dal costume” (n9). Molto diffusa era la prostituzione sacra legata ai santuari di Afrodite, la dea dell’amore. Celebre era il tempio di Venere pandemos, cioè popolare, a Corinto, dove c’erano più di mille ierodule (n10) pronte a servire i frequentatori. Fenomeno legato alle classi più alte era quello delle etere, cioè compagne o concubine, che mascherava una forma di poligamia, tollerata dalle stesse mogli legittime. Diffusa era anche l’omosessualità e la pedofilia. Si può dire che il matrimonio e la famiglia nella cultura greco-ellenistica hanno una alta considerazione istituzionale, ma di fatto il costume e i valori morali praticati sono molto lontani da quelli ideali. La reazione cristiana di fronte ad un mondo che porta i segni della dissoluzione è stata netta fin dall’inizio; basta leggere la 1 Cor in cui le parole di Paolo sono forti: “Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adùlteri, né depravati, né sodomiti, … né ubriaconi …. erediteranno il regno di Dio.” (6,9s) e poco più avanti dinanzi al caso di fornicazione verificatosi nella comunità di Corinto afferma: “State lontani dall’impurità! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all’impurità, pecca contro il proprio corpo. Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi. Infatti siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo!” (6,18s). Nella lettera agli Efesini si legge: “Di fornicazione e di ogni specie di impurità o di cupidigia, neppure se ne parli tra voi, – come deve essre tra santi-” (5,3), e al pari della 1 Cor 15,50 agli Efesini afferma: “Sappiatelo bene: nessun fornicatore o impuro … ha in eredità il regno di Cristo e di Dio” (v.5). Come si vede la preoccupazione di Paolo è quella di immettere i nuovi valori, che possano cambiare dal di dentro mentalità e condotta delle persone.

La visione del matrimonio del mondo romano è simile a quella espressa dalla cultura greca. Già Catone il Censore nel II sec. a.C. aveva denunciato la disgregazione della famiglia, l’arrivismo politico, l’accumulo di ricchezza, l’influsso della cultura greca su Roma!

Il matrimonio romano è un atto privato, non ha rilevanza pubblica se non in rapporto ai problemi legati alla dote e ad acquisizioni patrimoniali. Il matrimonio era monogamico, ma l’uomo aveva ampia libertà di rapporti con altre donne fossero pure le schiave della sua casa. Nell’età repubblicana sposarsi con “atto legittimo”, cioè con un atto che potesse essere conosciuto come tale p.e. un atto religioso, un banchetto o regali nuziali, un atto di acquisizione di proprietà ecc., era sentito come un dovere civico: “Il matrimonio non è la fondazione di un focolare, l’asse portante di una vita, ma una delle numerose decisioni dinastiche che un signore si trova a dover prendere… La sposa sarà meno la compagna di questo signore che non l’oggetto di una delle sue opzioni… Il matrimonio è solo un atto della vita fra gli altri e la sposa è solo uno degli elementi della famiglia, che include egualmente i figli, i clienti, gli schiavi e i liberti” (n11). Con l’età imperiale e il diffondersi dello stoicismo, l’ideale romano di padronanza di sé e di autonomia per essere un cittadino perfetto cessa di essere una virtù civica e diviene fine a se stessa: l’autonomia procura la pace e rende indipendenti dalle sorti umane e dal potere imperiale. Questo aspetto avrà una qualche risonanza nella concezione della donna-moglie, che da elemento di proprietà del marito diventa nella famiglia la compagna, la confidente, l’amica. Si esalta la tenerezza, il rispetto del marito verso la moglie, l’equilibrio sessuale all’interno della coppia, rapporti coniugali solo in vista della generazione di figli, aspetti che saranno ripresi da autori cristiani dal II al IV secolo (n12). Lo stoicismo fu però più una patina nella vita sociale che un radicale cambiamento perché rimase radicata la concezione della donna come oggetto e proprietà dell’uomo, perché è ampiamente praticato il divorzio (per rimanere nei casi noti: Cesare, Cicerone, Ovidio, Claudio hanno avuto tre mogli), sono comuni i rapporti extraconiugali, la prostituzione e l’omosessualità (n13).

Il quadro a tinte oscure che fa Paolo della società del tempo nella lettera ai Romani ( 1,24-31 ), se non trova piena rispondenza a quanto di idealità veniva proposto sul matrimonio e sulla famiglia, è appropriata alla realtà concreta, che di fatto non veniva condannata, ma giustificata.

Per il matrimonio nel mondo ebraico rimandiamo a quanto scritto in questa rivista da G. Crocetti (n14). In sintesi si può dire che nel mondo ebraico, anche se dal costume e dalla legge, era permessa la poligamia, di fatto il matrimonio era per lo più monogamico. La donna è considerata proprietà del marito al pari delle schiave, la schiava, il bue, l’asino, ecc. (Es 20,17), è considerata inferiore e soggetta all’uomo sia in campo sociale sia in quello religioso; il divorzio è regolato dalla legge di Dt 24,1-4, interpretata, al tempo di Gesù, dalle scuole rabbiniche (n15); è proibito l’adulterio e gravemente punito: condannata la prostituzione e l’omosessualità. Forte è nel mondo ebraico il senso della vita e della fecondità (n16).

  1. IL MATRIMONIO IN Ef 5, 21-33

L’autore della lettera agli Efesini mantiene, nella struttura della lettera, lo schema paolino: espone prima la parte dogmatica (capp. 1-3) e poi la parte parenetica (capp.4-6). A noi interessa la seconda parte e precisamente la morale della famiglia, ma non si può prescindere dalla prima che ne è il supporto dogmatico.

Leggiamo il testo, poi ne faremo un breve commento:

21 Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: 22 le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore; 23 il marito infatti è capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. 24 E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto.

25 E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, 26 per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, 27 e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. 28 Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. 29 Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, 30 poiché siamo membra del suo corpo. 31 Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. 32 Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! 33 Così anche voi: ciascuno da parte sua ami la propria moglie come se stesso, e la moglie sia rispettosa verso il marito.” (Ef 5, 21-33)

a)– la delimitazione del brano.

Una breve nota sulla sintassi del brano. E’ noto che i testi biblici in papiri e codici giunti a noi non portano la divisione in capitoli e versetti e nemmeno la divisione della punteggiatura (n17). Questo crea problemi nella lettura e nella divisione delle pericopi. Per quanto riguarda il nostro testo è chiara una dipendenza di quattro participi dal verbo: “Siate ricolmi dello Spirito” (plerousthe, del v.18); questo “siate ricolmi” è specificato con “intrattenendovi fra voi con salmi…, cantando e inneggiando al Signore… rendendo continuamente grazie… nel timore di Cristo, siate sottomessi (ypotassomenoi) gli uni agli altri”, cui segue l’applicazione dei casi di sottomissione o di obbedienza: delle mogli ai mariti (vv.22-24), dei figli ai genitori (6,1-2), degli schiavi ai padroni (vv.3-9). Quel ‘siate sottomessi’ sintatticamente regge il v.22 e fa da titolo a tutto il brano, che è incentrato sul tema: sottomissione-ubbidienza. Da un punto di vista sintattico la cosa è un po’ strana tanto che alcuni codici presuppongono un punto dopo “siate sottomessi gli uni agli altri” e poi leggono: “Le mogli ai loro mariti” e aggiungono siano sottomesse… (ypotassesthe o ypotassesthosan)” (n18).

Il tema quindi inizia con il v.21: “Nel timore di Cristo, sottomessi gli uni agli altri” che è il leit-motiv di tutto il brano 5,21-6,9 che procede con ritmo binario: prima vengono nominate le persone che debbono essere sottomesse, le mogli ai mariti, o che debbono ubbidire, i figli ai genitori, i servi ai padroni; poi di controparte seguono i doveri dei mariti verso le mogli, dei genitori verso i figli, dei padroni verso gli schiavi.

b)- La struttura sociale della famiglia e l’annuncio cristiano.

La comunità cristiana si riunisce attorno a Gesù annunciato come il Figlio di Dio fattosi uomo, “il quale è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione” (Rom 4,25), dal quale viene ogni salvezza perché “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo, per grazia infatti siete salvati” (Ef 2,4s). La comunità cristiana celebra questo mistero di vita facendo memoria della morte e risurrezione del Signore nella cena eucaristica (cfr.1 Cor 11,26). La comunità cristiana è consapevole di vivere una nuova realtà di comunione e di unità perché formano tutti in Cristo un solo corpo (1 Cor 12,13) e che in Cristo è superata ogni divisione etnica, sociale e sessuale perché “quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo; non c’è più Giudeo né Greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,26-28).

Da questa nuova visione di Dio e del suo mistero di salvezza in Cristo, si rinnovano la vita e i suoi valori. Paolo nelle parti parenetiche delle lettere riallaccia a questa visione i comportamenti che debbono caratterizzare i cristiani, ad esempio, nei rapporti tra persone e tra gruppi all’interno della comunità stessa (1 Cor. 1-4), nei casi di litigi su questioni patrimoniali, nel giudizio e nell’atteggiamento circa la fornicazione (1 Cor 5-6), nel rapporto tra ricchi e poveri (1 Cor 11,17- 34;2 Cor 8-9), nel rapporto con l’autorità (Rom 13) ecc.

Quando tocca i problemi della famiglia o meglio dell’oikos, della struttura della famiglia in senso lato comprendente la coppia e i figli, ma anche i dipendenti, gli schiavi, Paolo e poi le comunità cristiane sembrano più legati alla cultura e in qualche modo debitori alla società del tempo. La struttura gerarchica e sociale con le disparità tra uomo e donna, tra padroni e schiavi, non viene toccata, ma illuminata da nuovi principi che, se ad un primo sguardo sembrano conservarla anzi giustificarla teologicamente, di fatto pongo- no dei germi capaci di fermentare e rinnovare la visione della famiglia e della società. Tipico è il caso della 1 Cor in cui Paolo deve rispondere ai tanti problemi sorti nella comunità di Corinto. Nell’affrontare il problema posto dai Corinzi su celibato-verginità e matrimonio Paolo dialoga con la cultura del tempo e pone grandi e nuovi principi (cap.7), nell’esigere che le donne nelle assemblee cristiane si coprano il capo con il velo (11,2-16) o che nelle riunioni tacciano (14, 34s), che gli schiavi rimangano tali e profittino della loro situazione (7,21s), si avverte lo sforzo di non sovvertire gli ordinamenti del tempo, ma di vivificarli con un nuovo spirito(n19). Questo atteggiamento è comune negli scritti neotestamentari, lo ritroviamo oltre che nel nostro testo, anche in testi paralleli come Col 3,18-24; 4,1; 1 Pt 2,18; 3,9; Tt 2,1-10; 1 Tm 2,8-10 (n20).

Tutto il testo di Ef 5,21-6,9 sulla morale domestica e particolarmente la prima parte 5,21-33 sulle relazioni di coppia ha come fondamento la parte dogmatica della lettera. Il centro del messaggio di Ef è il mysterion, cioè il piano salvifico di Dio, che in Cristo ci ha benedetti con ogni benedizione… abbiamo il perdono delle colpe … facendoci conoscere il mistero … ricondurre al Cristo unico capo tutte le cose (1,2-10), in lui; ci ha amato … ci ha fatto rivivere… ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli… (2,4-6). “voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Crito (2, 13); in riferimenti ai vicini (gli ebrei) “ dei due ha fatto una cosa sola” (v.14) “facendo la pace e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce? (2,12-16). “voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio (v. 19) L’adempimento di questo mistero, di cui Paolo è divenuto ministro, è rivelato oggi a tutti, alla terra e ai cieli, per mezzo della Chiesa (3,10). L’immagine costantemente soggiacente a tutto il testo è quella della testa e del corpo: Cristo è costituito dal Padre capo: kephalé e la Chiesa è il suo corpo: sòma (…auton édòken kephalèn yper panta té ekklesià, ètis estìn to sòma autou: l,22s). Cristo è il capo da cui procede tutta la vita della Chiesa, suo corpo, ella tutto riceve da lui; l’autore di Ef vede in questa organicità il principio di unità della Chiesa in ogni suo membro e scrive di avere a cuore: “l’unità dello spirito (4,3)… di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo. Da lui tutto il corpo … cresce in modo da edificare se stesso nella carità” (4-15s).

Nel nostro testo l’immagine capo-corpo si unisce con quella che descrive, come vedremo, il rapporto Cristo-Chiesa quale rapporto sponsale marito-moglie.

c)-                               Il matrimonio cristiano

L’autore di Ef nella parte parenetica della lettera si attiene prima alle grandi linee della vita cristiana e chiede una condotta degna della chiamata che avete ricevuto (4,1), richiama all’unità nella comunità cristiana appellando all’unità della Chiesa come corpo di Cristo (4,4-16) esorta a rifuggire dalla mentalità e dalla vita pagana (4,17-32). Il grande ideale di condotta posto dinanzi è: “Fatevi imitatori di Dio, quali figli carissimi” (5,1), richiamandosi all’insegnamento di Gesù: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). Invita a non lasciarsi addormentare dal vizio e dal mondo, a lasciarsi illuminare invece dalla luce di Cristo e riempire dallo Spirito Santo (Er 5,2-18).

Quando arriva alla vita della famiglia l’autore ha dinanzi da una parte la struttura concreta sociale della famiglia, che vive normalmente valori del tempo, come sono esposti e propagandati dai filosofi morali e dalle leggi dello stato, oppure distorti in una prassi decadente, e dall’altra le linee della teologia e della vita cristiana incentrate su Cristo e la Chiesa.

L’autore entra nel tema esortando le mogli ad essere sottomesse ai loro mariti come la Chiesa è sottomessa a Cristo e poi chiedendo ai mariti di amare le loro mogli come Cristo ama la Chiesa. La struttura del tema non segue una linea discorsiva chiara. Il tema generale infatti è introdotto da “siete ricolmi dello Spirito (v.18)… nel timore di Cristo, sottomessi gli uni agli altri” (v.21); ma questa reciproca sottomissione in Cristo se è ben espressa nell’atteggiamento delle mogli verso i mariti, non è ripresa nella seconda parte che invece comincia: “e voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (v. 25). Nella prima parte l’autore è guidato da tutta la teologia espressa nella parte dogmatica della lettera, nella seconda introduce invece la simbologia sponsale che non aveva direttamente trattato nell’esposizione dogmatica del mysterion.

  1. Il tema generale: “Nel timore di Cristo sottomessi gli uni agli altri” (v.21)

La sottomissione riguarda non solo i coniugi tra di loro, ma rapporta entrambi a Cristo perché evidentemente sia il marito che la moglie ricevono la salvezza da Cristo: la sottomissione vicendevole è la conseguenza della sottomissione di entrambi a Cristo perché tutt’e due sono parte della Chiesa che è sottomessa a Cristo. Questa sottomissione vicendevole è “nel timore di Cristo”. L’espressione è unica e coniata su quella più comune nell’A. e N. T.: “Il timore di Dio”. Ora il timore di Dio non è la paura di fronte a Dio, ma la consapevolezza di essere dinanzi a Dio, di sapere che Dio è Dio e che l’uomo è l’uomo; in questo senso si dice nei libri sapienziali che “l’inizio della sapienza è il timor di Dio” (Sir 1,16; Sal 111,10) e negli stessi libri il timore di Dio è coniugato insieme con l’amore di Dio (Sir 2,15s;7,29s); eguale è la posizione del cristiano di fronte a Cristo: è consapevole che tutto ha ricevuto da Cristo. Marito e moglie sono sottomessi a Cristo perché entrambi hanno appreso che “per grazia siete salvati” (Ef 2,5) da Cristo e debbono essere vicendevolmente sottomessi perché nel regno dei cieli “chi vuol diventare grande tra voi, sarà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti” (Mc 10,43s).

.2.                                   Alle mogli: vv. 22-24

L’esortazione comincia con: “Le mogli (siano sottomesse) ai mariti come al Signore”. La sottomissione della moglie al marito una nota sociale largamente recepita. Già nel mondo sociale di allora la “sottomissione” della moglie al marito non è intesa come una obbedienza servile, ma come rispetto e venerazione (n21). Anche se giuridicamente il marito è il despotes padrone della moglie, in realtà normalmente i rapporti si vivono su altra linea e l’autore di Ef nell’indicare elementi di etica domestica alle mogli ha da indicare un rapporto nuovo ed unico quello della Chiesa di fronte a Cristo già delineato nella prima parte della lettera. Cristo è kephalè: capo della Chiesa il marito è kephalè: capo della moglie e come la Chiesa è sottomessa a Cristo capo, così le mogli debbono essere sottomesse al marito capo. E all’inizio nel dire “siano sottomesse ai mariti” ha aggiunto “come al Signore” indicando così che con la sottomissione al marito le mogli in realtà si sottomettono “al Signore” sottintendendo che anche i mariti sono sottomessi al Signore perché anch’essi sono corpo della Chiesa. In questo modo si introduce un elemento nuovo nell’etica del tempo in cui la sottomissione non è lasciata ad elementi psicologici e sentimentali, ma rapportata a vincoli indefettibili di amore. Certamente siamo su un piano analogico eccedente perché il rapporto tra il marito capo della moglie e Cristo capo della Chiesa non può essere assolutizzato perché mentre “Cristo è il capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo” (v.23) <int. Chiesa>, non altrettanto si può dire del marito riguardo alla moglie. Scrive Penna concludendo il commento a questa sezione: “la sottomissione della moglie al marito si dovrà intendere solo in senso analogico; in definitiva l’originalità cristiana non sta nell’esigenza parenetica, ma nella sua motivazione cristologica. Questa però è di altra natura ed eccede di gran lunga il semplice rapporto tra i coniugi. L’analogia con la realtà Cristo-Chiesa, d’altronde, serve all’autore non tanto per richiedere la sottomissione delle mogli quanto per esortare i mariti all’amore per le loro spose” (n22).

