Il pittore Salvatore Tricarico dipinge Gesù che porta la Croce segno delle persone martoriate

Gesù porta la Croce

 

GESU’ PORTA LA CROCE dipinto di Salvatore Tricarico 2020

E’ molto significativo il dipinto realizzato quest’anno dal pittore Salvatore Tricarico perché in Gesù che porta la croce sulle sue spalle si intende ogni persona umana che è martoriata. Il Cristo, Messia di Israele, si è voluto mettere e resta insieme con i sofferenti, con i numerosi ultimi della storia umana. Egli non ha esitato ad accettare l’umiliazione con lo scopo di donare misericordia. E’ dipinta l’aureola luminosa attorno al suo capo coronato di spine per la santità della sua vita donata, mentre le mani abbracciano il duro legno della croce e lo sorreggono con il coraggio di chi agisce per redimere i fratelli mal ridotti. La tunica del martire è bianca come segno dell’innocenza di Gesù. Tiene ai fianchi un cordone perché si è votato all’amore misericordioso, mentre con gli occhi socchiusi medita, prega ed offre al divin Padre la sofferenza degli altri e la propria, con la fiducia di creare un futuro migliore. Si è caricato dei nostri dolori per portarci alla risurrezione. Il Papa Giovanni Paolo II si è espresso molto bene nell’enciclica “Il Vangelo della vita” dicendo che il Signore dà la vita per i propri amici (Gv 15,13) e in questo dono generoso di sé stabilisce una nuova alleanza con l’umanità nel segno della sua libertà e del suo regalo di gioia. Dalla sua croce nasce e si diffonde il “popolo della vita”. Scrive questo santo pontefice (n.51):  “La contemplazione della Croce ci porta così alle radici più profonde di quanto è accaduto. Gesù, che entrando nel mondo aveva detto: «Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà» (cf. Eb 10,9), si rese in tutto obbediente al Padre e, avendo «amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1), donando tutto sé stesso per loro. Lui, che non era «venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45), raggiunge sulla Croce il vertice dell’amore. «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Ed egli è morto per noi mentre eravamo ancora peccatori (cf. Rm 5,8). In tal modo egli proclama che la vita raggiunge il suo centro, il suo senso e la sua pienezza quando viene donata. La meditazione a questo punto si fa lode e ringraziamento e, nello stesso tempo, ci sollecita a imitare Gesù e a seguirne le orme (cf. 1 Pt 2,21). Anche noi siamo chiamati a dare la nostra vita per i fratelli realizzando così in pienezza di verità il senso e il destino della nostra esistenza. Lo potremo fare perché Tu, o Signore, ci hai donato l’esempio e ci hai comunicato la forza del tuo Spirito. Lo potremo fare se ogni giorno, con Te e come Te, saremo obbedienti al Padre e faremo la sua volontà. Concedici, perciò, di ascoltare con cuore docile e generoso ogni parola che esce dalla bocca di Dio: impareremo così non solo a «non uccidere» la vita dell’uomo, ma a venerarla, amarla e promuoverla.

 

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Mario Blasi Parroco evangelizza quinta domenica quaresima anno A

Quaresima anno A domenica quinta Gv  11, 1-45

V DOMENICA DI QUARESIMA (Gv.11,1-45)

“Quando ebbe dunque sentito che era malato, si trattenne due giorni nel luogo dove si trovava”.

Perché Gesù non va dall’amico Lazzaro appena sa che è malato, ma si trattiene ancora due giorni nel luogo in cui si trova?

“Nella morte di Lazzaro si manifesterà visibilmente quella qualità di vita che, Gesù assicura, HANNO (NON AVRANNO) quanti gli danno adesione”

Quando Gesù va dall’amico, Lazzaro è già da quattro giorni nel sepolcro.

Marta, come seppe che Gesù veniva, gli andò incontro“.

Gesù non mette piede nella casa del lutto. E Marta gli dice: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto“. Gesù le risponde: “Tuo fratello risorgerà”, e Marta: “So che risorgerà nell’ultimo giorno“.

“Nel Vangelo di Giovanni l’ultimo giorno non si associa all’ultimo giorno della fine dei tempi, ma è sempre il giorno della morte di Gesù, giorno in cui si inaugura una umanità nuova. Gesù non pone la risurrezione alla fine dei tempi, ma la mette con la Sua esistenza. “Chi crede in me, anche se muore, vivrà“.

Gesù dice: “Se questa persona che adesso è morta, mi ha dato adesione, continua a vivere”Non è una speranza che Gesù accende, ma una certezza! La vita eterna non è un premio, ma è una condizione che riguarda il presente.

Gesù non risuscita dalla morte, ma dona una vita indistruttibile capace di superare la morte”. “Questa affermazione era talmente ovvia che S.Paolo, nelle sue lettere, quando parla della risurrezione, non la figura mai come una condizione futura, ma una realtà presente. “Con Lui, infatti, siete stati sepolti insieme nel Battesimo, in Lui siete stati risuscitati. Siete risorti in Cristo“. La risurrezione non viene mai presentata al futuro, ma è una realtà al presente. La comunità dei credenti è una comunità di risorti.

Il dono della vita di Dio diventa operativo ed efficace quando l’uomo lo traduce in gesti concreti che lo manifestano” (da A.Maggi).

“Scioglietelo e lasciatelo andare”.

Lazzaro esce dal sepolcro, tutti lo avevano pianto straziati dal dolore, ora nessuno gli va incontro, nessuno gli fa festa, nessuno si rallegra. Perché? ….

 

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Mario Blasi Parroco evangelizza domenica IV quaresima anno A

Gv 9, 1-41

Parroco Blasi Mario evangelizza quarta domenica quaresima anno A

IV QUARESIMA (Gv.9,1-41)

“Ed egli diceva: Sono io”.

     Gesù, con il segno compiuto sul cieco nato, non toglie il peccato, ma completa la creazione: l’uomo-carne diventa l’Uomo-Spirito.

Gesù passa e vede un cieco fin dalla nascita. Egli vede nella cecità l’occasione per manifestare la gloria di Dio in quest’uomo. Afferma che non si tratta di un castigo di DioDio non è indifferente al male. Gesù vuole che l’uomo esca dalla sua miseria e lo aiuta ad uscirne. Non consulta l’uomo, perché questi, essendo cieco di nascita, non sa che cosa sia la luce e non può nemmeno desiderarla.

Gesù fa del fango con la Sua saliva e lo spalma sugli occhi e lo manda a lavare.

La guarigione non avviene automaticamente; il cieco deve accettare la luce. Il cieco è libero, se accetta l’ordine di Gesù e si lava, troverà la luce.

Il cieco va, si lava, vede e torna. I vicini non lo riconoscono. “Non è cambiato fisicamente. Quando una persona ritrova dignità e libertà dall’incontro con Gesù, è sempre la stessa, ma è una persona nuova; è una persona rinata e la rinascita si vede anche fisicamente”.

“Quando una persona scopre che Dio è Amore, la persona rinasce, la persona risorge; è la stessa di prima, ma è una persona completamente nuova”. Il cieco ha collaborato con Gesù ed è diventato una nuova persona.

Gesù, anche oggi, ha bisogno di collaboratori che si mettano come Lui al servizio degli uomini per comunicare quella vita che fa riscoprire alle persone la loro dignità. “Dignità che è la condizione divina”.

Il cieco guarito, che non è riconosciuto dalla gente, dice:

“Io sono”.

 Il cieco mendicante, ricreato da Dio, può affermare: “io sono”, “in me c’è la pienezza della condizione divina”. Ad un simile evento la gente dovrebbe esultare, ma non si rallegra. Eppure il fatto è evidente!

Viene condotto dai capi del popolo e neppure essi si rallegrano della guarigione, si preoccupano solo sulle modalità di questo recupero della vista. Che un uomo sia passato da una condizione di sofferenza ad una felicità, non interessa ai capi.

I capi del popolo non si preoccupano del bene dell’uomo, ma solo del proprio prestigio e interesse.

Chi non cerca il bene dell’uomo non comprenderà mai la Parola di Dio. Dio è Amore di Padre che trasmette la vita.

Anche il cristiano trasmette la vita con il servire l’uomo con amore!

Seguire Gesù sulla via della croce

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MARIO BLASI PARROCO EVANGELIZZA LA TERZA DOMENICA QUARESIMA ANNO A

QUARESIMA DOMENICA TERZA ANNO PARROCO MARIO BLASI anno A

III DOMENICA DI QUARESIMA (Gv 4,5-41)

“Doveva passare per la Samaria. Era verso mezzogiorno. Arrivò intanto una donna Samaritana ad attingere acqua”.

Quel verbo “doveva” indica la volontà di Dio. Gesù deve passare per la Samaria per recuperare la sposa infedele (la comunità dei samaritani).

Gesù rivela la fedeltà di Dio per il Suo popolo. Dio è talmente fedele con il Suo popolo che, quando questo lo tradisce e lo abbandona, Egli non lo dimentica, ma lo ricerca con immenso Amore.

Dio prende sempre l’iniziativa per riconquistare l’uomo che ha sbagliato. L’idea che Dio, offeso dai peccati degli uomini, aspetta che gli vadano a chiedere perdono, è un’idea pagana. Dio non fa l’offeso, non aspetta che gli uomini gli vadano incontro a chiedere perdono, ma Egli stesso va incontro alle Sue creature per offrire loro un Amore più grande di quello di prima. Dio, per mezzo di Gesù, va a recuperare la sposa infedele: la Samaritanasegno della comunità infedele che ha abbandonato il Vero Sposo (Dio).

“Se conoscessi il dono di Dio”.

Dio non chiede nulla per Sé, chiede una sola cosa: accogliere il dono del Suo AmoreDio Padre non è un Dio che chiede, ma un Dio che dà.

Con l’amore accolto nel cuore, il credente va verso i fratelli e, insieme con Dio e come Lui, dona questo amore a tutti.

“Quelli che adorano il Padre

lo devono adorare in Spirito e verità”.

Lo Spirito è la realtà di Dio: Amore. Dio è Amore: Amore fedele. Lamore è vero, quando è fedele.

Il cristiano, quando rende culto a Dio, deve accogliere questo amore fedele e lo deve dirigere verso tutti. L’unico culto che il Padre cerca e accetta è il prolungamento del Suo Amore fedele verso le Sue creature.

“Misericordia voglio e non sacrifici”.

I sacrifici degli animali erano rivolti a Dio nell’Antico Testamento. Dio non vuole i sacrifici. La misericordia non è rivolta a Dio, ma agli uomini. Il cristiano deve accogliere nella vita l’amore fedele del Padre per ridonarlo con lo stesso amore di Cristo.

“SE TU CONOSCESSI IL DONO DI DIO E CHI E’ COLUI CHE TI DICE: DAMMI DA BERE, TU STESSA GLIENE AVRESTI CHIESTO”.

La Liturgia presenta la donna samaritana. E’ una figura di donna che fa un cammino di fede straordinario. Accoglie Gesù nella sua vita e conduce molti samaritani alla fede. “Lasciò la sua anfora, andò in paese e disse alla gente: venite a vedere…” (Gv. 4,28).

Riconosce Gesù “più grande del padre Giacobbe“, lo riconosce “profeta“, “Messia” e alla fine “Salvatore del mondo“.

Chi accoglie Gesù è avvinto dal Suo amore.

Era circa l’ora sesta“. Gesù, stanco per il viaggio, siede sulla fonte di Giacobbe. Arriva una donna samaritana e Gesù le chiede dell’acqua, segno di solidarietà umana.

Donare acqua è segno di accoglienza e di ospitalità.

Gesù, un giorno, chiederà dell’acqua: “Ho sete!“. “Era l’ora sesta“.

L’acqua gli sarà negata. Chiede amore, ma riceve odio.

Gesù, chiedendo dell’acqua alla samaritana, si presenta come un uomo bisognoso. La donna si stupisce che un giudeo chieda da bere ad una donna samaritana. “Gesù le risponde: se tu conoscessi il dono di Dio…“.

Gesù che parla è il dono di Dio che deve essere accolto. Egli è Amore, sorgente di vita. Solo Gesù è acqua perenne, sempre disponibile. Egli solo realizza l’uomo con il Suo Spirito di amore. Il Suo Spirito fa nascere nell’uomo una creatura nuova, una vita nuova che mette l’uomo in comunione con Dio Padre. Questo piccolo uomo, creato a immagine e somiglianza divina, viene trasformato ad immagine di Cristo; acquista saggezza, arte del viver bene e porta l’amore di Gesù agli altri.

“Il Padre cerca quelli che lo adorano in spirito e verità”.

Lo Spirito è la realtà divina che ama. Lo Spirito è la potenza del Suo amore. Chi vuole amare Dio e rendergli culto lo deve adorare in amore e verità.

Dio è Amore vero perché è Amore fedele.

Chi gli vuole rendere culto deve accogliere questo amore fedele e dirigerlo verso gli altri. L’omaggio che il Padre chiede è quello di accogliere il Suo amore nella vita e con Lui e come Lui portare questa forza di amore nel cuore di altre persone.

 

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MARIO BLASI PARROCO EVANGELIZZA LA SECONDA DOMENICA DI QUARESIMA ANNO A

BLASI MARIO PARROCO EVANGELIZZA LA II domenica di Quaresima anno A

II DOMENICA DI QUARESIMA (Mt 17, 1-9)
“LI CONDUSSE IN DISPARTE SU UN ALTO MONTE. E FU TRASFIGURATO DAVANTI A LORO”.

Gesù porta tre dei Suoi discepoli sul monte.

Pietro aveva già riconosciuto Gesù come Messia e Salvatore del mondo, ma non riusciva a capire per qual motivo doveva morire e poi risorgere.

Gesù aveva infatti predetto la Sua morte e la Sua Risurrezione. Pietro pensava ad un Messia forte, potente, che doveva imporre la legge di Mosè anche con la forza. Ciò che pensava Pietro non era secondo il progetto di Dio. Dio è amore, e con amore salva il mondo. Il messaggio di Gesù va proposto con amore, ma mai imposto.

Sul monte Gesù si trasfigura davanti ai Suoi discepoli. In Gesù si manifesta la pienezza della Sua condizione divina. Con la Trasfigurazione Gesù anticipa la Gloria della Sua Risurrezione, ed intende mostrare anche qual è la condizione del fedele che passa attraverso la morte del corpo. Con la morte fisica la Vita della persona non è tolta, ma trasformata. Dio non toglie la Vita, ma l’accoglie con amore. “Asciugherà ogni lacrima dai loro occhi” (Ap 21,4).

La morte non è la fine; non annienta, non diminuisce la persona, ma è il momento in cui esplode la pienezza della persona stessa. La morte consente al fedele di manifestare uno splendore impossibile da realizzare durante la vita terrena. “I giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Mt 13,43). Nessuno in questo mondo può brillare come il sole.

La Trasfigurazione non è un esclusivo privilegio di Gesù, ma è una possibilità per tutti i credenti. “Noi tutti veniamo trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (2 Cor 3,15). La Trasfigurazione non viene soltanto dopo la morte, ma inizia già in questa vita. Più uno dà adesione al Signore Gesù, più brilla in lui l’Amore di Cristo, più egli si trasfigura.

“Questi è il Figlio mio prediletto … ascoltatelo”

Pietro ammira lo splendore di Gesù, e desidera restare lì, ma non sa che per raggiungere la pienezza di vita bisogna passare attraverso la morte. Dio dalla nube gli comanda di ascoltare il Figlio. Solo Gesù riflette pienamente la realtà divina. Non c’è nessuna differenza tra Gesù ed il Padre. Gesù solo manifesta la Sua volontà. Gesù solo è la norma di Vita per ogni fedele. Solo Lui bisogna ascoltare: “Amatevi l’un l’altro, come io ho amato voi: da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 34-35)

“Contemplare con gli occhi della fede il Crocifisso

Cari fratelli e sorelle,

 profezia messianica di Zaccaria: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37). Il discepolo prediletto, presente insieme con Maria, la Madre di Gesù, ed altre donne sul Calvario, fu testimone oculare del colpo di lancia che trapassò il costato di Cristo, facendone uscire sangue ed acqua (cfr Gv 19,31-34). Quel gesto compiuto da un anonimo soldato romano, destinato a perdersi nell’oblio, rimase impresso negli occhi e nel cuore dell’apostolo, che lo ripropose nel suo Vangelo. Lungo i secoli quante conversioni sono avvenute proprio grazie all’eloquente messaggio di amore che riceve colui che volge lo sguardo a Gesù crocifisso!

Entriamo, dunque, nel tempo quaresimale con lo “sguardo” fisso al costato di Gesù. “Dio è amore” (1 Gv 4,8.16)

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L’ ESODO libro della Bibbia presentato da Miola Gabriele nel significato della Storia di Dio con le persone ieri ed oggi

MIOLA Gabriele – ESODO BIBLICO

Liberazione e

Formazione del

Popolo di Dio

INDICE

Introduzione

La situazione in Egitto

\Parte prima: Dio affida la missione a Mosè

.Appendice: Le piaghe d’Egitto

\Seconda parte: L’ESODO

.Appendice: La Pasqua di Cristo

\Terza parte: L’ ALLEANZA fra DIO e ISRAELE

\Quarta parte: La rottura e la rinnovazione della Alleanza

.Appendice: L’Arca dell’Alleanza – La Tenda del Convegno – Il Tempio

S C H E M A  della  t r a t t a z i o n e

Nella presentazione del libro dell’Esodo è bene dividere la trattazione in questi quattro gruppi di capitoli;

1) Capp. 1-6: la situazione del popolo d’Israele, la vocazione e la missione di Mosè a liberare il suo popolo;

2) Capp. 12-15; l’avvenimento centrale di tutta la storia d’Israele è l’Esodo, cioè l’uscita dalla schiavitù dell’Egitto;

3) Capp. 19-20 e 24; il rapporto nuovo che si stabilisce, dopo la liberazione, tra Israele e Dio: l’Alleanza;

4) Capp. 32-34: la rottura dell’alleanza, come condizione di Israele nel deserto, è la condizione continua dell’uomo e della umanità; la preghiera di Mosè, il pentimento del popolo, la conversione, il rinnovamento dell’alleanza.

Introduzione –   Il Vaticano II, nella Costituzione dommatica sulla Divina Rivelazione (“Dei Verbum” n. 2) dice; “Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per messo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (Ef 2,18; 2Pt 1,4). Con questa rivelazione infatti Dio invisibile Cfr Col 1,15; 1Tm 1,17) nel suo grande amore, parla agli uomini come ad amici (cfr Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr Bar 33,38) per invitarli ed ammetterli alla comunione con Sé. Questa economia della Rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà, significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto. La profonda verità poi su Dio e sulla salvezza degli uomini, per mezzo di questa rivelazione, risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione”. (Pio XII, “Divino afflante”).    L’idea da cui dobbiamo partire è questa; Dio interviene nella storia, Dio si condiziona al nostro modo di essere, di vivere, di camminare; ed è un camminare storico; e storico significa spazio, tempo; se sono qui, non posso essere da un’altra parte; se ho questa lingua, non ho potuto averne un’altra e così via; significa questa cultura, questa mentalità.

Tutto questo è storia, Dio si è immesso proprio in questo cammino, in questo ritmo, quindi nella nostra storia.

ESODO – LA SITUAZIONE IN EGITTO

Noi questo lo vediamo proprio nell’Esodo, che è uno dei fatti fondamentali del Vecchio Testamento. L’Esodo è il nucleo del messaggio intorno al quale si è formato il V.T.

