Fermo secoli XI XII XIII Torre di Palme notizie storiche di Mattetti Massimo

MASSIMO MATTETTI

FERMO NEI SECOLI XI-XIII

TORRE DI PALME 2007

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI URBINO “CARLO BO” FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN LETTERE INDIRIZZO STORICO-ARTISTICO

INDICE

I CAPITOLO INTRODUTTIVO -Bilancio degli studi storiografici, metodiche di ricerca,

luoghi e argomenti della trattazione

I.1 Il lavoro dei predecessori e i luoghi di ricerca

I.2 La storiografia latina, gli autori tardo- antichi,

e gli storici alto-medioevali

I.3 La cartografia antica

I.4 II Codice 1030

I.5 Le attenzioni degli imperatori, dei governatori e degli amministratori tramandate dai documenti e dagli storici

I.6 Gli studiosi dei secoli XVIII e XIX: AntonioBrandimarte e Giuseppe Colucci 

CAPITOLO II

Guelfi e ghibellini nel comitato di Fermo e nella Marca di Ancona

II..1 Fermo e il vescovato

II.2 Dal ducato al comitato

II.3 Il protettorato imperiale sull’abbazia di Farfa nell’epoca carolingia ottoniana

II.4 Rapporti dell’episcopato fermano con l’Impero e la Santa Sede nel periodo della lotta per le investiture

CAPITOLO III

La Santa Sede e le prelature nullius in territorio di Palma

III.1Concessioni, privilegi e riserve contenuti nella

bolla del pontefice Alessandro III

III.2 Il territorio nullius dioecesis in Palma Vetula e Turris Palmae: il priorato di San Pietro Vecchio e la commenda  di Santa Maria a Mare

III.3Sull’incorporazione dei priorati di San Pietro Vecchio e di Santa Maria a Mare

IV CONCLUSIONI

BIBLIOGRAFIA . FONTI…  STUDI

<tradotti gli enunciati latini>

  1. CAPITOLO INTRODUTTIVO

BILANCIO DEGLI STUDI STORIOGRAFICI, METODICHE DI RICERCA, LUOGHI E ARGOMENTI DELLA TRATTAZIONE

  • II lavoro dei predecessori e i luoghi di ricerca

I primi storiografi e letterati a fornire notizie utili e preziose per l’argomento in esame, sebbene più o meno precise a seconda dei casi, delle competenze, dello stato d’avanzamento degli studi e dei campi d’indagine, furono alcuni tra gli autori latini che s’interessarono di materia storico – geografica in senso lato; essi hanno garantito un importante contributo scritto, suffragato poi da scavi archeologici remoti e recenti, nonché da passate perlustrazioni, eseguite da appassionati di storia, anche da storici e storiografi in senso stretto.

Questi ultimi, pur non possedendo i mezzi tecnici oggi a nostra disposizione, erano tuttavia grandi studiosi d’archivio ed è grazie a loro che larga parte del materiale, del quale ci si può avvalere per la ricostruzione di tali eventi, è pervenuta attraverso copie di manoscritti, documenti autografi o transunti; la preziosa opera, compiuta attraverso grandi sforzi, causati dalla penuria dei mezzi allora a disposizione, è attualmente evidente e tangibile nei luoghi ove è possibile visionare tale documentazione, disponibile in biblioteche ed archivi; nel caso specifico nell’Archivio Storico Arcivescovile di Fermo1, nell’Archivio di Stato di Fermo, nell’Antico Archivio Parrocchiale della Chiesa di Santa Maria a mare in Torre di Palme, negli archivi privati, ai quali in passato è stato possibile l’accesso, come noto dalle testimonianze di coloro che ci hanno preceduto nell’attività di ricerca.

1.2 La storiografia latina, gli autori tardo-antichi, gli storici alto- medioevali

Della città di Palma2, principale centro urbano dell’Ager Palmensis, parla lo scrittore latino Plinio il Vecchio(morto a Pompei nell’anno 79) a proposito della produzione di un vino pregiato, noto nell’Impero Romano come palmense e menzionato da questo autore per le sue gradevoli caratteristiche e spiccate qualità derivanti dalla sua origine quasi selvatica; della vite (latino ‘palma’) dalla quale è prodotto si dice che cresca spontaneamente nel territorio di Palma, situato nella zona Picena compresa tra l’Adriatico e gli Appennini, a nord dell’Ager Praetutianus (Pretuzi, abruzzesi) e dell’Ager Hadrianus (Adria, Atri): “Ex reliquis autem a supero mari Praetutia atque Ancone nascentia, et quae a palma una forte enata palmentia appellavere…”3.(Poi tra altre <lungo> il mare Adriatico le viti abruzzesi e anconetane chiamate ‘palme’ derivate dallo stesso rampollo)

Già precedentemente altri storici latini avevano fornito notizie circa il Piceno Palmense per la presenza in quei luoghi di un navale: lo stesso Strabone4, nel I secolo a.C., ne fa menzione nella sua opera descrittiva Geographia parlandone come di insediamento portuale vero e proprio, e utilizzando, per descriverlo, il termine Epìneion e non semplice Ormos: ciò sottintende che tale struttura era munita di due colline a picco sul mare, cornua o brachia (corni, braccia) e dell’ostium o fauces (entrata, fauci), ingresso stretto del porto, nonché del crepido, il parapetto frangiflutti. Nell’opera geografica l’analisi territoriale è condotta in maniera poco scientifica e prestando più che altro attenzione ai dati storici tradizionali, senza trascurare peculiari fenomeni umani inerenti le popolazioni e le località descritte, secondo la prassi allora molto diffusa di discutere di materia geografica e scientifica con i mezzi espositivi delle discipline storico – letterarie.

Analogamente lo scrittore latino Marco Terenzio Varrone5 nel I secolo a.C. nomina Palma e il territorio palmense, che ad essa fa capo, nel De re rustica: come anche Plinio il Vecchio fa riferimento ad un tipo di vite coltivata nel suddetto insediamento piceno (“unde uvae nascuntur palmam” vite da cui nascono uve), che prende nome, per antica origine, dall’ager (territorio, pianura) nel quale rappresenta la coltura prevalente. L’attività agricola è infatti preponderante rispetto alle altre, sebbene non di scarso rilievo risultino quelle marinara e mercantile legate al ‘navale’ ivi presente; su di esso è chiamata a sovrintendere e a vigilare la colonia romana di Fermo, una volta istituita, in seguito alla conquista da parte di Roma del Piceno, ridotto dai Romani a Prefettura, (il prefetto urbano vi delegava un prefetto) condizione peggiore nella quale potesse cadere un territorio soggetto alla città per eccellenza.

In un’altra opera, dallo stesso titolo della Varroniana, ma redatta dal più tecnico e preciso dei descrittori latini impegnati nella stesura di trattati agricoli, Lucio Giunio Moderato Columella6, nuovamente compaiono l’Ager Palmensis e la sua città di riferimento nei libri III e IV.