.3.                      Cristo-Chiesa: simbologia nuziale e il “mysterion”

Nell’affrontare la parenesi ai mariti l’autore lascia la simbologia cristologica- ecclesiologica capo-corpo più adatta ad introdurre il discorso della “sottomissione” della moglie al marito e prende un’altra linea simbolica, quella di Cristo sposo-Chiesa sposa, più significativa per inculcare un atteggiamento di donazione e di amore del marito verso la moglie: “come fa Cristo con la Chiesa” (v.29). Il disegno di unità sponsale di marito e moglie inscritto nel disegno creativo di Dio (“l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e saranno un’unica carne” Gen 2,24) e richiamato da Gesù per riaffermare la volontà di Dio Sull’unità e l’indissolubilità del matrimonio, è portato a compimento nell’unità sponsale Cristo-Chiesa, come vincolo indissolubile di amore per essere un’unica carne perché la Chiesa è il corpo di Cristo. L’autore chiama questo disegno di Dio “mistero grande” (v.32).

La simbologia matrimoniale è ampiamente usata nell’A.T. per descrivere, il rapporto di Jhwh con il suo popolo a partire dal profeta Osea (n23); essa è meno usata nel N.T.: se ne trova un cenno nei Sinottici dove Gesù indirettamente viene chiamato lo sposo, ad esempio quando Gesù dice che i discepoli non possono digiunare ora perché si trovano con lo sposo (cioè Gesù) a mensa in una festa nuziale (Mc 2,18 ss e paralleli, da confrontare con Gv 3,39) o nelle parabole in cui entra in scena lo sposo come in quella del banchetto nuziale (Mt 22,1-10 e Lc 14,16-24) o delle dieci vergini che attendono lo sposo (Mt 25,1-13), vi fa un riferimento anche Paolo (cfr 2 Cor 11, 2); questa simbologia è ampiamente ripresa negli scritti più tardivi come nella nostra lettera e soprattutto nell’Apocalisse. Il nostro testo di Ef 5,21-33 è unico per la sua ampiezza e i diversi aspetti della simbologia (n24).

Anche il termine “mistero” è tipico della nostra lettera e di quella ai Colossesi, che sono strettamente legate e interdipendenti. Il “mistero” indica in queste lettere il “disegno salvifico di Dio” nascosto e inconoscibile prima di essere rivelato da Dio, ma annunciato e conosciuto quando piacque a Dio rivelarlo. Esso è stato rivelato per tappe nella storia della salvezza ed è arrivato a compimento con Gesù ed ora la Chiesa, cui è stato rivelato, anzi di cui è diventata strumento, lo annuncia e lo manifesta. Non dimentichiamo che il termine mysterion nel latino del N.T. è stato spesso, come nel nostro testo, tradotto con “sacramentum”: “sacramentum magnum hoc est” (5,32)  (n25). L’autore quindi ci vuol dire che il rapporto nuziale Cristo-Chiesa, in quanto compimento del “mistero” di Dio in Cristo, è annunciato, vissuto e celebrato nel rapporto sponsale marito moglie e viceversa che questo rapporto è “sacramentum” che introduce a comprendere e vivere il rapporto sponsale Cristo-Chiesa. Questo ci spiega perché la comunità cristiana delle origini ha voluto che l’uomo e la donna nel contrarre matrimonio si sposassero “nel Signore”. Ne troviamo un cenno in Paolo I Cor 7,39, più espressamente in S. Ignazio d’Antiochia che a Policarpo scrive: “Conviene che gli sposi le spose stringano l’unione con il consenso del vescovo perché le loro nozze avvengano secondo il Signore” (n26).

.4.                                                  Ai mariti: vv.25-33

L’esortazione ai mariti è più ampia, penso, per due motivi: per un motivo sociologico perché la cultura del tempo non inculcava ai mariti l’amore verso le mogli quanto piuttosto quello del despotes: padrone, e poi per un motivo cristologico perché i mariti debbono riferirsi a Cristo per imparare il vero comportamento verso le mogli.

I vv. 25-27 sono paralleli a 28-31: nel primo blocco, dopo aver dato il tema “voi, mariti, amate le vostre mogli”, si descrive l’amore di Cristo verso la Chiesa e nel secondo blocco l’amore che debbono avere i mariti verso le mogli sull’esempio di quello di Cristo.

Il parallelo tra i mariti e Cristo è dato dal verbo “amate” come Cristo “ha amato”. Il verbo che usa Paolo è agapao, un verbo tipicamente biblico, che nell’uso indica un amore gratuito, di donazione, un amore che valuta più il bene dell’altro che non il proprio: basterebbe leggere l’inno all’agape nel cap.13 della 1 Cor (n27). Questi tre versetti sono una sintesi di ecclesiologia: la Chiesa è la creatura dell’amore di Cristo “che ha dato se stesso per lei” e che la fa nascere dall’acqua e dalla parola. Qui l’autore ricorda i riti battesimali: l’annuncio della parola e il lavacro di rigenerazione da cui nascono i cristiani completamente uniti a Cristo, con il doppio scopo di far vedere ai mariti qual è l’amore di Cristo e sottolineare che entrambi i coniugi sono rinati a vita nuova in Cristo e che quindi si trovano sullo stesso piano di salvezza. La Chiesa è nata dalla grazia, dall’amore gratuito di Cristo ed è questa grazia che la rende dinanzi allo sposo, Cristo, “tutta gloriosa, senza macchia né ruga… santa e immacolata” (v. 27). Se l’amore di Cristo può essere dato come modello ai mariti, certamente i mariti non possono realizzare quel che Cristo ha fatto con la Chiesa: c’è quindi un’asimmetria nell’analogia proposta. Ma i mariti sanno che loro, entrambi, marito-moglie, sono membri della Chiesa santa e che quindi il loro amore fa crescere entrambi nel mistero della Chiesa santa e immacolata. E una visione che supera immensamente una visione giuridica o anche psicologico-affettiva del matrimonio secondo i canoni del tempo.

I vv.28-31 riprendono lo stesso tema Cristo-Chiesa, ma l’autore vi coniuga insieme quello genesiaco di una sola carne. Quel sottolineare che “amare la propria moglie” equivale ad amare il proprio corpo e aver cura di se stessi, non può essere letto come un passo indietro di tono egoistico, ma va visto come riferimento, del resto citato subito dopo, al dettato genesiaco dell’unità naturale tra marito e moglie, richiamato anche da Gesù nel vangelo. L’analogia tra l’uomo che nutre la propria carne con Cristo che nutre la sua Chiesa è un richiamo potente a quell’unità tutta unica che è quella della Chiesa con Cristo di cui è la carne e all’unità tra marito e moglie che formano “una carne sola”. La conclusione i vv. 32-33.“Questo mistero-sacramento è grande; io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa” <come proiettato>. Il dimostrativo questo si riferisce al disegno di Dio sulla coppia, all’una caro di marito e moglie, che viene connotato come mistero- sacramento, cioè, come abbiamo richiamato sopra, disegno di salvezza di Dio per il marito e la moglie, che sono Chiesa, corpo di Cristo, e simboleggiano nella loro realtà donativa e creativa l’amore indivisibile e fecondo di Cristo per la Chiesa. L’ultimo versetto riassume tutta la parenesi: ai mariti di amare la propria moglie e alle mogli di essere sottomesse ai mariti, che trova il vero fondamento in tutta l’esposizione dogmatica che Paolo (o la sua scuola) ha fatto.

Ci si potrebbe domandare alla fine se il brano e il termine mistero sacramento fondano la sacramentalità del matrimonio. L’esegeta Penna nel suo commento riporta il parere del Cardinal Gaetano, gran teologo domenicano del ‘500 e commentatore di S. Tommaso: <Non hai da questo luogo, o prudente lettore, che il coniugio è un sacramento. Non ha detto infatti che è sacramento, ma mistero> “Non habes ex hoc loco, prudens lector, a Paulo conjugium esse sacramentum. Non enim dixit esse sacramentum, sed mysterium” (n28). Il brano certamente non dice che il matrimonio è un segno sacramentale istituito da Cristo, ma nel passo possiamo vedere la prima riflessione cristiana che, partendo dalla volontà di Gesù di riportare il matrimonio al disegno di Dio, ha visto nel matrimonio espressa una realtà soprannaturale che simboleggia il rapporto Cristo-Chiesa, che è il vero fondamento di ogni sacramentalità.

NOTE

.1) Sul senso dei precetti e delle beatitudini cfr. H. SCHLIER, L’essenza

dell’esortazione evangelica, in “Il Tempo della Chiesa”, Bologna, Il Mulino, (ora EDB),I965, pag. 118-141; cfr. voci “Beatitudini” “Vangelo” in  Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, a c. di P. Rossano, G. Ravasi, A. Ghirlanda,  Cinisello B. (MI), ed- Paoline,1988.

.2) Su questo argomento vedi l’articolo di G. CROCETTI, “Ciò che Dio ha congiunto l’uomo non separi”, in questo numero <Firmana 1996> pag. 35-59

.3) Sul brano di Mt 19, 3-9 in cui l’evangelista riporta l’eccezione “eccetto il caso di porneia” vedi l’ampio studio di C. MARUCCI, Parole di Gesù sul divorzio. Ricerche scritturistiche previe a un ripensamento teologico, canonico e pastorale della dottrina cattolica dell’indissolubilità’ del matrimonio, Brescia, Morcelliana,1982.

4) Partiamo dal presupposto, ormai generalmente condiviso, che le lettere ai Colossesi, agli Efesini, 1 Pietro, che ci interessano per il nostro argomento, appartengono alla seconda e terza generazione cristiana, scritte dopo gli anni 80 e rappresentano catechesi della Chiesa alla fine del primo secolo e inizio del secondo.

.5) Questi codici sono stati ampiamente studiati; rimandiamo ad alcuni recenti autori italiani: R. FABRIS, Codici dei doveri familiari in Col ed Ef, in G. BARBAGLIO-R FABRIS, Le lettere di Paolo, vol 3°, Roma, Boria, 1980, pag 134-148; E. BOSETTI, Quale etica nei codici domestici (Haustafeln) del NT? in Riv. di Teol. Morale, 1936/1, pag 9-31; ID., Codici familiari. Storia della ricerca e Prospettive, in “Riv Bibl”, 1987/2, pag. 129-178. Si può vedere una sintesi di tutti questi studi in K. H. FLECKENSTEIN, “Questo Mistero è grande”. Il matrimonio in Ef 5,21-33, Roma, Città Nuova, 1996.

.6) Cfr. B BRUNELLO, Le istituzioni private e pubbliche nella Grecia antica: cap I La famiglia, il matrimonio, in “Enciclopedia classica”, a c. di C. Del Grande, vol III pag. 297ss, Torino SEI, 1959.

.7) Ibid., pag. 302. Questa inferiorità della donna sempre richiamata in linea di principio, non toglie che in concreto nella realtà ci siano state tra marito e moglie comprensione, tenerezza e amore. Nel mito e nella storia sono richiamati esempi di amore vicendevole tra marito e moglie; Plutarco nel nei Praecepta coniugalia parla di sottomissione delle mogli ai mariti (usa lo stesso verbo ypotassa che viene usato in Ef 5,22), ma dice anche che compito dei mariti è: sostenere, aiutare, istruire, consolare le mogli. Sulla situazione delle donne nella grecità cfr. il recente ampio articolo di G. REALE, Platone, la repubblica delle donne, in “Il Sole 24 ore” del 18-8.95.

.8) R. FLACIELLÈRE, Amore a matrimonio, in “La civiltà’ greca: storia e cultura’”, vol IV, pag 203-221, Bari, Laterza, 1990, pag. 211.

.9) Ibid. pag 211 s.

.10) Cfr H. HERTER, ibid., pag. 249.

.11) Cfr. Ph. ARIES – G. DUBY, La vita privata dall’impero romano all’anno mille, Bari, Laterza, 1988, pag. 27.

.12) Una buona conoscenza sul matrimonio e la famiglia in questo periodo si può dedurre dalle operette di TERTULLIANO: Alla consorte e l’unicità’ delle nozze, a c. di L. Datarne, TP 128, Roma, Citta’ Nuova, 1996.

.13) Ph. ARIES-G. DUBY, cit., pag 23-34

.14) G. CROCETTI, “Ciò’ che Dio ha congiunto l’uomo non separi”, cit.

.15) Cfr. ID., pag. 46-51

.16) Cfr. R. DE VAUX, Le istituzioni dell’Antico Testamento, Torino, Marietti 1964 (ristampe): Istituzioni familiari: famiglia, matrimonio, pag. 29-50; uno sguardo sintetico sulla donna, il matrimonio e la famiglia nel giudaismo e nel mondo greco-romano al tempo di Gesù si può vedere in M. ADINOLFI, La donna e il matrimonio nel giudaismo ai tempi di Gesù, in “Riv. Bibl”, 1972/4 pag. 369- 390; cfr. anche J. PEDERSEN, Israel Its life and culture, vol 1-2, London, Oxford Univ. Press, 1973; R. ALBERTZ, A History of Israelite Religion in the Old Testament Period, vol 1-2, London, SCM Press Ltd, 1994 (originale tedesco 1992).

.17) Per curiosità ricordiamo che la divisione del testo biblico in capitoli fu fatta da Stefano Langton nel 1228, la divisione in versetti fu fatta per l’A.T. da Sante Pagnini nel 1528 e per il N.T. da Roberto Estienne nel 1555.

.18) Cfr. discussione del caso in H. SCHLIER, Lettera agli Efesini (CTNT), Brescia, Paideia, 1965, pag. 307 e in R. PENNA, Lettera agli Efesini, cit., pag. 225-226; cfr appara-to critico in NESTLE-ALAND, Novum Testamentum graece et latine.

(19) Cfr. commento ai passi nel recente ampio commento di G. BARBAGLIO, La Prima lettera ai Corinzi, cit.

.20) Sui problemi della famiglia cfr. C. OSIEK, The Family in Lady Christianity: “Family Values” Revisited, in CBQ, 1996,2, pag, 1-24-

.21) Sulla sottomissione delle mogli ai mariti PLUTARCO nei Praecepta Coniugalia scrive: “Quando le mogli sono sottomesse ai mariti ricevono lode, quando pretendono di dominare appaiono peggiori dei mariti dominati”: citazione riportata da S. ZEDDA, Spiritualità cristiana e saggezza pagana nell’etica della famiglia: affinità e differenze tra S. Paolo e i “Coniugalia Praecepta” di Plutarco, in “Lateranum”, 1982, pagg. 110-124; si può vedere anche G. GHIBERTI, “Siate sottomessi. La Paranesi cristiana sulla famiglia, in Parola Spirito Vita, 1986, pag.161-177

22) R. PENNA, Lettera agli Efesini, cit., pag. 232

23) È questa una tematica vasta nella letteratura profetica per gli intrecci con tanti altri aspetti come quello dell’alleanza, dell’amore: vedere per un’esposizione sintetica le voci “matrimonio’’, “alleanza”, “amore” “profezia” nel “Nuovo Dizionario di Teologia Biblica”, cit. Sulla origine di questa simbologia nei profeti e poi sulle ripercussioni che ha avuto nel N.T. gli studiosi opinano che ci sia stato un influsso ; dalla cultura pagana con i riti ierogamici e il mito dello hieros gamos, diffusi nel mondo orientale e nell’ellenismo. Cfr. una sintesi delle opinioni degli studiosi in K. H. FLECKEN- STEIN, “Questo mistero è grande”… , cit., pag. 54-68.

.24 Per un buon approccio albi tematica cfr. R. FABRIS, Il matrimonio cristiano figura dell’alleanza (Ef 5,21-33), in Parola Spinto Vita, n.13, 1986, pag 153-169.

.25) Per uno studio sul termine “mistero” rimandiamo a R PENNA, Il “mysterion” paolino traiettoria e costituzione, Supp 1 Riv Biblh n.10, Paideia, Brescia, 1978, oppure in sintesi ID., voce “mistero” in “Nuovo Dizion. di Teologia Biblica”, cit.

.26) Lettera di Ignazio a Policarpo: V.2b, in “I Padri Apostolici”, a. c. di A. Quacquarelli, TP 5, Roma, Citta’ Nuova, 1978, pag. 141.

.27) Già’ nell’A.T. per tradurre il concetto, di “amore” i LXX avevano preferito questo verbo a quelli più correnti nella lingua greca come erao che indica amore di trasporto-passione-invaghimento, stergo, che indica amore di tenerezza o fileo che indica amore di amicizia; cfr. gli studi classici di C. SPICO, Agape. Prolégomènes a une étude de théologie neotestamentaire e Agape dans le Nouveau Testament. Analise des Textes, EB, Paris, Gabalda, 1966/3; cfr. voce agapao-agape, di QUELLSTAUFFER in GLNT; in sintesi cfr.

15, A. PANIMOLLE, voce “Amore”in “Nuovo Diz. di Teol. Bibl.”, cit.

.28) “Da questo passo, o avveduto lettore, non puoi dedurre che secondo Paolo il matrimonio sia un sacramento; egli infatti non disse che è un sacramento, ma che è un mistero” cfr. R. PENNA, Lettera agli Efesini, cit. pag. 242-243.

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MIOLA Mons. Gabriele biblista : IL MATRIMONIO NEL NUOVO TESTAMENTO: LA NOVITA’ CRISTOLOGICA

IL MATRIMONIO NEL NUOVO TESTAMENTO: LA NOVITÀ CRISTOLOGIA

GABRIELE MIOLA <qui testo della Bibbia CEI 2008 le note a fine testo>

Ed. “Firmana” supplementi 5 a. 2007 pp. 19-32

  1. Il matrimonio nel giudaismo del tempo di Gesù

1.1. Introduzione

E’ risaputo che la struttura della società antica del Vicino Oriente era fondamentalmente, diremmo oggi, maschilista. L’uomo è il soggetto giuridico sociale e religioso. Il marito ha ogni potere nella famiglia, sulla moglie e sui figli, in ogni aspetto della vita sociale: di rappresentanza, di capacità contrattuale, di testimonianza in giudizio; anche nell’ambito religioso l’uomo è il soggetto della preghiera in casa e in sinagoga, delle celebrazioni festive, dei riti che accompagnano la vita: nascita, matrimonio e morte. Non è che la donna sia esclusa dalla vita sociale e religiosa, ma vi svolge un ruolo marginale, il suo ambito è la casa e i figli. Certamente non mancano sentimenti di profonda affettività come per esempio ne esistevano tra Elkana ed Anna (nota 1)o come risulta dal Cantico dei Cantici. L’ideale della donna di casa è una donna fattiva, organizzatrice, intraprendente, affettuosa verso il marito e i figli, come descritta nel libro dei Proverbi (31,10-31). Non mancano neppure nella storia biblica figure femminili di primo paiano come Debora, Giuditta ed Ester. Il matrimonio in quanto costituisce una famiglia è stato sempre oggetto di legislazione perché la famiglia è il nucleo portante di ogni società. Per quanto riguarda il nostro tema due sono gli aspetti nella cultura espressa dall’AT, che caratterizzano la vita della coppia: la poligamia e il divorzio. Emergono tuttavia tendenze espresse con forza dalla profezia, che spingono verso il superamento delle due caratteristiche, che esprimono il maschilismo della società antica.