Cerchiamo di dare una panoramica storica; in che tempo siamo? Siamo verso la metà del XIII secolo a.C. La condizione è questa; in Egitto, già dal 3000 a.C., c’è l’impero faraonico, ed ha avuto una fioritura molto gloriosa attraverso i millenni. In questo periodo è faraone Ramses II.

Tra i tanti popoli che si trovano sotto il suo dominio (anche popoli immigrati) c’è Israele; piccolo gruppo formato da clan e tribù. Erano venuti in Egitto al tempo dei patriarchi (il racconto lo troviamo nel libro della Genesi); questa epoca, comincia con Abramo (secondo molti circa 1750 a. C.). Dopo vicende varie, verso la metà del sec. XVII, durante il periodo della dominazione degli Hyksos in Egitto, gli Ebrei erano stati attratti dall’Egitto e vi erano andati. Scoppia la ribellione, gli Hyksos vengono cacciati fuori alla fine del 1600 e ritorna il dominio dei faraoni.

Nella Bibbia la storia di Israele inizia con Abramo, un capo clan che parte con la sua famiglia dalla Mesopotania seguendo “una chiamata” da parte di Dio. Da “Ur dei Caldei” (Gen 11,28) situata nel sud sarebbe giunto ad Haran nel Nord del paese e di qui sarebbe disceso in Palestina insediandosi nella zona intorno a Ebron cioè nella zona a sud dell’attuale Gerusalemme tra il mar Morto e la fascia costiera mediterranea. Suo figlio Isacco, come il padre Abramo, nomade di bestiame minuto, si sarebbe stanziato più a sud attorno a Bersabea; ma il clan resta di modeste proporzioni e non riesce ad occupare la terra diventando veramente sedentario. Anche Giacobbe, figlio di Isacco (che avrà da Dio il mutamento del nome in Israele) resterà seminomade nel centro della Palestina nelle campagne circostanti Bethel e Sichem e non avrà la possibilità di diventare un popolo numeroso adempiendo così la promessa dei Padri. Toccherà ai suoi dodici figli realizzare la “promessa” fatta ad Abramo da parte di Dio; diventare in Egitto un popolo grande e numeroso; ed occupare poi stabilmente questa terra della Palestina. Infatti un figlio di Giacobbe, Giuseppe venduto in Egitto riesce ad occupare una notevole posizione nell’amministrazione statale facendo evitare, grazie ad una politica economica lungimirante, una carestia che si abbatté anche sulla Palestina dove dimoravano gli altri fratelli, i figli dì Israele. Questi scendono in Egitto per sfuggire alla fame, rincontrano il loro fratello Giuseppe e si stanziano nella terra a oriente del delta del Nilo, la terra di Goshen, dove aumentano di numero a tal punto da far paura, come minoranza etnica non integrata al potere egiziano. Si ha allora una politica demografica di contenimento da parte del faraone e un asservimento sempre maggiore degli Ebrei che sono adibiti alla costruzione di due città deposito per l’Egitto, come schiavi costretti a lavori duri e pesanti. Nel corso di tale primitivo controllo delle nascite, mediante l’uccisione dei figli maschi al momento del parto, viene salvato un bambino ebreo che sarà allevato nella famiglia del faraone ricevendo il nome di Mosè.

Il piccolo popolo ebraico nel frattempo si era ingrandito, (forse non oltre qualche migliaio, però non possiamo stabilirlo con certezza). Il Faraone di quel periodo, Ramses II, (erano già passati 300 anni dalla cacciata degli Hyksos) si dà ad una grande politica di costruzioni e approfitta di queste popolazioni immigrate, le sottomette in maniera ancora più forte, le rende schiave; Ebrei ed altri sono costretti a lavorare per questa politica di grandezza edilizia, per la costruzione della città di Ramses e di altre città. Si sa che Ramses fu un grande faraone e costruttore.

Qui comincia l’Esodo vero e proprio. In questa situazione di oppressione, di sfruttamento sorge una coscienza nuova in mezzo a questo popolo e soprattutto per mezzo di una persona; Mosè. Egli si sente legato a questo suo clan, a questo suo popolo, che Dio ha portato fino in Egitto. Conosce la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe e dei suoi fratelli; ed è imbevuto dell’idea che Qualcuno guida la storia di questo popolo. Mosè vede il suo popolo non soltanto nella situazione attuale di oppressione, ma lo vede nella sua storia passata e anche proiettata verso il futuro; ricorda le promesse fatte ad Abramo “Farò di te un grande popolo (Gen 12,2). Alla tua discendenza io darò questo paese (12,7) … In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra (12,3)”.

\\\   PRIMA PARTE: DIO AFFIDA LA MISSIONE’A MOSE’

Esodo capp. 1 – 6.

Il primo capitolo ci presenta lo stato di oppressione del popolo e la missione «affidata a Mosè.

LETTURA: Esodo 1, 1-7.

  1. 1: “I nomi dei figli d’Israele”. Il significato di queste sono le generazioni del popolo di Israele e sono dodici, compreso Giuseppe che si trovava già in Egitto.
  2. 5: Il numero 70, insieme con il numero 12 stanno ad indicare che inizia una nuova storia; non si tratta di un calcolo di censimento, ma di una visione e di una presentazione di Israele come unità; si tratta del nucleo etnico e dinamico che inaugura una partenza. Ma quante persone sarebbero state? Gen. 12,17 parla di 600.000. Forse la traduzione migliore è 600 gruppi, e non solo di Ebrei. Si può pensare a qualche decina di migliaia.
  3. 7: …era una regione nella zona del delta del Nilo verso Est, una terra chiamata la terra di Ghosen.

.a)   Mosè solidale con il suo popolo

LETTURA: Esodo 1, 8-22 ( cfr GRELOT, P., “Pagine Bibliche”)

E’ qui che si inserisce la storia di Israele, la storia di Mosè; è una specie di sguardo globale del rapporto tra il faraone e questo popolo. Esso era una piccola cosa; le 70 persone potevano essere diventate qualche decina di migliaia, non più.

Ed in questo quadro nasce Mosè (la storia della sua nascita è chiara: c’è da tenere presente che qui niente è a caso). Alla corte del faraone questo uomo ebbe una formazione che non avrebbe potuto avere in mezzo al suo popolo; formazione culturale, religiosa, tecnica, militare; questo metteva Mosè in una posizione nettamente differente da quella dei suoi connazionali. Egli sa anche la storia dei suoi padri, di un popolo chiamato da Dio, cui Dio ha fatto una promessa.

Sentendosi totalmente ebreo, come prima cosa aspira a comporre queste due situazioni cioè mettere d’accordo la popolazione ebraica con il dominio dei faraoni; ma non ci riesce.

LETTURA; Esodo 2, 11-15:

Gesto profetico di Mosè e fuga in Madian

  1. 11; “Cresciuto in età” dice una premessa; in Atti 7,23 si dice: “Mosè stava per compiere i quarant’anni”: Mosè sta per rompere con il passato (“si recò dai suoi fratelli”) e si accorge della loro condizione servile (“Vede un Egiziano che colpiva un ebreo, uno dei suoi fratelli”)
  2. 13: quando c’è la miseria, è difficile trovare l’unità; gli Ebrei non si sentono popolo.
  3. 14: I due non solo non si lasciano persuadere, ma il prepotente fra i due insulta Mosè e minaccia di rivelare il suo operato del giorno prima.

E’ una storia molto sommaria, si procede proprio per caposaldi, si mette in evidenza soltanto i fatti fondamentali; non è una specie di romanzo storico dove sì raccontano minutamente tutti i fatti avvenuti.

.b)   Mosè fugge nel deserto

Spesso, quando si rompe con il passato si va incontro ad un tempo di ritiro, di solitudine e di separazione. Mosè scappa a Madian, nella penisola sinaitica, nel deserto e ci rimane per 40 anni, ed è qui che avviene la vera maturazione di Mosè. Nel deserto fa il pastore; si associa ad una tribù di nomadi (i madianiti); sposa Sefora, figlia di un capo-tribù, Jetro; gli nasce un figlio.

Allora nel deserto Mosè fa un’esperienza veramente straordinaria. Sono 40 anni di scavo nel suo interno, di meditazione, di preghiera, di ripensamento di tutta la storia dei padri; c’è tutta la costruzione di un mondo nuovo, che va sorgendo; il mondo nuovo è tutto il legame tra la storia precedente del suo popolo e la situazione attuale e da qui la scoperta della sua missione, che non scaturisce da un fatto sociale, politico, ma soprattutto da un fatto religioso; Mosè, nel suo contatto con Dio, scopre una cosa grande: è Dio che lo manda a liberare il suo popolo.

.c)   L’idea giusta di rivelazione

Nel cap. 3 troviamo il punto centrale: la rivelazione di Dio. Quando si parla di rivelazione di Dio si è portati a pensare ad un dialogo registrabile; Dio parla, Mosè risponde. Non ci si può mettere su un piano miracolistico; si tratta invece di esperienza religiosa; Dio parla = Dio si rivela. Non si tratta però di una specie di fantasma di Dio; Dio si rivela attraverso gli avvenimenti, le cose. E’ Mosè che si rende conto, è Mosè che capisce e sente presente Dio. La sua presenza non è immaginazione, è realtà.

Mosè si è maturato, non però al di fuori dell’intervento di Dio, della sua volontà e del suo aiuto. Dio parla, fa sentire la sua voce; tuoni, lampi, bufera, fuoco, sono solo l’espressione religiosa di un modo che si è maturato dentro Mosè, ma che lui percepisce non totalmente come suo, ma come qualcosa che gli viene dall’esterno, che gli viene imposto dall’esterno. Questa è presenza di Dio, una presenza che è tutta dentro. C’è anche qualcosa di esterno (la rivelazione del roveto, la rivelazione del Sinai) che serve soprattutto come segno da meditare, come punto di riferimento che scuote, che spinge l’uomo ad entrare di più in contatto con Dio, a sentirsi, direi, quasi portato da questi fatti, avvenimenti, circostanze a spogliarsi ancora di più per poter accogliere meglio la presenza di Dio, E’ un Mosè che nel deserto fa l’esperienza straordinaria, di solitudine, di preghiera.

(Fra’ Carlo Carretto, avete letto nei suoi libri, tante volte ritorna su quest’idea; l’idea del deserto che ti dà il senso della tua piccolezza, del tuo niente, dell’affidarti a qualcuno; il deserto matura in questo senso). Mosè fece quest’esperienza straordinaria.

.d)   Dio chiama Mosè

LETTURA; Esodo 3, 1-15

  1. 1: Siamo al monte di Dio, l’Oreb. Doveva essere un luogo che aveva un legame particolare con il fatto religioso, non più di questo; (come noi oggi diremmo Loreto, oppure per i nostri vecchi il monte dell’Ascensione); era un fatto religioso ben preciso che richiamava alcune idee: la divinità, il Dio che è presente, il luogo dove si sente Dio maggiormente presente.
  2. 2: Qui è linguaggio religioso ed è l’esperienza religiosa; si può pensare anche al fuoco; non sappiamo qual’è l’esperienza religiosa in sé e per sé; quello che conta adesso è il colloquio, ed è percezione di qualcosa di straordinariamente nuovo e potente.
  3. 6: Qui si sente tutta la meditazione di Mosè che ha sempre un legame con la storia, Non dice: “Io sono Dio” e basta; è troppo poco. Ma è il Dio legato alla storia, legato ad Abramo, ad Isacco, a Giacobbe, a Mosè, al popolo, e altro. Quest’idea è fondamentale. E’ il Dio dei padri: il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe (e noi dovremmo aggiungere: il Dio di Mosè, di Gesù, della Chiesa, e altro). Da Bibbia non conosce il Dio in genere, il Dio dei filosofi, ma conosce il Dio dei Padri, il Dio di Gesù, e altro.
  4. 7-10: Ed e altro il fatto nuovo, legato al passato, cioè la situazione presente. In fondo i padri (Abramo, Isacco, Giacobbe) venivano da questa terra, dove erano tutti questi piccoli popoli.
  5. 11: Dinanzi alla missione, dinanzi al futuro, c’è il senso della titubanza.
  6. 12: La vera prova è a fatto compiuto. Quindi Dio dice: “Accetta, credi. Sono con te, perché te l’ho detto; ma lo saprai in una maniera sicura quando tu, fidandoti della mia parola, l’avrai realizzata; allora toccherai con mano che io sono con te”. La prima cosa che viene chiesta è la fede; accetta. Mosè medita profondamente tutta la storia passata, la situazione presente, quello che lui dovrebbe compiere, la impossibilità umana di realizzare un confronto tra lui e il faraone.

Qui si capisce come il fatto che Mosè sia stato educato a corte non sia una pura casualità; Mosè non sarebbe potuto arrivare a mettersi in confronto con il faraone, se non lo avesse conosciuto, se non avesse avuto un tipo di cultura e di capacità da poter stare a confronto con quella stessa cultura; poteva essere capo solo uno che poteva immettersi in quella situazione. (Questo avviene anche nella liberazione del mondo colonialista di oggi; hanno studiato in Inghilterra un Gandhi e un Nehru. La liberazione parte da chi sta in una preparazione alla pari, per lo meno da un punto di vista umano. Così è di Mosè).

La situazione di Mosè è veramente ancorata nella storia; quindi non si tratta di miracolismi; c’è una storia, ci sono i fatti, ci sono delle relazioni, c’è in questo uomo una visione religiosa profonda, una forte maturazione religiosa.

.e) Dio rivela il suo nome 

  1. 13-15: questa è la celebre pagina della rivelazione del nome di Dio. Che significa questo “Io sono“? In fondo qui Mosè arriva al culmine del suo contatto con Dio, cioè scopre Dio; o meglio Dio si fa scoprire. Ormai Dio ha lavorato talmente dentro che diventa luce e gli si rivela. Oggi per noi un nome è solo un segno, un fatto tecnico; per gli orientali il nome è tutto. Nel mondo ebraico il nome è la stessa persona, ma colta come relazione attiva a tutto l’universo:

– quando uno conosce il nome di una persona, conosce tutto di essa;

– quando uno dà il nome a una cosa significa che ne ha il possesso;

– quando uno comunica il suo nome è già nella relazione più stretta;

– quando portano lo stesse nome, significa che sono già una cosa sola (ricordate, per es. la Genesi; l’uomo e la donna portano lo stesso nome “Ish” e “Isshah” perché sono una sola cosa, sono della stessa carne).

Quindi la cosa più importante è che l’esperienza religiosa porta Mosè ad una relazione strettissima con Dio, fino ad una comunicazione per sonale: Dio comunica il suo nome.

Che significa il suo nome; “Io sono colui che sono”? Possiamo spiegarlo così;

.1.   – “Io sono colui che sono” nel senso che sono colui che esiste, colui che sta sopra ogni cosa, colui che è al di sopra di te, di Israele, dell’Egitto e di tutti gli dei.

.2.   – Oppure: “Io sono colui che sono” e tu non ti stare ad interessare tanto di me, non voler pretendere di comprendere me; comprenderai me a mano a mano che si camminerà nella storia. Adesso quindi “Io sono colui che sarò”, sarò colui che mi ti rivelerò man mano che tu camminerai con me attraverso la storia: quindi tanto più andremo avanti tanto più mi conoscerai.

.3.   – “Io sono colui che sarò” = sempre presente ed in azione lì, con Israele e per Israele; mi capirai sempre meglio come “il presente, il vicino, il liberatore”, mentre gli dei dell’Egitto daranno prova di non essere niente, di essere “non-Jahvè”.

.4.   – “Io sono colui che sarò” e ciò dipenderà solo da me. Le azioni che farò per te, Israele, sono scelte da me, volute da me; a te spetta solo il credere. Dio è infinitamente vicino all’uomo, e tuttavia è sottratto alla sua presa.

L’interpretazione migliore potrebbe essere la seconda: “colui che sono”. In fondo è anche un fatto profondamente umano; tanto più due stanno insieme, camminano insieme, tanto più uno si rivela all’altro; così in un certo senso e Dio; quanto più ti lasci prendere da Dio, quanto più cammini insieme con Lui, tanto più ti si rivela; tanto più lo conoscerai, tanto più tu scoprirai quello che è, e tanto più ne capirai la assolutezza piena.

“Sarò quel sarò”; non finirai mai di scoprirmi e attraverso la storia troverai sempre una nuova possibilità di penetrare in me, di scoprirmi, di comprendermi, di essere con me. Non è che Dio non gli vuole dire il nome, ma il nome indica quasi la futuribilità di Dio stesso, di un Dio che quasi diviene. Certo non diviene in sé, diviene nella sua storia, nella tua comprensione, non comprensione intellettuale, ma comprensione di realizzazione, di storia. E’ un po’ come il nostro “farci”; noi ci facciamo mentre operiamo, mentre camminiamo; attraverso la storia scopriamo, in un certo senso, anche il nostro nome, la nostra persona. Così possiamo dire di Dio; quanto più tu cammini con Lui, tanto più lo scoprirai. Questa per Israele deve essere la caratteristica fondamentale di Dio.

Vedremo più avanti, che, quando Mosè tenta di arrivare a vedere Dio faccia a faccia, Dio dice; “No, è impossibile; chi vede Dio muore” (Es 33,20). Ciò dice la inaccessibilità di Dio; non soltanto come fatto intellettuale, ma nella tua storia, una storia quindi che cammina.

Da notare ancora: nella rivelazione di questo nome c’è implicito il legame ai padri, una relazione che diventa più. personale perché Dio rivela il nome e crea una tensione verso il più in là, verso il futuro.

.f) La missione di Mosè

Mosè riceve la missione di andare, ma lui non vuole e cerca di rifiutarsi; “Io non sono un buon parlatore … ma sono impacciato di bocca e di lingua (Es 4,10)”. Dio gli risponde; “Non vi è forse tuo fratello Aronne? Parlerà lui al popolo per te” (4,14-16),

E’ una resistenza di Mosè. Ma la luce e la pressione di Dio diventano una forza, qualcosa di interiore talmente dirompente che Mosè non può sottrarsi e quindi va, diventato capace, e forte della forza stessa di Dio.

Il cap. 5° narra i primi contatti con il faraone; è bellissimo. L’autore ha colto un momento della psicologia dell’uomo che è quanto mai vero e attuale. Quando si comincia un’opera, tutto presenta ostacoli, gli altri non ti danno ascolto e ad ogni difficoltà che incontri ti dicono; “Ma vedi che non ce la fai? Lasciaci in pace”.

Questa è stata l’esperienza terribile di Mosè; al primo tentativo le cose non vanno e sono i suoi stessi connazionali che dicono: Lasciaci in pace (cfr. 5,21); ed occorre una forza proprio straordinaria per superare quel momento iniziale.