Come avviene per la circoscrizione palmense, “storici” e letterati latini prestano attenzione alla Colonia Romana di Fermo.7 Tra il II secolo prima della nascita di Cristo e il I dopo, molteplici sono le testimonianze scritte che fanno riferimento a Fermo o a personaggi illustri e noti a Roma, che vi risiedono; Cicerone loda i Fermani perché “principes pecuniae pollicendae fuerunt”8  (furono i primi a impegnare <offrire> denaro); dice di aver ricevuto notizie: “Audivi ex Gavio hoc Firmano… permulta ad me detulerat non dubia de Firmanis fratribus ”9, (Ho ascoltato Gavio Fermano che mi ha riferito molte cose indubbie sui fratelli Fermani) asserisce inoltre che il giorno natale di Roma fu trovato da “L. Taruntius Firmanus familiaris noster in primis chaldaicis rationibus eruditus”10 (Lucio Tarunzio Fermano nostro famigliare <grande amico> tra i principali erudito nelle competenze caldaiche <astronomiche, orientali>) .Catullo rivolgendosi ad un amico dice: “Firmano saltu non falso <Mentula> dives Fertur qui tot res in se habet egregias Aucupium omne genus piscis prata arma ferasque Nequiquam fructus sumptibus exuperant” (Dicono, non falsamente, che la boscaglia Fermana di Mentula sia ricca, che abbia dentro molte cose degne di nota, come selvaggina, pesce, prati, campi e bestiame. Inutile: sono più le sue spese che i suoi guadagni). Nella sua narrazione delle guerre civili invece Cesare ricorda, parlando di sé in terza persona, “Recepto Firmo expulsoque Lentulo… Asculum Picenum proficiscitur… ibi unum diem rei frumentariae causa, moratus est”11 ;. (Dopo la capitolazione di Fermo e la cacciata di Lentulo, Cesare. .   marcia verso Ascoli Piceno… , vi si trattiene un solo giorno di sosta per gli approvvigionamenti). Ulteriori lodi verso i popoli fermani giungono attraverso le parole dello storico Tito Livio: “Nec sileantur fraudenturque laude sua… Venusiani, et Ariani et Firmani et Ariminenses” (non passino sotto silenzio né siano deprivati di lode … Fermani …) e “Sub C. Pluvio legato, tres cohortes Firmana Vestina, Cremonensis”12; (… tre coorti, una Fermana …). A proposito della partecipazione alle guerre contro Cartagine riferisce Valerio Patercolo: “Inizio primi belli punici Firmum et Castrum colonis occupata”13; (All’inizio della prima guerra cartaguinese <266 a. C.> i Romani occuparono Fermo e Castronovo <nuove colonie>.) Notizie utili su Fermo e sull’origine dell’ insediamento di Cupra ci vengono fomite da Strabone nell’opera geografica di cui si è già diffusamente parlato “Paullum supra mare urbs Auximum est, deinde Septempeda, Potentia et Firmum Picenum, et ejus navale Castellum”14; (La città di Osimo poco sopra il mare, poi Settempeda, Potenza e Fermo Piceno e il suo castello navale. Si noti che esisteva altro Firmum, Firmo di Cosenza). Testimonianza sempre del I secolo d.C. è quella di Valerio Massimo che parla di un certo Equizio “Nam ut Equitium Firmo Piceno monstrum veniens, relatum iam in huiusce libri superiore parte, praeteream, cuius in amplectendo Tiberio Graccho patre evidens mendacium”15 (Di Equizio proveniente da Fermo Piceno eccezionale figuro già citato nella precedente parte di questo libro non trascurerei la sua sfacciata bugia nell’attribuirsi come padre Tiberio Gracco). Frontino invece riferisce della centuriazione dell’Agro Fermano”16;Firmum di Cosenza: il senato ordinò di condurvi l’esercito vinto al fiume Siri esistente in Lucania, Basilicata). In ultima analisi Plinio il Giovane dimostra un insolito e premuroso interesse nei confronti della città in questione “Sabino suo salutem. Rogas ut agam Firmanorum publicam causam quod ego, quamquam plurimis occupationibus distentus, adnitar. Proinde Firmanis tuis, ac iam potius nostris, obliga fidem meam”17 (scrive all’amico Sabino che gli chiede di accettare di difendere la causa pubblica, nonostante le molte ocupazioni che lo asillano e dice che si impegna fedelmente per i Fermani dell’amico e piuttosto ‘nostri’ <dello stesso Plinio>).

Nel periodo tardo antico e in seguito alle invasioni barbariche, si avvicendarono nella conquista di Fermo le popolazioni gote: nel 410 i Visigoti di Alarico, nel 413 quelli di Ataúlfo.

Nel 452 vi giunge pure Attila, re degli Unni e, dal 476, con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, per mano di Odoacre, re degli Eruli, la città entra a far parte del Regno Italico; la situazione resta stabile fino al 496 quando, assassinato Odoacre da Teodorico, segue la dominazione del popolo Ostrogoto.

Nel VI secolo, e precisamente nel 526, dimora a Fermo per lungo tempo la regina Amalasunta, a cui è dedicata una via: in questo periodo vengono realizzate notevoli opere pubbliche e rinascono attività urbanistiche, da quanto è possibile constatare dagli scavi archeologici; nel susseguirsi delle lotte dinastiche per la successione al potere, da parte di tali genti provenienti dal nord, Fermo finisce per cadere nel 543, durante la guerra greco – gotica, sotto la dominazione degli imperatori d’Oriente: “Belisarius et Narsetes junctis copiis ad urbem Firmum, quae littori sinus Ionii vicina diei distata ab urbe Auximo, ibidem, coacto ducum omnium exercitus consilio, deliberarunt qua parte hostem petere satius esset… ”18 (Belisario e Narsete, uniti i loro eserciti presso la città di Fermo, la quale, vicino al litorale del Golfo Ionico distava dalla città di Osimo un giorno di marcia. Là adunato il consiglio di tutti i capitani, stabilirono la parte dove meglio attaccare il nemico N.B.: il golfo dello Ionio riguarda Firmo di Cosenza).

Dal 580 però, l’insediamento, ormai stremato e sfruttato a causa delle continue guerre, viene conquistato dai Longobardi, i quali riducono in prigionia un tale di nome Passivo, che sarà poi vescovo di Fermo, e che verrà riscattato dal vescovo Fabio; segue un periodo di certa stabilità, anche perché la città, e il territorio di sua pertinenza, erano sotto i longobardi. Tra il 740 e il 763 c’è l’amministrazione di un gastaldo. Del ducato di Fermo nel 769-770 era duca Tusguno <o Tasbuno>19.

Paolo Diacono, storico del periodo Longobardo, ricorda il Piceno e Fermo riferendo: “Picenum occurrit… in qua sunt civitates Firmum, Asculum et Pinnae et iam vetustate consumata Hadria”20. (Marcia nel Piceno … dove sono le città Fermo, Ascoli, Penne e Atri consunto dalla vetustà).

Qualche anno più tardi tuttavia, nel 774, Carlo Magno vince Desiderio e da allora i Fermani giurano fedeltà al pontefice: i cittadini che hanno combattuto al fianco del re franco sono nominati Baroni.

Con l’avvento dei Franchi, risulta da un placito del 776 il nome di Lupo, conte della città di Fermo e del suo comitato e; un altro conte è ricordato in una donazione in favore dell’abbazia di Farfa, è Ravenno < o Rabenno> nel 787.