1.2.  Matrimonio tra storia e tensione ideale in Israele

  1. a) la poligamia e la situazione della donna: verso un superamento secondo il progetto di Dio (n2)

Nell’AT la poligamia è un dato di fatto, basta pensare ai patriarchi, ad Elkana il padre di Samuele, che aveva Peninna ed Anna, ai re e altro. In Gen 4,19 si dice per la prima volta che «Lamech prese due mogli, una chiamata Ada e l’altra Zilla». E a partire dalla discendenza di Caino che si sviluppa la violenza anche nella coppia. I racconti delle origini sembrano farla derivare dal peccato e da quella rottura di armonia tra l’uomo e la donna quando Dio dice ad essa: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà» (Gen 3,16). Forse sull’origine della poligamia rientrano motivi etnico-sociali dove in società patriarcali s’impone da una parte la forza maschile e dall’altra emerge la necessità di avere manodopera con figli e figlie, che servono anche per sancire patti con vincoli matrimoniali. La poligamia è un dato di fatto e fu sempre presente in Israele, anche se, nelle classi popolari per motivi economico-sociali, ci si avvia lentamente verso un matrimonio monogamico a partire dal secolo VIII, secondo il parere di alcuni storici, con la predicazione profetica di Osea, che per ordine di JHWH riprese la sua “unica” sposa adultera Gomer, come simbolo dell’amore fedele di Dio, che perdona la sua “unica” sposa Israele. Val la pena riflettere sulla discrepanza tra linee di riflessione che emergono dalla letteratura profetica e sapienziale da una parte, che esalta l’amore coniugale monogamico e stabile, e dall’altra sulla realtà concreta della vita e della legislazione effettiva, che riflette invece la situazione di poligamia e di divorzio. La simbologia sponsale di Osea mette in evidenza l’unicità del legame tra Dio e il suo popolo e la fedeltà assoluta dell’amore stabile di Dio, che perdona l’adulterio della sposa, Israele che si prostituisce con culti e divinità stranieri. Il tema di Osea era già accennato da Amos quando Dio dice: «Soltanto voi ho cosciuto tra tutte le stirpi della terra» (Am 3,2) ed è ripreso con forza da Geremia, quando il profeta mette in bocca a JHWH queste parole: «Mi ricordo di te, dell’affetto della ma giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento» (Ger 2,2); lo sposo, Adonai, lamenta il tradimento della sposa, Israele: «Ti sei prosttuita con molti amanti … ed ora gridi verso di me: “Amico della mia giovinezza tu sei”» (3,1.4) e Dio promette perdono e ristabilimento del legame matrimoniale stracciato dalla sposa (31,33). Ezechiele nell’esilio fa meditare un popolo di scampati sulla storia intessuta dal Signore con il suo popolo con la simbologia della bimbetta raccolta appena nata e fatta crescere con ogni cura; diventata grande l’ha sposata, l’ha fatta regina, ma essa immemore di tutti i doni ricevuti abbandona lo sposo, che al momento la ripudia, ma poi la perdonerà e la riprenderà come sposa (Ez 16,1-19.60-63).

La tematica sponsale, che lascia trasparire unicità e stabilità del vincolo coniugale, è ripreso con toni intensi e pieni di affetto nel Deutero e TritoIsaia. Gerusalemme viene così apostrofata: «Tuo sposo è il tuo creatore (…) viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? (…) ti raccoglierò con immenso amore» (54,5-7) e ancora: «Nessuno ti chiamerà più Abbandonata … Il Signore troverà in te la sua delizia (…) come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli, come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te» (62,4-5).

Malachia lamenta concretamente il divorzio e la fuga dalla responsabilità dei figli tra gli israeliti dopo il ritorno da Babilonia. Il profeta riporta l’interrogativo del popolo che offre sacrifici a Dio, ma lamenta che Dio non risponde alle loro richieste di benedizione. E il profeta dà una risposta, che tocca invece la situazione morale: «Perché il Signore è testimone tra te e la donna della tua giovinezza, che hai tradito, mentre era la tua compagna, la donna legata a te da un patto» (Ml 2,14). Il profeta vede nel divorzio, almeno nel divorzio facile, un crimine contro il progetto di Dio, ma anche un grave male sociale perché con una famiglia disgregata ne vanno di mezzo la fecondità e la prole. Il profeta fa un’argomentazione biblico-teologica rifacendosi a Genesi, al piano di Dio. Dice Malachia: «Non fece egli un essere solo dotato di carne e soffio vitale? Che cosa cerca quest’unico essere, se non prole da parte di Dio? Custodite dunque il vostro soffio vitale e nessuno tradisca la donna della sua giovinezza. Perché io detesto il ripudio, dice il Signore Dio d’Israele. Custodite dunque il vostro soffio vitale e non siate infedeli» (Ml 2,15-16).

In tutto il periodo postesilico, periodo in cui si pone la redazione del Pentateuco e la fioritura della letteratura sapienziale, troviamo la stessa tensione tra realtà e legislazione da una parte e visione ideale dall’altra. Basta pensare al Cantico, la cui composizione è si può dire contemporanea alla redazione della Torah. Il Cantico esalta un amore limpido, fresco, unico tra i due innamorati; «Io sono per il mio amato e il mio amato è mio» (Ct 6,3) ed un legame stabile e definitivo: «Perché forte come la morte è l’amore» (Ct 8,6). Nella prima parte del libro dei Proverbi, sotto la simbologia del legame con la Sapienza, si legge una visione matrimoniale tenera, unica, stabile. Si ammonisce il giovane di star lontano dalla donna che «abbandona il compagno della sua giovinezza» (Pro 2,17) e di rimanere unito al primo amore: «Trova gioia nella donna della tua giovinezza, cerva amabile, gazzella graziosa; (…) sii sempre invaghito del suo amore» (Pr 5,18 Ss). Del resto nei racconti sapienziali delle origini, in Gen 1-2, si presenta una coppia unica, creata ad immagine e somiglianza di Dio (Gen l,26s), una coppia legata dalla meraviglia dell’essere unica carne, di avere lo stesso nome, la stessa dignità, uniti in un vincolo più forte di ogni legame parentale (Gen 2,23s).

Ci si potrebbe domandare se non sia stata proprio la letteratura profetica ad ispirare i racconti degli inizi. Dio s’è scelto il suo popolo e con esso forma un’unità, come marito e moglie nel loro vincolo sponsale, per questo i profeti condannano il culto di altre divinità come adulterio e prostituzione. Il fatto che JHWH sia il santo e l’unico permette ai profeti di vedere le relazioni di Dio col suo popolo simili a quelle dell’ambito familiare. Egli è sposo, padre, madre. Egli offre al suo popolo una berit, che lega stabilmente il popolo al Signore, come un patto matrimoniale o come il vincolo genitori-figli.

Nel tardo periodo postesilico o addirittura nel periodo ellenistico l’esempio è offerto ad Israele dal racconto didattico di Tobia (n3). Il libretto presenta infatti una famiglia fedele alla Legge, anche in terra d’esilio, e una famiglia unita e stabile sia nei genitori Tobi e Anna sia nel figlio Tobia e Sara anche in mezzo a grandi difficoltà. Tuttavia nella redazione ultima, il Deuteronomio, e siamo dopo l’esilio, riguardo al re d’Israele, non parla affatto di matrimonio monogamico, ma dice solo che «non dovrà avere un gran numero di mogli perché il suo cuore non si smarrisca» (Dt 17,17), e si legifera sul divorzio (Dt 24,1).

Al tempo di Gesù la poligamia doveva creare un qualche problema a confronto della cultura greco-romana, che non la praticava e la riteneva un istituto barbaro. Ma la cultura del tempo, ellenistica ed ebraica, per le quali era scontata l’inferiorità della donna rispetto all’uomo, era una buona base per giustificare sia la poligamia che il divorzio. Per rimanere nell’ambito ebraico, al tempo di Gesù, Filone, rifacendosi al mondo greco, scrive: «In noi la ragione (nous) ha l’ufficio di uomo, il senso (aisthesis) quello di donna» (n4). Giuseppe Flavio è più duro: «La donna è in tutto inferiore all’uomo. Obbedisca dunque all’uomo non per forza (ibris), ma per essere diretta, perché è all’uomo che Dio ha dato il potere» (n5). Una forte misoginia risulta da alcuni detti rabbinici. Il grande Hillel afferma: «Quante più donne, tante più seduzioni» (n6). Ancora più esplicito Rabbi Jeuda, redattore delle Mishnah, che pregava così: «Benedetto Shaddai, l’Onnipotente, che non mi ha fatto pagano (goi), né donna, né ignorante» (n7). Alla donna, che deve stare in casa, è proibito andare a scuola e quindi anche insegnare. Rabbi Eliezer diceva: «Chi fa istruire sua figlia nella Torah è come se le insegnasse cose per lei senza senso» (n8). Del resto il culto nella sinagoga (letture, omelie, benedizioni) è riservato all’uomo, le donne (come anche i pagani credenti o timorati di Dio) stanno in luogo a parte, l’assemblea è riservata agli uomini israeliti, ancor oggi. Nel periodo intertestamentario, al tempo di Gesù, esiste di fatto la poligamia, anche se molto ridotta e presente quasi esclusivamente nelle classi più alte. Erode ebbe più donne, dieci tra mogli e concubine, di cui in tempi diversi anche nove contemporaneamente, come attestato da Giuseppe Flavio, che per il mondo romano motivava la cosa scrivendo: «Giacché è permesso ai Giudei per usanza tradizionale di sposare parecchie donne, ed egli (Erode) si compiaceva di averne parecchie» (n9). Teoricamente la Mishnah concede al re al massimo diciotto mogli motivando la cosa così: «Perché a David che ne aveva sei, Dio (per mezzo del profeta Natan, che rimprovera il re del duplice peccato di adulterio e di omicidio) dice: ‘Se ciò ti pareva poco, io te ne avrei aggiunte due volte tante”» (n10). Di fatto come tradizione basata sulla consuetudine biblica la poligamia era possibile tra gli ebrei ancora al tempo di Gesù; nella cultura ebraica essa fu abolita, anche se di fatto ormai non esisteva più, solo nel secolo XI dal rabbino Gherson di Magonza (n11).

Possiamo concludere che al tempo del NT potevano esistere casi di poligamia, ma non tra il popolo. Negli scritti del NT in realtà non se ne fai mai cenno. Si presuppone sempre un matrimonio monogamico e sulle labbra di Gesù non c’è assolutamente un benché minimo cenno sull’inferiorità della donna. Però nelle lettere protopaoline (circa 25 anni dopò Gesù) e nelle deuteropaoline (circa cinquant’anni dopo) si avverte ancora un certo maschilismo. In Gal 3,28 Paolo afferma che «non c’è più Giudeo né Greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio o femmina, perché tutti voi siete uno (eis) in Cristo Gesù». Paolo con ciò condanna ogni divisione: religiosa (giudei e greci), sociale (liberi e schiavi), di genere (uomo e donna). Però, senza entrare in questioni di autenticità o meno, tenendo conto della mentalità e cultura del tempo, Paolo impone il velo alle donne come segno di rispetto verso il capo, cioè l’uomo, che rappresenta Cristo (1Cor 11,1-16) e stabilisce che le donne non debbono parlare nell’assemblea [chiesa] (1Cor 14,34s); che la donna deve essere istruita dal marito in casa e che «essa sarà salvata partorendo figli» (1Tm 2,11-15). Sono espressioni che hanno fatto parlare di misoginismo di Paolo, ma a torto perché Paolo ha avuto grande stima della donna e molte sono state sue collaboratrici (n12). Questi testi paolini hanno però influito molto nella storia della Chiesa circa la posizione della donna.

  1. b) DIVORZIO E UNITA’ DELLA COPPIA

Facciamo un cenno alla situazione della donna nel giudaismo al tempo di Gesù. La figlia è considerata piccola (q’tànnah) fino all’età di dodici anni; poi diventa ragazza (na’adah), e tra i dodici e dodici anni e mezzo in genere la ragazza viene dai genitori fidanzata ad un giovane (n13). Il matrimonio poi si celebrava dopo un anno-due. A 14-15 anni perciò la ragazza era sposa e madre. I racconti di Gen 1 e 2 sulla coppia non sono mai presi in considerazione per una visione del matrimonio. Il padre ha pieni diritti sulla figlia così come, dopo il matrimonio, il marito. In questo contesto sociale è stabilita dalla Torah la legge del divorzio. Essa è formulata in Dt 24,1 e recita: «Quando un uomo ha preso una donna ed ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi, poiché egli ha trovato in lei qualcosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa». E chiaro dal testo che il divorzio lo può fare solo l’uomo (n14). Normalmente solo il marito poteva dare il libello di ripudio o ghet, ma al tempo di Gesù anche la donna poteva consegnare il libello di ripudio al marito, come nel caso di Erodiade nei confronti di Filippo, come risulta dai Vangeli o le figlie di Agrippa I, Berenice, Drusilla e Mariamne, che ripudiarono i loro mariti (n15). La pratica del divorzio era cosa abbastanza comune nella società alta, poco sappiamo invece del divorzio a livello popolare, perché è chiaro che ci sono testimonianze, ma solo là dove si tratta di persone di cui la storia ha parlato. La giurisprudenza rabbinica si è espressa e scontrata sulla motivazione: «Se ha trovato in lei qualcosa di vergognoso» (in ebraico: “erwah= turpitudo, ignominia; dabar= parola, cosa, fatto, quindi: cosa turpe o disdicevole; in greco aschemòn pragma = fatto vergognoso). Che cosa significa? Le scuole rabbiniche, come noto, si sono scontrate sulla motivazione. Quando si verifica agli occhi del marito quel «qualcosa di vergognoso» per cui può scrivere il libello di ripudio e rimandarla a casa? Al tempo di Gesù due erano le scuole che dibattevano il problema: Shammai e i suoi discepoli dicevano che si poteva ripudiare la moglie per una colpa grave, per esempio adulterio, immoralità, insubordinazione ecc; per la scuola di Hillel bastava una colpa leggera per esempio una vivanda non preparata bene, che non è piaciuta al marito; infine per Rabbi Aqiba, ma siamo già al secondo secolo dopo Cristo, era sufficiente solo che al marito la moglie non piacesse più e si fosse innamorato di un’altra ai suoi occhi più bella. Inoltre la giurisprudenza rabbinica s’era espressa sui casi in cui il marito era tenuto a riconsegnare la dote o meno (n16); come anche nei casi in cui la moglie poteva dare il ghet, il libello di ripudio, al marito: per esempio se il marito diventava lebbroso, o fosse ridotto a raccogliere immondizie o a fare il conciatore di pelli, o ridotto in schiavitù (n17).

  1. IL MATRIMONIO NELLA VISIONE DI GESU’ E DELLA CHIESA DELLE ORIGINI (n18)

2.1 Gesù e l’indissolubilità del matrimonio

La predicazione di Gesù è incentrata sull’annuncio del regno di Dio, sulla conversione e l’accoglienza della lieta notizia del perdono e della paternità di Dio, Gesù non dà regole di vita. Non si preoccupa di legiferare sulla famiglia forse anche perché normalmente a livello popolare la famiglia era salda e sana così che Gesù non ha occasione di parlarne. D’altra parte, anche se sappiamo pochissimo della predicazione del Battista, Giovanni ne parla solo in occasione dello scandalo di Erode Antipa, che s’era presa la moglie del fratello Filippo (che fu più una convivenza irregolare che non un caso di normale divorzio). I sinottici riportano la condanna di Gesù circa il divorzio, con qualche differenza tra loro. Matteo e Luca trasmettono il logion <detto> di Gesù: «Chiunque ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio; chi sposa una donna ripudiata dal marito, commette adulterio» (Lc 16,18 e Mt 5,31), con una eccezione in Matteo, di cui faremo cenno fra poco. Matteo lo pone all’interno del discorso del monte, Luca in un contesto completamente diverso.

Matteo e Marco riportano invece lo scontro di Gesù con i farisei circa l’interpretazione della legge sul divorzio, fatto avvenuto in «Giudea, al d là del Giordano» (Mt 19,1 e Mc 10,1), evidentemente durante quell’unico viaggio di Gesù verso Gerusalemme, come riportato dai sinottici. Sia Matteo che Marco notano che i farisei pongono la domanda a Gesù «per metterlo alla prova» (Mt 19, 3, Mc 10, 2). Il Vangelo di Matteo, sorto in ambito ebraico, formula la domanda chiaramente in rapporto alle diatribe tra le scuole sul motivo grave o meno per dare alla moglie il libello di ripudio: «È lecito ad un uomo ripudiare la moglie per qualsiasi motivo?». Evidentemente i rigidi farisei propendono per la scuola rigida di Sciammai e provocano Gesù per tentare di farlo schierare per quella di Hillel onde poi attaccarlo. Marco che, secondo la tradizione scrive in un mondo pagano, formula la domanda in chiave più generale sulla liceità o meno del divorzio. Nella risposta Gesù appella al disegno originario di Dio sul matrimonio richiamando i testi di Genesi dove si dice che i due, uomo-donna, marito-moglie, formeranno una “carne sola”, e quindi non è lecito all’uomo dividere quel che Dio ha unito, e spiega che la legge di Mosè agli Ebrei sulla possibilità del divorzio è una legge data da Dio a causa della durezza dei loro cuori. Per Gesù quella di Mosè è una norma transitoria, che ora lui abolisce perché sono arrivati i tempi nuovi in cui Gesù può dire: «Fu detto, ma io vi dico» (Mt 5,32). Quello di Gesù è un vero pronunciamento halakico (n19), fatto da vero interprete della legge.