LETTURA; Esodo 5 = Incontro con il faraone e reazione degli Ebrei

  1. 1: Va notato il significato religioso di tutto il racconto. L’opera ha anche un significato sociale; gli Ebrei erano oppressi e devono essere liberati; c’è un significato sociale e politico, perché è una tribù che si vuol sottrarre al dominio nell’ambito dell’Impero faraonico. Ma il significato fondamentale è quello di un fatto religioso, cioè è un popolo al quale Mosè tenta di dare una coscienza religiosa, la quale prende tutta quanta la vita di questo popolo e quindi anche il fatto politico, sociale, culturale. Ormai questo popolo verrà a trovarsi scardinato dall’ambiente in cui sta, per immettersi in una nuova cultura. Questo fatto però prende una coloritura religiosa. La religione penetra in tutti gli aspetti della vita e quindi è logica la conclusione: “Andiamo a celebrare una festa religiosa nel deserto”.
  2. 3. Noi sentiamo che questo è nostro dovere, se non lo facessimo, ci sentiremmo come puniti da parte di Dio.
  3. 4. Per il faraone: non andassero a raccontar fandonie, a mettere grilli per la testa. Qui c’è tutta un’angolatura politica: “tornate ai vostri lavori forzati”.
  4. 6; Si aggrava la situazione.
  5. 7-9: Pagina stupenda e attualissima; c’è sotto un’analisi sociologica straordinaria. Si descrive che quando si acquista una conoscenza nuova, gli altri non ti capiscono, anzi ti opprimono e cercano di tagliare le risorse, accrescendo così la fatica.\

Parte seconda  –  ESODO Capp. 12-15

.A)   La Pasqua ha riti che rievocano l’uscita dall’Egitto e comporta due elementi: l’uccisione dell’agnello e cibarsi di pani azzimi. Difatti la Pasqua veniva celebrata così; si toglieva tutto quello che era pane vecchio, fermentato e si cuoceva del pane azzimo, quindi non lievitato (una specie di pizza, sotto il fuoco; ancora oggi gli ebrei lo fanno; lo chiamano mazzòt) e uccidevano l’agnello; la famiglia si riuniva e mangiava l’agnello completamente ed i pani azzimi, la festa in sé e per sé, nel rito, si stabilisce dopo gli eventi. E’ festa posteriore che risente di due gruppi di gente che si sono uniti tra di loro:

– l’agnello risente di una festa di tipo pastorizio; quando è primavera i pastori celebrano la festa dell’anno nuovo e la celebrano normalmente con danze e uccidendo un agnello e mangiandolo arrostito;

– gli azzimi risentono invece di un altro ambiente, quello agricolo; finisce una stagione, un periodo, ne inizia un altro; viene tolto tutto il vecchio, si prende il nuovo; e si celebra questa festa, segno di novità, con i pani azzimi.

Israele, una volta uscito dall’Egitto, è rimasto nel deserto dei Sinai per lungo tempo (40 anni) e là si è unito con tanti altri gruppi, con cui aveva una certa parentela. Gli Ebrei dall’Egitto portavano queste tradizioni che sono diventate tradizioni comuni di tutti, docilmente si sono fuse due feste; la festa pastorizia dell’anno nuovo con l’uccisione dell’agnello, la festa agricola (delle tribù del deserto) dell’anno nuovo con il pane azzimo; queste due feste unite insieme ci hanno dato la celebrazione della Pasqua descritta al cap. 12.

Però ecco il passaggio; in sé e per sé queste feste esistevano già nell’ambito di queste tribù, però acquistano ora un significato tutto nuovo, il significato storico. Prima era celebrazione di un significato puramente religioso, di una religiosità tipica dell’uomo, il quale celebra l’anno nuovo con una festa per propiziarsi gli dei. E’ religiosa, e non possiamo dire civile, perché nella antichità la religiosità abbracciava tutto; però una religiosità che è su un piano naturale; è il propiziarsi la divinità, il rendersela benigna per nuovi raccolti, per la fecondazione dei greggi e così via. Ora avviene il passaggio ad una religiosità che è su un piano di incontro con Dio e su un piano storico; questa festa coincide con l’uscita, del popolo ebraico dall’Egitto e quindi diventa commemorativa di un intervento salvifico di Dio a favore del suo popolo ed è il fatto fondamentale di questo popolo. Allora non più festa naturale, di propiziazione della divinità, ma festa commemorativa, festa di memoriale.

Questa celebrazione poggia su tre segni ben precisi; l’agnello, gli azzimi, i primogeniti; è facile riconoscere nel testo questo schema, abbastanza lineare; di ogni segno si descrive la istituzione, il rituale (cioè il modo della celebrazione) e la catechesi per coglierne il significato: agnello, azzimi; primogeniti. Dall’Esodo:

AGNELLO: istituito: 12, 1-14; rito: 12, 21-25; catechesi: 12, 26-27

AZZIMI: istituito: 12, 15-20; rito: 13, 3-7; catechesi: 13, 8-10

PRIMOGENITI: istituito: 12, 29-36; 13, 1-2; rito: 13, 11-13; catechesi:13, 14-16

\ LETTURA; 12, 1-14 e 12, 21-27

  1. 2: “primo mese dell’anno” è Obib, il mese della spiga, della primavera. Dopo l’esilio, si chiamerà Nisan. Il testo insiste sul “primo mese dell’anno” perché prima del regno di Giosia l’anno incominciava dall’equinozio di autunno (21 Settembre). Forse è per distaccarsi da feste pagane celebrate in autunno.
  2. 5: “maschio”; è la sorgente della vita, valore supremo, “nato nell’anno”; è offerto come primizia, forte prima e migliore. Nella mentalità religiosa di Israele e di tutti quanto Semiti, i primogeniti maschi (perché la donna non contava) appartenevano alla divinità, venivano consacrati ad essa e riscattati: il primogenito appartiene a Dio sia degli uomini che degli animali. E’ legge comune già al tempo dei patriarchi (in fondo Isacco che viene sacrificato significa questo: il primogenito deve essere offerto ma Dio lo proibisce. Prima di Abramo era un fatto reale: il primogenito veniva sacrificato, ucciso; quando si fondava una città, il primogenito del re veniva messo sotto le fondamenta; quando si costruiva una casa si sacrificava il primogenito). Israele viene salvato e riscattato e Israele è il primogenito; “Tu sei il mio popolo primogenito … Tu mi appartieni e tutti i tuoi primogeniti mi appartengono”. La liberazione dall’Egitto ha proprio il significato di riscatto, di compera, di liberazione da parte di Dio e nello stesso tempo significa anche condanna dell’Egitto e dei suoi primogeniti.

v.7: sangue agli stipiti: è un rito antichissimo in oriente (è ancora attestato ai nostri giorni), rito di difesa contro le disgrazie, i nemici, gli influssi cattivi.

v: 8: il pasto si fa di notte: con gli altri particolari è facile pensare ai pasti-sacrifici dei nomadi.

v: 11: “E’ la Pasqua del Signore“. Il Signore passa, ma non castiga (cioè oltrepassa e salta) le case asperse con il sangue.

v: 14: “memoriale“: è faro un’azione che rende presente ed attuale la realtà ricordata.

Da notare che i vv. 12-14 vogliono stabilire con il brano precedente un legame sul piano della storia dell’Esodo.

.b)   Gli azzimi (La settimana degli azzimi)

LETTURA; 12, 15-20 e 13, 3-10.

Per una settimana dovevano cibarsi di azzimi. Era una festa agricola che gli Israeliti hanno trovato presso altre tribù sedentarie ed hanno adottato a loro volta.

L’unione all’evento dell’Esodo per il rito dell’uscita appare artificiosa (v. 17). Da tenere presente che “fermentazione” includeva per loro l’idea di corruzione e quindi di impurità: per questo dovevano essere usati pani azzimi.

Nei vv. 3-7 si descrive il rito; nei vv. 8-10 si fa la catechesi.

.c)   I primogeniti LETTURA; 12, 29-36; 13, 1-2; 13, 11-16

E’ vero che quella notte sono morti tutti quanti i primogeniti degli egiziani? E’ difficile poter dire questo. Può darsi che nella notte ci sia stata una mezza strage, che alcuni egiziani siano stati uccisi e così via. Però per Israele quello che conta è questo: Israele è il primogenito tra i popoli, i primogeniti di Israele sono riscattati, mentre l’Egitto non è riscattato, rimane nella tenebra dell’idolatria e della oppressione; quindi il fatto non va interpretato in chiave realistica di uccisione di tutti i primogeniti egiziani, ma sotto una tipologia e un significato traslato; cioè Israele viene salvato. I primogeniti sono ormai coloro che daranno nuova forza, nuovo vigore, a Israele, l’Egitto sarà distrutto.

Nei vv. 11-13 si descrivono i riti per l’offerta dei primogeniti.

  1. 14: Notate: “Risponderai a tuo figlio …” ecco il memoriale, ecco la storia. Quindi la festa prende un significato tipico di memoriale e il celebrarla significava riattualizzare questa salvezza; il Signore viene ancora a salvarmi, mi immette lui nuovo in questa linea. Quindi celebrare la Pasqua è tutto per Israele, è la festa più grande, significa mettersi in questa storia che è storia passata, ma è storia presente perché tu, celebrando, rinnovi la tua salvezza e cammini verso il futuro.

Ecco il significato della festa della Pasqua: Israele esce, ma quando ripensa alla sua storia, celebra questa festa; la celebra nella ricorrenza di quella che era la Pasqua, il passaggio, l’intervento del Signore; e quella che era una festa puramente di tipo tradizionale, naturistico, diventa una festa tipicamente storica, ricordo di un evento salvifico, di una liberazione storica di Israele dall’Egitto e Israele acquista la coscienza di essere salvato, di essere come un popolo nuovo.

.B) Il passaggio del mare dei giunchi

Dal cap. 13,17 al cap. 15 si narra la partenza degli Ebrei ed il passaggio del Mar Rosso. Non si accenna alla storia precedente; le lotte, i contrasti, qui sono taciuti, ma finalmente questo popolo si libera.

Mosè, da persona intelligente, non prende la strada più comoda, ma la più difficile. Non prende la via del mare, la carrozzabile, la via degli eserciti (oggi la chiameremmo l’autostrada). Mosè, che era stato nella terra di Madian per 40 anni, prende la via del deserto; arriva dove si dice oggi presso le vicinanze di Suez, sul golfo del Mar Rosso; ed aspetta il momento propizio (sarà la bassa marea? sarà quel che sarà). Il popolo, al momento favorevole, entra e passa. Quando gli egiziani si immettono per la stessa strada, a causa dell’alta marea o di un vento, o di altro ostacolo, non riescono a passare e si trovano imbrigliati e si verifica il disastro militare, senza che gli Ebrei intervengano; e sono liberi.

Tutto questo evidentemente viene sempre più rivisitato e rimediato sotto la linea: Dio è il Signore che guida la nostra storia, è il Dio che ci libera; questo è l’intervento di Dio per la nostra salvezza. E tutto questo viene sempre celebrato nella Pasqua. (Il cap. 14 racconta il passaggio del Mar Rosso, il cap. 15 ne è il cantico, come un inno di lode).

Ma il popolo ebreo, che sentiva questa narrazione nel momento liturgico, pensava veramente che il mare si era aperto? Lo prendeva cioè in senso miracolistico? Se leggiamo il cap. 15 e i salmi 105; 136, vediamo che questo non c’era. Questa narrazione è memoriale, ricordo, cioè diventa liturgia, celebrazione di Dio. Ora la celebrazione di Dio viene fatta non su una base mitica o naturistica, ma su una base storica. La. liturgia canta, celebra la salvezza che è venuta da Dio, la realizzazione del suo piano, la sua onnipotenza; tutto questo evidentemente ha i caratteri dell’epopea. (In epopea, con altri significati, i cicli omerici hanno cantato le lotte degli Achei con i Troiani; l’Orlando Furioso ricorda le lotte del periodo dei Carolingi e così altri).

Questo di Israele non è però solo fatto civile, ma è fatto religioso in tutti i suoi aspetti. Nell’epopea il discorso diventa grandioso, immaginifico; Dio quindi interviene con folgori, lampi e tuoni, le acque si dividono, cavalli e cavalieri cadono in acqua. Questa descrizione non vuol presentare l’evento storico così com’è avvenuto, lo vuol celebrare; la cosa è differente. Altro è la celebrazione una liturgia e altro è un racconto così come noi oggi lo vorremmo con la nostra mentalità tecnica. La celebrazione è in una linea che va al di là della ripetizione puramente documentaristica. Oggi siamo abituati alla cinepresa e allo storico che presenta i puri fatti. Non è questo! Dobbiamo metterci quello che sta al di là dell’espressione documentaristica; il fatto religioso diventa talmente globale nella vita dell’uomo e nella vita della religiosità di un popolo che travalica l’esigenza di un’adesione, strettamente storica, all’evento. Quindi l’autore non tradisce l’evento in sé e per sé, lo celebra, Io esalta e diventa grandioso, straordinario (nell’inno “Fratelli d’Italia”, è tutta un’Italia che si è mossa, invece sono stati solo dei risorgimentalisti che hanno fatto quel po’ che hanno fatto; però nella celebrazione civile c’è tutta un’esaltazione).

La gente pensa immediatamente alla sua storia, guidata da Dio. E’ un genere letterario; e sarebbe ingenuo ritenere che Israele scambiasse la storia con la celebrazione liturgica, che ha bisogno di questa coloritura, per essere veramente celebrazione.

E’ certo che Mosè ed i profeti sono aderenti alla storia; e questo non nega il fatto miracoloso. Ma noi corriamo il rischio di rendere il miracolo mitico, affascinante, non storico. Il miracolo invece sta nella storia; il miracolo più grosso è la storia che si realizza, che cammina e che la parola di Dio interpreta per te. In questa storia ci sono anche degli eventi che diventano tipici, significativi, più pregnanti di significato e acquistano un significato differente che per noi è miracolo, per un altro, che sta al di fuori, è niente. Il miracolo quindi va letto nel contesto della religiosità, perché se non ci si immette in quel senso lì, il miracolo non dice niente; in un certo senso dipende dall’interpretazione. Non si vuol negare che non sia un fatto storico, una realtà percepibile, però, come tale, è anche suscettibile di interpretazioni differenti. Cioè a me la realtà si svela in quella situazione che è reale. La si può leggere anche sotto altre linee, ma è un leggere che travisa la realtà, perché in quel momento Israele non poteva leggere la storia che in quella linea lì era il significato vero, profondo.

(I santi, che sono i tipici esempi dell’esperienza religiosa ben vissuta, sono quelli che sanno connettere la storia generale e la storia particolare con questo legame, con la lettura religiosa della presenza di Dio.

E quanto più uno ha l’esperienza di Dio, tanto più sa leggere nella storia globale e nella propria vita il rapporto con Dio),

C ) Un inno – preghiera

Il cap. 15 va letto in atteggiamento di preghiera, perché è veramente preghiera: era la preghiera di Israele. Si può parlare di preghiera, se non ci mettiamo in questo senso storico? La nostra preghiera spesso è piccola, egoista, gretta, individuale, chiusa dentro l’ambito di noi stessi; chiediamo soltanto e non abbiamo i grandi ritmi della storia; ci manca questa formazione, la prospettiva della vita, e l’apertura al senso- storico della vita. Gli Ebrei invece no pregavano così, e la Bibbia prega con cuore aperto a tutti. Nei salmi si ritrova questa apertura immensa alla storia: è il piano di Dio che va avanti, è la realizzazione delle promesse di Dio (quindi della storia) che cammina.

Dovremmo metterci in questa grande prospettiva, come ci si è messo Cristo pienamente. Tante volte tradiamo Cristo, perché non conosciamo ciò che ha preceduto Cristo, cioè la storia biblica, la preghiera autentica diventa memoriale, diventa celebrazione degli interventi di Dio dei “mirabilia Dei”(opere meravigliose di Dio), dei fatti grandiosi attraverso cui Dio ha guidato la storia del suo popolo. Grandiosi non nel senso di strabilianti eventi, ma che il popolo ha visto quelli come i cardini, i punti fermi e fondamentali, decisivi attraverso cui la sua storia è andata avanti.

La preghiera nella Bibbia è prima di tutto celebrazione, lode, ringraziamento; questo il punto cardine della preghiera. Anche per gli israeliti esisteva la preghiera di richiesta, ma il quadro era sempre quello della realizzazione del piano salvifico di Dio in cui tutto Israele e il singolo individuo si trovavano immersi. Questa è una prospettiva tanto differente da quella che noi facilmente abbiamo. Al cap. 15 c’è una preghiera, un inno, una celebrazione in un certo senso è anche inno nazionale, ma è soprattutto preghiera.

LETTURA: Esodo 15, 1-26 = Canto di vittoria: “Cantate al Signore, perché ha mirabilmente trionfato

  1. 3: guardate quanti elementi storici trovate qui: “Il Dio di mio padre” (questo è legame con la storia); “Il Signore è prode in guerra” (questa è una vera e propria guerra); “Jahvè è il suo nome” (questo nome che non è soltanto Dio in genere, ma Jahvè).
  2. 5: “sprofondarono” è l’esaltazione del fatto; raccontato descrivendo: veramente quelli che inseguivano sono morti.
  3. 7: “sublime maestà” Dio qui è descritto anche con i sentimenti umani: l’ira, la lotta; questo va da sé.
  4. 8: “si alzarono le onde” una metafora potente: Dio è visto come una specie di mostro che soffia.
  5. 10: “soffiasti”. Non vuole dire tanto il fatto, fa riferimento agli elementi naturali, agli eventi; Israele sa e sta constatando che questo popolo, che lo inseguiva, non l’ha potuto raggiungere. Siamo noi che ci fermiamo troppo sul miracolistico e meno sulla storia, per cui, invece di vedere il cammino della storia, abbiamo visto soltanto l’episodio singolo, staccato e in una luce falsata
  6. 10-20 e seg.: la storia cammina; si ripete ad ogni enunciato “perché eterna è la sua misericordia“. In fondo il senso è lo stesso inno di Esodo 15.

Questa la liturgia, la preghiera di Israele: è un camminare nella storia e un continuare questa storia, un metterla sempre in rapporto al futuro, Israele ha percepito questo legame; la rottura con Dio significa negare la storia come vera costruzione (lo vedremo nella terza parte).

E’ nella storia che tu rovini te stesso (e questo è vero anche oggi; il rifiuto di Dio è la negazione del cammino della storia). Questo diventa fondamentale in Israele, è proprio il cardine.

A P P E N D I C E   LA PASQUA DI CRISTO

In fondo Cristo che cosa ha fatto? ha celebrato la Pasqua sotto questa linea. (Noi adesso ci immettiamo nella sua Pasqua, ma mettiamoci nella mentalità degli apostoli). Cristo ha celebrato la Pasqua ebraica che era anche la sua Pasqua, ma perché era la sua storia.

Noi siamo portati a sottolineare quasi un piano preordinato di Dio; doveva arrivare lì, doveva scontare, pagare a posto nostro. Invece Cristo celebra la Pasqua ricordando tutta quanta la storia del suo popolo; però ci mette la sua, nel senso che lui ha annunciato il Regno, ha portato quello che Dio-Padre gli aveva dato, la sua preghiera è stata l’esperienza del Padre. E come Mosè nel deserto ha conosciuto qual era il piano di Dio, così Cristo conosce il piano del Padre e lo realizza. Annuncia il Regno.

Non si mette su un piano di liberazione politica, si mette su un piano molto più vasto, che è di liberazione totale umana; l’annuncio del Regno del Padre e dell’amore, le sferzate terribili contro l’ipocrisia (degli Scribi e dei Farisei) e contro tutto il male. Questo lo mette in contrasto con tutto l’ambiente. Per Cristo celebrare la sua Pasqua significava non rinunciare a questo piano; la fede di Cristo (possiamo parlare anche di fede!) è accettare totalmente questo piano, portare l’annuncio che il Padre gli ha affidato anche se sa che questo lo porterà a cozzare con il mondo circostante, con le autorità e lo porterà alla morte.

Gesù celebra la Pasqua del suo popolo e la sua Pasqua; e questa diventa la Pasqua definitiva. Gesù risponde totalmente al Padre nella fedeltà; in lui rispondono a Dio Israele e l’umanità.