Con l’imperatore Lotario I la città è luogo eletto per gli studi e per gli studiosi tanto che le parole di un suo capitolare recitano: “De doctrina vero quae propter oportunitatem omnium apta loca distinte ad hoc exercitium providimus, ut difficultas locorum longe positorum, ac paupertas, nulli fieret excusatio. Id sunt: Primum in Papia conveniant ad Dungallum de Mediolano, de Brixia… In Firmo, de Spoletinis civitatibus conveniant”21 (Per motivi di opportunità di tutti riguardo all’apprendimento dottrinale, provvediamo distintamente le sedi adatte ad esercitarlo, talché per nessuno intervenga la scusa di difficoltà per luoghi lontani o per povertà. Ecco i luoghi. A Milano … si rechino … a Fermo dalle città spoletine).

Come ulteriore testimonianza della lealtà dei Fermani e del loro incondizionato appoggio nei confronti del papato, detentore del potere temporale nel centro Italia, vi è la fonte, non trascurabile, di Anastasio bibliotecario, che narra un episodio di sottomissione dei popoli in questione riferendo che tutti gli abitanti del Ducato di Fermo, gli Osimani e gli Anconetani si recarono dal Sommo Pontefice e si consegnarono per tre volte a lui”22 .

Tristi vicende vengono invece rammentate da Liutprando, vescovo di Cremona: “Rex Arnulfus desiderii sui compos effectus persequi Widonem non desinit, profectusque Camerinum castrum vocabolo et natura Firmum, in quo Widonis uxor erat, obsedit”23. (Il re Arnolfo padrone di sé nel desiderio di effettuare il desiderio di perseguitare Guido, partito da Camerino assediò Fermo che era fermo per vocabolo e per natura).

Il pontefice Gregorio Magno parla di questa città invitando il suo vescovo, Passivo, ad assumere sotto la sua direzione spirituale e temporale non soltanto la Diocesi di cui è già titolare ma anche di quella di Teramo Ecclesia Aprutina, ed esamini se sia il caso che il monaco Oportunus diventi vescovo in Aprutium 24.

San Pier Damiani, facendovi riferimento, la chiama Firmensis Monarchia25, attribuendo alla città un ruolo egemonico nel territorio sul quale ha una vasta giurisdizione, dato che non solo i territori della sua diocesi comprendenti Macerata le appartengono, ma anche i territori soggetti alle diocesi di Teramo.

1.3 La cartografia antica

L’area geografica di collocazione alla quale si può far riferimento per il territorio romanizzato sopradescritto dalle autorevoli fonti latine, o sulla quale la città di Palma svolgeva un ruolo egemonico, è quella compresa tra il fiume Chienti a nord, in zona civitanovese, e il Tesino a Sud, nella circoscrizione cuprense.

In quest’ultima aveva sede una sorta di “Santuario Confederale”26 dedicato alla dea Cupra, sotto la dominazione romana, in seguito alla conquista del Piceno da parte del console Publio Sempronio detto “Sofo”, cioè “Saggio”, e dunque sotto la giurisdizione della Colonia Romana di Fermo, ivi dedotta nel 246 a.C.

In epoca medioevale, il castello di Marano risulterà uno dei principali centri fortificati di confine nei continui stati di belligeranza, che interesseranno i centri urbani di maggior rilievo: Ascoli e Fermo27.

Sul colle “Sàbulo” detto successivamente “Girfalco” sin dall’epoca paleocristiana, si innalzerà la Cattedrale28; il sito sul quale essa fu edificata ospitava infatti l’acropoli della Colonia Romana con i suoi principali edifici: tempio, teatro ed altri di pubblica utilità e fruibilità29.

Nel 90 a.C., in forza della Lex Mia, che estendeva la cittadinanza romana alle popolazioni latine ed alleate, Firmum passò dall’essere colonia all’essere Municipium: contestualmente un ulteriore sviluppo della città, in quegli anni, investe il settore politico ed economico, soprattutto urbanistico.

Per collocare in maniera più precisa questo importante insediamento romano in terra picena ci si può affidare alla Tabula Peutingeriana30, redatta verosimilmente nel III secolo per scopi militari: si tratta di una carta – itinerario che fungeva da rapido indicatore per le vie da percorrere durante le continue guerre nelle quali il popolo romano era impegnato dentro e fuori Italia; costituita da un rotolo pergamenaceo, formato di undici pelli, e conservato nella Biblioteca Nazionale di Vienna, è strumento prezioso per localizzare Fermo Piceno e il Castello dei Fermani.

Pomponio Mela31 e Tolomeo32 nominano Fermo nelle loro opere geografiche: il primo parla della città unitamente a quelle di Truento ed Atri; il secondo vi fa riferimento insieme ad Ascoli, Urbisaglia, San Severino e Cupra Montana.

In un’illustrazione dell’Antico Piceno è possibile notare il ruolo di riferimento e di rilievo che Palma svolgeva nel territorio suddetto: i caratteri che la segnalano infatti sono in scrittura capitale maiuscola e di ben maggiori dimensioni rispetto a Firmum e a Castellum Firmanorum, rispettivamente le città di Fermo e Porto San Giorgio, allora semplice porto fortificato della prima di esse; in questa mappa geografica Palma è posta a sud del fiume ’Età vivo’, Ete Vivo, rivo lungo il quale verranno decisi i confini discussi dei benefici concessi e appartenenti rispettivamente al Priore di San Pietro Vecchio, al Priorato Palmense di Santa Maria a mare e all’arcivescovo – principe della ‘Civitas Magna’ grande città di Fermo.

Nelle carte geografiche del XVI secolo è evidente che, proprio nei pressi di questa zona, è situato un porto detto “Cugnòlo”, presso il quale vi era precedentemente il più antico navale palmense. Con tale termine infatti, nella topografia antica, ma ancora oggi, si è soliti indicare un promontorio a forma di cuneo, (triangolare) che avrebbe costituito per l’antico insediamento portuale uno dei due ‘corni o braccia’.

Altre fonti per lo più settecentesche, riferiscono che il centro urbano palmense dista un quarto di miglio dal mare e tre quarti di miglio dal fiume Ete33, alla foce del quale sorge il primitivo centro monastico di “Sancta Maria ad mare”34, distante pochi metri dalla battigia. In tutte le fonti quindi il Mare Adriatico ed il Fiume Ete svolgono, per l’argomento e gli eventi storici trattati, un ruolo di primaria importanza e costituiscono un riferimento non di scarso rilievo.

A difesa e controllo dei luoghi descritti e citati, sorge, nel periodo altomedioevale, un borgo fortificato, che attualmente ha nome Torre di Palme, in origine Turris Palmae35 : il termine, etimologicamente, mostra come questo fosse dapprima semplice torre d’avvistamento della città di Palma, e non insediamento sorto spontaneamente sul promontorio: può perciò essere ritenuto a buon diritto un prodotto della pratica dell’incastellamento altomediovale.