Invero Matteo riporta, sia in 5,31s, sia in 19,9, un’eccezione così formulata: eccetto il caso di porneia, l’eccezione è data dalla porneia. Che cosa significa in questo caso? Di per sé il termine significa “prostituzione, adulterio” e quindi alcune Chiese permettono in caso di adulterio e di prostituzione il divorzio e quindi di passare alla parte lesa a nuove nozze; però né in Marco né in Paolo (I Cor 7,10) sono riportate eccezioni per cui gli esegeti tendono a dire che l’eccezione prevista da Matteo non riguarda il matrimonio pienamente legittimo e ratificato, ma un’unione illegittima, di quelle previste dalla legislazione ebraica che impedisce il matrimonio per esempio entro stabiliti gradi di legami parentali (Lev 18,6-18), per cui allora la convivenza non è più legittima, ma illegale e quindi da sciogliere (n20).

2.2  GESU’ LO SPOSO

Il linguaggio sponsale del rapporto tra Adonai e il suo popolo è ripreso nel NT per indicare in Gesù lo sposo ed è presente più o meno direttamente nei Vangeli, chiaro invece in Paolo e nell’Apocalisse. Ci sono alcuni testi nei Vangeli in cui Gesù viene presentato come lo sposo. Nei sinottici l’uso di questo appellativo (ninfìos: sposo) sembra non avere rilevanza teologica, almeno direttamente, come ce l’ha invece chiaramente nel Vangelo di Giovanni. Il termine si trova nel contesto della polemica dei farisei e dei discepoli del Battista nei confronti di Gesù, costoro osservano come il maestro e i suoi discepoli non fanno digiuni (Mc 2,18-22; Mt 9,14-17; Lc 5,33-34). Il digiuno era pratica penitenziale comune, fatto in momenti religiosi particolari, in preparazione ad alcune festività, in occasione di disastri personali o naturali per implorare l’intervento di Dio o semplicemente per manifestare e rinvigorire il sentimento religioso (n21). L’episodio deve esser posto all’inizio della predicazione di Gesù, tutti e tre i sinottici infatti lo pongono dopo il banchetto a casa di Levi, che era stato chiamato da Gesù alla sua sequela. Gesù dice ai farisei che quando c’è lo sposo, in un banchetto di nozze gli invitati non possono digiunare. Matteo nel discorso del monte riporta un insegnamento di Gesù, che da un significato di interiorità alla pratica del digiuno (Mt 6,16-18). Ma in questo caso sembra che Gesù risponda ironicamente alle osservazioni dei farisei, ricorrendo a un detto popolare: «In un banchetto di nozze si mangia, altrimenti si fa offesa allo sposo». Ma chi è lo sposo ora? A quale festa di nozze si riferisce Gesù? La sua stessa presenta indica un tempo nuovo, un tempo festivo, nuziale, che non tollera rimandi al passato. Bisogna vivere la novità della sua presenza, come indicano le due brevi parabole, riportate dubito dopo, quella del pezzo di panno nuovo, che non si mette su un vestito vecchio e del vino nuovo, che non può esser versato in otri vecchi. L’annuncio poi che verrà tempo, quando lo sposo sarà tolto, non sarà più presente e allora i suoi discepoli digiuneranno, spesso interpretata come un’aggiunta della comunità postpasquale; può essere un accenno velato fatto da Gesù alla sua morte, come Gesù dirà apertamente più tardi (n22). Del resto Gesù, specialmente nel Vangelo di Matteo, parla di compimento (5,17-20), del tempo definitivo, quello cui facevano riferimento i profeti, che lo indicavano come tempo sponsale (Is 54 e 62).

Nel Vangelo di Giovanni (3,22-30), il termine “sposo” dato dal Battista a Gesù è in contesto chiaramente postpasquale nel confronto che, alla fine del primo secolo, ancora esisteva tra i cristiani e i giovanniti sulla figura di Gesù nei confronti di Giovanni Battista. I discepoli del Battista, quando Giovanni scrive il Vangelo, polemizzavano affermando che Giovanni è il vero profeta il cui battesimo è strumento di salvezza, allora la comunità cristiana ha dovuto precisare chi è Giovanni e qual è stato il suo ruolo nei confronti di Gesù e che senso aveva il fatto che Gesù era stato battezzato da Giovanni: è vero che Giovanni ha battezzato Gesù, ma lo stesso Giovanni attesta che Gesù è il Figlio di Dio (Gv 1,34). Nel brano in questione il Battista attesta che Gesù è lo sposo, ninfìos, che ha la sposa, cioè la Chiesa, mentre il Battista afferma solennemente che lui è solo «l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo» (Gv 3, 29).

Non è il caso qui di affrontare la lettura del racconto delle nozze di Cana, che rimanda allo sposo, che nella sua “ora” darà il vino migliore nel banchetto nuziale, che si realizza nella croce e si attua nell’eucaristia.

Ricorre ancora la figura dello sposo nella parabola del banchetto e degli invitati a nozze in Mt 22,1-14, anche se il termine  ninfìos non c’è (n23). La parabola mette in campo un re che invita i dignitari al banchetto per le nozze del figlio. Lo sposo nella parabola è chiaramente Gesù. Il fatto poi che il re punisca severamente gli invitati, che hanno rifiutato di partecipare al banchetto di nozze, con la distruzione della loro città, rimanda chiaramente all’evento della fine di Gerusalemme. E il fatto che il re scacci dal banchetto colui che non porta la veste nuziale rimanda all’ammonimento che la Chiesa fa ai suoi, che non partecipano degnamente alla vita del regno e al banchetto, eucaristico. La parabola degli invitati al banchetto riletta dalla comunità cristiana prende una chiara tonalità cristologica. E se ci domandiamo quando viene fatto questo banchetto, la parabola travalica dal momento storico del rifiuto di Gerusalemme nei confronti di Gesù, al rifiuto di accogliere la parola di Dio che chiama a riconoscere il Figlio come il Signore nella predicazione della Chiesa, che è la sposa del Messia crocifisso.

La figura dello sposo ritorna nella parabola delle dieci vergini, riportata solo da Matteo (25,1-13), che attendono l’arrivo dello sposo per partecipare alla festa di nozze. La parabola, che sulla bocca di Gesù era un appello alla vigilanza per accogliere la parola che veniva annunciata, riletta nella comunità cristiana è interpretata in senso escatologico, dove Gesù è lo sposo che introduce nella sala del banchetto escatologico, cioè nella salvezza eterna. La vigilanza, che nella parabola originaria era l’attesa per una festa nuziale paesana, travalica nella vigilanza del compimento delle opere buone, che sono la lampada che orna la vita del cristiano per essere introdotto alle nozze del Signore risorto.

Dai Vangeli passiamo alle lettere di Paolo e agli altri testi del Nuovo Testamento. Sono pochi i testi in cui ricorre questo aspetto di nuzialità. Troviamo la figura di Cristo come sposo in 2Cor 11,2. La traduzione italiana CEI dice: «Io (Paolo) provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo». Il termine “sposo” nel testo greco non c’è, Paolo dice: «Vi ho promessi (enì andrì), a un solo uomo» il cui senso è equivalente però a sposo, come giustamente viene tradotto. Chiaramente qui Paolo riprende la simbologia nuziale veterotestamentaria del rapporto sponsale tra JHWH e Israele e lo applica al rapporto di Cristo con la Chiesa, precisamente quella di Corinto.

Il profondo legame che unisce Cristo alla Chiesa attraversa tutti i testi, ma per trovare la terminologia Cristo sposo – Chiesa sposa dobbiamo andare all’ultima pagina dell’Apocalisse, quando Giovanni ci presenta la celebrazione delle nozze tra l’Agnello e la sposa (Ap 21,2.9). Nell’Apocalisse l’Agnello appare fin dall’inizio: «Vidi, in mezzo al trono un Agnello, …  come immolato» (5,6), che prende da Colui che siede sul trono il libro della storia, sigillato perché solo lui ne possiede la chiave, e i vegliardi cantano un canto nuovo, che celebra le vittorie dell’Agnello, che s’è acquistato da ogni tribù e nazione un popolo nuovo, un regno di sacerdoti (5,9-10). Chiara simbologia questa del Cristo, che la Chiesa ci presenta crocifisso e risorto. È lui che sostiene la donna nella lotta contro il drago, sconfigge con i suoi angeli la bestia e affine celebra le nozze con la sua sposa, Gerusalemme, la città santa: «Vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova … pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (21,2), «la sposa dell’Agnello» (21,9).

Nel Nuovo Testamento prende corpo la storia dell’umanità nella sua tensione escatologica: l’umanità salvata forma un’unità sponsale, una sola carne con il Cristo, con lo sposo che l’ha acquistata, che l’ha redenta.

2.3 DALLA STORIA DI DIO ALLA STORIADELL’UOMO: IL MATRIMONIO COME REALTA’ SACRAMENTALE CRISTTOLOGICA

La predicazione di Gesù è centrata sull’annuncio della presenza del regno di Dio, sulla paternità e l’amore del Padre celeste, sulla conversione e il perdono. La gente l’avverte come un «insegnamento nuovo dato con autorità» (Mc 1,27; Mt 7,29); Gesù non sminuzza la legge in mille applicazioni precettistiche, come i maestri farisei, ma tende a creare una coscienza pronta ad accogliere Dio e a metterlo al centro della propria vita, una coscienza consapevole del bene e del male, da cui scaturisce quella vera libertà dell’agire da figli di Dio. Gesù da una tensione alta all’agire dell’uomo: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48) e riassume la legge nei due o unico precetto: «Amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore … amerai il tuo prossimo come te stesso» (Mc 12,30-31).

Con la predicazione della Chiesa il riferimento morale diventa la persona di Gesù e il suo mistero, lui ha unito a sé ogni battezzato per formare una sola realtà, come una sola persona con Cristo. Scrive san Paolo: «Non c’è Giudeo, né reco; non c’è schiavo né libero, non c’è mascio o femmina, perché tutti voi siete uno (eis), in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Paolo insiste molto su questo aspetto: voi siete con Cristo synfitoi complantati (Rom 6,5), (syssomoi) concrporales (Ef 3,6), cioè formate con lui una realtà unica. E da questo principio che deriva l’agire cristiano: quando Paolo si trova dinanzi a comportamenti morali aberranti, appella non ad una legge naturale o positiva che sia, ma al rapporto con Cristo. Nel caso dell’incestuoso Paolo appella alla Pasqua, che i Corinzi avevano celebrato in quei giorni: «Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato» (1 Cor 5,7); nel caso della prostituzione appella all’unione con Cristo: «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai! … Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo?» (1 Cor 6,15.19). E’ in ballo la dottrina della Chiesa come corpo di Cristo, di cui Paolo parla ampiamente in 1 Cor 12,12-27 per concludere: «Voi siete corpo di Cristo e …  sue membra» (v. 27), ma anche in Rom 12,4-7: «… noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo» (v. 5); «Voi … avete imparato da Dio, ad amarvi gli uni gli altri» (1Ts 4,9).

Paolo nelle lettere non affronta problemi di etica familiare; nella 1 Cor cap. 7, dietro richiesta degli stessi Corinzi, affronta il problema del valore e dell’unità’ del matrimonio. Per l’indissolubilità Paolo riferisce quel che ha stabilito Gesù. Scrive: «Agli sposati ordino, non io, ma il Signore: “la moglie non si separi dal marito – e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili col marito – e il marito non ripudi la moglie’’ (vv. 10-11).

Nelle lettere deuteropaoline, e siamo alla seconda-terza generazione cristiana, i discepoli di Paolo sentono il bisogno di parlare dei comportamenti nella vita cristiana e particolarmente nella famiglia. Per il nostro tema il brano più sviluppato è quello di Ef 5, 21-33. Il testo è molto ampio ed è collegato al v. 18 in cui esorta: «Siate ricolmi dello Spirito» (plerousthe en pneymati) e seguono diversi participi che esplicitano l’operare nello Spirito: «Intrattenendovi fra voi con salmi, inni, canti ispirati cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio” (vv. 19-20) e poi «Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri » (v. 21 ypotassomenoi allelois en foboCristoy). Questa sottomissione vicendevole riguarda tutti i cristiani, ma nel brano viene esplicitata relativamente alle mogli e ai mariti.

Cosa significa «nel timore di Cristo»? Il timore nel linguaggio biblico non indica un senso di paura, ma un rapporto in cui si riconosce la distanza e la vicinanza: Dio è immensamente lontano, è il santo, l’unico, il trascendente, ma è colui che sta assolutamente vicino per aiutarmi, sostenermi, amarmi; il timor di Dio, e egualmente il timor di Cristo, indica un amore che mi sostiene e un rapporto imprescindibile di cui debbo render conto. Gli sposi, marito e moglie, debbono esser sottomessi l’uno all’altro, tra loro, vicendevolmente, entrambi facendo riferimento a Cristo, che è il modello della sottomissione al Padre da cui scaturiscono la gloria e la salvezza. È importante sottolineare che la sottomissione cristiana non è un’umiliazione, ma rispetto e amore vicendevole sull’esempio di Cristo.

Dobbiamo ricordare che l’autore della lettera (in seguito per brevità diremo Paolo) ha dinanzi da una parte la tipologia sponsale dell’AT e la sua realizzazione piena in Cristo, che s’è acquistato la Chiesa con la croce e la risurrezione, dall’altra la coppia cristiana che si sposa nel contesto della società greco-romana in cui solo l’uomo ha una vera autonomia e un vero potere, mentre la donna è sottomessa al marito. Proprio per questo il versetto: «Come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto» (v.24), oggi fa problema specialmente nella lettura liturgica e nella celebrazione del matrimonio.

Per la donna Paolo parla sì di una sottomissione al marito, ma (os to Chirìo) “come al Signore”. Cosa vuol insegnare Paolo? Il riferimento di Paolo al Signore è esplicitato subito dopo: «E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa ed ha dato se stesso per lei» (v. 25). Il Cristo è «capo del corpo, della Chiesa» (Col 1, 18) «Egli vi ha riconciliati nel corpo della sua carne» (vv. 22-24): Dio «l’ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la quale è il suo corpo». La Chiesa riconosce Cristo suo unico Signore ed è a lui sottomessa, ma nelle) steso tempo forma con lui un solo corpo e quindi più che di una sottomissione si tratta di una operatività che parte da lui che è il principio, cioè la testa, come nel corpo’ i diversi organi, tutti operano in rapporto alla testa. Certamente questo è vero della Chiesa, ma, in rapporto a Cristo, uomo e donna, moglie e marito, in realtà sono sullo stesso piano (anche se non sociologicamente). Certamente l’autore della lettera non vuol avallare con il simbolismo Cristo, capo della Chiesa, la situazione delle donne-sposate come inferiori, sottomesse agli uomini. Paolo non vuol rivoluzionare l’ordinamento sociale della famiglia, ma prendendo spunto dall’assetto della società, come del resto fa in rapporto alla schiavitù nella lettera a Filemone, mette la premessa per trasformarla dal di dentro indicando, subito dopo, quali sono i doveri dei mariti verso le mogli partendo dal modo di agire di Cristo.

L’amore di Cristo è pieno, assoluto, disinteressato, oblativo; nel brano Paolo usa sempre il termine greco agapào= amare, che indica nel vocabolario cristiano l’amore di donazione gratuita. Egli ha dato se stesso per acquistare la Chiesa sua sposa («con il sangue prezioso di Cristo senza difetto e senza macchia» 1Pt 1,19) e per mezzo della parola, cioè della fede, e del battesimo la rende pura, immacolata. L’amore con cui Cristo ha acquistato la Chiesa riguarda entrambi gli sposi, l’uomo e la donna, ma per rapporto alle due kefalè (testa, capo), Cristo e il marito, tutti e due “capo”, l’amore di Cristo fa riferimento più specificamente al marito, che è sociologicamente capo della moglie, che quindi con lo stesso amore di Cristo deve amare sua moglie, che forma con lui una sola carne, come la Chiesa con il suo sposo, Cristo, forma un solo corpo.

L’analogia inoltre s’allarga, partendo dal corpo unico, (Cristo-Chiesa e marito- moglie) mettendo in evidenza che amare la moglie è amare se stesso e prendersi cura della moglie è prendersi cura del proprio corpo, come del resto Cristo ha cura e nutre il suo corpo, che è la Chiesa. Questa realtà corrisponde al progetto iniziale di Dio sulla coppia perché Dio ha predisposto che, uomo e donna, lasciando i propri genitori, e unendosi formassero una sola carne, indicando così che i legami genitori- figli non sono perenni, ma temporanei, mente il legame marito-moglie è un legame stabile e definitivo perché i due formano una sola carne, come Cristo e la Chiesa.