Questo è il mio corpo dato per voi“, è l’estremo atto di devozione al Padre e agli uomini. Come l’agnello e il pane azzimo della Pasqua erano il segno della liberazione di Dio, così ora la vita di Cristo, stroncata dal male degli uomini e offerto al Padre è il segno della nuova liberazione. Infatti come Mosè crede a Dio che gli dice: “Vedrai, quando sarai qui col tuo popolo, che ero io a parlarti e a liberarti”; così Gesù, il Figlio, crede al Padre, che dona la vita; “Chi avrà donata la sua vita, la ritroverà; il terzo giorno risorgerà”. Ed ecco, dopo la croce, la vita nuova; la risurrezione.

Questa è la Pasqua di Cristo; ed è la Pasqua di liberazione completa e definitiva, perché è per sempre col Padre. Per questo Cristo ci dice; “Prendete e mangiate“, per essere assimilati a Lui e celebrare la nostra Pasqua di liberazione e di vita nuova col Padre,

La liberazione è il culmine, ma non è tutto; il completamento vero è il rapporto nuovo con Dio e quindi l’idea nuova ed importantissima che acquisisce Israele è quella di essere popolo di Dio. Dio dice; “Tu sei il mio popolo, il mio primogenito, sono sceso a salvarti. Io ti ho acquistato, sei il mio primogenito, io ti ho riscattato, ti ho comprato a prezzo, ti ho portato fuori; tu sei il mio popolo ed io sono il tuo Dio“. E’ il culmine della coscienza di Israele. Questi due momenti sono strettamente connessi, il momento della liberazione nel fatto di essere costituito popolo di Dio.

Te r z a   p a r t e: L’ALLEANZA FRA DIO E ISRAELE  (Esodo capp. 19-20 e 24)

Ritorniamo a Mosè. Si è detto della sua esperienza di corte prima (uomo politico e uomo militare); poi della sua esperienza nel deserto (la sua meditazione, anche la conoscenza della vita delle tribù) e quindi Mosè è l’uomo che adesso può dare un’impronta a questo popolo e organizzarlo come tale, in realtà Mosè fino a questo punto è stato, se non proprio un capo-guerriglia, un qualcosa, di simile: è stato un capo che ha tirato fuori il suo popolo, ma non lo ha organizzato.

Ora dà una struttura; mette i 70 capi, fa delle leggi: egli fa tesoro di tutto ciò che conosceva, dà anche una struttura religiosa, e quella fondamentale è la Celebrazione della Pasqua e la Celebrazione del sabato, il giorno di riposo, “Per sei giorni lavorerai” (Es 34,21)

Tutto questo dà significato ad un popolo. Un popolo non esiste senza una struttura, una legge, una cultura, una religiosità. Nel dare le leggi (Es 34) si serve di tutte le sue esperienze; tutto, ed anche la legge viene presentata, come qualcosa che viene da Dio. In fondo si tratta delle leggi che. questo popolo si dà o che questo popolo accetta, da parte di Mosè. Di fatti nei capp. 20 – 24 c’è in sintesi la legge di Israele ed è una legge che ha molto in comune con le legislazioni antiche. (Pensate alla grande figura di Hammourabi o dei grandi legislatori dell’oriente antico).

.a)   La religiosità investe tutta la vita

Mosè fa tesoro degli elementi ormai comuni a più civiltà, li prende, ma li mette in un contesto che è totalmente differente: non è soltanto una legge, è la legge di Dio per questo popolo che è stato salvato. Ed allora la vita di questo popolo in tutti i suoi aspetti (familiare, sociale, politico organizzativo) diventa fatto religioso: la vita eterna è stata riscattata e presa da Dio e quindi tutto quello che gli serve per essere popolo viene da Dio. Questa è una cosa importantissima perché la religiosità non è vista come fatto cultuale ma come fatto di vita: non esiste una religiosità-culto, esiste una religiosità-vita, il culto diventa soltanto memoriale-celebrazione di quello che Dio ha fatto per il popolo: la religiosità è nella vita. (Applicando a noi non sono religioso perché vado a Messa, la domenica, ma sono religioso perché sono giusto, perché mi metto in ascolto della Parola e la pratico, perché voglio bene al mio prossimo, e altro). Pertanto l’incontro con Dio, la religiosità non vista tanto nei riti del culto (quello è un momento della vita, è un momento della celebrazione del rapporto con Dio; diventa, segno della salvezza che Dio continuamente dà), ma la vera religiosità sta nella vita, questo è un fatto fondamentale.

Israele esce da questo concetto di religiosità culturale, magica, che si conclude soltanto nel rito, nella festività, com’era nella mentalità dei popoli circostanti; esce dalla mentalità di una religiosità di tipo contrattuale: Dio non è più quel grande padrone e signore che bisogna tenersi buono con fargli dei sacrifici; donargli un qualche cosa, come se Lui ne avesse bisogno e così a ne ridona altro. Israele si mette in un’altra idea, l’idea che tutto è di Dio, che tutto viene da Lui e che quindi tutto quello che l’uomo ha, è suo e che l’uomo a Dio deve ridare la vita; quindi la vita condotta dalle persone è religiosità ed è cammino verso Dio e insieme è anche il bene dell’uomo. Non è l’uomo a rendere un bene a Dio.

Questa è l’idea geniale di Mosè, cioè l’uomo non può portare a Dio niente con tutta quanta la sua religiosità dinanzi all’assolutezza, alla grandezza, alla sovranità di Dio nella storia: l’uomo non può fare un favore a Dio. Noi invece siamo tentati di partire con questa idea: ti faccio questo favore, ti vengo a sentire la Messa, oppure ti vengo a dire il Rosario o qualcosa di questo genere. L’uomo di allora poteva dire: ti porto la primizia, ti porto i frutti migliori e mi ricambi con la salute, la ricchezza, la fecondità. Niente di quanto l’uomo fa è un atto che ricorda (la celebrazione) l’intervento di Dio. La vera religiosità (punto culminante ed essenziale per la realizzazione dell’uomo) è la vita stessa dell’uomo in tutta la sua crescita. Questa vera religiosità non bisogna scambiarla, con il culto. Il vero culto è un momento della vita dell’uomo in cui si celebra Dio che viene incontro all’uomo. Dio ti offre la salvezza: questa è l’idea fondamentale. Riassumendo:

1- Coscienza di essere popolo di Dio: un popolo che Dio ha fatto, salvato, riscattato. E’ suo, gli appartiene.

2- Una religiosità che abbraccia tutta quanta la vita condotta.

3- Una religiosità per cui tutti sono uguali perché ogni persona riceve tutto da Dio. Non c’è l’uomo particolare. Ad esempio il sacerdote non è colui che ha dei poteri straordinari. Nella religiosità pagana, in genere, il sacerdote ha un potere straordinario per accaparrarsi la divinità, oppure per interpretare i segni delle divinità. In Israele il sacerdote è colui che nell’assemblea guida la celebrazione, il memoriale, il ricordo. Non c’è il concetto di sacerdote come uomo sacralizzato o uomo del sacro. Le persone sono tutte uguali.

4- Mosè, in alcune leggi e specialmente in quello che noi chiamiamo “Decalogo”, è veramente straordinario, pertanto sono diventate leggi comuni per tutta l’umanità e non si trova nell’antichità qualcosa del tutto simile. Mentre per le cosiddette leggi casuistiche (caso per caso, cfr Es 21-23) ci sono tanti esempi nella cultura orientale: il Decalogo è qualcosa di unico, ha toccato la natura umana. Mose è un uomo che attraverso l’esperienza religiosa, a contatto con Dio è stato capace di scendere a fondo e toccare i cardini della stessa natura umana.

.b)   Dio sceglie Israele come suo popolo

LETTURA di Es 19,1-6 = “una proprietà particolare tra tutti i popoli”: la vocazione del popolo di Dio  (sono parole che il popolo ha da imparare a memoria).

Significato: tutto è mio: la terra, le genti, ma voi mi appartenete in maniera particolare cioè nella storia universale quella di Israele diventa una storia tipica, veramente particolare ” la storia della rivelazione di quello che Dio fa per l’umanità, di quello che Dio chiede all’umanità.

  1. 5 “Se custodirete la mia alleanza”: la religiosità è nell’osservanza del patto dell’alleanza, di essere popolo di Dio. “Voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli”. E’ difficile poter rendere bene il termine ebraico “segullah”: la proprietà di una cosa che in sé e per sé non ha nessun valore, ma diventa valore enorme perché è carica di tanti ricordi e di tanto affetto come per un ragazzo la fotografia della sua ragazza può essere un tesoro molto più grande dei soldi, dell’oro perché carica di tanti ricordi e amore; così la fotografia di un figlio morto è tutto per la madre carica di ricordi. Il popolo è quasi il tesoretto (si potrebbe dire); non nel senso che vale tanto, ma per il fatto che ci è attaccato il cuore di Dio.
  2. 6 – “Regno di sacerdoti” è stato detto prima che tutta la vostra vita è un sacerdozio, “Nazione Santa” non nel senso che già non commettete più nessun male, ma nel senso di “siete riscattati, salvati”. In questo senso voi che glorificate me siete gente “santa”.

Quando si parla di fuoco, di tuono, di lampi e altro, è bene pensare che Dio è descritto con gli elementi presi dalla natura e che sono gli elementi delle teofanie cioè delle manifestazioni di Dio.

.c)   Mosè il legislatore

Al cap. 20, 1-17, viene riportato il Decalogo o ‘dieci parole’. Nella redazione attuale dell’Esodo si trova al di fuori del racconto che, interrotto al 19,25, riprende al 20,13 (cfr l’altra edizione in Dt 5,6-22). Il decalogo si presenta innanzitutto come le ’dieci parole’ rivolte da Jahvè, Dio d’Israele, al suo popolo che Lui ha liberato dalla schiavitù egiziana (cfr 19,2). Esso emana dalla volontà del Dio dell’Alleanza, ed è in stretto rapporto con la salvezza del popolo, operata in Egitto; d’altra, parte è parola indirizzata al popolo in quanto legato al Dio dell’Alleanza. Quindi l’unica ragione d’essere del Decalogo è il Patto. Non ha il carattere di un codice di legge naturale valido per tutti, né di un riassunto delle esigenze etiche che scaturiscono dalla coscienza morale dell’umanità. Neppure è propriamente una legge, mai il VT lo chiama legge precettiva, perché sono indicazioni in forma negativa e prive di qualsiasi sanzione. In realtà sono le delimitazioni rigorose dell’ambito in cui Israele può ancora esistere come popolo del Patto in comunione con il suo Dio.

Al di fuori del Decalogo l’israelita cessa di essere membro della comunità dell’Alleanza e Israele cessa di essere il popolo di Dio.

Sarebbe errato pensare il decalogo come la condizione previa che Dio chiede per stabilire la sua Alleanza. L’Alleanza è puro dono di Dio. Il decalogo è da comprendersi come tutela della realtà di comunione del popolo con Dio. Il centro di interesse, pertanto, sta nel rapporto di mutua appartenenza di Jahvè e del popolo, la formula espressiva dell’Alleanza nella Bibbia. “Io il tuo Dio. Tu il mio popolo.”

Accettando il Decalogo, Israele riconosce Jahvè come suo salvatore nella storia, accoglie la grazia divina, e confessa di essere il popolo dei salvati. Non si tratta, soprattutto, di obbedienza ad una volontà imperativa, ma soprattutto di accettazione, nella fede e nella prassi, della volontà e dell’azione liberatrici del proprio Dio.

LETTURA: Esodo 20, 1-17 = Il Decalogo.

  1. 3-12- Solo il 3° (o 4°) e 4° (o 5°) hanno la forma positiva (volere), gli altri hanno la forma negativa (non volere).
  2. 13-17 Gli ultimi comandamenti sono enunciati in forma breve e sintetica. C’è da fare attenzione alle motivazioni contenute nel v. 2 , nei vv. 3-6; nei vv. 9-11. Nota un’ipotetica formulazione originaria del Decalogo:

Non adorerai altro Dio.

Non farai immagine alcuna di Dio.

Non nominerai il nome di Dio invano.

Non lavorerai il sabato.

Non maledirai tuo padre o tua madre.

Non ucciderai.

Non commetterai adulterio contro il tuo prossimo.

Non sequestrerai il tuo prossimo.

Non testimonierai il falso contro il tu prossimo.

10 Non “desidererai” la casa del tuo prossimo.

 

.d) Si conclude l’Alleanza fra Dio e Israele

La relazione con Dio, l’Alleanza, è sancita da un rito esterno. L’uomo non può raggiungere Dio, né far memoriale di Dio se non attraverso gli elementi della sua natura, i riti esterni. Da qui il significato del sacrificio, è il segno dell’Alleanza con Dio. Non ha tanto il significato di un’offerta a Dio, e neppure quello di una espiazione (questo è secondario).

Il complesso racconto dell’Esodo trasmette diversi rituali della conclusione dell’Alleanza.

Nel primo Mosè, Aronne e gli anziani di Israele prendono un pasto sacro alla presenza di Jahvè che contemplano (Es 24,1-2.9-11);

Il secondo sembra riprodurre una tradizione liturgica, conservata nei santuari del Nord. Mosè innalza, dodici stele per le dodici tribù di Israele ed un altare per il sacrificio con l’aspersione del sangue (Esodo 24, 3-8).

Una terza, rappresentazione (javista.) sarà data in Esodo 34.

E’ fondamentale che l’atto sacrificale sia il segno del rapporto, dell’Alleanza con Dio. Difatti Mosè dopo aver parlato con Dio “andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore” e il popolo le accetta. Lettura di Es 24, 3-8 = La conclusione dell’Alleanza, (cfr Dt 27,10; Gs 24, 19-20 ed anche Gs 8, 32-35)

Una tale Alleanza è una relazione di vita e riguarda l’essenziale, la totalità della vita. Poiché “La vita di ogni essere vivente è il suo sangue” Lv 17,14 solo il sangue può essere segno e sacramento di questa relazione vitale tra due persone. Ciò che viene sparso è il sangue, segno della vita, e ciò che vi è di più santo nella vittima. Avere parte allo stesso sangue è prendere parte alla stessa vita e la vita questa volta è Dio, perché a Dio appartiene l’animale immolato. Tra queste parole e quelle che dice Gesù non c’è molta differenza: sono le stesse. Questo è il significato del sacrificio: il sangue è il segno del rapporto dell’Alleanza con Dio (cfr Eb 9,15ss; Mt 26, 28 e paralleli; 1Pt 1,2).

Concluso il patto, diversi oggetti ne perpetueranno il ricordo, attestando nei secoli l’impegno iniziale di Israele: l’Arca dell’Alleanza e la tavola della testimonianza; la Tenda del Convegno dove l’Arca è conservata, luogo centrale del culto. E’ chiaro il legame perpetuo del culto israelitico con l’Alleanza del Sinai, l’atto iniziale che ha fondato la Nazione. Così pure la Legge intera non ha senso se non in funzione dell’Alleanza di cui annuncia le clausole.

Se poi si chiedesse se il popolo di Dio celebrava la Pasqua con consapevolezza, la risposta è affermativa, nel senso che in mezzo a loro c’era chi se ne rendeva conto. Ma in questa consapevolezza ci sono gradi diversificati. E iI culmine di questa consapevolezza l’ha avuto Cristo: quella è stata una Pasqua celebrata proprio in totale libertà. In realtà il Cristo, che accetta totalmente il piano del Padre e va incontro alla morte e che ha la certezza della Resurrezione, è colui che celebra la Pasqua in piena consapevolezza, in piena libertà, in piena fede. Noi siano chiamati a celebrarla così.

Q u a r t a   p a r t e – LA ROTTURA E LA RINNOVAZIONE DELLA ALLEANZA (Esodo 32 – 34)

.a) Il Vitello d’oro

Vediamo la quarta tappa di questa relazione con Dio; è una cosa importantissima. Nei capp. 32; 33 e 34 dell’Esodo campeggiano due figure; il popolo e Mosè. Nel cammino del popolo verso Dio, in questo rapporto nuovo di alleanza con Dio non tutto va bene. La prima difficoltà sta nell’arrivare alla vera idea e al vero rapporto, fatto difficile che richiede una fede forte.

Pensate, ad esempio, a questo fatto: il popolo ebraico non poteva avere nessuna rappresentazione di Dio: l’unica cosa che rappresentava Dio e diceva la sua presenza in mezzo al popolo era l’Arca dell’Alleanza. Questo già richiedeva uno sforzo non comune per gente dalla mentalità comune.

C’è poi questo proiettarsi verso il futuro: “Io sono quel che sarò, sono quel che vi farò“. Tutto questo significava affidarsi, avere fiducia. Noi non abbiamo dalla natura la forza di una fiducia che ci prenda in questo cammino verso il futuro; noi purtroppo siamo presi dalle piccole cose, ci contentiamo di quello che è immediato e non cerchiamo quello che ci costruisce in maniera totale, ci realizza nel futuro, in quello che sta al di là. Questa prospettiva ci sfugge e non riusciamo a fondarci i nostri ideali.

Pertanto, non c’è da meravigliarsi; questo popolo viene meno e commette il celebre peccato, il vitello d’oro. Come è presentato qui? Mosè è lontano, è con Dio; il popolo non lo vede tornare e pensa; “Ormai è finito, facciamoci un altro Dio”, E si fanno un’immagine di Dio, riprendendola dalle divinità egiziane; si fanno un bue, un toro, il “Dio Api”. (In Egitto il toro rappresentava la divinità). Non è imporrante l’atto in sé e per sé; forse, come tale, voleva essere una figurazione di quel Dio che li aveva condotti fin lì. Ma significava quasi fermarsi, adagiarsi nelle piccole cose, rattrappirsi, perdere quella tensione verso la realizzazione delle promesse; il dimenticarsi di Dio, di quello che Dio ha fatto e delle mete che addita, per fermarsi, stabilizzarsi. In questo sta la gravità del peccato, per questo è il vero peccato.

LETTURA: Esodo 32, 1-10 = Il vitello d’oro

E’ terribile questo fatto. Qui c’è tutta una figurazione; è tutto un popolo che dimentica Dio e al posto di Dio ci mette qualcosa d’altro. Non è il fatto del vitello in sé e per sé, della statua, ma è l’agganciarsi a qualcosa che è lì, sul momento, a qualcosa che ti fa sicuro, che è ben determinato; questo è il tuo Dio; ma non ti realizza, non ti porta alla pienezza. L’idolatria è proprio questo dimenticarsi di Dio.

Il mondo di oggi è profondamente idolatra, quando scambia i valori di Dio con la tecnica, col progresso, con la scienza, con la ricchezza, con la potenza, con l’uomo stesso; ripete sempre questo atto d’idolatria. “Questo è il tuo Dio” significa fermarsi qui, perdere la prospettiva del Dio dei padri, del Dio della promessa, del Dio che spinge là. Fermarsi qui; questa è la rottura con Dio, il peccato più grave.

  1. 7-8. Il popolo pervertito. Quando Israele sarà entrato nella terra promessa si scorderà di Dio e dirà; “Mi hanno salvato le divinità di Canaan, della Palestina” (e cominciano i culti idolatrici). “Mi ha salvato la mia potenza”. Nei salmi ricorrono spesso espressioni di questo tipo: “Dio non guarda la potenza, i cavalli, la forza delle tue gambe, ma Dio guarda l’umile, il semplice, colui che ha fiducia, che è in una prospettiva di apertura verso di lui”.
  2. 9: E’ vero di Israele ma è vero di tutti: siamo un popolo di dura cervice.

.b) Mosè, il mediatore

Mosè è una grande figura: da una parte il popolo che traligna e dall’altra Mosè, l’uomo preso totalmente da Dio.

LETTURA: Esodo, 32,11-14 – Preghiera di Mosè.