La sua collocazione chiarisce il ruolo svolto: fino a che la città di Palma, sita nei luoghi pianeggianti, conserva la sua struttura urbana, nel tardo-antico inoltrato, sullo sperone tufaceo è posta esclusivamente una torre di guardia, che vigila sul territorio palmense e sul suo strategico navale; quando nei secoli più bui del pieno medioevo risulta pericoloso ostinarsi a vivere lungo la costa, la popolazione intera, seguendo l’esempio dei monaci Eremitani, si sposta sull’altura intorno alla Turris, luogo fortificato, ed ha in tal modo origine il borgo medievale attualmente ivi presente. In questo luogo avrà sede la Commenda del Priore Palmense.

1.4 II Codice 1030

Il Liber Iurium dell’Episcopato e della Città di Fermo36 costituisce, per gli studiosi di storia medioevale fermana e locale, una preziosa fonte per la consultazione dei documenti superstiti, in riferimento agli anni da 977 al 1266 (442 documenti 31 dei quali sono copie).

La sua ultima forma editoriale è stata redatta da tre studiosi di storia locale: Delio Pacini, Giuseppe Avarucci e Ugo Paoli. Il titolo dell’inventario archivistico offre indicazioni in ordine ai documenti in esso raccolti: Liber diversarum copiarum bullarum, privilegiorum et instrumentorum civitatis et episcopatus Firmi. (Libro delle copie di bolle e istrumenti della città e dell’episcopato di Fermo): il manoscritto membranaceo dell’Archivio storico comunale di Fermo presso l’Archivio di Stato della città stessa, fu inventariato nel 1624, da Michele Hubart da Liegi37, con spiccate qualità di paleografo.

Il contenuto del Liber è di natura diplomatica e i documenti inseriti nel codice sono ina una prima parte identificabili come diritti di proprietà ecclesiastica ‘iura episcopatus’, contratti d’affitto ed enfiteusi, donazioni, atti di vendita, permute, precarie e prestarie. Nerlla seconda parte prevalgono ‘ ‘privilegia’ 50 documenti dipontefici e 8 di re e di imperatori.

La tipologia dei documenti raccolti lascia ben pensare che tale conservazione di atti dovesse essere necessaria a garantire all’episcopato e alla città il mantenimento di certi privilegi, conferendo contestualmente i diritti sulle terre e i domini ai signori che nel tempo si fossero susseguiti e avessero avuto quindi giurisdizione sullo Stato Fermano.

Con molta probabilità questa collezione documentaria, nella forma originaria del Codice 1030, fu fatta mantenere e aggiornare da un notaio su commissione di un’autorità laica o ecclesiastica, come avvenuto per il Codice 102938 autenticato dal notaio Bartolomeo di Pietro su mandato del podestà Lorenzo Tiepolo, avendo anche tale diplomatica documentazione una funzione di garanzia per i privilegi e i possedimenti che alla città e all’episcopato facevano capo.

A tale proposito lo studioso Michele Catalani, canonico e autorevole storico della Curia Arcivescovile39 fermana, nella seconda metà del Settecento, riaffermava la validità, l’antichità e la fede storica della documentazione conservata dal manoscritto 1030 chiarendo la storia della legittima autorità che la Chiesa Fermana ebbe sui territori ad essa soggetti40.

Al fine di suffragare e rendere efficace la validità del suddetto Liber (registro) il Catalani ha scritto una dissertazione di natura codicologica e paleografica che, sebbene non dimostri l’autenticità di taluni documenti, tuttavia gli è di ausilio nella dimostrazione della veridicità storica di certi avvenimenti narrati nel manoscritto ma anche in altre fonti di raffronto utilizzate.

Esistono infatti vari documenti autentici conservati  in archivio dei quali il codice ha le copie trascritte e raccolte verosimilmente tra la seconda metà del XIII secolo e il secolo successivo. Il Liber Iurium come documentazione del potere del prelato41.

Per quanto attiene agli organi di gestione del potere politico cittadino, questi erano correlati ai castelli del contado fermano. Talora l’autorità ecclesiastica incorreva nella disobbedienza verso la Santa Sede che aveva concesso il beneficio di privilegi locali42.

Nei secoli basso-medievali, segnati in larga diffusione dalle “lotte per le investiture”, a Fermo si verificano fenomeni nella gestione politica dei territori posti sotto l’egida dello Stato della Chiesa. Questi episodi sono riportati anche nelle cronache cittadine redatte nel 1447 da Antonio di Nicolò che inizia la narrazione dall’anno 1176 per fornire molte notizie sulla storia fermana43.

Gli amministratori di fatto della città cercavano di mantenersi neutrali nella lotta per le investiture, tra il potere Imperiale e quello. Pontificio; tuttavia però questa politica non sempre è giovata, specie quando gli Imperatori scendevano in Italia o quando i Pontefici rinsaldavano il loro potere attraverso emissari: è il caso del cardinale Albornoz venuto a Fermo nel 1355.

1.5 Le attenzioni degli imperatori, dei governatori e degli amministratori tramandate dai documenti e dagli storici

Già dall’anno 953 figura, in un diploma di Berengario II ed Adalberto al monastero di San Michele in Barrea, una certa amicizia tra il ducato fermano e quello spoletino, tanto che in esso si legge: “Infra ambobus ducatibus nostris Spoletino videlicet atque Firmano”44 (Nell’uno e nell’altro dei due ducati, cioè Spoletino e Fermano).

Anche in diplomi successivi, i due territori vengono presentati vicini: il diploma del 983 dell’Imperatore Ottone II, diretto al monastero della Trinità, riporta l’espressione “in ducatu spoletino e markia firmana”45. Tale formula ricorre per tutto il secolo XI, tanto da esser presente nella scomunica inflitta da Gregorio VII ai Normanni che minacciavano i possedimenti e le terre del Patrimonio di San Pietro, nucleo fondamentale dell’Italia Centrale costituente il dominio temporale del sommo pontefice. Fermana la Marca e a Spoletino il Ducato “ videlicet Marchiam Firmanam et Ducatum Spoletanum”46. Dal secolo X si usa il termine Marchia per  indicare Fermo, come si evince dai documenti pontifici e cancellereschi e farfensi. Tra l’altro si legge”per totam Marchiam nec non per totum Ducatum”47.

Dal XIII secolo, per Marchia non si intende il territorio fermano ma anche quello anconetano: quest’ultimo infatti assorbirà il primo dei due e ne assumerà il titolo.

1.6 Gli studiosi dei secoli XVIII e XIX: Antonio Brandimarte e Giuseppe Colucci.

Gli storiografi che affrontano la storia fermana e palmense tra il Settecento e l’Ottocento, ripartono dalla bibliografia latina citata nei primi paragrafi e principalmente dall’autore della Naturalìs Historia, Plinio il Vecchio: Antonio Brandimarte di Altidona nel 1815 pubblicava la sua opera di ricostruzione storica con titolo: Plinio Seniore illustrato nella descrizione del Piceno48. L’autore comincia dai luoghi della trattazione storica e della descrizione geografica prestando particolare attenzione all’origine picena degli insediamenti di Fermo e Torre di Palma, approfondendo le loro relazioni in epoca romana e tardo-antica, intuendo le loro divergenze nei periodi dell’alto medioevo e delle lotte per le investiture, e ribadendo le loro reciproche correlazioni con autonomie e soggezioni fino al tempo in cui scrive.