Questo legame, questa unità, marito-moglie, Paolo la chiama mystèrion e mistero grande in rapporto all’altro mystèrion Cristo-Chiesa (“lo dico in rife-rimento a Cristo e alla Chiesa”). Che senso dare al termine mystèrion?) termine in questa lettera ricorre più volte, particolarmente nei primi tre capitoli, dove il senso è quello di “disegno salvifico” di Dio, realizzato in Cristo (Ef 1,9-10; 3,6), che riunisce in lui tutte le genti per formare di Giudei ed etnici un solo corpo. Questo piano-mistero, prima nascosto e sconosciuto, ora annunciato dagli apostoli, da Paolo, che n’è diventato ministro, è stato rivelato con la croce di Cristo per mezzo della quale è caduto il muro di divisione non solo tra gli ebrei e le genti, ma fra tutti i popoli (Ef 2,14.18). E un disegno d’unità per tutto il genere umano, che Gesù ha realizzato nell’amore verso il Padre e verso di noi, il disegno o sacramento primo ed ultimo, primo perché è all’inizio del progetto del Padre, ultimo perché è in atto e si compirà definitivamente nell’escatologia. Paolo ci dice che l’unità della coppia, marito- moglie, che formano una carne sola per la stessa realtà coniugale e ancor più perché sono uniti entrambi nell’amore e con l’amore redentivo di Cristo, donato attraverso il battesimo, sono un “segno-sacramento” (come gli altri segni-sacramenti), nel cammino verso l’unità completa dell’umanità con Cristo, verso il compimento del regno che Cristo alla fine dei tempi consegnerà al Padre, perché Dio sia tutto in tutti (1Cor 15,28). Il matrimonio ha come fondamento la parola, il battesimo e l’eucaristia perché è così che Cristo unisce a sé la Chiesa con la parola, il battesimo e l’eucaristia; il matrimonio infatti si fonda sulla fede, si nutre per crescere della linfa del battesimo e del pane dell’eucaristia. Con questo testo sulla vita coniugale Paolo ha riletto l’unità della vita della coppia e ha rilevato nel matrimonio quel principio che lo rende “segno-sacramento” del progetto di comunione di Dio con l’umanità (LG 1).

 

NOTE

.1.  Dice Elkana alla moglie Anna, sterile, che piange perché offesa dalla concorrente Peninna: «Non sono forse io per te meglio di dieci figli?» (1 Sam 1,8).

.2.  Breve bibliografia. Fonti: per la legislazione ebraica al tempo di Gesù riferimento fondamentale è la Mishnah, raccolta delle sentenze dei Rabbini-Maestri d’Israele trasmesse nelle scuole: Mishnaiot, traduzione italiana e note illustrative di Vittorio Castiglioni, Tipografia Sabbadini, Roma 1972, 5722; J. BONSIRVEN, Textes rabbiniques des deux premierrs siècles chrétiens pour servir à l’intelligence du Nouveau Testament, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1955. Per la vita e la storia del tempo: GIUSEPPE FLAVIO, La Guerra Giudaica, (a cura di G. Vitucci), Mondadori, 1982; IDEM, Antichità Giudaiche (a cura di L. Moraldi), UTET, Torino 1998. Studi: J. JEREMIAS, Gerusalemme al tempo di Gesù, Dehoniana, Roma 1989; M. ADINOLFI, La donna e il matrimonio nel giudaismo ai tempi di Cristo, in RBI 1972 n. 4, 369-390; A. TOSATO, Il matrimonio nel giudaismo antico e nel Nuovo Testamento, Città Nuova, Roma 1976; G. CERETI, Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, EDB, Bologna 1998.

.3. Il libro di Tobia è una bella novella a sfondo didattico. Il libretto viene datato da alcuni al IV sec. nel periodo persiano, altri lo pongono nel III sec. nel periodo ellenistico.

.4. De opificio mundi, 165.

.5. Contro. Apionem 2, 24.

.6. MISHNAIOT, Aboth, 2, 7.

.7. BONSIRVEN, n 493 (Berakot T 7, 18).

.8. MlSHNAIOT, Sota 4, 13.

.9. Guerra Giudaica, 124, 2.

.10. M. ADINOLFI, 384 nota 72.

.11..  M. ADINOLFI, 384.

.12.  Rom 16.

.13. A volte era già promessa sposa molto prima, anche a 5-6 anni.

.14. Ma più tardi in alcuni casi fu riconosciuto il diritto di divorziare anche alla moglie, cfr. M. ADINOLFI, 388.

.15. M. ADINOLFI, 386.

.16. MlSHNAIOT, Ketubot, 7, 6; BONSIRVEN, nn. 1313, 1489 etc.

.17. M. ADINOLFI, 388.

.18. Breve bibliografia. Per i Vangeli: in CTNT: J. GNILKA, Matteo; R. PESCH, Marco; S. GRASSO, Vangelo di Marco, Paoline, Milano 2003; S. LEGASSE, Marco, Borla 2000; R. FAJBRIS, Matteo, Borla, Roma 2012; U. Luz, Matteo I, Commentari Paideia, Brescia 2006. Per le lettere di Paolo: CTNT: H. SCHLIER, La lettera agli Efesini; R. PENNA, Lettera agli Efesini, EDB, Bologna 1988; R. FABRIS, Lettera agli Efesini, in: “Le lettere di Paolo”, vol. 3°, Borla, Roma 1980; E. BEST, Efesini, Commentario Paideia, Brescia 2001; S. ROMANELLO, Lettera agli Efesini, Paoline, Milano 2003; F. BARGELLINI, Lettera agli Efesini, in: “Lettere di Paolo”, (a cura di B. MAGGIONI e F. MANZI), Cittadella, Assisi 2005.

.19. Halakico è un pronunciamento interpretativo e normativo di una legge.

.20. Discussione di lunga data. Classica in questo senso la soluzione di BONSIRVEN, Le divorce dans le Nouveau Testament, Tournai 1948, ampiamente discussa insieme ad altre proposte, in TOSATO (40-47), CERETI (88-104).

.21. “Digiuno (nesteìo) in GLNT, nei Dizionari Biblici (Boria, Piemme, Marietti, Zanichelli etc.), in: TRE XI 43-59.

.22. R. FABRIS, Commento al Vangelo dì Marco, in: G. Barbaglio, R. Fabris, B. Maggioni, I Vangeli (10), Cittadella, Assisi 2004.

.23. La parabola del banchetto è presente anche in Lc 14,16-24, ma in altro contesto, che sembra più originario di quello di Matteo. In Lc la parabola mette in evidenza le motivazioni pretestuose che gl’invitati avanzano per non accettare l’invito al banchetto del regno; in Mt la parabola invece prende un significato chiaramente cristologico in un contesto postpasquale.

 

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MIOLA GABRIELE BBLISTA SPIEGA LA PREDICAZIONE DI GIOVANNI BATTISTA. FERMO ISTITUTO TEOLOGICO

LA PREDICAZIONE DI GIOVANNI BATTISTA

GABRIELE MIOLA

Le citazioni bibliche sono prese dall’edizionE CEI 2008. Le NOTE alla fine.

Nell’affrontare questo tema toccheremo due punti: anzitutto il rapporto tra Giovanni e Gesù, poi i tratti della predicazione di Giovanni, come ci è trasmessa nei pochi testi dei vangeli.

  1. Giovanni e Gesù

Ad una prima domanda su quali siano stati i rapporti tra Giovanni e Gesù viene subito in mente la risposta che Giovanni è stato inviato da Dio a preparare la venuta di Gesù. Dice Giovanni di se stesso: “Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non son degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma Egli vi battezzerà in Spirito Santo” (Mc 1 ,7s; cfr. paralleli Mt 3,11; Le 3,16; Gv 1,26). Giovanni è consapevole quindi della sua missione di esser stato mandato a preparare la venuta di Gesù; non solo, ma nel dialogo tra Giovanni e Gesù, riportato al momento del battesimo, appare chiaramente che Giovanni riconosce Gesù e gli dice: “Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?” (Mt 3,14). L’evangelista Giovanni ci dice che il Battista non solo riconosce Gesù, ma lo indica ai suoi come “l’agnello di Dio” (Gv 1,36), e ancora che il Battista fa una professione di fede in Gesù in forza della rivelazione fattagli da Dio, che gli ha detto: “ colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito è lui che battezza nello Spirito Santo” e quindi confessa che “questi è il Figlio di Dio” (Gv l,33s).

Dinanzi a questi testi stanno però passi dei vangeli che sembrano contraddire questa conoscenza esplicita e chiara che Giovanni avrebbe avuto di Gesù. Quando Giovanni fu fatto arrestare da Erode Antipa, Giovanni stesso, saputo della predicazione di Gesù e della sua attività, dal carcere “mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli:” Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,2s; cfr. Lc 7,18-20). Questa domanda che Giovanni fa porre a Gesù dai propri discepoli fa sorgere un interrogativo: Giovanni sapeva veramente chi era Gesù? Se lo sapeva, come sembrano attestare i vangeli, perché non esplicita dinanzi ai discepoli questa sua convinzione? Nell’omiletica capita spesso di sentire questa spiegazione: Giovanni sapeva bene chi fosse Gesù, ma mandò alcuni dei suoi discepoli a porre quella domanda perché essi personalmente si rendessero conto di quanto Giovanni aveva detto su Gesù e lo conoscessero direttamente.

Anche nell’esegesi, diversi commentatori danno per storica questa missione che Giovanni dal carcere invia a Gesù, e pensano che Giovanni abbia potuto porre una tale domanda a Gesù perché, conosciuto quale approccio Gesù ha con la gente, sia nella predicazione che nelle opere che compiva, sorpreso di un atteggiamento tanto diverso dal suo, sarebbe rimasto, colto da un dubbio lancinante, come perplesso e stordito, e allora avrebbe mandato questa ambasceria per sincerarsi sulla attività di Gesù (nota1). Non si può negare tuttavia che tra le due prospettive, tra la conoscenza che si attesta Giovanni avesse di Gesù e gli interrogativi invece posti a Gesù attraverso i suoi discepoli, non ci sia una contraddizione e le spiegazioni non convincono, tanto più che negli Atti degli Apostoli troviamo due volte la notizia che “il battesimo di Giovanni”, a trenta anni circa dalla morte del Battista, era conosciuto e amministrato (At 18,24-25; 19,1-7). Ciò significa che i discepoli di Giovanni, dopo la morte del loro maestro continuarono a predicare e a fare il rito del battesimo nel nome di Giovanni, il che non si spiegherebbe se Giovanni avesse conosciuto esattamente chi era Gesù e il battesimo “in Spirito Santo” (Mc 1,8) portato da Gesù di Nazareth. A tal proposito R. Pesch nel suo commentario agli Atti degli Apostoli scrive che questa notizia di Luca: “è una testimonianza storica importante del movimento dei discepoli di Giovanni il Battezzatore, un movimento che si trovò in concorrenza con la Chiesa nascente (n2).

Partendo da questa situazione di “concorrenza” tra le comunità cristiane e quelle giovannite, possiamo dire che la Chiesa delle origini si è trovata nella necessità di precisare a se stessa e agli esterni chi era Giovanni e quindi di chiarire i rapporti tra Giovanni e Gesù. La chiesa nascente sapeva bene che Giovanni aveva battezzato Gesù e quindi doveva mostrare che senso aveva avuto il battesimo chiesto da Gesù a Giovanni per il quale Gesù poteva apparire inferiore al Battista. Ci proponiamo quindi ora di rispondere a questi due interrogativi: che cosa sappiamo storicamente su Giovanni-Battista? come la comunità cristiana ha rimeditato la figura di Giovanni e come l’ha presentata nei suoi scritti.

.1.1. La figura storica di Giovanni

Le fonti storiche dirette su Giovanni sono solo due: i vangeli (e più in generale gli scritti del NT) e Giuseppe Flavio. Tra le fonti storiche indirette, in quanto non parlano di Giovanni Battista, possiamo invece richiamare particolarmente i testi di Qumran perché sono contemporanei a Giovanni e vi si descrivono riti battesimali.

.1.1.1. Giovanni nella testimonianza di Giuseppe Flavio.

Abbiamo già accennato ai problemi che pongono i vangeli per la figura di Giovanni, ora vediamo cosa ci tramanda Giuseppe Flavio (n3) che parla di Giovanni Battista nella sua opera ‘Le antichità giudaiche’ raccontando la guerra tra Erode Antipa e Areta, re di Petra, di cui Erode aveva sposato la figlia e che ripudiò per sposare Erodiade, moglie di suo fratello Filippo. Areta, informato dalla figlia, fece guerra ad Erode e lo sconfisse. Nel richiamare il motivo della sconfitta Giuseppe Flavio scrive:

“Ma ad alcuni Giudei parve che la rovina dell’esercito di Erode fosse una vendetta divina, e di certo una vendetta giusta per la maniera con cui si era comportato verso Giovani soprannominato Battista.  Erode infatti aveva ucciso quest’uomo buono che esortava i Giudei ad una vita corretta, alla pratica della giustizia reciproca, alla pietà verso Dio, e così facendo si disponessero al battesimo; a suo modo di vedere questo rappresentava un preliminare necessario se il battesimo, doveva rendere gradito a Dio. Essi non dovevano servirsene per guadagnare il perdono di qualsiasi peccato commesso, ma come di una consacrazione del corpo insinuando che l’anima fosse già purificata da una condotta corretta. Quando altri si affollavano intorno a lui perché con i suoi sermoni erano giunti al più alto grado, Erode si allarmò. Una eloquenza che sugli uomini aveva effetti così grandi, poteva portare a qualche forma di sedizione, poiché pareva che volessero essere guidati da Giovanni in qualunque cosa facessero. Erode, perciò, decise che sarebbe stato molto meglio colpire in anticipo e liberarsi di lui prima che la sua attività portasse ad una sollevazione, piuttosto che aspettare uno sconvolgimento e trovarsi in una situazione così difficile da pentirsene. A motivo dei sospetti di Erode, Giovanni fu portato in catene nel Macheronte, la fortezza che abbiamo menzionato precedentemente, e quivi fu messo a morte. Ma il verdetto dei Giudei fu che la rovina dell’esercito di Erode fu una vendetta di Giovanni, nel senso che Dio giudicò bene infliggere un tale rovescio ad Erode ”(n4).

Stando a questa notizia di Giuseppe Flavio possiamo notare convergenze e differenze tra quanto ci dicono i vangeli e quanto scrive l’autore delle Antichità.

Le possiamo schematizzare come segue:

  1. a) Sia G. Flavio che i vangeli pongono l’attività del Battista al tempo di Erode Antipa.
  2. b) Flavio non precisa dove Giovanni svolse il suo ministero; i vangeli dicono nel deserto (Mc 1, 4) o nel deserto della Giudea (Mt 3,1), o nella regione del Giordano (Lc 3,3) o più precisamente a Betania al di là del Giordano (Gv 1,28) e ancora a Ennon, vicino a Salim (Gv 3,23) (n5).
  3. c) Nei vangeli Giovanni è l’inviato di Dio per predicare un battesimo di conversione (Mc 1,4), in vista del battesimo dato da Gesù; G. Flavio presenta Giovanni come un uomo buono, che esortava ad una vita corretta …, alla pietà verso Dio, e così facendo si disponessero al battesimo.
  4. d) Marco e Luca dicono che Giovanni amministra un battesimo di conversione per il perdono dei peccati (Mc 1,4; Lc 3,3); afferma G. Flavio, che era di formazione farisaica, dice che il perdono era ottenuto da una condotta corretta, mentre il rito del battesimo era per una consacrazione del corpo.
  5. e) Il motivo della incarcerazione? dell’esecuzione del Battista per ordine di Erode secondo G. Flavio è di carattere politico: Erode cioè aveva paura di Giovanni per la folla che lo ascoltava, disposta a fare qualunque cosa egli dicesse; temendo quindi una qualche sedizione della folla istigata da Giovanni, lo eliminò; i vangeli sinottici riferiscono che Erode uccise il Battista perché questi rimproverava apertamente il re per essersi presa la moglie del fratello Filippo. Marco (7,17-29) e Matteo (14,3-12) si diffondono a descrivere l’occasione che portò all’uccisione di Giovanni, Luca invece parla solo dell’incarcerazione (3,19). G. Flavio si ferma a parlare della guerra tra Areta ed Erode provocata dal fatto che Erode ripudiò la prima moglie, figlia di Areta, e racconta della sconfitta di Erode, come giusta punizione di. Dio per aver ucciso Giovanni, un uomo giusto; i vangeli si rifanno invece ad un racconto popolare che indugiava sulla passionalità di Erode e le circostanze macabre del ballo di Salome e della testa di Giovanni richiesta dalla ballerina e da sua madre e portata su di un piatto nel bel mezzo del banchetto. Entrambe le notizie fanno però riferimento al matrimonio scandaloso di Erode.
  6. f) Flavio non pone alcun collegamento tra Giovanni Battista e Gesù, di cui pure parla, ma in tutt’altro contesto(n6); i vangeli evidentemente sottolineano uno stretto legame tra Giovanni e Gesù.

.1.1.2.  Giovanni e la comunità dì Qumran.

Per delineare la figura storica di Giovanni è utile conoscere anche spiritualità e ritualità del suo tempo, come sono quelle attestate a Qumran. Chiedendoci se ci sia un rapporto tra Giovanni e Qumran, la domanda principale è se Giovanni abbia fatto parte del gruppo di dissidenti dal sacerdozio gerosolimitano ritiratisi a Qumran o se almeno li abbia conosciuti ed adottato mentalità e riti di costoro, come il battesimo.

Luca, concludendo il racconto della nascita e della fanciullezza di Giovanni, dice di lui: “Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele” (Lc 1,80). Questa notizia di Luca ha fatto pensare che Giovanni abbia fatto parte del gruppo dei Qumranici dal momento che Qumran si trova nel deserto di Giuda poco distante dalla riva nord-ovest del Mar Morto. E’ stato anche ipotizzato che Giovanni fosse stato adottato dalla comunità di Qumran, ipotesi basata sul fatto che Giovanni, stando ai racconti di Luca, è figlio di genitori anziani, e che la comunità soleva prendere tra i propri membri ragazzi rimasti soli per educarli secondo i suoi principi (n7).

E’ noto che nella comunità di Qumran i membri facessero frequenti riti lustrali e si è pensato che Giovanni avesse ripreso il rito del battesimo proprio dalla comunità degli Esseni. L’ipotesi è seducente, tanto più che tra il luogo del battesimo amministrato da Giovanni secondo i vangeli nel deserto di Giuda lungo il Giordano, e Qumran non c’è molta distanza. Però tra il battesimo di Giovanni e i riti abluzionali degli Esseni ci sono chiare e forti differenze: il battesimo di Giovanni è dato una sola volta, i riti dei Qumranici sono ripetitivi, anche nello stesso giorno; quello di Giovanni è un battesimo di conversione per il perdono dei peccati (Le 3,3) o per la consacrazione del corpo secondo G. Flavio, i riti abluzionali degli Esseni sono in vista di una purità legale (n8).