Qui la figura di Mosè è veramente grandiosa, è l’uomo che ha capito che Dio è tutto: la sua esperienza l’ha portato a questo. Ma è anche l’uomo che è totalmente e completamente solidale con il suo popolo. Dio quasi gli fa questa proposta: “Distruggo questo popolo e ricomincio con te”. Qui c’è tutto un modo di parlare finemente psicologico. Colui che scrive presenta Dio come antagonista di altre potenze, quelle egiziane, cui Dio ha sottratto il popolo suo. Dice Mosè: “Se tu lo distruggi, diventi ridicolo di fronte ai tuoi avversari, a quelli che opprimevano il popolo tuo: Diranno: Sì, li ha liberati, ma per farli finire in un momento nel deserto: tu ci fai brutta figura”.

Chi arriva ad esperienza religiosa profonda si mette con Dio su questo piano, quasi a tu per tu, quasi di costringere Dio. Ma in fondo è la descrizione del dramma che Mosè sente dentro perché vive a pieno il piano di Dio. Mosè sente la tentazione di abbandonare tutto, perché il popolo non gli ha dato ascolto. Resiste alla tentazione di scoramento e riprende la sua meditazione sulla promessa fatta ad Abramo, Isacco, Giacobbe. La promessa adesso è lui, adesso cammina in questo popolo. Mosè ritorna sempre sul suo punto fondamentale: cioè la storia come base della fede.

Poi Mosè scende, spezza le tavole della legge. C’è come una specie di crollo. (Es 32, 15-29). Però Mosè riprende le cose in mano e di nuovo fa capire a questo popolo lo sbaglio enorme che ha fatto. Riconosciuto lo sbaglio (Es 32, 30-35) bisogna ricominciare da capo. Da qui hanno inizio le cose più belle: riprende il dialogo tra Mosè e Dio.

LETTURA: Esodo, cap.33.

  1. 4: Dopo il peccato c’è una specie di frattura, non agisce Dio direttamente, ma c’è un intermediario: l’angelo.
  2. 5: “vi sterminerei”. Dio è santo proprio in quanto è colui che sta al di là, che è al di sopra di ogni cosa, che è totalmente trascendente, inaccessibile nella sua santità; quindi se si avvicina all’uomo lo consuma e l’uomo non può sopportare questa sua presenza.
  3. 14: Mosè è solidale in maniera completa con il suo popolo e sente la forza sua di essere mediatore tra Dio e il popolo.
  4. 18: Vedete come vanno avanti le cose. Prima. “Vieni con me”; poi: “Sii in mezzo a noi”; adesso ancora l’ultima domanda: “Fammi vedere la tua gloria”. Qui “gloria” significa Dio stesso, cioè la gloria di Dio è la manifestazione di Dio, è tutto.
  5. 21: Notate la trascendenza di Dio, sopra ogni cosa; la libertà piena, sovrana.
  6. 22-23: Mosè è arrivato al culmine. Questa è la tensione dell’uomo che a contatto con Dio, desidera anche vedere Dio, faccia a faccia. Ma questo non è possibile: il volto di Dio non si può vedere. Mosè è arrivato al massimo contatto, alla più profonda esperienza religiosa e nello stesso tempo non si estranea dal suo popolo. Totalmente solidale e immerso nel suo popolo e, nello stesso tempo, totalmente immerso in Dio.

In Mosè non è una presunzione il suo voler vedere Dio. E’ vero che tutto quello che ti sta intorno, anche la stessa storia, ti rivela Dio, ti fa conoscere Dio, la sua gloria, la sua potenza, le cose mirabili che fa Dio: nonostante questo c’è ancora da travalicare, andare oltre. Qui è l’immettersi totalmente in Dio per entrare in contatto con Lui. E’ un pochino quello che S. Paolo dice di se stesso nella seconda lettera ai Corinzi: “So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare”. (2Cor 12,2-4). Cioè l’uomo perde se stesso in Dio; l’uomo sente che tutto quello che è nella storia pur essendo la storia di Dio, va travalicato, per passare al di là: Mosè sente questo.

Il popolo che si è creato un Dio visibile (l’idolo) è stato punito. Come mai Mosè vuol vedere Dio? C’è una grande differenza: il popolo si sta dando un Dio visibile, perché ha perso il senso del futuro, di quello che Dio gli ha detto e si ferma a qualcosa di concreto perché ha perso il senso della prospettiva. Mose è su tutt’altro piano; Mose è in un cammino ancora da compiere.

Il popolo ha materializzato un suo dio (idolo), proprio perché ha perso la tensione della cosa a cui Dio lo chiamava, per fermarsi su qualcosa d’immediato, che prende ora; e quello che immediatamente gli interessa, ma che gli fa dimenticare il vero cammino.

Nella risposta di Dio c’è senz’altro la sua trascendenza, la sua sovranità, la sua purezza. Dio è veramente l’inaccessibile. Anche nel N. T. nel prologo al Vangelo di S. Giovanni, si legge; “Dio, nessuno lo ha mai visto; il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18) cioè il volto di Dio è il Cristo, lì veramente possiamo toccare con mano.

E S. Giovanni nella, sua prima lettera. (1,1) dice; “Quello che le nostre mani toccarono del Verbo della, vita” cioè la Parola stessa di Dio; noi l’abbiamo toccata con mano, l’abbiamo sperimentata; c’è la palpabilità quasi di questa, presenza di Dio.

Sta di fatto che Dio è proprio inaccessibile in sé. E’ accessibile soltanto quando Lui stesso si dona, quando Lui stesso viene incontro ed è al di là dell’uomo e della storia stessa. In fondo questa inaccessibilità di Dio dà l’idea del rischio che c’è nella fede. Quando si scala una montagna, tu vedi un certo picco e ti pare che quello sia l’ultimo, ti sforzi, arrivi, ed invece ce n’è un altro; raggiungi quello e ne trovi un altro. Il peccato del popolo ebraico è questo: prima crede in un Dio che lo lancia nel futuro, (un picco, poi un altro, poi un altro); poi si fa il vitello d’oro come per dire: sono arrivato, è questo e questo non cambia più.

Quando di Dio credi di poter dire: “L’ho raggiunto, adesso mi si è manifestato”, proprio allora cresce in te l’ansia, e ancora scopri che è veramente tanto più grande; e tu seguiti a camminare; è una scoperta continuamente nuova.

.c) Dio castiga e tollera l’iniquità

LETTURA: Es. 34, 1–9: proclamazione del significato di Dio stesso.

  1. 6: ecco la proclamazione del nome proprio di Dio: la bontà, la misericordia, la “hesed”, come dicevano, “Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà“.
  2. 7: “Perdona la colpa, la trasgressione ed il peccato”. Mosè ha capito una grande cosa: Dio veramente perdona, perché è l’Onnipotente e può ricominciare da capo la storia. Dio ha dato a questo popolo anche il terribile potere di rinnegarlo, perché Egli è anche capace-di ricominciare.

In fondo la caratteristica dell’onnipotenza, è quella di dare la libertà agli altri; quanto più uno è potente, tanto più è capace di donare la libertà agli altri e quindi anche di dar la possibilità di dire di no, perché ha la capacità di ricominciare. Quanto più uno è piccolo e meschino, tanto più sarà incapace di donare la libertà agli altri. Questo è vero anche per noi; quanto più noi siano capaci di amare l’altro tanto più siano capaci di dargli la libertà e la responsabilità: quanto più noi siamo gretti, chiusi, tanto più negheremo la libertà all’altro. E, nonostante l’errore del popolo, possiamo dire che la Pasqua celebrata subito dopo la liberazione, aveva quel significato: “ti ho fatto popolo mio, sei popolo mio, nonostante che abbia questo terribile potere di dirmi di no”.

Potrebbe far difficoltà la frase (Es 34, 7) “che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli, fino alla terza e alla quarta generazione“. Attenzione al genere letterario che si esprime in questa prospettiva: l’amore di Dio è per mille generazioni, cioè è per ’’sempre’’; il castigo poi è insito nel tuo stesso operare; quando ti tagli da Dio, in quest’atto stesso trovi, immanente, qualcosa che ti punisce, perché significa fermarsi, e in questo tuo fermarti già rinneghi te stesso, punisci te stesso e questo dura “fino alla terza e alla quarta generazione” crei questa situazione di rottura, per te e per gli altri. Però Dio è talmente capace che fino a mille generazioni, sempre cioè, è capace di riprenderti e di portarti la sua misericordia. Guardate quindi lo sbilanciamento che c’è tra le due affermazioni: “Conserva il suo amore per mille generazioni, perdona la colpa, la trasgressione ed il peccato; ma non lascia senza punizione“? il peccato è sempre ricordato. Dio niente lascia, impunito: “Castiga la colpa dei padri nei figli e dei figli nei figli, fino alla terzo, ed alla quarta generazione“. Ecco il significato: per il fatto stesso che tu ti sei rotto, hai fatto il tuo male, ti sei fermato, non hai realizzato te stesso, non hai percorso quella strada che era la tua strada, in questo fermarti ti sei tagliato le gambe, per te e per gli altri. Ma, ecco, viene il Signore, ti riprende per mano e tu cammini ancora.

Il brano dice ancora che i figli e i nipoti portano le pene dei peccati dei padri e questo è vero. Ma c’è da intendersi sul fatto che questo è un cammino storico e nella storia, la realtà c’è, non la togli: se tu hai creato una situazione di stasi, di fermo, l’hai creata per te e per gli altri, quindi neppure gli altri si rimettono in cammino. Non che uno paga per l’altro, quando non c’è nessuna responsabilità. Quando tu hai creato una situazione, questo rimane, nemmeno Dio la può negare; ma Dio onnipotente è capace di tirarti fuori, però quella situazione l’hai creata tu. (Ad es.: se mio padre ha perso la guerra, l’ho persa anche io; se in una famiglia, il marito è ubriacone, la moglie è una donnaccia, mettono al mondo un figlio sbalestrato, matto, non educato. E’ colpa del figlio?  No! Però la situazione è quella). Dio è certamente capace di riprenderti e di ricondurti sulla strada e lo vuole; però è anche vero che la situazione creata da te, c’è.

Forse la difficoltà a capire nasce anche dal fatto che noi pensiamo solo alle realtà individuali; per noi conta il peccato individuale, l’opera buona individuale, quello che individualmente sappiamo fare. La realtà del Corpo Mistico ci dice, invece, che il mio bene rifluisce in bene degli altri e il male che io faccio è un’emorragia nel Corpo di Cristo, è un male inserito nella storia. Se oggi non facessi questo bene necessario, ne scaturirebbe un danno agli altri. Questa è la situazione. (Se su 300 preti di Fermo nessuno sarà veramente prete, il popolo cristiano scenderà nella fede, scenderà sempre di più; c’è il peccato personale del singolo prete. però la condizione di degrado sta su tutti).

Da questo si capisce come nella Messa si fa la richiesta individuale di perdono alla comunità e della comunità a me. “Confesso a voi fratelli …” Noi siamo strettamente uniti, è il grande valore della comunità; siamo legati gli uni agli altri. Gli ultimi secoli invece ci hanno fatto credere che il grosso valore è l’individuo, ma in senso individualistico esasperato.

Facciamo anche un’altra considerazione: oggi stiamo assorbendo una mentalità che è terribilmente ancorata ai beni materiali ed alla loro valorizzazione esclusivamente; ne segue una mentalità edonista e consumistica: questo non può non portare del male; è un male che sta nella storia. E’ la tua e nostra situazione di peccato: tu la, crei, la dài ad altri che si trovano in questa mentalità; uscirne fuori è terribile per gli altri che ne portano il peso. C’è da scartare l’idea di un Dio che aspetta il momento della vendetta, come a dire: tu hai fatto il bene, ti dò il premio, tu hai fatto il male, devi essere castigato. (Quasi un Dio che sta a spiarci, per il gusto di punirci e vederci soffrire). Questa è la mentalità sbagliata. La punizione di Dio è lo stesso male che hai compiuto: ti sei fermato, non hai realizzato te stesso; Dio non ti punisce dall’esterno; hai rinnegato te stesso e quello è il tuo male, quella è la punizione con tutte le conseguenze che porta; in questo senso l’inferno siamo noi.

La mia realizzazione poi è fortemente legata all’uscire da me stesso, perché se Dio è amore, io mi realizzo solo come amore; più esco da me stesso, dal mio egoismo e individualismo, più mi riempio degli altri e della realtà degli altri; più io vado avanti. Così mi realizzo e apparterrò a Dio, sarò tanto vicino a Dio, per quanto io sono diventato amore; e il mio paradiso sarà quello.

Noi siamo potenzialità di conoscenza e di amore: più mi potenzio in questo, più mi completo e più vado verso l’essere simile a Dio, quasi io conosco il nome di Dio come diceva Mosè. Lui conosce il mio nome e c’è unità con Dio; ma, per essere tale unità con Dio, ho bisogno di spogliami del mio egoismo, perché l’egoismo è l’anti-Dio.

Questi sono gli aspetti fondamentali del libro dell’Esodo. Il libro evidentemente presenta tanti altri aspetti. Quelli che abbiamo toccati sono come i punti cardine e le strutture portanti: sono le linee di teologia biblica; tutto il resto, le leggi, le istituzioni e altro vanno visti sotto questa luce.

APPENDICE

L’ARCA dell’ALLEANZA -La TENDA del CONVEGNO -IL TEMPIO

Il popolo ebraico è un popolo nomade. Uscito dall’Egitto, attraversa il deserto e quindi vive negli accampamenti, sotto le tende. Dio che aveva detto: “io sono in mezzo a voi; la mia Gloria vi precederà”, abita anch’egli in una tenda, la tenda di Dio è al centro dell’accampamento, intorno ad essa ci sono le tende del popolo. E’ bellissimo questo concetto: Dio abita in mezzo al popolo ed allo stesso modo del popolo.

. – La TENDA DI DIO viene indicata con diversi nomi: il più generico sembra quello di ‘Tabernacolo’; nomi più specifici sembrano: “Dimora” ed in Medio Oriente è il nome più comune che si dà ad ogni Tempio come ‘dimora di Dio’. Inoltre, santuario.

-“TENDA DELLL’INCONTRO” è denominazione israelita, l’incontro non è quello tra gli uomini in assemblea di adorazione, ma è l’incontro di Jahvè con Israele per mezzo di Mosè. Il Tabernacolo è il luogo della Rivelazione. Il Tabernacolo è allora il Santuario di Israele fino a quando egli è nomade. Ne parla il libro dell’Esodo, ci sono termini quasi identici, in due sezioni: nei capp. 25-31 dove si riportano gli ordini per la costruzione del santuario; nei capp. 35-39 dove si descrive la esecuzione.

Le descrizioni dell’Esodo amalgamano elementi antichi, (come l’arca, la sua tenda ed il materiale con cui sono fatte, che risalgono sicuramente a Mosè) con altri elementi che provengono dallo sviluppo del culto nel corso della storia di Israele, specialmente dopo la sedentarizzazione. Esse tengono presente il Tempio di Israele, costruito da Salomone e poi ricostruito che però riproduceva nell’essenziale la Tenda del Convegno con il suo Recinto Sacro. (Nota qui alla fine del paragrafo)

-Nella parte più interna del Tabernacolo (nel Santo dei Santi) era conservata l’ARCA dell’ALLEANZA. Era una cassetta, che conteneva le cose più sacre per un israelita: le tavole della legge, la manna, la verga di Aronne: questi erano i segni della storia di Israele:

–       le tavole della legge rappresentavano il rapporto con Dio;

–       la manna, l’intervento dell’aiuto di Dio;

–       la verga di Aronne, il segno del potere e dei sacerdoti che erano i ministri del culto.

L’Arca era ricoperta da una lamina d’oro, chiamata Propiziatorio(o Espiatorio). Sopra l’Arca c’erano anche due Cherubini, l’uno di fronte all’altro, costruiti in modo che le loro ali sovrastassero il ‘coperchio’ o Propiziatorio (in ebraico ‘kapporet’). Così l’Arca è il tronco e lo sgabello di Jahvè che siede sui cherubini (1 Sam 4,4) e custodisce la sua Parola sotto i suoi piedi.

Nell’Esodo il ‘Coperchio’ è presentato distinto dall’Arca. Nel rituale post-esilico esso interviene senz’Arca nel giorno della ‘espiazione’ ed in 1 Cronache 28,11 si chiama il ‘Santo dei santi’ luogo per il ‘coperchio’.

Legata all’Arca dell’Alleanza c’è l’immagine della NUVOLA (in ebraico kabod) che indica la “gloria di Jahvè”. La nube in genere può avere duplice significato come esperienza religiosa della vicinanza benefica di Dio (copre dal sole cocente, porta la pioggia benefica); e come castigo di Colui che vela la faccia. Comunque è soprattutto un simbolo privilegiato per indicare il mistero della presenza divina; manifesta cioè Dio pur velandolo.

LETTURA: Esodo 40,34-38 Nube (=Gloria di Dio) sulla ‘Tenda’ del Convegno

In questa Tenda si svolge il culto. Il sabato, il giorno di riposo, il popolo vi si dà convegno. In questo luogo Mosè amministra la giustizia per cui diventa il punto di convergenza di tutto. Questo aspetto si presta ad un bellissimo sviluppo. Quando Israele si sedentarizzerà nella terra di Canaan e abiterà nelle case, costruirà un tempio al Signore (sarà Salomone a costruirlo: leggi la prima parte del 1° libro dei Re). Questo tempio diventa segno della presenza di Dio. Ma si tratta sempre di un “segno” perché la realtà è un’altra: Dio è presente nella vita del suo popolo. Quando il popolo si allontanerà da Dio e non osserverà l’Alleanza, i profeti diranno che quel tempio non serve più a niente e sarà distrutto da Dio. Anche Gesù dirà del tempio del suo tempo, quello costruito da Erode: “Distruggete questo tempio ed in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2,19). Diceva questo perché il vero tempio non è quello di pietra, ma il vero tempio di Dio è Cristo che nella sua vita, nella sua umanità rende presente, rivela il Padre: è Dio in mezzo a noi. Egli è la nuova “Tenda“. S. Giovanni nel prologo dirà: “La Parola di Dio si è fatta carne e ha posto la ‘tenda in mezzo a noi” (Gv 1, 14).

Cristo risorto ci associa a sé, ci dona lo Spirito Santo: noi diventiamo il corpo di Cristo, ed in Cristo siamo tempio di Dio. Il vero tempio di Dio non sono le chiese, edifici costruiti di pietra, per quanto belli, ma il tempio di Dio è la Chiesa, cioè siamo noi.

La TENDA del CONVEGNO o DIMORA risulta divisa da un velo in due parti:

.1.   Il SANTO dei SANTI conservava l’Arca dell’Alleanza (Es 25, 10-22).

.2.   Il SANTO che conteneva:

–       La Tavola dei pani dell’offerta (o Mensa dei Pani) (Es 25, 23-30);

-…….il Candelabro (Es 25, 31-40);

–       L’Altare dei Profumi (Es 30, 1-5).

.B. Il RECINTO SACRO per la Tenda del Convegno (Es 27, 9-19). Avanti alla Tenda erano posti:

–          L’Altare degli olocausti (Es 27, 1-8);

–           La Conca (Es 30, 17-21).