La sua opera è pregevole grazie alle descrizioni fatte dagli antichi autori e grazie alle coordinate geografiche da essi fornite: riesce a ricostruire parte della topografia locale che interessa la zona in esame. La sua localizzazione del navale palmense a sud del fosso Cugnolo è una sua acuta intuizione con una conferma attraverso i sopralluoghi che egli stesso eseguì in loco.

Precedentemente il Colucci49, per la ricostruzione della storia del Piceno, è partito dalle medesime fonti, sebbene non si soffermi quanto Brandimarte sulla necessità di verificare attraverso “perlustrazioni sul campo” la veridicità di quanto trasmesso dagli antichi autori.

I loro studi sono stati preziosi per varie ragioni: da un lato hanno riscoperto le fonti documentali per la storia locale, dall’altro hanno contribuito alla sistemazione dei materiali di studio, rintracciati in archivi e biblioteche anche privati, in ultima analisi hanno messo in relazione gli studi antichi con quelli successivi, fornendo pregevoli mezzi per fa ripartire le ricerche con un criterio storico più scientifico.

Grazie alla prassi storiografica da essi utilizzata è stato possibile rinvenire il materiale documentario e conservarlo, sollecitando le istituzioni a raccoglierlo e mantenerlo intatto in appositi archivi. Risale ai primi decenni del Settecento una valida sistemazione della documentazione dell’Archivio Storico Arcivescovile di Fermo, nel quale precedentemente i materiali diplomatici erano in uno stato conservativo poco ordinato50.

Certamente è di grande interesse il fatto che i predecessori nella ricerca storica locale hanno tracciato le linee guida di ricostruzione degli eventi e delle aree di sviluppo: Brandimarte come anche Colucci tentano entrambi di distinguere tra il “Navale di Palma” ed il “Porto di Fermo”, da altri studiosi confuso o addirittura identificato.

Le recenti pubblicazioni fanno ancora riferimento a queste localizzazioni e alla sistemazione delle aree di pertinenza fermane e palmense. Così gli studi affrontati da Vincenzo Galiè51 e da Armando Muccichini 52 concordano nel riconoscere le due aree portuali in due stabilimenti ben distinti: essi sarebbero situati l’uno presso il fosso Cugnolo, in territorio di Torre di Palme, detto dagli antichi Navale Palmense, e l’altro nell’attuale litorale nord di Porto San Giorgio, allora chiamato Porto di Fermo, secondo la collocazione che ne dà il Galiè 53.

E’ importante comunque che entrambi gli studiosi distinguano i due insediamenti portuali, perché il fatto conferma che le circoscrizioni fermana e palmense mantenevano un margine, più o meno ampio, di autonomia dell’una rispetto all’altra. Ciò è premessa fondamentale per supportare l’ipotesi che l’autonomia concessa nelle bolle dai pontefici al priore commendatario di Palma, rispetto al vescovo -principe fermano, sia sostanziale, amministrativa e giurisdizionale.

Dai documenti e dalle bolle pontificie si evince infatti che tale dominio palmense costituisse un beneficio indipendente e di un certo interesse nella lotta per le investiture e nelle frequenti situazioni di contrasto tra Impero e papato, e tra le fazioni Guelfa e Ghibellina, nei secoli XI-XIII54.

CAPITOLO II

GUELFI E GHIBELLINI NEL COMITATO DI FERMO E NELLA MARCA DI ANCONA

II.1 Fermo e il vescovato.

Nell’ambito dell’organizzazione territoriale longobarda, la circoscrizione fermana viene da molti storiografi viene considerata formalmente e giuridicamente annessa al ducato di Spoleto, dal quale diventa autonoma sotto Desiderio55.

Dall’VIII secolo a Fermo risulta documentatoil comes e dal IX sec.  è riporato nei documenti il termine comitatus (contado) che sta ad indicare una territorialità che coinciderebbe con quella dei territori che fanno capo alla diocesi fermana, la quale si estende dal fiume Potenza al Tronto e dal mare Adriatico ai monti Sibillini56.

Dal tardo secolo X a tutto il XIII infatti, i vescovi ad esercitarono nella città un potere di giurisdizione sia in spiritualibus che in temporalibus’57.

Al tempo degli imperatori Ottoni il primo vescovo – ‘conte’ della città in base ai documenti pervenuti è Uberto, figlio del conte Tebaldo58 (996 d.C.) e un funzionario laico ad esercitare a Fermo il potere comitale nella zona alto collinare e montana è documentato Mainardo del fu Siffredo59.

In questo periodo il territorio risulta diviso in trenta ministeri <fiscali> e circa trentasei pievi, distretti laici ed ecclesiastici che consentono un capillare controllo amministrativo dell’intero comitato e quindi anche dell’intera diocesi. Il fitto reticolato tracciato dal sistema plebano consente ai vescovi di inserirsi nel tessuto sociale ed economico, esercitando un potere signorile riconosciuto dalle istituzioni pubbliche e private, laiche ed ecclesiastiche60.

Contestualmente il potere imperiale trova affermazione nel territorio medesimo attraverso l’abbazia di Farfa, che ha come avamposto il priorato di S. Vittoria in Matenano, presso il quale nel 934 furono trasportate, dalla Sabina, le spoglie dell’omonima santa61.

Il mutamento del potere civile dei vescovi a Fermo è segnato dalla nascita delle istituzioni comunali e soprattutto dalla loro affermazione a metà del secolo XIII. Contestualmente all’acuirsi dei contrasti tra il pontefice e Federico Il62 , la città e le località limitrofe ad essa soggette, attraverso le famiglie comitali di maggiore spicco, dimostrano benevolenza verso lo Stato della Chiesa e così si stabilizza nella Marca l’amministrazione della Sede Apostolica63.

II.2  Dal ducato al comitato

Dal VI secolo, in seguito alle molteplici invasioni da parte delle popolazioni germaniche, ed alla continua presenza di truppe stabilmente stanziate nella località fermana a causa della guerra greco – gotica, si assiste ad un rapido processo d’incastellamento che genera notevoli modifiche all’aspetto del territorio: grandi e piccoli centri si accrescono sulle alture, si cingono di mura, costruiscono bastioni di difesa, rocche e avamposti64.

Dal 569, con l’invasione longobarda, l’Italia viene divisa in presidi con a capo duchi65  che hanno dapprima un esclusivo valore militare, ma col tempo acquisiscono anche altre caratteristiche amministrative, che conferiscono a queste circoscrizioni, chiamate ‘ducati’, anche valore giurisdizionale.

Un’organizzazione territoriale del genere risulta, però, piuttosto incline a favorire particolarismi e l’ingenerare di forze centrifughe, ed è per ovviare a questo problema che molti ducati sono chiamati a vigilare su altri.

E’ questo il caso di Fermo e Spoleto nel corso del secolo VII, le cui amministrazioni civili ed ecclesiastiche risultano strettamente connesse e in entrambi i casi le unità territoriali diocesane corrispondono a quelle politico – amministrative. La diocesi fermana riesce ad incorporare le diocesi di Pausulae, Truentum, Falerio e Cupra Marittima66.