Un altro elemento di raffronto è l’uso del testo di Isaia 40,3-5 riferito a Giovanni e alla sua predicazione così come pure è detto della comunità di Qumran. Alcuni studiosi hanno notato la stessa simbologia del deserto come luogo della salvezza portata dal Signore. Del Battista Matteo dice: ’’Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaia quando disse: Voce di uno che grida nel deserto… (Mt 3,3) e nella Regola della comunità di Qumran si dice che i puri si separeranno dagli uomini di iniquità ’’per andare nel deserto e aprire la strada di lui. Come è scritto: nel deserto preparate la strada di**** fate un dritto sentiero nella steppa per il nostro Dio. Questo è lo studio della legge, che [Dio] ordinò per mezzo di Mosè, per operare secondo tutto ciò che è stato rivelato di età in età …” (n9). Il fatto che Giovanni predica nel deserto e la comunità di Qumran si ritira nel deserto potrebbe essere un indizio della provenienza di Giovanni dalla stessa comunità, ma mentre la Regola dice che la salvezza arriverà per i puri con lo studio della Legge di Mosè, Giovanni l’annuncia con la predicazione e il richiamo alla conversione per il regno di Dio.

Certamente questi elementi di vicinanza tra la figura di Giovanni Battista e la comunità degli Esseni di Qumran possono far pensare ad una appartenenza di Giovanni alla comunità qumranica. Ci sono somiglianze, ma che non possono dare certezze; si possono fare ipotesi di una certa plausibilità, ma non si può assolutamente parlare di una vera documentazione per i seguenti motivi:

  1. a) E’ vero che la comunità, come dice G. Flavio, adottava dei ragazzi, ma non sappiamo se questo sia stato il caso di Giovanni; e se è vero che la cosa può esser più plausibile, data l’età avanzata di Zaccaria ed Elisabetta, genitori di Giovanni, come racconta Luca, non possiamo però assolutamente dire che i racconti dell’infanzia di Giovanni e di Gesù siano storici o non piuttosto di tono midrashico, come diversi esegeti sostengono.
  2. b) Tra il battesimo di Giovanni e i riti abluzionali di Qumran c’è una certa analoia, ma sono molte di più le differenze: il battesimo di Giovanni, cioè lo scendere nell’acqua o immergersi o semplicemente bagnarsi è gesto unico, segno di conversione e di perdono, per chi accoglieva l’annuncio del regno di Dio, esso non era riservato ad una categoria di persone, ma dato a tutti; non aggregava ad un gruppo, ma voleva purificare il popolo d’Israele; a Qumran invece il rito è riservato agli adepti e per di più non a tutti i membri della comunità (n10).
  3. c) Si può notare anche una certa sintonia spirituale tra il contesto battesimale di Giovanni, così come ci è testimoniato dai vangeli (G. Flavio, come abbiamo visto, su questo non dice nulla), e la comunità di Qumran: il luogo nel deserto, l’acqua, il richiamo allo spirito di Dio, lo stesso riferimento al testo di Isaia 40,3 sono indici di un sentire comune. Ora noi conosciamo molto dei Qumranici, ormai quasi unanimamente identificati con gli Esseni, dai testi ritrovati della comunità e da quanto scrive G. Flavio(n11), su Giovanni conosciamo quel poco che abbiamo visto. Ebbene dal quadro che ne risulta sono due mondi lontani l’uno dall’altro: una comunità separata, fortemente ritualizzata quella di Qumran, per una prospettiva aperta, popolare quella a cui si rivolge il Battista. Supposto pure che Giovanni abbia fatto parte di quella comunità, nel distaccarsene ha avuto un soffio di spirito profetico che gli ha permesso di guardare con occhio nuovo.

1.2.  Giovanni Battista nei vangeli.

Abbiamo visto la figura di Giovanni attraverso le notizie che di lui ci ha trasmesso G. Flavio, abbiamo anche cercato di porla nel contesto storico del tempo relazionandola alla comunità di Qumran, ora passiamo a vedere come la figura di Giovanni è stata recepita nei vangeli. Nel fare questo breve esame dobbiamo tener presente, come è stato sopra accennato, due cose:

  1. a) La comunità cristiana fin dall’inizio si è trovata davanti un’altra comunità che si rifaceva a Giovanni, una comunità che amministrava anch’essa un battesimo e rivendicava Giovanni non solo come fondatore, ma anche come un “profeta” e il profeta definivo, escatologico, che, si può supporre, si sentiva superiore alla nuova comunità di Gesù in quanto Gesù stesso era stato da Giovanni per il battesimo. La comunità cristiana ha trovato una certa concorrenza nelle comunità giovannite, ma forte della fede che aveva maturato dopo l’esperienza di Gesù risorto, che ormai riconosceva e confessava come il Cristo e il Signore (At 2,36), come il Salvatore nel cui nome solamente si può trovare la salvezza (At 4,12), ha riletto la figura di Giovanni, in qualche modo se l’è appropriata, l’ha fatta propria e ha visto in lui il segno di Dio, l’uomo ripieno dello Spirito Santo, che ha operato con lo spirito di Elia per preparare al Signore un popolo ben disposto (Lc 1,15-17), mandato a preparare la venuta e la missione del Cristo Signore. La comunità cristiana rinvigorita dallo Spirito del Cristo risorto diventa consapevole anche della differenza del battesimo dato da Giovanni e di quello che essa amministra nei nome di Gesù: quello è un “battesimo di conversione nell’acqua per il perdono dei peccati” (Mc 1,4), questo di Gesù è un “battesimo nello Spirito Santo” (Mc 1,8) perché Gesù è colui sul quale Giovanni, il battezzatore, ha visto “scendere e rimanere lo Spirito” e quindi “è colui che battezza in Spirito Santo” (Gv 1,33).
  2. b) Come è ben noto, i Vangeli non sono una biografia o una cronistoria della vita di Gesù, ma sono appunto “vangeli”, cioè “buona, bella notizia” della salvezza, che Dio ha mandato all’uomo per mezzo di Gesù. Essi sono stati scritti, come raccolta del materiale che si era formato nelle prime comunità per mezzo dell’insegnamento degli apostoli, nella rilettura delle Scritture, cioè dell’Antico Testamento, per comprendere la persona di Gesù e particolarmente lo scandalo della croce (cfr. Lc 24.25-27.44-46; At 2,42), sono quindi testimonianze della fede (n12). I vangeli, in un a prospettiva propria a ciascuno dei quattro evangelisti, ci hanno trasmesso questa fede. Ciò non significa che non ci diano notizie storiche, ma certamente una storia lievitata dalla ricomprensione di essa alla luce del mistero di Gesù di Nazareth. Per quel che ci riguarda i Vangeli ci testimoniano la figura di Giovanni, uomo di Dio, predicatore del regno, che ha battezzato Gesù al Giordano, ucciso da Erode, personaggio che la comunità cristiana ha riletto in rapporto a Gesù, che è il Cristo e il Signore.

.1. 2. 2.  Giovanni Battista nei sinottici e nel vangelo di Giovanni

Nei vangeli sinottici la figura di Giovanni occupa un posto di rilievo: Luca in parallelo con Gesù ne racconta l’annunzio e la nascita (Lc 1,5-25. 57-80); anzitutto appare come il predicatore e colui che battezza Gesù (Mc 1,1-11; Mt 3,1-17; Lc 1- 22); si parla di lui poi nell’ambasceria che Giovanni manda a Gesù e nell’elogio che Gesù fa di Giovanni (Mt 11,2-15; Lc 7,18-30) (nota13) ; nel racconto degli interrogativi che Erode si pone su Gesù e nel collegato episodio dell’esecuzione di Giovanni Battista voluta da Erode (Mc 6,14-29; Mt 14,1 -12) (nota14); ma è ricordato anche nella questione del digiuno (Mc 2,18; Mt 9,14; Lc 5,33), della preghiera (Lc 11,1) (nota15) ; nel giudizio di Gesù sulla sua generazione, che non ha accettato né Giovanni, che era un asceta, né accetta Gesù che condivide la tavola con i peccatori (Mt 11,18s Lc 7,33s); è messo al primo posto, nella risposta degli apostoli a Gesù quando questi domanda loro che cosa pensasse la gente sul suo conto (Mc 8,28 e paralleli); nella domanda sul ritorno di Elia (Mt 17,10-13; Mc 9,11-13) (nota16) ; negli scontri polemici a Gerusalemme, quello con i sommi sacerdoti, gli scribi e gli anziani sull’autorità di Gesù (Mc 11,27-33; Mt 21,23-27; Lc 20,1-8) e sull’accettazione del battesimo di Giovanni (Mt 21,32 ) (nota17).

Nel vangelo di Giovanni il Battista è posto in una posizione, che è più chiaramente in controluce in rapporto a Gesù, se ne fa una lettura più teologica: nel prologo del quarto vangelo due volte si contrappone Gesù a Giovanni (cfr. 1,6-8. 15); il quarto vangelo non parla direttamente del battesimo di Gesù, ma della testimonianza che il Battista rende a Gesù: di sé Giovanni dice che non è né il Cristo, né Elia, né il profeta (1,19-21), indica invece Gesù come “l’agnello di Dio”, che toglie il peccato del mondo” (1,29), che certamente è una confessione post-pasquale; testimonia che al momento del battesimo ha visto scendere e rimanere lo Spirito su Gesù per cui può indicare Gesù non solo come colui che battezza in Spirito Santo, ma come il Figlio di Dio (l,33s). Solo il quarto vangelo ci dice che anche Gesù battezzava, come il Battista (3,23), anzi più del Battista (4,1) (nota18), ma il Battista dovrà riconoscere davanti ai propri discepoli che solo Gesù è lo sposo, mentre lui è l’amico dello sposo (3,27-30) (nota19). La figura di Giovanni viene inoltre richiamata da Gesù in polemica con i Giudei, che non hanno accettato la testimonianza di Giovanni su di lui (5,21-27) (nota20).

Negli Atti degli Apostoli Giovanni è ricordato come rinviato di Dio a preparare la venuta di Gesù con la chiamata al battesimo di penitenza: lo ricorda Gesù agli undici richiamando quanto aveva detto loro già durante la vita pubblica “Giovanni ha battezzato con acqua, voi sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni” (At 1, 5); lo ricorda Pietro quando propone di rimpiazzare Giuda Iscariota con uno che sia stato testimone della vita di Gesù a partire “dal battesimo di Giovanni” (At 1, 22): ancora lo ricordano Pietro nel discorso a Cornelio (At 10,37) e Paolo nel discorso alla sinagoga di Antiochia di Pisidia (At 13,24s), ove, in entrambi i testi è richiamata la missione e il battesimo di Giovanni come preparatori alla missione e ai battesimo di Gesù; è ricordato a proposito del “battesimo di Giovanni”, conosciuto da Apollo (At 18,25) e che avevano ricevuto alcuni discepoli (At 19,1-7).

Conclusione

  1. a) La figura storica di Giovanni Battista certamente è stata reinterpretata dalle comunità cristiane delle origini e I vangeli ne sono la testimonianza. Quella di Giovanni è una figura profetica che in un tempo di aspettative messianiche ed apocalittiche ha richiamato Israele con la predicazione e il rito del battesimo ad una vita corretta, alla pratica detta giustizia reciproca, alla pietà verso Dio (G. Flavio). Gesù stesso ha letto la predicazione di Giovanni e il battesimo come un evento provvidenziale, è andato da Giovanni e si è sottoposto al battesimo.
  2. b) Matteo e Marco pongono la predicazione del Battista e quella di Gesù in continuità. L’annuncio dì Giovanni suona: “Convertitevi, perché il regno di Dio è vicino” (Mt 3,2) e Gesù riprende le stesse parole all’inizio della sua predicazione: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 4,17) e Marco precisa: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). La novità è il compimento e il credere al vangelo, che è la buona notizia che il regno di Dio è vicino, anche se nel contesto cristiano evidentemente il compimento e il vangelo assumono un altro significato. Stando al quarto vangelo Gesù ha inizialmente svolto lo stesso ministero battesimale del Battista (Gv 3,22) facendo forse sperare a Giovanni che Gesù potesse essere un suo continuatore, con la forza dello Spirito e il fuoco di Elia.
  3. c) Matteo e Luca raccontano la missione che il Battista affida ai suoi discepoli per sapere chi è Gesù (Mt 11,2-6 e Le 7,18-23). Il brano è diviso i due parti: la risposta di Gesù ai messaggeri di Giovanni e l’elogio che Gesù fa del Battista. La prima parte serve a controbilanciare la seconda. La precisazione di chi è Gesù e la presentazione delle opere che compie servono a mettere nella giusta luce l’elogio di Giovanni. Già all’inizio i due evangelisti introducono il racconto con due titoli chiaramente post-pasquali: Mt dice che Giovanni ha saputo in carcere delle opere compiute dal Cristo e Lc dice che Giovanni mandò i discepoli a dire al Signore. I due termini evidentemente sono della comunità cristiana. La domanda posta è: “Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro?” Quel colui che viene è chiaramente titolo messianico, che viene esplicitato nelle opere tipiche dei tempi messianici: i ciechi acquistano la vista, gli zoppi camminano (Is 35,5s) (nota21), i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella (Is 61,1), opere che Gesù sta compiendo. Le infatti dice che Gesù in quell’ora stava facendo queste opere e immediatamente prima Lc aveva raccontato la risurrezione del figlio della vedova di Nain. Lo sviluppo del racconto sembrerebbe supporre che il problema non è di rispondere a Giovanni, ma di dare il giusto peso all’elogio che Gesù ha fatto di Giovanni: “Chi siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, e più che un profeta” (Lc 7,26). La comunità cristiana così precisa l’elogio che Gesù aveva fatto di Giovanni; premettendo all’elogio le opere del messia è come se facesse dire a Gesù stesso velatamente: qui c’è il messia, Giovanni è un profeta, anzi il mio profeta.
  4. d) I vangeli chiaramente mostrano che la comunità cristiana aveva interpretato la figura di Giovanni, sulla scia di due passi di Malachia, come colui che è stato inviato davanti a Gesù per preparargli la strada (Ml 3,1) e come l’Elia dei tempi ultimi (Ml 3,23). In Ml 3,1 a è Dio che annuncia: Ecco, io mando un mio messaggero a preparare la via davanti a me. La comunità cristiana riferirà questo versetto a Giovanni e il Battista diventa il messaggero di Gesù e quel davanti a me diventerà davanti a te, cioè davanti a Gesù, facendo intuire che Gesù è il Signore che viene sulla strada che Giovanni gli ha preparato. Ml 3,23-24 sull’invio del profeta Elia per il giorno grande e terribile del Signore sono versetti aggiunti a conclusione della raccolta dei dodici profeti minori (n22). Essi sono conosciuti anche dal Siracide (48,10) e questo fa capire che il ritorno di Elia per i tempi messianici era attesa cominciata da lungo tempo, almeno dall’inizio del secondo secolo. Le origini cristiane, e forse Gesù stesso, hanno identificato Giovanni, come messaggero, con Elia.

I vangeli lasciano trasparire il lavorio ermeneutico sulla figura di Giovanni: Marco, all’inizio del vangelo, unisce Ml 3,1 con Is 40,3 per presentare Giovanni e la sua predicazione. Marco e Matteo riferiscono che Gesù stesso ha identificato Giovanni con Elia, ma ha tolto la figura di Elia dall’attesa apocalittica e ha indirizzato i discepoli a leggere la morte di Giovanni per opera di Erode Antipa come prefigurazione della sua stessa morte: Ma io vi dico: Elia è già venuto … L’hanno trattato come hanno voluto. Così anche il Figlio dell’uomo dovrà soffrire per opera loro” (Mt 17,12 e Mc 9,12s ) (nota23). Luca lega Giovanni a quel centro del tempo in cui avviene la demarcazione tra Giovanni che appartiene all’AT e lo chiude e Gesù che inaugura il Nuovo e si pone al centro della storia e del tempo: nei racconti dell’infanzia Le mette in parallelo, cuffie in un dittico, l’annuncio e la nascita di Giovanni e di Gesù (nota24), ma per mettere in rilievo la superiorità di Gesù su Giovanni, che gli camminerà innanzi con lo spirito e la forza di Elia (1,17). Introducendo l’attività del Battista Le pone la figura di Giovanni solennemente al centro della storia di quel momento (3,1-2), ma dopo il battesimo di Gesù introduce la sua genealogia, che risale fino ad Adamo, figlio di Dio (3,23-38) per sottolineare che ora siamo al vertice di uri crinale che divide il vecchio dal nuovo (nota25). Il quarto vangelo, come già sopra notato, rilegge la figura di Giovanni in chiave teologica. Qui la figura del Battista è meno frequente, ma più netta, nella contrapposizione con Gesù, forse dovuto al fatto che quando l’evangelista scriveva si trovava dinanzi ancora le comunità giovannite, che rivendicavano la superiorità di Giovanni Battista. Nel quarto vangelo Giovanni è un uomo mandato solo a testimoniare il Cristo-Verbo di Dio (l,7s. l5), a testimoniare che lui non è lo sposo, ma uno inviato a preparare le sue nozze (3,27-30). L’evangelista mette tassativamente in bocca a Giovanni tre risposte negative: non sono il Cristo, non sono il profeta, non sono Elia, ma nello stesso tempo si autoriconosce come un inviato perché si proclama: voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore (Gv 1,19-23). Qui l’evangelista si discosta dalla tradizione sinottica negando che Giovanni sia Elia, ma d’altra parte recepisce la presentazione di Giovanni che lo accredita come la voce di un nuovo Isaia (n26).