 

APPENDICE   –  LINGUAGGIO BIBLICO E MESSAGGIO DI DIO

Dio, nella Sacra Scrittura, ha parlato per mezzo di uomini e alla maniera umana. Chi interpreta la S. Scrittura, per capire bene ciò che egli ha voluto comunicare, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi (cioè quelli che hanno scritto i libri) in realtà abbiamo inteso significare e a Dio è piaciuto manifestare con la loro parola, perché se vogliamo capire quello che Dio dice, non abbiamo altro mezzo che questa parola scritta, e quindi non possiamo prescindere da questo scritto, da questa storia, da questa tradizione. È assurdo voler arrivare a Dio quasi misconoscendo tutta la S. Scrittura, tutta la storia sacra: non capiremmo nulla della storia della Salvezza: di Dio, di Cristo, della Chiesa. Bisogna mettersi in questa linea, se vogliamo capire bene, dobbiamo saper interpretare quello che gli agiografi vogliono dirci. Questo è molto importante. La S. Scrittura quindi deve calare nella nostra vita, deve diventare il punto di rifermento del nostro parlare e del nostro agire. Esaminiamo due possibili domande:

.a)- Forse è importante, essenziale, mantenere il linguaggio della Bibbia?

Ogni linguaggio, ogni modo d’esprimersi è sempre, per forza di cose, inserito in una terminologia: e non esiste pensiero disincarnato da un linguaggio; ed è anche vero che il linguaggio fa il pensiero. Questi due aspetti sono correlativi; mentre io creo una civiltà, creo un linguaggio; e mentre creo un linguaggio, creo anche una civiltà: vanno di pari passo. Non è esatto dire: prima esistono i pensieri e poi viene il linguaggio. Esiste prima di tutto la parola di una lingua la quale è portatrice di un pensiero, di una mentalità, di un modo di concepire le cose.

I Padri della Chiesa non sono caduti in quest’errore. Prendiamo per tutti S. Agostino. Egli, nell’opera più famosa, le “Confessioni”, parla con il linguaggio della Bibbia: è presente il suo linguaggio filosofico, culturale derivato dalla cultura classica, ma le espressioni sono pregne del linguaggio della Bibbia; è presente il suo linguaggio filosofico, è tutto un riferire, un parlare con Dio sulla base di una mentalità e di un linguaggio biblico. Questo significa che, assorbendo il linguaggio biblico, se ne assorbe la mentalità e quando si è raggiunta la mentalità non si troveranno espressioni migliori, per esprimersi, che quelle bibliche.

.b) E come si fa a sapere con sicurezza quello che l’agiografo voleva, dirci a nome di Dio?

Questo fa capire che non c’è altro mezzo per capire quello che è la rivelazione se non entrare in quello che l’agiografo ha detto (agiografo è colui che scrive cose sacre, cioè quelle che ci portano la rivelazione di Dio). E’ necessario tuffarsi nella storia sacra, comprendere l’intervento di Dio nella storia. Dobbiamo metterci in questo cannino, aprire le nostre prospettive, uscire un po’ dal mondo chiuso nel nostro io; bisogna che ci apriamo, che usciamo da noi stessi, che ci mettiamo nelle prospettive di Dio, che ci immettiamo nel la storia, e poi capire che noi stessi siano chiamati a fare la storia insieme con Dio; se usciamo da questa mentalità, siamo quasi tagliati fuori.

Ciò può sembrare astratto, ma deve nascere la convinzione che solo immettendoci in questa linea si realizza il piano di Dio, che è la storia: la storia dei patriarchi, di Mosè, del popolo ebraico; la storia di Cristo; la storia della Chiesa, e, nello stesso tempo, la storia del mondo, la storia di oggi. Io sono dentro questa storia, se sono aperto a essa e so cogliere, come Mosè, i segni della storia, il cammino che la. storia stava facendo e come Mosè l’ha interpretata, l’ha condotta e come il popolo ebraico ha risposto. E’ tutto un popolo che cammina. Mosè costruisce un popolo. Oggi il popolo nuovo è la Chiesa: ci saranno anche dei capi, delle grandi figure, ma non tutti sono capi e grandi figure; questo va da sé, ma tutti siamo questo popolo che sta camminando, e noi siano immessi all’interno di questa storia.

I salmi ci dicono come gli ebrei nella preghiera avevano dinanzi tutta la loro storia e la loro preghiera aveva carattere fortemente comunitario e si sente che era rivolta ad un Dio che faceva storia con loro.

E’ necessario abituarsi a pregare con i salmi, a capirne la prospettiva per uscire un po’ dalla nostra preghiera tanto piccola; la nostra preghiera è fatta di formulette o è fatta dì richieste: la scuola, la salute, le relazioni con gli amici e altro; bisogna invece che ci apriamo a questo respiro più ampio; il respiro ampio della storia della Salvezza.

E’ in questa storia, con il suo sviluppo, che noi abbiamo la garanzia della continuità dell’azione di Dio, della sua fedeltà, della sua Parola. Guardata con l’occhio della fede questa storia ha un senso ben preciso e non può essere letta diversamente. Questo ci dà la sicurezza della presenza di Dio e che la storia e il libro che la racconta sono sua Parola.

Nota

Trascrizione delle lezioni registrate durante la ’Quattro-Giorni’ di VITA COMUNITARIA e LETTURA della BIBBIA realizzata a Sassotetto di Sarnano.   Relatore: don Gabriele Miola 

CRONOLOGIA BIBLICA COMPARATA     CENNO SULL’EPOCA DEI PATRIARCHI –                        STORIA DEI POPOLI e  STORIA BIBLICA

La migrazione di Abramo e gli avvenimenti con Isacco, Giacobbe e Giuseppe in Egitto secondo una ipotesi avvennero dall’anno a. C. 1850 ca. al 1720 ca.; un’altra ipotesi data dal 1650 ca al 1560 cioè dalla dinastia degli Hyksos asiatici faraoni alla loro espulsione.

L’oppressione degli Ebrei datata dal 1370 al 1290 a. C.  faraoni Amenofis IV; Horemheb; Seti I; Ramses II

L’esodo dall’Egitto sotto la guida di Mosè, seguito dalla vita nel deserto del Sinai; Cades dall’anno 1290 a. C. al 1265.  L’invasione fatta dagli Ebrei del Canaan e Giosuè dal 1250 al 1225

Meneptah. RAMSES III respinge i Popoli del mare 1226- 1218

EPOCA DEGLI OPPRESSORI DI ISRAELE ca.1198

EPOCA DEI GIUDICI – Edomiti con Kusan- Riseataym; Moabiti con Eglon; Giudici in Israele – Otniel

CANANEI con Sisara ca.1130 a. C. In Israele Deborah e Baraq; Gedeone; Regno di Abimelek; Tola Yair

Jefte; Ibsan; Elon; Abdon

AMMONITI e FILISTEI  ca. 1100 a. C. in Israele Samgar; Sansone; Eli;  ca 1050 Samuele

 

 

 

 

 

 

 

 

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Miola Gabriele biblista docente a Fermo: INTRODUZIONE ALLA BIBBIA RIVELAZIONE ISPIRAZIONE TRADIZIONE

MIOLA.Gabriele

PREMESSA

Prima di tutto è bene chiarire un concetto che è fondamentale per capire tutta la nostra esperienza e vita religiosa.

.a) La nostra vita religiosa, in genere, è molto naturalistica. Noi siamo stati formati ad una religiosità basata prevalentemente su una prospettiva ed un’analisi quasi puramente umana, che di tipico ha poco. La religione di tipo naturale è intesa così; in fondo tutti gli uomini sono religiosi e tentano di arrivare a Dio, chi con una religione e chi con un’altra. Cristo ci ha dato la sua. Crediamo che Egli è il figlio di Dio, l’inviato del Padre e la parola definitiva.

Ma non vediamo Cristo al culmine di una storia e di un cammino che non si è chiuso con lui ma continua attraverso i tempi. Allora noi perdiamo l’idea di una storia che si va realizzando; di una storia che non è soltanto storia umana (la storia ha sempre una componente umana, altrimenti non sarebbe storia) ma anche storia di Dio che si è immesso in questo ritmo, in questo cammino. L’aspetto fondamentale allora diventa la realizzazione del Piano di Dio. In questa prospettiva il punto, direi, di tensione è Dio; nell’altra prospettiva siamo noi.

La nostra mentalità ci porta a vedere la religiosità a servizio nostro, come rapporto quasi commerciale con Dio; Dio è il padrone che può dare e noi cerchiamo di ottenere contrattando, e cercando di accaparrarcelo. Noi gli diamo qualcosa che ci costa un po’ di sacrificio, anzi un qualcosa che, secondo noi, quasi ci menoma e quasi non vorremmo dargli. Per questo contrattiamo: Ti faccio questo ma vorrei quello. Quindi l’atteggiamento, la preghiera ed il nostro rapporto con Dio e con gli altri è bacato alla radice da questa mentalità, la più umana che esista; in questa prospettiva non si è in tensione verso Dio, ma solo verso se stessi. Noi non ci mettiamo nella prospettiva di Dio che ha un suo Piano di Salvezza.

Su questa linea non si arriva alla vera conoscenza di Dio, alla vera conoscenza del Cristo; l’esperienza di Dio diventa pressoché impossibile: se l’uomo non esce da se stesso, non potrà mai raggiungere la vera conoscenza di Dio.

.b) Dio che fa storia con noi

Cerchiamo di capire quest’altra idea; non siamo noi che andiamo incontro a Dio ma è Lui che viene incontro a noi. Sarebbe un assurdo voler conoscere un’altra persona solo con il proprio sforzo, cioè fantasticando. Per conoscere un’altra persona e necessario entrare in relazione con lei. Se la persona rimane fuori dalla tua esperienza, se non ti viene incontro e non ce l’hai presente attraverso una qualsiasi relazione (epistolare o di altro genere), tu fantastichi. In una religione naturalistica il rapporto con Dio è di questo genere; l’uomo fantastica su Dio.

Se veramente vuol conoscere Dio bisogna che si immetta nella conoscenza che Dio ha di se stesso e che dà a noi attraverso la sua Parola; infatti il Vaticano II, nella Costituzione dommatica sulla Divina Rivelazione (“Dei Verbum” n. 2) dice; “Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per messo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (Ef 2,18;”Pt 1,4).

Con questa rivelazione infatti Dio invisibile Cfr Col 1,15; 1Tm 1,17) nel suo grande amore, parla agli uomini come ad amici (cfr Es 33, 11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr Bar 33,38) per invitarli ed ammetterli alla comunione con Sé. Questa economia della Rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà, significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto. La profonda verità poi su Dio e sulla salvezza degli uomini, per mezzo di questa rivelazione, risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione”. (cit. Pio XII, “Divino afflante”).

L’idea da cui dobbiamo partire è questa; Dio interviene nella storia, Dio si condiziona al nostro modo di essere, di vivere, di camminare; ed è un camminare storico; e storico significa spazio, tempo; se sono qui, non posso essere da un’altra parte; se ho questa lingua, non ne posso avere un’altra e così via; significa questa cultura, questa mentalità.

Tutto questo è storia, Dio si è immesso proprio in questo cammino, in questo ritmo, quindi nella nostra storia.

LINGUAGGIO BIBLICO E MESSAGGIO DI DIO

Dio, nella Sacra Scrittura, ha parlato per mezzo di uomini e alla maniera umana. Chi interpreta la S. Scrittura, per capire bene ciò che egli ha voluto comunicare, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi (cioè quelli che hanno scritto i libri) in realtà abbiamo inteso significare e a Dio è piaciuto manifestare con la loro parola, perché se vogliamo capire quello che Dio dice, non abbiamo altro mezzo che questa parola scritta, e quindi non possiamo prescindere da questo scritto, da questa storia, da questa tradizione. È assurdo voler arrivare a Dio quasi misconoscendo tutta la S. Scrittura, tutta la storia sacra: non capiremmo nulla della storia della Salvezza: di Dio, di Cristo, della Chiesa. Bisogna mettersi in questa linea, se vogliamo capire bene, dobbiamo saper interpretare quello che gli agiografi vogliono dirci. Questo è molto importante. La S. Scrittura quindi deve calare nella nostra vita, deve diventare il punto di rifermento del nostro parlare e del nostro agire. Esaminiamo due possibili domande:

.a)- Forse è importante, essenziale, mantenere il linguaggio della Bibbia?

Ogni linguaggio, ogni modo d’esprimersi è sempre, per forza di cose, inserito in una terminologia: e non esiste pensiero disincarnato da un linguaggio; ed è anche vero che il linguaggio fa il pensiero. Questi due aspetti sono correlativi; mentre io creo una civiltà, creo un linguaggio; e mentre creo un linguaggio, creo anche una civiltà: vanno di pari passo. Non è esatto dire: prima esistono i pensieri e poi viene il linguaggio. Esiste prima di tutto la parola di una lingua la quale è portatrice di un pensiero, di una mentalità, di un modo di concepire le cose.

I Padri della Chiesa non sono caduti in quest’errore. Prendiamo per tutti S. Agostino. Egli, nell’opera più famosa, le “Confessioni”, parla con il linguaggio della Bibbia: è presente il suo linguaggio filosofico, culturale derivato dalla cultura classica, ma le espressioni sono pregne del linguaggio della Bibbia; è presente il suo linguaggio filosofico, è tutto un riferire, un parlare con Dio sulla base di una mentalità e di un linguaggio biblico. Questo significa che, assorbendo il linguaggio biblico, se ne assorbe la mentalità e quando si è raggiunta la mentalità non si troveranno espressioni migliori, per esprimersi, che quelle bibliche.

.b) E come si fa a sapere con sicurezza quello che l’agiografo voleva, dirci a nome di Dio?

Questo fa capire che non c’è altro mezzo per capire quello che è la rivelazione se non entrare in quello che l’agiografo ha detto (agiografo è colui che scrive cose sacre, cioè quelle che ci portano la rivelazione di Dio). E’ necessario tuffarsi nella storia sacra, comprendere l’intervento di Dio nello storia. Dobbiamo metterci in questo cannino, aprire le nostre prospettive, uscire un po’ dal mondo chiuso nel nostro io; bisogna che ci apriamo, che usciamo da noi stessi, che ci mettiamo nelle prospettive di Dio, che ci immettiamo nel la storia, e poi capire che noi stessi siano chiamati a fare la storia insieme con Dio; se usciamo da questa mentalità, siamo quasi tagliati fuori.

Ciò può sembrare astratto, ma deve nascere la convinzione che solo immettendoci in questa linea si realizza il piano di Dio, che è la storia: la storia dei patriarchi, di Mosè, del popolo ebraico; la storia di Cristo; la storia della Chiesa, e, nello stesso tempo, la storia del mondo, la storia di oggi. Io sono dentro questa storia, se sono aperto a essa e so cogliere, come Mosè, i segni della storia, il cammino che la. storia stava facendo e come Mosè l’ha interpretata, l’ha condotta e come il popolo ebraico ha risposto. E’ tutto un popolo che cammina. Mosè costruisce un popolo. Oggi il popolo nuovo è la Chiesa: ci saranno anche dei capi, delle grandi figure, ma non tutti sono capi e grandi figure; questo va da sé, ma tutti siamo questo popolo che sta camminando, e noi siano immessi all’interno di questa storia.

I salmi ci dicono come gli ebrei nella preghiera avevano dinanzi tutta la loro storia e la loro preghiera aveva carattere fortemente comunitario e si sente che era rivolta ad un Dio che faceva storia con loro.

E’ necessario abituarsi a pregare con i salmi, a capirne la prospettiva per uscire un po’ dalla nostra preghiera tanto piccola; la nostra preghiera è fatta di formulette o è fatta dì richieste: la scuola, la salute, le relazioni con gli amici e altro; bisogna invece che ci apriamo a questo respiro più ampio; il respiro ampio della storia della Salvezza.

E’ in questa storia, con il suo sviluppo, che noi abbiamo la garanzia della continuità dell’azione di Dio, della sua fedeltà, della sua Parola. Guardata con l’occhio della fede questa storia ha un senso ben preciso e non può essere letta diversamente. Questo ci dà la sicurezza della presenza di Dio e che la storia e il libro che la racconta sono sua Parola.

 

INTRODUZIONE GENERALE ALLA LETTURA DELLA BIBBIA E DIFFICOLTA’ AD ACCOSTARSI ALLA BIBBIA

  1. Bibbia e libri di oggi

Prendendo la Bibbia pensiamo di avere in mano un libro, invece abbiamo in mano vari libri, anzi una piccola biblioteca sulla originale esperienza religiosa di un popolo o meglio la Storia di Salvezza che un Dio dona agli uomini. Egli si rivela ad essi con persone, avvenimenti, giudizi sugli avvenimenti e manifestazioni verbali. Infatti “BIBBIA” (dal greco ‘ta biblìa’) significa “i libri” cioè libri per eccellenza.

Noi abbiamo una certa idea di libro che ci porta molto lontano dalla realtà del libro ‘Bibbia’,

.a). L’idea di libro è legata a quella di una persona (autore) che ha scritto per manifestare un suo pensiero o sintetizzare il pensiero di altri in un ‘manuale’. Per la Bibbia ed anche per i suoi singoli libri l’autore-uomo ha rilevanza secondaria, perché in essi si manifesta l’esperienza religiosa e politica di un popolo nella quale partecipa attivamente Dio, la Parola di Dio (che è Gesù) ed il suo Spirito.

.b). Il libro oggi ha un suo titolo, per indicare un argomento, spesso limitato, che viene svolto gradualmente dalla prima pagina all’ultima.

La Bibbia non tratta un unico argomento (è vero solo per alcuni suoi libri), né i singoli libri sono affiancati per ordine di tempo, e di sviluppo logico; a grandi linee è divisa per argomenti.

.c). Un libro oggi nasce in poco tempo (massimo alcuni anni), la Bibbia contiene scritti nati in più di 1000 anni. E’ evidente che in 1000 anni cambiano fortemente situazioni storiche, civiltà e mentalità, fino alla contrapposizione. Da questo si deduce che è illogico dire ad una persona: “Ecco la Bibbia, leggila! cioè usala come un libro tipo quelli di oggi”.

(Indicazioni bibliografiche. Per la lettura dell’AT è di valido aiuto il lavoro di Grelot, “Pagine Bibliche”, volume che, affiancando testi presi da libri diversi della Bibbia, ricostruisce la Storia della Salvezza che è l’anima della Bibbia o la Bibbia.)

.2. La lingua semita in cui sono scritti

.a). La lingua ebraica non ha vocaboli per esprimere pensieri astratti, il suo linguaggio è povero (500 vocaboli), ed estremamente concreto (ad esempio: collera = naso perché si arrossa; forza = braccio; splendore di Dio = mantello; gloria di Dio = peso; verità = essere saldo, solido). Se ne deduce che la mentalità del semita è molto concreta, mentre la mentalità greca (e noi ne siamo figli) è fortemente idealista.

.b). Per il greco l’uomo è corpo ed anima, per il semita è un tutt’uno visto sotto aspetti particolari, (Esemplificazioni: l’uomo è carne = uomo come essere debole e mortale; l’uomo è anima o essere vivente cioè uomo in rapporto con Dio che gli ha messo dentro un soffio di vita; l’uomo è viscere cioè capace di amore e compassione; l’uomo è piede: come messaggero veloce).

.c). L’israelita fino al 200 a.C.(circa) pensa di rivivere nei figli; in tempi successivi parla della risurrezione della carne, cioè dell’uomo totale (cfr 1Cor 15 = il greco ha difficoltà a pensare la risurrezione come buona).

.d). Dal verbo ‘essere’ deriva il nome (termine) IAHVE’ = EGLI E’. Per il greco il verbo essere esprime l’essenza di una cosa, è nella sfera dell’astratto. Per l’ebreo il verbo essere dice: accadere, essere in relazione con…, essere lì per qualcuno, agire per lui (da questo derivano due nomi: Emanuele = Dio-con-noi e Gesù = Dio-salva).