Nell’VIII secolo nella città la figura del gastaldo è gradualmente sostituita da quella del comes. Nel 787 conte di Fermo è Rabennone67, che compare in un diploma dell’agosto di quell’anno emesso a Spoleto dal duca Ildeprando68.

Il termine comitatus riferito a Fermo rilsuta sotto l’imperatore Ludovico il Pio. In seguito alla dominazione carolingia che si sovrappone alla precedente organizzazione territoriale longobarda si ha la Marca Fermana dei Franchi mentre i territori della penisola restano divisi in feudi longobardi e feudi franchi.

La differenza tra i due sta nel fatto che i benefici longobardi sono ereditati da tutti i figli maschi, favorendo una pericolosa frammentazione politica, mentre quelli franchi sono ereditati dal figlio maschio più anziano, in seguito al Capitolare di Querzy, emanato dall’imperatore Carlo il Calvo, limitatamente ai feudi maggiori69.

Con la nuova amministrazione carolingia, tuttavia, duchi, conti e gastaldi risultano essere, almeno formalmente, amministratori inviati dal sovrano; ad essi si affiancano, nella gestione più capillare del territorio, visconti e decani, molto spesso a capo dei ministeri, circoscrizioni minori70: questi prestano servizio e giurano fedeltà al feudatario principale, dal quale hanno ricevuto il beneficio.

In alcuni casi, per quanto riguarda la diocesi di Fermo, il ministerìum coincide con il territorio individuato dai possedimenti della plebs, la quale normalmente è chiesa matrice e rappresenta l’istituzione canonico – battesimale, centro di irradiazione sacramentale, luogo nel quale è conservato il fonte battesimale, origine della vita cristiana nell’azione dello Spirito71.

II.3      I protettorato imperiale sull’abbazia di Farfa nell’epoca carolingia e ottoniana

Dal X secolo, nel dominio e nell’amministrazione del contado Fermano si inserisce l’abbazia di Farfa, sita nelle zone della Sabina, che con l’imperatore Carlo Magno ottiene l’immunità temporale e spirituale72. Inizialmente tra le due istituzioni erano corsi sempre buoni rapporti e l’abate di Farfa aveva giurisdizione su molteplici benefici siti in diocesi fermana73 e più precisamente lungo la valle dell’Aso, dove era stato costruito un monastero farfense poi distrutto, in seguito alle scorrerie degli invasori provenienti dal mare, Illiri e Saraceni. Il presidio venne trasferito sul Matenano74 che ebbe la funzione di vigilare sui possedimenti dell’abbazia al di qua dei monti Sibillini. I territori farfensi vengono distinti in due, quelli localizzati in Sabina e quelli siti in Marchia, molto spesso con a capo due diversi abati75.

E’ lo stesso imperatore franco a considerare distinti, ma entrambi annessi al suo regno, Fermo e Spoleto, come già era avvenuto in epoca della dominazione longobarda al tempo di Desiderio76. Con i Franchi dal IX secolo risulta la Marca di Fermo mentre Spoleto diviene principato77 .

Nei documenti farfensi del Regesto, del Chronicon, del Largitorio, si parla più spesso di comitatus firmanus, entità territoriale e amministrativa. Nel racconto dell’abate farfense Ugo, dal titolo “Destructio Monasterii Farfensis”, nel quale si narra la venuta dell’abate da Farfa al castello di Santa Vittoria ricorre per il territorio fermano il termine Firmana Marchia78: lo si trova anche in un diploma di Ottone II dell’anno 98379.

In epoca tardo-carolingia e ottoniana Fermo è definito ducato, unitamente a Spoleto e non soggetto ad esso, come si ravvisa nei diplomi di Berengario e Adalberto: infra ambobus ducatibus nostris, Spoletino videlicet atque Firmano80.

Contestualmente, con Ottone I, il potere vescovile aveva raggiunto l’apice come potere comitale, poiché la maggior parte dei vescovi proveniva da famiglie di stirpe comitale, al servizio dell’imperatore in qualità di funzionari81.

Analogamente a Farfa, ottenne privilegi e protezione imperiale il monastero di S. Croce al Chienti in territorio fermano: Ottone I infatti, in una contesa tra l’abate Giovanni e il vescovo Gaidolfo82, rende il monastero autonomo dal vescovo ponendolo sotto l’egida imperiale con diploma dell’imperatore del 968 nel quale si afferma che il vescovo, nei luoghi che cadono sotto la giurisdizione dell’abate, può semplicemente consacrare abati e altri monaci, nonché luoghi sacri, ma non può esigere che “un modestissimo tributo annuale”83.

Tuttavia il periodo di favore da parte dell’impero nei confronti dell’abbazia farfense e del priorato di S. Vittoria dura relativamente poco: alla fine del secolo X il vescovo fermano Uberto84 esercita anche il potere comitale e da allora gode dell’appoggio della Santa Sede nonché dell’imperatore Ottone III. In questo lasso di tempo i possedimenti farfensi nell’episcopato fermano vengono notevolmente ridotti85; successivamente, nel secolo XII, sulla stessa abbazia di Farfa, è accresciuta l’influenza della Santa Sede86.

E’ poi per iniziativa del vescovo che nella città sorgono le prime istituzioni comunali, sebbene in forma embrionale, ben viste dal potere ecclesiastico87 , perché costituiscono una valida alternativa al governo dell’impero e consentono al vescovo, di poter esercitare la propria signoria sul centro e sull’intero territorio ad esso soggetto

Durante il periodo ottoniano del vescovo – conte, compaiono le seguenti istituzioni nel comitato fermano, al fianco di quelle comunali: cardinales, collegio dei canonici; causatores, notai, giudici e avvocati; defensores, difensori delle chiese; mansionarius, funzionario sovrintendente alla chiesa cattedrale e al palazzo vescovile; vicecomites, visconti facenti funzione nei vari ministeria, e vicedominus, vicario del vescovo con funzioni temporali e amministrative88.

  1. 4 Rapporti dell’episcopato fermano con l’impero e con il Papato nel periodo della lotta per le investiture.

Dalla metà del secolo XI i Fermani garantiscono appoggio a Leone IX, che combatte contro i Normanni. Dal 1080 la contea di Fermo è ricondotta sotto la giurisdizione pontificia di Roma, nella persona del pontefice Gregorio VII, che scomunica i Normanni. Dal 1105 la città è occupata da Arrigo V e nel 1130 di nuovo ricade in mano normanna; dal 1189 accoglie le istituzioni comunali e ritrova la sua autonomia come libero comune, con leggi proprie e con il primo podestà, Baldo di Nicola89 .

La Chiesa fermana, fino all’amministrazione del vescovo Liberto (1128-1145), dimostra di essere un valido alleato per la Santa Sede e garantisce ad essa indirettamente anche la fedeltà di tutte le istituzioni pubbliche e private, le quali ricevono in cambio dall’episcopato privilegi e benefici, attraverso un processo di infeudazione della Chiesa90; anche le città, i castelli e i piccoli borghi della diocesi, attraverso la concessione da parte del vescovo – conte delle nascenti strutture comunali, giurano fedeltà alla Chiesa e garantiscono prestazione di servizi, soprattutto militari91.