.2. La predicazione di Giovanni

Chiarito il rapporto tra Giovanni e Gesù, dobbiamo concludere che Giovanni non ne è stato l’annunciatore, ma il precursore. Non l’annunciatore nel senso che Giovanni non conosceva Gesù né poteva individuare la vera identità di Gesù, il precursore nel senso che Giovanni ha preceduto Gesù sia nel dare il battesimo sia nel richiamare il popolo alla conversione per il regno di Dio. Certamente Giovanni ha battezzato Gesù, però se da una parte questo ci attesta incontestabilmente che Gesù ha ricevuto il battesimo da Giovanni, dall’altra non ci dice tanto la consapevolezza che Giovanni aveva di Gesù, piuttosto la consapevolezza che la Chiesa ha di chi è Gesù e di chi è Giovanni. Il racconto del battesimo di Gesù serve a precisare l’inizio della sua attività pubblica, ma esso è prima di tutto, particolarmente nei sinottici, “vangelo”, cioè bella notizia, una scena teofanica, che rivela chi è Gesù: è il servo-figlio del Padre, colui che è pieno dello Spirito per mezzo del quale egli inizia la sua opera di lotta contro il male (Lc 4,ls) e di annunzio della presenza del regno di Dio (Lc 4,14-19). Questa è la fede della Chiesa (n27).

Sulla predicazione di Giovanni abbiamo poche cose. G. Flavio dice che Giovanni esortava i Giudei “ad una vita corretta, alla pratica della giustizia reciproca, alla pietà verso Dio” (n28). Nei vangeli troviamo veramente poche notizie sulla predicazione di Giovanni al di là del grido: “Convertitevi perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2); solo Mt e Le riportano dei tratti della predicazione di Giovanni, attinti forse da Q dal momento che sono strettamente paralleli, eccetto alcune frasi esclusivamente lucane, intercalate fra i due passi paralleli. Vediamoli in sinossi.

 

 

 

 

 

Mt 3,7-10=   Vedendo però molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira imminente?  Fate dunque frutti degni di conversione, e non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre. Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco.

 

 

 

 

 

 

Lc 3,7-9

Alle folle che andavano a farsi battezzare da lui, Giovanni diceva: “Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque frutti degni della conversione e non cominciate a dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre! Perché io vi dico che da queste pietre Dio può far suscitare figli ad Abramo. Anzi, già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco”.

 

 

 

 

 

 

Lc 3,10-14

Le folle lo interrogavano: “Che cosa dobbiamo fare? Rispondeva loro: Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto”. Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare, e gli chiesero: “Maestro, che dobbiamo fare?” Ed egli disse loro: Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato. Lo interrogavano anche alcuni soldati: “E noi che dobbiamo fare?” Rispose: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, accontentatevi delle vostre paghe.

 

 

 

 

 

 

 

Mt 3,11-12 Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più potente di me e io non son degno neanche di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito santo e fuoco. Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile

 

 

 

 

 

 

Lc 3,15-17

Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro, se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: “Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, al quale io non son degno di slegare i lacci dei sandali: egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile.

 

 

 

 

 

 

La predicazione di Giovanni, partendo dal testo di Mt 3,2, ha come centro l’annuncio che il regno dei cieli (n29) è vicino e quindi invita ad accoglierlo con una profonda conversione, a riconoscere la signoria di Dio, la sua regalità sull’uomo e sul mondo e a vivere secondo le esigenze del regno,

Il mondo giudaico del tempo è fortemente lacerato e spasmodicamente teso ad un rinnovamento nell’attesa di “colui che deve venire”. Dopo la ribellione maccabaica, a partire cioè da metà del II secolo a. C., Israele aveva ritrovato una certa, autonomia ed identità politica, sebbene sotto l’ombrello delle grandi potenze di Siria prima e poi di Roma. L’autorità governativa era però fortemente scaduta, basti pensare alla dinastia asmonea e poi a quella erodiana: erano monarchi ormai segnati fortemente dalla cultura greca, regnanti più di stampo ellenista per tipo di vita e conduzione politica che veri pastori, come li aveva sognati Ezechiele, sul modello idealizzato di David (n30). Sono sovrani mondani, conducono una vita pagana, circondati da una classe corrotta ed avida di potere che teneva in mano l’amministrazione, le grandi proprietà terriere e il commercio. Un potere sostenuto con le armi e la violenza. Erano continui i soprusi dei soldati verso la gente e le vessazioni dei pubblicani, che appaltavano la riscossione, sempre maggiorata, duplicata e triplicata a proprio vantaggio, di tasse e balzelli con il sostegno e la connivenza del potere politico e militare (n31).

Il mondo sacerdotale è legato al culto nel tempio di Gerusalemme, unico luogo legittimo del culto ufficiale, che per una parte dà identità al popolo che partecipa ai riti e alle grandi feste tradizionali di Israele, ma per un’altra riduce la vita religiosa ad esteriorità. Il sommo sacerdote, che presiede il sinedrio (n32), è uomo ligio al potere perché è riconosciuto o addirittura scelto dal monarca o dalle potenze occupanti, la Siria prima e poi Roma. Questo mondo sacerdotale, nelle sue più alte espressioni è delegittimato da quando scoppia la crisi sadoqita (n33). Esercitava un potere che non tollerava novità e tanto meno atteggiamenti, che fossero, per un qualsiasi motivo, invisi alla classe sacerdotale e a Roma, repressivo, al pari dei monarchi, di ogni personaggio e movimento che potessero creare veri o presunti torbidi. Basta ricordare il modo di procedere di Erode Antipa verso Giovanni e di Hanan (Anna) e Kaifas (Caifa) nei riguardi di Gesù.

I farisei (n34) formavano un movimento trasversale di persone appartenenti ad ambienti e ceti differenti, che avevano a cuore l’identità di Israele. Questa identità si esprimeva a tutti i livelli: con la rivendicazione della libertà religiosa e politica, dell’indipendenza nazionale, con l’osservanza scrupolosa della legge, che avevano sminuzzato in centinaia di precetti e di osservanze quotidiane. I membri di questo movimento religioso, che appartenessero al sinedrio, agli scribi, cioè ai dotti che detenevano l’interpretazione della legge, alla classe agiata, erano i custodi della tradizione, vigilavano sul popolo perché osservasse la Torah e detenevano un potere religioso diffuso attraverso la conduzione delle sinagoghe dove ogni sabato si riuniva la gente. Contrari al potere straniero di Roma, tenevano desta un’avversione forte e costante nei confronti dei conniventi con il potere, come i pubblicani, e dei non osservanti della legge, i peccatori. Legati alla Torah, ma anche aperti ad approfondimenti, sotto la spinta di idee culturali nuove come quella greca dell’athanasia cioè dell’immortalità, erano giunti ad accogliere la fede nella risurrezione, nell’esistenza di esseri spirituali, degli angeli. Una presenza diffusa tra la gente, che da una parte li rispettava per la loro religiosità e dall’altra li temeva per il loro controllo pressante, li ha portati a forti contrasti con Gesù, soprattutto per il loro legalismo, che rendeva la pratica religiosa asfissiante, ipocrita ed oppressiva. Gesù aveva conoscenze ed amici tra i farisei (cfr. Gv 3,1; Lc 7,36 ecc.), ma, al pari dei sacerdoti e dei sinedriti, essi rifiutarono la predicazione di Giovanni e quella di Gesù (cfr. Mt 21, 25.32), ma forse per la condanna di Gesù si adoperarono di più i sadducei che non i farisei.

Sotto l’occhio di questi poteri si muovevano la gente semplice della campagna, i braccianti in cerca di qualche giornata di lavoro, gli artigiani umili delle cittadine e dei villaggi, i piccoli commercianti, tutta gente che a malapena riusciva a sopravvivere, sempre in attesa di una luce di liberazione e di salvezza.

In questo quadro sociale, religioso, politico, irto di difficoltà e carico di attese, è iniziata la predicazione e l’amministrazione del battesimo di Giovanni Battista verso l’anno 27-28. Certamente l’annuncio di Giovanni: “Convertitevi perché il regno di Dio è vicino” è carico di richiami morali (“convertitevi”) e di attesa piena di speranza (“il regno dei cieli è vicino”). Non fa meraviglia che folle si siano mosse per andare ad ascoltare Giovanni e a sottoporsi al rito penitenziale, segno di conversione, quale lo scendere nelle acque del Giordano, il battesimo.

Quella di Giovanni è una predicazione veramente in situazione. L’invito alla conversione è rivolto a tutti e alle diverse categorie di persone. Confrontando i testi di Matteo e di Luca sopra riportati si intravede una duplice tonalità, profetica ed apocalittica insieme.

Come i profeti, Giovanni indica chiaramente gli aspetti della vita che vanno cambiati: a tutti annuncia l’esigenza della fraternità e della solidarietà: “chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto”; ai pubblicani rammenta l’onestà nel loro lavoro di riscossione di tasse: “non esigete nulla di più di quanto è stato fissato”; ai soldati richiama che non si può abusare della forza per opprimere persone ed ingiustamente arricchire, perché essi hanno già la loro paga: “non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe”. Così nel testo lucano.

Matteo e Luca poi concordano nel riportare toni apocalittici della predicazione di Giovanni. L’ambiente carico di attese porta Giovanni ad annunciare a tutti, ma specialmente alle classi più alte, che il giudizio di Dio incombe e non si potrà sfuggire. E’ tipico dell’apocalittica questa predicazione (n35). Giovanni tuona: “Siete un covo di vipere, pieni di veleno, razza malvagia”. Giovanni svela la ipocrita pretesa dei suoi uditori, che pensano o dicono di sé: noi siamo figli di Abramo! E Giovanni ironizza: “Dio, che ha tratto l’uomo dalla terra, potrà trarre tanti figli di Abramo da queste pietre!” E’ una condanna dell’ipocrisia e anche dello stesso rito del battesimo se non è accompagnato da una vera conversione. Mt e Lc, dalla loro fonte comune, ci riportano altre due immagini del Battista per descrivere l’imminenza del giudizio di Dio: quella della scure ormai alle radici dell’albero e quella del ventilabro. L’albero che non porta frutto deve essere tagliato e Dio sta già con la scure in mano per abbatterlo; grano e pula sono mescolati e l’inviato di Dio sta col ventilabro in mano per raccogliere il grano e per bruciare la pula.

Nella predicazione di Giovanni c’è una forte tensione escatologica, sicuramente egli non si è identificato con “colui che deve venire”, ma ha espresso il senso profondo dell’attesa dell’inviato di Dio. E’ plausibile che di se stesso abbia detto: non sono il Messia, non sono Elia, non sono il profeta, e che lui si sia definito: Io sono una voce che grida nel deserto: Preparate la via del Signore (Gv 1,20-23). Giovanni è una coscienza forte, che ha rifiutato le diverse correnti del tempo: quella messianico-regale (il Messia), quella apocalittica (Elia), quella profetica e sacerdotale degli Esseni (n36) e si è presentato come la voce che grida nel deserto di Israele: Convertitevi, preparate la via al Signore perché il suo regno è vicino. Il popolo ha accolto il messaggio di Giovanni, i capi no (Mt 3,32) per questo Erode Antipa per motivi politici (G. Flavio) e personali (Sinottici) lo ha eliminato.

Gesù ha ripreso la linea di Giovanni, si è sentito in sintonia con il Battista, ma ha esaltato il regno di Dio come presente tra i poveri e i peccatori che egli accoglie annunciando la misericordia del Padre. Certamente Gesù ha annunciato anche il giudizio imminente di Dio, ma si presenta piuttosto come il vignaiolo, che invece di tagliare la pianta che non porta frutto, la custodisce e la zappa ancora per un anno per vedere se mai porti frutto Lc 13,6-9). Questo tratto della predicazione e della prassi di Gesù deve aver colpito Giovanni ed è plausibile che, già in carcere, gli abbia inviato un’ambasceria per chiedergli: “sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro? (Lc 7,19; in Mt 11,3 colui che deve venire). Mt e Le dicono che Gesù non dette una risposta diretta ed esplicita alla domanda posta dagli inviati di Giovanni, ma sottolineano che Gesù invita costoro a guardare le opere da lui compiute per capire la sua identità, i due evangelisti presentano poi Gesù che fa un grande elogio di Giovanni. Per Gesù Giovanni non solo è un uomo forte e schietto (non è una canna agitata dal vento), un uomo austero (non indossa morbide vesti), ma un profeta, anzi più che un profeta perché Giovanni è colui del quale sta scritto: Ecco io mando davanti a te il mio messaggero, egli preparerà la via davanti a te (n37).

Conclusione

Sulle caratteristiche della predicazione di Giovanni Battista si può dire solo qualcosa di generale o addirittura di generico per mancanza di documentazione diretta e possibilità di raffronti: da una parte essa è fortemente situata nel tempo e dall’altra se ne distacca. Ben situata nel tempo, stando a quel poco che ci dicono i vangeli, per una certa tonalità apocalittica, tipica del periodo intertestamentario, che noi conosciamo da tutta quella fioritura di scritti, di carattere per lo più apocalittico, che sono oggi indi¬cati sotto la sigla “apocrifi” (n38). La predicazione di Giovanni mostra accenti apocalittici nel richiamare l’imminenza del giudizio di Dio e nel grido: Razza di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira imminente? (Mt 3,7 e Le 3,7) e nell’ammonimento: Già la scure è posta alla radice degli alberi (Mt 3,10 e Le 3,9), ma è lontana dal lin¬guaggio stracarico di simboli che caratterizza la letteratura apocalittica; si rapporta piuttosto allo stile profetico attento a denunciare concretamente lo storture sociali e religiose richiamando i valori etici della legge (così in Le 3,10-14).

Distaccata anche dalla predicazione di quel tempo, perché non legalista come poteva essere la predicazione degli scribi e dei rabbini nelle scuole e nelle sinago¬ghe. Questi, almeno stando alla raccolta degli insegnamenti dei maestri, trasmessici nella Mishnah (n39), erano intenti a interpretare la Torah sminuzzandone i coman¬damenti in miriadi di precetti. Diversa anche da quella degli adepti di Qumran perché il capo della setta, chiamato il mastro di giustizia, teneva una predicazione esoterica, riservata ai membri della comunità, mentre Giovanni parla al popolo, a tutti coloro che andavano da lui lungo il Giordano.

La predicazione di Giovanni è di tipo profetico, ha due poli: Dio e la sua signoria da una parte e dall’altra l’uomo e la sua responsabilità. La figura profetica più vicina a Giovanni forse è quella di Geremia. Questi predica una profonda riforma religiosa: la conoscenza di Dio, il vero culto e la riforma morale della vita, ma Geremia fu scambiato per un agitatore e avversario politico, non fu creduto e fu rifiutato. Lo stesso per il Battista: predica il regno di Dio, l’imminenza del suo giudizio e la riforma della vita, ma viene eliminato perché la sua predicazione muove le folle e diventa perciò un soggetto pericoloso. Da un punto di vista di sviluppo storico è quello che è capitato anche a Gesù; è il giudizio che ne ha dato Caifa: è meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione inte¬ra (Gv 12,50). La storia della salvezza passa dentro la storia dell’uomo.

La predicazione di Giovanni ci lascia diversi insegnamenti per la predicazione di oggi: primo, il primato di Dio, la sua signoria e il suo giudizio, noi potremo dire: Gesù, il suo vangelo e la tensione escatologica come costituiva della prospettiva cristiana; secondo, il cristiano, le esigenze dei

vangelo e la storia concreta dell’uomo.

-.-.-NOTE

.1.  Cfr. J.A. FITZMYER, Luca teologo. Aspetti del suo insegnamento, Brescia 1991, cap. IV:

L’immagine lucana di Giovanni Batista come precursore del Signore, pp. 72-93, scrive: “Ora, avendo sentito parlare dell’attività di Gesù, in base alla quale egli non sembra presentarsi come il fiero riformatore atteso sullo stampo di Elia, Giovanni Battista esita e pone domande”: p. 81. Sulla stessa linea G. BARBAGLIO e R. FABRIS in I Vangeli, Assisi 1975, Barbaglio nel commento a Matteo (p. 271), Fabris nel commento a Luca (p. 1038); cfr. anche J. GNILKA, Il Vangelo di Matteo (CTNT III/1), Brescia 1986, pp. 590-602; H. SCEIUERMANN, Il Vangelo di Luca (CTNT III/l), Brescia 1983, pp. 652-665.\

.2.  R. PESCH, Atti degli Apostoli, Assisi, 1992, p. 723. Cfr. anche R. FABRIS, Atti degli Apostoli, Roma 1977, pp. 548-554. Sulla storia del movimento suscitato da Giovanni Battista cfr. E. LUPIERI, Giovanni Battista fra storia e leggenda, Brescia 1988.

.3. Per conoscere Giuseppe Flavio bisogna ricorrere alla sua autobiografia: Vita, annessa alla sua opera maggiore La guerra giudaica. Nella Vita dà solo alcune notizie principali, che sono riportate in ogni presentazione critica delle opere di Giuseppe Flavio, per questo rimando a La guerra giudaica a cura di Giovanni Vitucci, Fondazione L. Valla 1974, poi presso “Biblioteca” Mondadori 1982: Introduzione IX-XLVIII, e a Antichità giudaiche, a cura di L. Moraldi, Torino 1998: Introduzione pp. 7-33. Ampia presentazione critica della vita di Giuseppe Flavio in E. SCHUERER, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo, I, Brescia 1985, laddove parla delle fonti: Giuseppe pp. 76-99.

.4.  GIUSEPPE FLAVIO, Antichità giudaiche, XVIII,V,2, [116-119], II, p. 1125-26.

.5.  La localizzazione dei siti menzionati rimane molto incerta. Per una discissione cfr. R. SCHNACKENBURG, II Vangelo di Giovanni, Brescia 1973. T, pp. 393se619s.

.6.  Giuseppe Flavio parla di Gesù poco prima, sempre nelle Antichità Giudaiche (XVIII,III,3 [63-64], ma in un altro contesto. G. Flavio non fa minimo cenno ad un rapporto cronologico tra Gesù e Giovanni, il fatto che parli di Gesù prima di Giovanni non significa che l’attività di Giovanni si sia svolta dopo. Per una discussione critica sull’ autenticità della testimonianza di G. Flavio su Gesù, detta appunto Testimonium Flavianum, cfr. SCHUERER, Storia del popolo giudaico I, Excursus II, pp. 524-540 Uno studio approfondito sul rapporto Giovanni-Gesù e sul valore del testimonium flavianum è quello di E. NODET, Jésus et Jean Baptiste selon Josèphe in RB (1985), pp. 321-348 e 495-524; cfr. il breve e preciso studio di G. THEISSEN-A. MERZ, Il Gesù storico, Brescia 1999,

  1. 88-100.