.3. Il contesto mitologico

Noi viviamo in un’epoca in cui predomina la scienza ed il metodo scientifico: la misurazione, le analisi per una quantificazione, la settorizzazione, la specializzazione sono realtà assolute. Il mondo biblico invece vive in mezzo alla mitologia della cultura circostante. Non esiste la scienza come realtà autonoma ed indipendente dalla teologia-mitologia L’uomo è in possesso di parole per esprimere ciò che in qualche modo è per lui oggettivo o nel mondo della percezione dei sensi, o nel mondo della esperienza del razionale e del fantastico; non possiede termini capaci di esprimere il mondo di Dio e l’azione di Dio: egli non ha esperienza sensoriale, fantastica o razionale su Dio, perché Dio è oggetto solo di un’esperienza di fede.

La forma particolare di linguaggio che usava il mondo biblico ed ha usato la Bibbia è il MITO. Il ’mito’ quindi è un mezzo, una struttura linguistica con cui si cerca di oggettivare il mondo di Dio e l’azione di Dio, cioè il tentativo di rendere l’al di là presente nell’al di qua. Attraverso il mito Dio si naturalizza, diventa componente della scienza, e la sua opera si può verificare oggettivamente. Egli parla allora in maniera umana, afferrabile anche fuori della fede. Come conseguenza immediata la Bibbia non ha valore come testo di geografia, di storia o di scienze, perché i suoi criteri non sono scientifici ma teologici-mitologici.

.a). Concezione dell’universo nel mondo biblico

– La terra è una grande isola, in mezzo all’oceano terrestre, sostenuta da colonne (‘i fondamenti della terra’), sotto le quali c’è ’abisso’ o ’inferi’, in cui abitano i morti;

– il firmamento poggia sulle montagne eterne che sono ai lati dell’oceano a forma di grande calotta sferica, in doppio spessore con buchi combaciabili: esso divide lo spazio terrestre dai ’cieli’;

– il sole, la luna e le stelle sono fissate sulla calotta del firmamento;

– sopra il firmamento c’è l’oceano celeste da cui viene l’acqua in forma di pioggia, quando gli dei, muovendo i due spessori della calotta, fanno combaciare i buchi;

– in mezzo all’oceano celeste c’è l’abitazione degli Dei.

Gli dei hanno creato il mondo, intervengono nella storia (ad es. il tuono è la ’voce’ degli dei). Dio, in questa concezione, diventa componente naturale della scienza.

.b). La interpretazione dei miti

S’impone una sana interpretazione dei miti o del linguaggio mitologico.

-il mito della creazione (dopo Galileo) non viene più considerato come un’informazione su ’come’ si sia formato il cosmo ed è diventato portatore di un messaggio su Dio unico e signore dell’universo. Tra l’altro il racconto ha contestato la mitologia dell’ambiente circostante, secondo la quale gli astri e gli animali erano delle divinità; la Bibbia invece dà al sole ed alla luna il ruolo di segnare i giorni e non di dare la luce, che è creata a parte il primo giorno e gli animali sono creature e quindi dipendenti da Dio;

– il mito dei ’dialoghi’ tra Dio e l’uomo e quello dei ’miracoli’ (forma di oggettivazione degli interventi di Dio nella storia) non vuol dare un’informazione sulla storia, ma su Dio, sull’uomo e sul loro rapporto.

Si tratta di trovare il discorso che sta sotto il mito, il messaggio che quel mito vuol tramandare. Si comprende subito l’importanza del mito come il modo con cui la Bibbia è pervenuta a dare un contenuto alla sua fede e ad esprimere che il suo Dio è un Dio che interviene a favore degli uomini nella storia, negli eventi banali della storia quotidiana.

Nella demitologizzazione c’è un doppio pericolo: eliminare e mito e contenuti; e far passare per mito tutto quello che della Bibbia non ci piace. Sarebbe come pelare all’infinito una cipolla, alla fine rimangono soltanto gli occhi per piangere.

.4. Tradizioni e generi letterari

Molti libri (quasi tutti) dell’AT si sono formati lungo alcuni secoli e risentono, nella stesura ultima, della presenza evidente di tradizioni e di stesure diverse, con rifacimenti e ritocchi senza numero; vi si sovrappongono forme diverse di miti. Inoltre la medesima pagina spesso risente di generi letterari diversi, non sempre individuabili e lo stato attuale degli studi è troppo giovane per avere esaurito la conoscenza e gli influssi dei diversi generi letterari.

A questo si aggiunga che i nostri studi scolastici non hanno mai come centro di interesse la storia e la civiltà dei popoli orientali e semiti; ci viene quindi a mancare un valido aiuto per la comprensione dei testi biblici.

.5.Il falso concetto di Dio nel mondo cristiano occidentale

Dio é stato definito da Marx: “Oppio dei popoli”. Qual è questo dio?

\- E’ il Dio-che-risponde-alle-nostre-domande; è il Dio-tappabuchi di Bonhoeffer; è il Dio magico di tante persone che ci stanno vicino, ma anche dell’universitario spavaldo o del professionista autosufficiente che in frangenti particolari fa un qualche gesto, accenna ad un qualche dialogo con Dio.

\- Forse è anche il Dio-pensato-da-noi: cioè il “Dio dei filosofi” che è come un bel manichino purificato da tutti i limiti ed i difetti dello uomo e rivestito di tutte le perfezioni, pensate all’infinito: è il Dio dei cieli, il Dio premio o castigo, sempre comunque il Dio lontano da noi, il ’separato’.

Ed allora Marx ha ragione! Ma questo non è il Dio biblico.

Dal Dio-che-risponde-alle-nostre-domande si passa al Dio che ci pone la domanda fondamentale: “Dov’é tuo fratello?”, fatta a Caino dopo la prima lotta di classe, con spargimento di sangue.

C’è il pericolo di dare a questa domanda una risposta farisaica; “fare l’elemosina”, quando invece la domanda chiede un impegno con “loro” ed un impegno per “loro” e per un mondo più giusto.

Attraverso questa domanda Dio si presenta come “colui-che-serve”(Lc 22, 27) gli uomini, soprattutto gli esclusi, i dimenticati, i “poveri”. Dice: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve».

Cioè è il Dio-che-fa-storia-con-noi.

.6. Quali libri sono considerati ispirati e quindi ’Storia di Salvezza’

ANTICO TESTAMENTO

(Pentateuco= 5 raccolte):

Libro della Genesi  Gen

Libro dell’Esodo  Es

Libro del Levitico  Lv

Libro dei Numeri  Nm

Libro del Deuteronomio.  Dt

(Libri storici):

Libro di Giosuè  Gs

Libro dei Giudici  Gdc

Libro di Rut Rt

Libri di Samuele  Sam

Libri dei Re  Re

Libri delle Cronache  Cr

Libri di Esdra  Esd

Libro Neemia  Ne

Libro di Tobia  Tb

Libro di Giuditta  Gdt

Libro di Ester  Est

Primo libro dei Maccabei  1Mac

Secondo libro dei Maccabei  2Mac

(Libri sapienziali):

Libro di Giobbe  Gb

Libro dei Salmi  Sal

Libro dei Proverbi  Pr

Libro di Qoèlet  Qo

Cantico dei Cantici  Ct

Libro della Sapienza  Sap

Libro del Siracide  Sir

(Libri profetici):

Libro del profeta Isaia  Is

Libro del profeta Geremia  Ger

Libro delle Lamentazioni  Lam

Libro del profeta Baruc  Bar

Libro del profeta Ezechiele  Ez

  1. Libro del profeta Daniele Dn

Libro del profeta Osea  Os

Libro del profeta Gioele   Gl

Libro del profeta Amos  Am

Libro del profeta Abdia  Ab

Libro del profeta Giona  Gn

Libro del profeta Michea  Mi

Libro del profeta Naum  Na

Libro del profeta Abacuc  Ab

Libro del profeta Sofonia  Sof

Libro del profeta Aggeo  Ag

Libro del profeta Zaccaria  Zc

Libro del profeta Malachia  Ml

NUOVO TESTAMENTO

(I Vangeli):

Vangelo secondo Matteo  Mt

Vangelo secondo Marco  Mc

Vangelo secondo Luca  Lc

Vangelo secondo Giovanni Gv

(Lettere):

Lettera ai Romani  Rm

Prima lettera ai Corinzi  1Cor

Seconda lettera ai Corinzi  2Cor

Lettera ai Gàlati  Gal

Lettera agli Efesini  Ef

Lettera ai Filippesi  Fil

Lettera ai Colossesi  Col

Prima lettera ai Tessalonicesi  1Ts

Seconda lettera ai Tessalonicesi  2Ts

Prima lettera a Timòteo  1Tm

Seconda lettera a Timòteo  2Tm

Lettera a Tito  Tt

Lettera a Filèmone  Fm

Lettera agli Ebrei  Eb

Lettera di Giacomo  Gc

Prima lettera di Pietro  1Pt

Seconda lettera di Pietro  2Pt

Prima lettera di Giovanni  1Gv

Seconda lettera di Giovanni  2Gv

Terza lettera di Giovanni  3Gv

Lettera di Giuda  Gd

Libro dell’Apocalisse  Ap

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A pagg.12-13 della ’Bibbia’ di Gerusalemme per l’AT si riportano due divisioni e due elenchi dei Libri della Bibbia; quella Ebraica e quella greca, Il fatto che in quella greca siano elencati più libri anche di quelli accolti dalla Bibbia Cristiana pone un problema. Con quale criterio un libro è considerato ispirato e quindi Storia di Salvezza ed un altro no? Il criterio dei cristiani è il giudizio della Chiesa; ed il Concilio di Trento ha definito formalmente quali libri sono norma di fede per i cristiani e quindi sono considerati dalla Chiesa ispirati, provenienti da Dio.

(Questo è solamente un accenno: l’argomento merita un approfondimento che in questa sede risulterebbe sproporzionato).

RIVELAZIONE ED ISPIRAZIONE

A-       LA BIBBIA=PAROLA DI DIO INCARNATA

Nella Celebrazione della Parola che si fa nella Liturgia Domenicale, dopo ogni Lettura sentiamo ripetere: “E’ PAROLA di DIO”.

Che cosa dice a noi quella espressione?

La difficoltà per un’esatta interpretazione viene dalla diversità di valore e di significato attribuiti da noi al termine ‘parola’, dalla cultura greca e dai popoli semiti ed in modo particolare dalla Bibbia.

A noi potrebbe sembrare naturale tradurre l’espressione ‘Parola di Dio’ come ‘Queste sono le parole pronunciate o che vengono da Dio’ e sarebbe cogliere un aspetto solo parziale e secondario. Per noi infatti la ‘parola’ è solo uno strumento per indicare o comunicare una cosa o un pensiero. Noi ci sbalordiremmo se venisse qualcuno a dirci che “casa” o “morte” in quanto realtà concrete sono una “parola”; anzi diremmo che sono tutt’altro che una ‘parola’. Noi infatti contrapponiamo parola a fatto, a realtà; diciamo: Qui non ci vogliono parole, servono i fatti (cose concrete).

Per il semita, per lo scrittore biblico il termine ebraico “dabàr” = ‘parola’ solo incidentalmente è usato come espressione verbale del pensiero; il suo significato immediato e comune è “cosa”, “realtà”, “il-già-avvenuto” e “azione”. Quindi “la parola” è realtà dinamica e carica di potenza. La parola è il terreno, l’humus nel quale si radica il significato profondo di una realtà-avvenimento-azione.

Se la semplice “parola” di ogni giorno, cioè la “parola umana” per l’Israelita ha un potere ed ha un’efficacia, è subito chiaro che la Parola di Jahvè è ancora più potente ed efficace. L’espressione “E’ Parola di Dio” usata per un brano della Bibbia o per la Bibbia nel suo insieme, ha valore concreto ed esistenziale e dice azione di Dio, giudizio, interpretazione degli avvenimenti, proposta concreta di Dio. Nella Bibbia=Parola di Dio un Dio è presente, essere vivente e personale, impegnato nella salvezza dello uomo. L’israelita sapeva anche che avrebbe trovato la Parola di Dio, cioè Dio che valuta, opera e salva in tre cose: nella Legge-messaggio (che Dio dà), nella natura (che Dio crea), nella storia (che Dio dirige) ed anche che la Bibbia ci rivela solo quello che ha relazione con la molteplice azione a favore della salvezza dell’uomo realizzata da Dio e dalla Sua PAROLA = GESÙ’ CRISTO.

Da notare che dall’A.T. fino a Cristo c’è un progresso costante nella rivelazione di Dio presente in una storia di salvezza, fino alla PAROLA di DIO che s’incarna e vive tra gli uomini e per gli uomini nella PERSONA di GESÙ’ CRISTO: da questo momento la rivelazione è completa,

I Padri della Chiesa hanno parlato di due INCARNAZIONI del VERBO:

–              una è avvenuta nel linguaggio umano

–              l’altra è avvenuta nella carne. Il Figlio di Dio, e lo sappiamo, si è reso in tutto simile agli uomini, eccetto il peccato (Ebr 4,15). Ugualmente possiamo dire che la parola di Dio contenuta nella Scrittura è completamente simile al linguaggio degli uomini, salvo che essa non comporta alcun errore formale. Il Cristo non è solamente ‘simile’ agli uomini: egli è vero Dio e vero uomo. La Scrittura non è solamente ‘simile’ alla lingua degli uomini, essa costituisce una parola umana nel senso più pieno del termine, ed è nello stesso tempo la Parola di Dio.

L’Israelita ha anche un’altra coscienza: Dio parla attraverso intermediari, designati da Lui: il PROFETA è l’intermediario per eccellenza; vicino al profeta c’è lo storico, il sapiente, lo scrittore sacerdotale.

B-  LA BIBBIA = OPERA DI DIO E DI UOMINI

In un discorso introduttivo sulla Bibbia è necessario sempre fare il tentativo di sciogliere un nodo, di penetrare in qualche modo un punto fondamentale della fede cristiana.

La Bibbia come può essere nel medesimo tempo Libro di uomini e Libro di Dio?

Se scartiamo che Dio abbia dettato o che Dio abbia messo la sua firma di approvazione su un libro scritto già, è necessario fare una qualche luce su una specie di comproprietà di questi scritti e da parte di Dio e da parte dell’uomo.

Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione (“Dei Verbum”), al n° 11 dice tra l’altro due cose:

  1. i libri sacri, “scritti per ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore”;
  2. Dio non ha scritto materialmente nessun libro, ma “per la composizione dei Libri Sacri scelse e si servì di uomini affinché… scrivessero come veri autori”.

per poter scrivere un libro sono essenziali due cose:

–              avere qualcosa da comunicare

–              volerlo comunicare per mezzo dello scritto.

In questi due settori è necessaria la partecipazione reale e personale dei due autori: Dio e l’uomo. In questo contesto Dio rivela ed ispira un popolo e alcuni uomini in particolare, i quali diventano capaci di esprimere realtà divine ed umane insieme.

  1. La rivelazione

La tentazione più pericolosa da sfuggire è quella di vedere la rivelazione prevalentemente come una comunicazione, più o meno diretta e finalizzata alle pagine da scrivere; l’altra tentazione è quella di non evidenziare sufficientemente l’azione dello Spirito.

Dobbiamo partire dall’affermazione che la Bibbia è STORIA di SALVEZZA, azione quindi di un Dio che porta avanti il suo piano di salvezza a favore del popolo di Israele e poi, in Cristo, di tutti i popoli e che Dio non porta avanti una tale storia da solo perché attore in questa storia vissuta ( e da vivere) è anche l’uomo, un popolo ed ogni popolo. Allora diventa importante sottolineare la manifestazione, la rivelazione che lungo i secoli, a cominciare dai progenitori, ha fatto all’uomo. Nel suo piano di Salvezza Dio ha rivelato Se Stesso, cioè un essere vivente e personale: il creatore che governa il mondo, il santo che invita gli uomini ad un servizio di amore, il padrone della storia che dirige tempi ed avvenimenti verso una meta di salvezza. Dio ha rivelato l’uomo allo uomo, ha rivelato i giusti rapporti tra Dio e l’uomo, proiettando tutto questo nel futuro temporale, nel futuro messianico ed in quello escatologico (le apocalissi).

Nella Bibbia Dio non ha come scopo principale di scoprire all’uomo verità astratte sconosciute, ma solamente insegnargli a leggere con occhio soprannaturalmente illuminato (azione dello Spirito) i libri divini della natura e della storia. Lo scopo principale della rivelazione di Dio è questo: manifestarsi come colui che crea, che guida, che salva.

Pertanto è rivelazione ogni manifestazione da parte di Dio lungo tutta la storia del popolo d’Israele, fino a Cristo; è rivelazione ogni intervento di Dio nella storia ed ogni intervento per guidare la lettura della natura e della storia nei suoi molteplici aspetti ed avvenimenti.

Dio rivela Se Stesso sempre dal momento in cui ha voluto essere il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio di Mosè, di Cristo e della Chiesa, cioè il Dio compromesso nella stessa storia degli uomini fino al la pazzia di amore di volere che suo FIGLIO (= PAROLA DI DIO) diventasse in tutto fratello degli uomini.

Non si vuole escludere che l’autore e gli autori di libro della Sacra Scrittura siano stati oggetto di una particolare rivelazione da parte di Dio, si vuole affermare che questo momento-rivelazione non è l’unico e neppure il primo, né in ordine di tempo, né in ordine di importanza. In fondo lo scrittore è illuminato perché fissi, presenti e trasmetta gli eventi di salvezza voluti e realizzati da Dio; e la salvezza stessa è la rivelazione più grande di Dio,

  1. La ispirazione

La parola ‘ispirazione’ deriva da Spirito e dice “impulso che proviene dallo Spirito”.

Fino ad un recente passato la ‘ispirazione scritturistica’ é stata considerata o come unica o come privilegiata nei confronti di altri impulsi dello Spirito. Oggi il significato dato al termine ispirazione é più ampio e soprattutto è più aderente ai contenuti ed alle espressioni della Bibbia.

E’ bene anticipare subito un dato sintetico, da tenere presente mentre verrà analizzata la realtà indicata dal termine ‘ispirazione’ o dalla frase ‘ispirazione ad agire’, perché qui si parla di azione.

Il dato biblico ci presenta tre tipi di ispirazione:

.a. “ispirazione pastorale”: impulso che lo Spirito fa sentire sui “pastori” o guide del popolo;

.b. “ispirazione oratoria”: impulso dello Spirito sui portatori della Parola di Dio: profeti ed apostoli;

.c- “ispirazione scritturistica” (prolungamento e compimento delle altre due): impulso dello Spirito a raccogliere, fissare e tramandare il cammino di fede del popolo ebraico e la PAROLA di DIO = GESÙ’ CRISTO,

Nell’AT, lo ‘Spirito di Jahvè’ è una forza misteriosa che entra con potenza nella storia del popolo eletto e compie le opere di Jahvè, salvatore e giudice, Egli si impadronisce di uomini scelti, li trasforma, li riveste di forza, onde permettere loro di svolgere un ruolo eccezionale e, mediante loro, dirige i destini di Israele e la storia della salvezza nelle sue differenti tappe.

.a. Nei testi primitivi l’azione dello spirito è descritta come brusca e passeggera, Lo spirito agita, discende sul profeta, trascina, trasforma e rende subito adatte delle persone ad un determinato ruolo (Giudici), e largisce il dono della profezia e dei miracoli, In ogni caso è dono di Dio supremamente libero.