I problemi per la diocesi fermana iniziano, però, con il governo spregiudicato del successore, Baligano (1148-1168) che, abbandonando la politica conciliante con la Chiesa di Roma, praticata dai suoi predecessori, si avvicina sempre di più all’imperatore Federico I il Barbarossa, dalla cui curia ottiene molteplici favori, e presta obbedienza all’antipapa Vittore IV92.

Il successore Alberico (1174-1178) torna invece ad una politica antimperiale e ciò costa molto alla chiesa e alla città di Fermo che viene assediata, saccheggiata, distrutta e data alle fiamme dal cancelliere dell’imperatore, l’arcivescovo scomunicato Cristiano di Magonza93 , e le sue truppe non risparmiano neppure il duomo, l’episcopio ed il palazzo comunale94.

Dal 1184 al 1202 è vescovo Presbitero, amico di Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury95, del quale si conserva ancora oggi in duomo, presso il museo diocesano, di araba fattura. Presbitero rivendica presso l’imperatore Federico I e presso il figlio Enrico VI96, tutti i diritti e i privilegi anticamente goduti dal vescovo e dal suo episcopato, nonché dalla città, dai territori e dai castelli del comitato di Fermo ad essa facenti capo97.

Durante il suo episcopato vi è un contenzioso tra l’Impero e la Chiesa per il territorio della marca di Ancona. Il vescovo fermano viene perseguitato da Marcovaldo d’Annweilher98 , nominato marchese di Ancona nel 1195 dall’imperatore Enrico VI. Quando tuttavia quest’ultimo muore, e si crea in tal modo un vuoto di potere, la Curia Romana ne approfitta per ricondurre le Marche all’obbedienza e per recuperare in maniera stabile i precedenti territori nel Centro – Italia: Marcovaldo viene sconfitto a Ripatransone tra il 1198 e il 1199 e abbandona definitivamente quei luoghi allontanandosi alla volta della Sicilia99.

Con la partenza di Marcovaldo i rapporti tra la Chiesa e le città marchigiane si distendono e Fermo, organizzata ormai come libero comune100, con la collaborazione del vescovo – conte, ha giurisdizione e governo anche sui comuni e i castelli vicini, i quali mantengono con la città che esercita un vero e proprio predominio101, come risulta dalle concessioni papali e imperiali copiate nel codice 1030.

I due feudi maggiori, amministrati dall’abate di Farfa e dal vescovo di Fermo, prestano giuramento al pontefice Celestino III102, il quale aveva precedentemente esortato Presbitero, costretto dalla persecuzione a fuggire103 , a tenere l’episcopato, nonostante le intollerabili molestie dell’imperatore e del suo marchese Marcovaldo.

Nel 1198 ascende al soglio pontificio papa Innocenzo III104, fautore della politica teocratica. Egli ottiene l’appoggio delle città e dei liberi comuni della Marca, esercita la supremazia del Papato in tali territori e vi invia due legati pontifici, i cardinali Cinzio di S. Lorenzo in Lucina e Giovanni di S. Prisca; essi hanno il compito di mantenere la Marca alla fedeltà verso la Santa Sede e di mantenere buoni rapporti con la Curia Romana105.

Furono proprio i due legati che, con il favore delle città della Marca, eccezion fatta per Ascoli e Camerino, rimaste fedeli all’Impero, sconfissero l o scomunicato marchese Marcovaldo a Ripatransone106.

Dal 1205 al 1213 è vescovo a Fermo Adenolfo107, che era stato in precedenza vicedominus di Presbitero: egli ricevette dal pontefice Innocenzo III, con bolla dello stesso anno d’insediamento, i pieni poteri temporali nella città, nei castelli viciniori e nel comitato, assumendo di fatto la prerogativa della riscossione delle imposte e dell’amministrazione della giustizia108. A gran parte dei castelli, dei borghi e delle città soggetti all’episcopato in questione, con il governo di Adenolfo, viene concessa, anzi favorita, la possibilità di organizzarsi in libero comune109, come nel caso di Ripatransone.

Adenolfo, in qualità di vicedominus, era già stato podestà del comune di Fermo, e ciò a testimonianza del fatto che vi fosse collaborazione, se non soggezione, da parte delle strutture comunali nei confronti del vescovo e della sua curia110.

Contestualmente si acuiscono i contrasti reciproci tra i liberi comuni, la città e i castelli signorili del comitato fermano e delle zone limitrofe, tanto da indurre il pontefice Innocenzo III a richiamare all’ordine e alla concordia le neo-costituite istituzioni della Marca.

I contrasti vengono temporaneamente sanati il 18 gennaio 1202, con la pace di Polverigi, alla quale partecipa anche, come castello autonomo, Torre di Palme111. Alcuni comuni, tuttavia, dimostrano, nonostante il trattato, insubordinazione verso la Santa Sede e nei confronti dell’episcopato fermano. E’ questo il caso di Civitanova: il pontefice Innocenzo III scomunica allora i civitanovesi e la scomunica sarà rimessa soltanto nel 1208, quando Civitanova giurerà fedeltà alla Chiesa e corrisponderà l’annuo censo che fino ad allora aveva rifiutato di corrispondere al pontefice ed al vescovo vigenti112.

Nuovi problemi insorgono dopo la lotta per la successione ad Enrico VI, con l’ascesa al potere di Ottone IV, incoronato dallo stesso papa Innocenzo a Roma nel 1209; l’imperatore, infatti, ottenuta la benedizione del pontefice, e dunque legittimato nell’esercizio del potere temporale, nel 1210 affida ad Azzo VI d’Este la Marca di Ancona e quindi anche la contea di Fermo, sottraendola di fatto al vescovo privilegiato nei poteri dal papa113.

Compromessa ormai ogni possibilità di ricucire i già tesi rapporti tra “i due soli”, papato e impero, e tra le due fazioni, guelfa e ghibellina, Innocenzo III e Ottone IV tentano di ottenere il favore degli abitanti della Marca con concessioni di ogni genere114: mentre nel 1211 Ottone IV consegna a Fermo la piena giurisdizione sul litorale adriatico, nel tratto di costa compreso tra il Potenza e il Tronto, seguendo i confini già segnati dal territorio diocesano, Innocenzo III, nel 1212, attira Azzo VI dalla sua parte, confermandolo nel marchesato di Ancona, di fatto feudo della Chiesa, e dunque legittimandolo a sua volta nell’esercizio del potere già concessogli dall’autorità imperiale115.

Alla morte di Azzo VI, cerca di recuperare il feudo paterno il figlio Aldobrandino116, confermando ed estendendo le concessioni che già il padre aveva dato, tuttavia nel 1215 viene assassinato e papa Innocenzo, prima di morire (1216), rinnova i privilegi da sempre goduti dai suoi predecessori al vescovo Fermano Ugo117; questi benefici vengono nuovamente riconfermati dal neoeletto pontefice Onorio III al vescovo Pietro IV (1216-1223) nel 1217.