.7.  G. FLAVIO, Guerra giudaica, 11,8 [120-121] p. 136. Cfr. sull’argomento C.R. KAZMIERSKI,  Giovanni, il Battista, Cinisello B. (MI) 1999 p. 27-32; J. ERNST, Johannes der Tauefer. Interpretation. Geschichte, Wirkungsgeschichte, Berlin 1989.

.8. Su questo tema cfr. il mio breve studio su Riti battesimali giudaici e battesimo cristiano, in AAVV, Il battesimo come fondamento dell’esistenza cristiana, Milano 1998, pp. 76-96. Nella Regola della Comunità si parla anche di un battesimo escatologico in cui acqua, fuoco, spirito santo da ogni azione empia. Si verserà su di lui, come acque lustrali, lo spirito di verità, [per purificarlo] da contaminazione dello spirito impuro” (IV,20-21): cfr. Testi di Qumram pubblicati da F- Garcoa Martìnez, ediz. italiana a c. di C. Martone, Brescia 1996, p. 79.

.9. Cfr. in Testi di Qumran, p. 87.I sinottici applicano questo testo a Giovanni secondo l’espressione   dei LXX: voce di uno che grida nel deserto, nel TM l’espressione è indeterminata e prospettando il ritorno dall’esilio di Babilonia chiaramente si riferisce alla strada da preparare “nel deserto”: Una voce grida: nel deserto preparate … (Is 40,3). Nel vangelo di Giovanni l’espressione è messa in bocca al Battista stesso: Io sono voce di uno che grida nel deserto (Gv 1,23). Cfr. J. A. Fitzmyer, Luca il teologo, cit. pp. 77-80.

.10.  Su questi aspetto cfr. G. MIOLA, Riti battesimali giudaici e battesimo cristiano, I riti lustrali di Qumran, p. 77-82, n. 1.

.11.  Degli Esseni G. Flavio parla in La guerra giudaica, II, 8, 2-13 [119-161], pp.135-141.

.12.  Sulla formazione del materiale evangelico cfr. J. GNILKA, I primi cristiani. Origini e inizio

 della Chiesa, (Suppl. CTNT n. 9), Brescia 2000, specialmente cap. V pp. 273-427; V. FUSCO, Le

 prime comunità cristiane, Bologna 2000.

. 13.  Me non riporta questo episodio.

.14.  Le .9,7-9 riporta le perplessità di Erode su Gesù, come Mc e Mt, ma non racconta l’esecuzione di Giovanni, parla solo della prigionia (3,19s).

.15.  Mt non fa questo riferimento a Giovanni Battista, anche perché pone l’insegnamento della preghiera del Padre in un altro contesto, quello della preghiera nel discorso del monte (Mt 6,7-15).

.16.  Mc riporta la domanda, ma non dice esplicitamente che i discepoli capirono che Gesù si riferiva a Giovanni, come lo dice Mt. Lc non riporta questa domanda che in Mc e Mt è fatta a Gesù dopo l’episodio della trasfigurazione.

.17.  Le riporta queste parole di Gesù nel contesto dell’elogio che Gesù fa di Giovanni (7,29-30).

. 18.  Il testo nota, come tra parentesi, che di fatto non era Gesù a battezzare, ma erano i suoi discepoli (v. 2): per breve commento a questo inciso cfr. R.E. BROWN, Giovanni, Commento al vangelo spirituale, Assisi 1979, pp. 216-217; SCHNACKENBURG, Il vangelo di Giovanni, Brescia  1973, p. 620-230; R. FABRIS, Giovanni, Roma 1992, p. 282.

.19.  Immagine dello sposo nei sinottici è presentata in rapporto ai commensali che non possono digiunare quando si è invitati ad un banchetto di nozze, dove lo sposo presente è Gesù, qui nel quarto vangelo con la stessa immagine si fa il confronto tra Gesù, lo sposo, e Giovanni, l’amico dello sposo.

.20.  Probabilmente questo brano è una rielaborazione giovannea sulla linea della “testimonianza’’ del brano sinottico circa il giudizio di Gesù sulla sua generazione, che rifiuta ogni tipo di appello, sia quello di Giovanni sia quello di Gesù, alla conversione (cfr. Mt 11,16-19 e paralleli).

. 21.  L’episodio manca nel vangelo di Marco; come è noto, gli studiosi attribuiscono il materiale evangelico comune a Matteo e a Luca ad una fonte, alla quale entrambi attingono, che chiamano Q (iniziale del termine tedesco Quelle, che significa appunto fonte). Per un’analisi della fonte Q su questo brano di Mt e Lc e sul titolo messianico colui che viene, in greco o erxomenos, cfr.  FITZMYER, Luca teologo, pp. 80-84.

.22.  Per la conclusione del libretto di Malachia cfr. G. BERNINI, Aggeo – Zaccaria – Malachia, (NVB 32), Roma 1974, pp. 355-360.

.23.  Tra i due testi di Mc e di Mt c’è una leggera differenza: Mc fa capire che rilegge la morte di Gesù alla luce delle Scritture: come sta scritto di lui, e sotto questa luce rilegge anche la morte di\ Giovanni; Mt parte dalla morte di Giovanni per capire quello che succederà a Gesù.

.24.  Sul genere letterario dei racconti dell’infanzia cfr. R.E. BROWN, La nascita del messia secondo Matteo e Luca, Assisi 1981.

.25.  Sulla teologia di Luca cfr. H. CONZELMANN, Il centro del tempo, Casale M. 1996.

. 26.  Su come i singoli evangelisti hanno trasmesso la recezione che la Chiesa ha fatto del Battista cfr.  lo studio significativo di LUPIERI, Giovanni Battista fra storia e leggenda, pp. 26-118 per i sinottici e 132-163 per il quarto vangelo.

.27.  Non si deve dimenticare che prima dei vangeli sono state scritte le lettere di Paolo, che avevano approfondito il senso del battesimo cristiano (cfr. Rom 6,3-11) e la comunità cristiana professa che su ogni battezzato Dio, il Padre, dice di nuovo quanto ha detto di Gesù: questi è mio figlio.

.28.  Cfr. testo riportato sopra 1.1.

.29.  Le espressioni regno dei cieli e regno di Dio si equivalgono: la prima risente di più dell’ambiente giudaico, che è più attento alla trascendenza di Dio e non ama nominarlo sostituendone il nome con cieli, potenza, maestà ecc. Sul senso della espressione regno di Dio cfr. lo studio ampio e sempre buono di R. SCHNACKENBURG, Gottes Herrschaft und Reich, Freiburg i.B. 1959.

.30.  Cfr. Ezechiele 34. Il profeta in esilio rifiuta i monarchi della stessa dinastia davidica come pastori avidi ed oppressori e annuncia che Dio stesso si farà pastore del suo popolo e che gli manderà un pastore secondo il suo cuore, come David. Un’attesa che sembrava vana, ma la cui speranza si era riaccesa in quel tempo di profonda corruzione.

.31.  Sulla situazione sociale, politica e religiosa del tempo di Gesù si sta sviluppando una ampia letteratura. Per una prima conoscenza rimandiamo a THEISSENAMERZ, Il Gesù storico, specialmente la parte seconda: La cornice della storia di Gesù, pp. 164-231, dove si può trovare un’appropriata bibliografia anche in italiano.

.32.  “Sinedrio” è parola di origine greca, composta dalla preposizione syn che significa con, insieme e dal termina edra che significa seggio; il termine, quindi equivale a consesso. Il sinedrio ha assorbito il ruolo degli “anziani”, al tempo di Giovanni e di Gesù aveva i poteri amministrativi, legislativi, giudiziali, che l’autorità romana non si fosse riservati.

. 33.  E’ la crisi che scoppiò all’interno delle famiglie che si reputavano discendenti dal sacerdote Sadoq, il sacerdote del tempo di Salomone (1 Re 1,32). Tra il 175-170 a. C. il sommo sacerdozio^ cominciò ad essere ottenuto presso i re di Siria, che occupavano Israele, dietro versamento di forti somme di denaro, così fecero Giasone e Menelao (cfr. 2 Mc 4,9.23s); poi passò alla famiglia dei Maccabei con Gionata, Simone. Fu allora che parte del sacerdozio gerosolimitano si divise e si ritirò nel deserto in attesa del ristabilimento del legittimo sacerdozio per intervento divino. Pare che questa sia l’origine della comunità di Qumran e del movimento degli Esseni, di cui parla con grande ammirazione G. Flavio nella sua opera La guerra giudaica (11,8,2-13). Per una informazione di base aggiornata sugli scritti di Qumran, gli Esseni e i possibili rapporti con il Battista cfr. J.G. VA.NDERKAM, The Dead Sea Scrolls Today, Eerdmans, 1994.

.34.  Il termine passato ormai nelle nostre lingue per sé significa distinto, separato. I Farisei sono distinti, separati da quanti non erano israeliti (cioè dai pagani) o israeliti, che non osservavano la legge.

. 35.  Apocalisse significa rivelazione. La letteratura apocalittica è fiorita nel periodo intertestamentario, tra l’A. e il N. Testamento, in un ampio arco di tempo che va dal IX secolo a. C. al II sec. d. C. E’ stata una letteratura prolifica, ma nelle Sacre Scritture sono entrati solo due testi: il libro di Daniele (anche se brani di tono apocalittico si ritrovano in Isaia 24-27, in Ezechiele 38-39, in Zaccaria 9-14 e altri) e l’Apocalisse di Giovanni (anche se il linguaggio apocalittico lo troviamo in bocca a Gesù nel discorso escatologico, in S. Paolo nella lettera ai Tessalonicesi e altro). Per uno sguardo sintetico all’apocalittica cfr. l’articolo di U. VANNI, L’apocalittica, in P. ROSSANO, G. RAVASI, A. GIRLANDA, Nuovo dizionario di Teologia Biblica, Cinisello B. 1988, pp. 98-106, con bibliografia.

.36.  Dagli scritti di Qumran risulta che la setta aspettava due tipi di messia: il messia profeta per la vera interpretazione della legge e il messia sacerdote, che avesse ristabilito il vero legittimo sacerdozio del tempio.

.37.  Come già notato, nella citazione sono cambiati i pronomi; il testo di Malachia (3, 1) dice: manderò il mio messaggero (mal’akì) a preparare la via davanti a me. E’ il Signore che annuncia il suo messaggero-precursore; in Mt e Lc il messaggero viene davanti a te, il Messia, cioè Gesù. E’ chiara la rilettura della comunità cristiana del testo di Ml 3,1. Ma anche l’applicazione di MI 3,23 Io invierò Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore a Giovanni Battista, non è il punto di vista di Gesù, ma piuttosto una rilettura della comunità perché Gesù non ha letto la figura di Giovanni come suo precursore o come figura apocalittica al modo degli scribi, che aspettavano il ritorno di Elia prima della venuta del Messia, ma come riferimento della fine che incombe su di lui, per opera delle autorità di Gerusalemme (Mc 11,13; Mt 17,10-13), come Giovanni prima era stato eliminato da Erode. Il brano che riporta l’ambasceria di Giovanni e l’elogio che Gesù fa del Battista, cui segue l’accusa che Gesù rivolge alla generazione presente (Mt vv. 16-19; Lv vv. 31-35) è complesso, proviene da Q, ma Mt e Lc lo hanno rielaborato secondo loro proprie prospettive: concordano nel sottolineare che il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di Giovanni Battista, ma mentre per Mt Giovanni è già nel regno, per Lc invece ne è fuori. Per un commento a questi lunghi brani cfr. GNILKA, Il vangelo di Matteo, pp. 590-620 e SCHUERMANN, Il vangelo di Luca, pp. 652- 684, Brescia 1983; J. SCHNIEWIND, Il vangelo di Matteo, Brescia 1977, pp. 245-261; K.H. RENGSTORF, Il vangelo di Luca, Brescia 1980, pp.169-176: R. FABRIS, Matteo, Roma 1982, pp. 253-259; S. GRASSO, Luca, Roma 1999, pp. 217-224.

  1. Per i testi apocrifi rimandiamo a P. SACCHI (a c.), Apocrifi dell’antico testamento, voli. I-II, Torino, 1989; per le diverse apocalissi a L. MORALDI (a c.), Apocrifi del Nuovo Testamento, voi. II, Torino, 1971. Sui problemi che pone l’apocalittica cfr. K. KOCH, Difficoltà dell’apocalittica, Brescia, 1977; per uno sguardo complessivo cfr. P. SACCHI, L’apocalittica giudaica e la sua storia, Brescia, 1990.

.39.  Mishnah plurale Mishnaiot significa “tradizione”, è un’opera, scritta in ebraico, formatasi nel II d.C., che raccoglie l’insegnamento che i maestri hanno trasmesso di generazione in generazione nelle loro scuole e nelle sinagoghe a partire dal III-II sec. prima della nostra era. Ne esiste una traduzione italiana di V. CASTIGLIONI, MISHNAIOT, 3 voll., Roma 1962.

 

 

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Breve biografia e curriculum all’anno 2008 del docente biblista Miola sac. Gabriele

Gli aventi diritti sono invitati a farlo presente e sa agirà di conseguenza, scrivendo a autore@luoghifermani.it  per queste due pagine del libro:  ” ‘Mistero’ e ‘misteri’: dall’esperienza religiosa all’esperienza cristiana. Le chiavi di un percorso. Scritti in onore dei Docenti emeriti Ferracuti, Grégoire, Illuminati, Marinelli, Miola, Testa e Valentini”, Cittadella, Assisi 2009.

Giuseppe GIUDICI, “ GABRIELE MIOLA: NOTA BIOGRAFICA E CURRICULUM “

Gabriele Miola nasce a Montegiberto (FM) il 19 Febbraio 1934. Il padre è falegname e la madre casalinga. La famiglia si sposta presto a Piane di Falerone, quando Gabriele ha circa tre anni. Lì frequenta la scuola elementare e vive la sua fanciullezza in un ambiente semplice, di lavoro e profondamente religioso.

Il desiderio di diventare sacerdote nasce a contatto con un giovane seminarista, Damiano Ferrini, vicino di casa. Sarà proprio Damiano ad accompagnarlo in seminario a Fermo per sostenere l’esame di ammissione alla scuola Media nell’ottobre del 1945. Miola frequenta Scuola Media, Ginnasio e Liceo in seminario, e nel 1954 consegue la maturità classica. Nell’ottobre del ’54 entra al Pontificio Seminario Romano e frequenta la Facoltà di Teologia dell’Università Lateranense. Il 22 Marzo 1958 è ordinato presbitero nella cappella del seminario di Fermo dall’Arcivescovo Mons. Norberto Perini. Nello stesso anno consegue la Licenza in Teologia alla Lateranense.

Il Rettore del- Seminario di Fermo, mons. Stefano Cardenà, docente di S. Scrittura, lo invita ad iscriversi al Pontificio Istituto Biblico, dove consegue la Licenza in S. Scrittura nel 1960. Si iscrive poi al’Istituto Biblico dei PP. Minori Francescani a Gerusalemme, ove, nel 1961-62, frequentale lezioni di geografia, archeologia, topografia biblica. Al Biblico di Roma e a Gerusalemme ha come amici e compagni di studio Enzo Cortese e Giuseppe Barbaglio, divenuti ben noti biblisti italiani. Inoltre, a Gerusalemme frequenta anche p. Stanislao Loffreda, noto archeologo della Terra Santa.

Tornato a Fermo nell’ottobre 1962, assume l’insegnamento in seminario: all’inizio, ebraico e greco biblico nei corsi di teologia, un corso sui salmi, e, successivamente, anche latino greco nel Ginnasio-Liceo del seminario e altre discipline teologiche.

Presta servizio pastorale nei primi anni di ministero come aiuto ai parroci di Pedaso, Casette d’Ete, Porto Potenza Picena (soprattutto all’Istituto Santo Stefano) e “Cristo Re” a Civitanova. Nel 1967, mons. Perini lo nomina assistente dei teologi in seminario e, nel 1972, mons. Cleto Bellucci, Rettore.

Nel 1978, sempre mons. Bellucci gli affida il compito di Vicario Generale, ufficio in cui rimane fino al 1988. In questi dieci anni, sostiene ed anima la formazione permanente del clero con corsi di aggiornamento e settimane di studio residenziali. Si occupa della preparazione della celebrazione del congresso eucaristico diocesano negli anni 1983-85 e del lavoro per il sinodo diocesano a conclusione della visita pastorale. Nel 1986, insieme con mons. Armando Marziali, avvia la Scuola di Formazione Teologica per la preparazione al diaconato permanente e la formazione dei catechisti.

Nel 1991 è nominato Vicepreside dell’ITM e ISSR di Fermo, incarico che ha conservato fino al 2000. In questo periodo, promuove incontri di aggiornamento teologico invitando professori delle facoltà romane come Alonso Schòkel, Bovati, Ska del Biblico, Paolo Ricca della Facoltà Teologica Valdese, membri del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani come mons. Eleuterio Fortino, l’ortodosso Traian Valdman, i liturgisti Marsili, Nocent, Federici, Pinell dell’Istituto Liturgico Sant’Anselmo. Nel 1992 fonda, sostenuto finanziariamente da mons. Rolando Di Mattia, la rivista «Firmana», quale espressione dell’ITM-ISSR. Dal 2006 è Segretario dell’Istituto Teologico – sede di Fermo. Dal 1993 al 2000 è stato responsabile dell’Ufficio per gli insegnanti di religione cattolica, incarico che gli è stato di nuovo affidato nel 2007. E Assistente regionale e diocesano del MEIC (Movimento Ecclesiale d’impegno Culturale) dal 2001. Dal 2004 è responsabile della pastorale della sanità della diocesi di Fermo. Dal 1962, guida ogni anno uno o più pellegrinaggi in Terra Santa e negli altri paesi biblici.

< n. d. r. aggiunta +22 dicembre 2017>

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