.b. I testi posteriori presentano lo Spirito di Jahvè che riposa e rimane su capi carismatici (Mosè, Giosuè, Saul, David), Si descrive la consacrazione dei re per indicare la presenza costante dello Spirito. Lo Spirito riposa su Elia, su Eliseo; i profeti sono stati i portatori privilegiati dello Spirito.

.c. Dopo l’esilio si scrive che Dio, con lo Spirito, ha parlato per bocca di antichi profeti e lo Spirito di Jahvè è chiamato ‘anima dell’ispirazione profetica’ (Ez 2,2; 3,24). I profeti riconoscono che si esercita su loro una pressione imperiosa (opera dello Spirito) per costringerli a parlare anche contro loro voglia. Essi parlano, ma il farlo costa e le parole sono quasi strappate di bocca. Affermano di ricevere la Parola di Jahvè dallo Spirito di Jahvè (ls 30,1; Zc 7,2). All’epoca messianica tutti in Israele godranno dell’ispirazione profetica (Gl 3,1 ss.).

Ed infine lo Spirito di Jahvè è la sorgente della vita morale e religiosa, “Porrò il mio Spirito dentro di voi, …voi sarete il mio popolo ed io sarò il vostro Dio (Ez 36,27-28).

L’azione dello Spirito nel NT è sempre presente ed è in ogni azione di Cristo, anzi le azioni di Cristo sono dello Spirito che è chiamato “Spirito di Cristo” (merita un discorso a parte).

In sintesi vi é un’ispirazione ad agire ed un’ispirazione a parlare.

E’ vero, non si parla di un’ispirazione a scrivere, ma noi possiamo parlare di un’ispirazione scritturistica, perché la Bibbia non ‘contiene’ altro che gli avvenimenti della Storia Sacra e gli insegnamenti orali che essa con serva in forma scritta.

 

  1. LA B I B B I A  NON CONTIENE ERRORI

Gesù dice sul valore della Legge: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i profeti, non sono venuto ad abolire ma a dare compimento (Mt 5,17)”, Questa frase fa pensare a qualcosa di incompiuto, perché imperfetto, che ha bisogno di essere completato, ultimato, portato allo stadio ultimo di perfezione o ‘compimento’.

Non è necessario pensare a qualcosa di errato; anzi si deve pensare a qualcosa in parte attualizzato, in parte rimasto latente, allo stato potenziale; in una parola qualcosa in cammino che con Cristo ha raggiunto la meta finale.

Ebbene quest’ultima valutazione-descrizione tiene conto delle tappe del tutto connaturali con la natura dell’uomo. La salvezza dell’uomo, oggetto del Piano Eterno di Dio, è dono di Dio, ma non può fare a meno della cooperazione libera e cosciente dell’uomo; e l’uomo raggiunge le sue mete camminando, passo dopo passo, conquista le vette palmo dopo palmo, salendo gradino dopo gradino.

Se la Bibbia fissa e contiene le tappe di questo cammino e di questa ascesa, non può non contenere aspetti parziali e stadi imperfetti in confronto alle conquiste successive: questo non deve ingenerare dubbi sulla presenza efficacemente illuminante ed operante dello Spirito sui figli di Abramo lungo i 20 secoli del loro cammino.

Le affermazioni del Signore che ricorrono in Mt cap. 5 (ad es. «Avete inteso che fu detto (agli antichi): “Amerai il tuo prossimo ed odierai il tuo nemico”; ma io vi dico: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano.»” 43-44) non hanno valore di denuncia di un errore, di una carenza, ma invito a fare ancora un cammino, a salire ancora dei gradini che in Cristo saranno gli ultimi; eppure la Chiesa, dopo 20 secoli, come il popolo ebraico, è ancora in cammino non per tappe non ancora manifestate, ma per una continua conquista del “già ma non ancora”.

Di altro genere è invece la domanda: La Bibbia contiene messaggi che non appartengono a Dio e presentati come suoi? Contiene messaggi svisati e quindi con errori? L’assistenza continua, operante ed efficace dello Spirito di Jahvè ci garantisce che la Bibbia contiene integri i messaggi su Dio, sulla natura, sulla storia, sull’uomo e sulle relazioni tra Dio e l’uomo.

Da fare attenzione però che l’assistenza dello Spirito di Jahvè non è impegnata per quanto appartiene al modo di esprimersi, all’uso del linguaggio mitico. La Bibbia è come una noce di cocco: quel che è buono è sotto tanto materiale di scarto che è necessario asportare per venire in contatto con il messaggio genuino. Questo è il vero lavoro del credente il quale è assistito dallo Spirito come chi ha scritto ed è stato protagonista per le cose che sono state scritte.

Per questo motivo è giusto dire che in qualche modo la rivelazione continua. Certamente non nel senso che si possa aggiungere qualcosa al massimo della Parola di Dio, e cioè GESÙ’ CRISTO, PAROLA di DIO fatta UOMO; ma certamente nel senso di una comprensione sempre più ampia e profonda del Cristo, in cammino con noi, perché noi siamo membra della Chiesa, cioè membra del Corpo di Cristo.

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MIOLA GABRIELE BIBLISTA FA RECENSIONE DI UNA INTERPRETAZIONE CRITICA SUGLI INIZI DEL CRISTIANESIMO DI J. MIGUEL

Miola Gabriele fa recensione nella rivista Firmana a.2010.n.51 pp.199- 200

RECENSIONI del libro

  1. J. MIGUEL, Il protagonista della storia. Nascita e natura del cristianesimo, BUR, Milano 2008, pp. 455, € 11,00 (trad. it. di E.Z. Merlo; titolo originale: Los orìgenes històricos del cristianismo, Ediciones Encuentro, Madrid 2007).

Questo volume di J.M. Garcia, come dice il titolo, è una presentazione dei vangeli, della figura di Gesù e della sua opera, e, a partire dalla sua morte e risurrezione, dell’espansione del cristianesimo in Palestina e nel mondo greco romano. Si presenta come una buona introduzione critico-storica al NT. L’Autore procede in maniera critica per guidare il lettore ad una valutazione storica dei vangeli, della vita, dell’agire e dell’insegnamento di Gesù, dell’ostilità dei poteri ebraici verso il maestro di Nazareth, degli eventi fondamentali: i processi, la condanna, la crocifissione, la morte e risurrezione di Gesù e negli ultimi capitoli esamina l’espansione rapida del cristianesimo nell’ambito dell’impero romano. L’Autore riconosce ed afferma che i vangeli non sono una biografia storica della persona di Gesù, ma vogliono essere un messaggio e un annuncio di fede. Gli scrittori del NT sono dei credenti, ma questo non inficia la storicità della loro esperienza e del racconto che ci tramandano. Garcia è un conoscitore profondo dell’aramaico del tempo di Gesù e pensa che prima della redazione attuale greca dei vangeli ci sia stata non solo una predicazione degli apostoli in aramaico, ma uno o più scritti in questa lingua, da cui gli attuali redattori-autori hanno attinto e tradotto, non sempre chiaramente, in greco. L’Autore fa parte della Scuola esegetica di Madrid, che cerca di ricostruire un eventuale testo aramaico dei vangeli e di spiegare frasi o passi non chiari dei vangeli attuali o delle lettere di Paolo ricorrendo all’aramaico e ad espressioni aramaiche non capite e non tradotte bene nella lingua greca (61-66). Da tre espressioni della seconda ai Corinzi (1,13; 3,6.14; 8,18-19) l’Autore deduce che Paolo avrebbe dettato la lettera in aramaico e che qualcuno dei suoi discepoli ha tradotto in greco travisando alcune frasi, anzi deduce da queste frasi che esisteva già un testo dei vangeli, che venivano letti nelle comunità cristiane negli anni 50.  Gli studiosi della Scuola di Madrid sono contrari ai metodi del noto gruppo del Jesus Seminar. Questo è un gruppo di ricercatori, che pretendono di recuperare il Gesù storico, ma lo fanno con presupposti razionalistici, eliminando tutti gli avvenimenti straordinari dai vangeli, perché, secondo loro, non possono essere accettati da chi, come gli uomini di oggi, ha visto «i cieli attraverso il telescopio di Galileo!» (91). L’Autore legge i vangeli con uno sguardo critico sì, ma scevro da presupposti ideologici, che manifestamente rivelano una lettura dei vangeli e una presentazione di Gesù precostituita.

Garcia dedica un capitolo all’analisi dei testi del cosiddetto “segreto messianico” del vangelo di Marco. Secondo il nostro Autore le tante ipotesi fatte sull’ingiunzione di Gesù alla persona guarita: «Guarda di non dir niente a nessuno», che sembra contraddittoria poiché tanta gente è presente al miracolo, non tengono conto del soggiacente testo aramaico al comando di Gesù «non dir niente a nessuno». Secondo Garcia la presupposta espressione aramaica: lebar ‘anasà qui non significa “a nessuno”, ma “non dir niente circa il Figlio dell’uomo”, cioè Gesù. In questo caso il lebbroso non deve lodare e ringraziare lui, il Figlio dell’uomo, ma dire il suo grazie a Dio (così per Mc 1,44 pag. 194, ma anche Mc 5,43; 7,36; 8,26). Da ricordare che Garcia è autore di un volume dal titolo La vita di Gesù nel testo aramaico. L’Autore espone ampiamente i fatti ultimi della vita di Gesù: i due processi, il primo dinanzi al sinedrio e quello dinanzi a Pilato, dimostrano che effettivamente Roma aveva sottratto al sinedrio, almeno in alcuni periodi, lo jus gladii, cioè il potere di eseguire le condanne capitali; descrive attentamente la sepoltura di Gesù e ricorrendo all’aramaico spiega come le bende (othonia) in Gv 19,40; 20,6 equivale a sindone, lenzuolo (sindon) di Mc 15,46; le parole di Gesù alla Maddalena: «Non mi trattenere perché non sono ancora salito al Padre» (Gv 20,17) andrebbero tradotte: «Non puoi prendermi, perché sono salito per sempre al Padre» (302); la strana conclusione del vangelo di Mc 16,8: «Esse fuggirono […] e non dissero niente a nessuno», andrebbe tradotta: «Esse se ne andarono stringendosi le une alle altre […] e non dissero niente a nessuno per timore di essere considerate fuori di senno» (286). Il ricorso all’aramaico è frequente per spiegare espressioni poco chiare nel testo greco.

Questo libro è una buona introduzione storico-critica alla lettura dei vangeli, a capire Gesù e la sua missione nell’ambiente giudaico del suo tempo. Chiude il volume una discreta bibliografia in diverse lingue; si indica, quando esiste, la traduzione italiana.

GABRIELE MIOLA

 

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SANTISSIMO SACRAMENTO DELL’ALTARE NELL’ADORAZIONE DI DON MARELLA OLINTO

PREGHIERA AL SS. SACRAMENTO   di Don Olinto Marella

Signore Gesù, per l’amore che porti a tutti, te ne stai giorno e notte in questo Sacramento tutto pietà ed amore: aspetti, chiami, ricevi coloro che vengono a visitarti, ti doni a coloro che desiderano riceverti. Noi Ti adoriamo qui presente in mezzo a noi. Ti ringraziamo, o Signore, di tanti benefici, specialmente ora che di questo che è beneficio così grande, onore così bello, prova del Tuo amore immenso, mezzo per ricambiare l’amor Tuo col nostro amore.  Signor Gesù fa’ che Ti amiamo davvero, che ti amino tutti o Signore; perdona a noi, perdona a tutti tanti peccati: infedeltà, ingratitudine, disamore, indifferenze, irriverenze, disobbedienze, cattivi pensieri, cattivi sentimenti, cattivi desideri, cattive parole, cattive azioni, cattivi esempi, rancori, vendette, invidie, impurità, golosità, avidità, avarizia, prodigalità, prepotenza; ira, pigrizia, bestemmie, imprecazioni, giuramenti, profanazione delle sante feste, della Chiesa, dei santi Sacramenti, tanta trascuratezza di tanti nostri doveri.

Signore Gesù, Tu sei disceso dal cielo in terra, Figlio di Dio, Ti sei fatto uomo, sei nato bambino, hai patito tanto, sei morto sulla croce per i nostri peccati; hai dato tutto il Tuo sangue, tutto Te stesso per togliere il peccato dal mondo per la redenzione, per la salvezza di tutte le anime; per nostro amore Tu rimani qui sempre con noi, fatto nostro Ospite, nostro Cibo, nostro Amico, nostra Medicina; sei l’unico vero nostro conforto. Ti offri ogni giorno, ogni ora, in ogni luogo sui santi altari nella santa Messa, vittima di espiazione. di perdono, di pace, di amore.

Con tali pegni ed anticipazioni del Tuo Paradiso fa, o Signore, che vi arriviamo tutti, con tutti i nostri cari, con tutti i nostri benefattori. Aprilo, intanto, alle anime di coloro che ci hanno preceduto da quaggiù, che sono ancora in purgatorio adesso. Ti raccomandiamo specialmente coloro che sono passati da questa all’altra vita, in questa giornata, nella notte scorsa; coloro verso cui abbiamo doveri particolari, coloro che ci hanno fatto del bene, coloro ancora che ci hanno offeso.

Con gli Angeli, con i Santi Tuoi, con la Vergine Santissima Maria, Tua Madre e Madre nostra, possiamo, Signore Gesù benedirTi, lodarTi, possederTi, goderTi tutti nella gloria del Padre e dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli.  Amen.

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FERMO ONORA LA MADONNA DEL PIANTO PROTETTRICE DEI FEDELI NEI SECOLI. Notizie ed inno di d. Giovanni Cicconi

Inno alla Madonna del Pianto scritto da mons. Giovanni Cicconi, edito nel suo libro nel 1928

O Madre celeste, o Madre del Pianto,

Presidio di Fermo – Sua dolce Signora,

All’ombra raccolto – del Sacro Tuo manto

Un popolo in fede – Ti invoca e Ti onora.

\\\ Ave, ave, o Maria! Regina de’ mesti.

Tu rendici degni – de’ gaudii celesti;

Tu prega per noi – che siam figli Tuoi.

Sperarono gli avi – in Te non invano:

Tu ognor ne accogliesti – benefica i voti.

Continua, o gran Madre – 1’ aiuto sovrano,

Al prego rispondi – de’ tardi nipoti

\\\ Ave, ave, o Maria! Regina de’ mesti ecc..

Se lacrime e sangue – fan triste la terra

Tu o Madre pei grandi – Tuoi crudi dolori

Dai figli allontana – l’orribile guerra,

Infondi la pace – di Cristo nei cuori

\\\ Ave, ave, o Maria! Regina de’ mesti ecc.

Proteggi di Fermo – o Pia Castellana,

Proteggi il Tuo popolo – i fuochi e gli altari

Conserva nell’alme – la fé cristiana

Che un dì i nostri padri – rendeva sì chiari

\\\ Ave, ave, o Maria! Regina de’ mesti ecc.

L’atroce martirio – di Te, del Tuo figlio,

Sia oggetto perenne – di nostra memoria:

Ci renda ognor forti – in quest’aspro esiglio,

Ci frutti il possesso – del Cielo e la gloria

\\\ Ave, ave, o Maria! Regina de’ mesti ecc.

 

NOTIZIE STORICHE SUL CULTO DELLA MADONNA DEL PIANTO A FERMO

Scritte da mons. Giovanni Cicconi e riespresse in forma attuale

 

La confraternita della Madonna del Pianti affidò l’incarico di farne la statua a Sebastiano Sebastiani, della scuola dei fratelli Lombardi di Recanati nell’anno 1612, e la statua fu recata a Fermo nell’anno 1614 e posta in venerazione nell’Oratorio dentro la città nella chiesa del Crocifisso di S. Chiara.

“Mirabile statua – l’ha definita il card. Pietro Maffi – dove l’arte e la fede hanno fatto il massimo del loro vigore, per esprimere il dolore di una Madre divina, commuovere e compassionare ed ispirare filiale confidenza in chi la guarda”.

E come in Roma, anche a Fermo a cura della pia Confraternita, dato che era angusta la chiesetta per le innumerevoli schiere di devoti, nell’anno 1681 si provvide un nuovo edificio poco discosto il tempio attuale. Anche questo fu rinnovato e dilatato più tardi con la benedizione dell’arcivescovo fermano Alessandro Borgia nell’anno 1728, su disegno del Lucio Bonomini da Ripatransone, uno degli architetti più insigni dell’epoca nella nostra regione.

La Madonna del Pianto nei secoli in mezzo alla sua famiglia ebbe il degno trono definitivo dove la Madre si ripromette gaudio e conforto dai figli di Fermo e questi ottengono protezione e aiuto da Lei. E’ stata costruita la nuova chiesa voluta dalle speranze comuni. In questa, Fermo, nel corso di tre secoli, ha professato senza interruzioni, con sempre crescente fervore il proprio affetto confidente alla grande Madre e Regina nel suo Simulacro. La vera protettrice della città e dei fedeli, la Madonna è stata e resta il rifugio, la consolazione, la salvezza del popolo suo.

Nelle più tristi e luttuose contingenze della vita privata e pubblica; nei pericoli imminenti, creati dall’oscurità di guerre addensatesi sulle nostre pacifiche contrade, in varie occasioni nei secoli; nei paurosi scuotimenti di terra, che funestarono anche altre popolose città; nelle frequenti pubbliche temute calamità o per inclemenza di stagioni o per infierire di morbi micidiali, uno solo è stato e resta il grido del popolo fermano «Madonna del Pianto, aiutaci!» E l’aiuto mai si è fatto attendere. Tutto questo ci dice la storia passata, tutto questo ci ripetono, con voci che vincono il silenzio di secoli, le migliaia di ex-voto donati al Santuario.

Degli avvenimenti pubblici meno lontani per noi e sempre significativi, ricordiamo: l’Incoronazione della sacra Immagine con aureo diadema per decreto del Capitolo Vaticano, il 10 settembre 1843; il dono votivo di un Angelo di argento massiccio, offerto dall’emin.mo Arcivescovo card. Filippo De-Angelis il 19 giugno 1849 per l’ottenuta liberazione della iniqua prigionia nel forte di Ancona; altro dono votivo di altro Angelo egualmente in argento massiccio, decretato dal magistrato Fermano il 1maggio 1855 per la liberazione della città dal flagello del morbo asiatico; inoltre la visita alla Madonna il 17 maggio 1857 del grande pontefice Pio IX, che innanzi a Lei si intrattenne in fervida preghiera, in occasione della sua venuta a Fermo.

Il progetto di un tempio più grandioso, presentato dall’Arch. Giambattista Carducci Fanno nel 1871, con inizio dei lavori nel settembre 1876, non ebbe altro seguito. Una nuova solennissima incoronazione fu eseguita l’8 giugno 1879, dopo il sacrilego furto perpetrato due anni prima del diadema. Nell’agosto del 1914 i festeggiamenti per il terzo centenario si svolsero con straordinaria solennità. Fu festeggiato con celebrazioni solenni il cinquantenario della seconda incoronazione della Sacra Immagine nell’anno 1929. Il tempio ebbe il completamento della facciata con le offerte del popolo nell’anno 1935.

Ricordi di ieri, auspici pel domani. Il passato resta solidale garante per l’avvenire. Il nome caro della Madonna del Pianto invocato benedetto da tante generazioni, non cessa e non cesserà mai di essere invocato e benedetto dai posteri più lontani.

Il ricordo del nome di sì augusta Vergine Madre di Gesù e nostra, a cura di pie persone possa mediante la speciale benedizione della stessa nostra Regina della Pace, trovare benevola accoglienza e produrre frutti per la salute eterna delle anime.

 

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