Onorio III al suo arrivo, nel 1216, trova un grande vuoto, lasciato dalla morte del suo illustre predecessore, dalla mancanza dell’energico ordinario fermano Adenolfo, morto nel 1213, e dalla prematura scomparsa di Aldobrandino d’Este118. Morto nel 1218 Ottone IV, contestualmente il vuoto politico creatosi viene colmato dall’ascesa al potere imperiale di Federico II di Svevia, incoronato a Roma dallo stesso Onorio nel 1220, il quale aveva preventivamente richiesto che Federico rinunciasse ai territori pontifici siti nell’Italia Centrale, principalmente a quelli marchigiani: richiesta esaudita dal sovrano ma poi subito disattesa119.

Nel frattempo lo stesso Onorio III aveva però concesso in feudo ad Azzo VII d’Este, fratello di Aldobrandino, la Marca di Ancona e al vescovo fermano Pietro, come già accennato, i pieni diritti temporali sopra il comitato. Ciononostante Federico arreca molestie all’episcopato fermano favorendo l’affrancamento dei comuni ad esso soggetti e dunque attirandoli a sé120.

Il pontefice mostra allora pugno di ferro ed ordina ai comuni di riconoscere al proprio fermano l’autorità che egli stesso gli ha riconosciuto, come già avevano fatto i suoi predecessori, e concede alla città, per ricambiarla della fedeltà dimostrata, di coniare moneta, ma di peso inferiore rispetto a quella imperiale121.

Ulteriori liti sorgono di nuovo sul finire dell’anno 1220, quando l’imperatore riporta in auge i poteri dell’abbazia di S. Croce al Chienti122, riconoscendola sotto la sua protezione. Alcuni conflitti vengono sanati l’anno seguente con una spartizione dei comuni della Marca tra il vescovo di Fermo ed Azzo VII d’Este, che sembrano da allora collaborare insieme123.

A Pietro IV era succeduto nel potere episcopale e comitale a Fermo Rinaldo (1223-1227)124, investito dell’incarico da Onorio III, il quale aveva provveduto ad intimare ai nobili della contea ed alle istituzioni comunali di prestargli giuramento e servizio. Il papa però, data la difficoltà del momento ed i precari equilibri delle forze in urto nella Marca, invia un legato pontificio, Pandolfo, che subito entra in attrito con il vescovo Pandolfo, che peraltro era stato investito tam in spiritualibus quam in temporalibus e parteggiava per il marchese Azzo VII, assecondandone le rivendicazioni125 a svantaggio del vescovo fermano.

Nel 1224 la città e i castelli viciniori, per sottrarsi alle insidie del partito ghibellino, eleggono loro signore il vescovo Rinaldo, che resterà di fatto padrone indiscusso della città e della contea fino al 1233126.

Azzo d’Este inizia quindi a saccheggiare la Marca e, nonostante i richiami di papa Onorio, danneggia principalmente i borghi e i castelli di confine tra la Marca e il contado fermano, suscitando, per tutta risposta, la reazione del neoeletto pontefice Gregorio IX che, per dirimere la controversia, invia il suo nunzio, il suddiacono Rolando, per sottrarre i castelli e le città oggetto del contendere e ridurle direttamente sotto la giurisdizione della Curia Romana e convoca, dinanzi a sé, entrambi i contendenti, sia il vescovo che il marchese127.

Gli equilibri già instabili tra le due fazioni, guelfa e ghibellina, assumono ora una portata maggiore e Gregorio IX, nel 1227, scomunica Federico II, sciogliendo in tal modo i sudditi dal giuramento di fedeltà all’imperatore; il sovrano, infatti, aveva nominato il duca di Spoleto, Rinaldo, suo legato nelle regioni sottoposte al dominio dello Stato Pontificio128.

Il duca imperiale Rinaldo dunque, avendo ricevuto l’ordine di annettere il comune di Civitanova all’impero , sottraendolo permanentemente alla Chiesa, nel 1228 invade le Marche e Gregorio IX, per fronteggiare questa situazione di pericolo per i territori del “Patrimonio di S. Pietro”129, invia a Fermo, centro importante della Marca, il re Giovanni di Gerusalemme e il cardinale Giovanni di Santa Prassede, al fine di assicurarsi l’appoggio della città, dei suoi abitanti e delle sue istituzioni130.

Analogamente si era però comportato il duca ghibellino Rinaldo per avere il sostegno di Montegiorgio e Ripatransone, centri ai quali aveva concesso privilegi e giurisdizione sui castelli vicini, un tempo soggetti all’episcopato fermano. Ne consegue che con la partenza del duca Rinaldo dalle Marche, il papa, dichiarando decaduta rinvestitura del marchese Azzo d’Este, impegnato nel nord – Italia, aveva riportato questi territori direttamente sotto il suo controllo, servendosi dell’amministrazione di legati pontifici131.

In seguito al controllo diretto pontificio nella Marca, attraverso suoi emissari, il potere comitale dell’episcopato fermano viene completamente svuotato di ogni contenuto: dal 1233 può essere considerato decaduto il potere temporale vescovile che si può ritenere solo ordinario titolare della sola giurisdizione spirituale, pur continuando egli a godere delle rendite delle sue proprietà terriere. Il contado fermano viene ora amministrata dalle istituzioni comunali in collaborazione col governo emissario del papato.

In questo periodo la città cerca comunque di mantenersi piuttosto neutrale132 non parteggiando né per l’Impero né per la Chiesa, come testimonia un’iscrizione del 1236 rinvenuta dall’avvocato Giuseppe Fracassetti e pubblicata dal canonico Porti: in essa si legge (tradotto) “ Proteggila, o Gesù, per le intercessionidei santi e duri per lei la grazia dei due ‘dominatori’”.

Con tale affermazione il podestà di Fermo, Ugo Roberti, implora per la città la protezione del Cielo e dei due suoi signori, pontefice e imperatore, evitando di riconoscere uno dei due come sovrano esclusivo133.

Nello stesso anno, osservando le disposizioni di papa Onorio, che aveva ordinato di cingere di muraglie le città soggette allo Stato della Chiesa, a Fermo, sul Girfalco, viene eretta la rocca, che verrà poi distrutta nel 1446 nella rivolta del popolo contro gli Sforza, tiranni della città134. Tuttavia nel 1242 i Fermani si vedono costretti a sottomettersi all’imperatore e ricevono in cambio la facoltà di giudicare le cause civili e penali, il dominio già concessogli sulla costa adriatica e il mero e misto impero135.

In questo periodo è attestato in un documento conservato a Todi, come iudex del comitato fermano, Pier delle Vigne, al seguito del sovrano intento nell’assedio di Ascoli136; e nello stemma della città appare per la prima volta, oltre la croce, l’insegna dell’aquila imperiale137.

Nel 1239 Gregorio IX scomunica nuovamente il suo avversario Federico, che per tutta risposta, invia suo figlio Enzo, legato imperiale, a riconquistare i territori marchigiani per ricondurli sotto l’egida dell’Impero; il pontefice, allora, contrasta le pretese imperiali inviando nella Marca il cardinale Colonna138.

Nel 1243 è nuovo papa Innocenzo IV e nel Concilio di Lione del 1245 Federico II viene deposto: le fazioni guelfa e ghibellina sono ora rispettivamente condotte e rappresentate da Marcellino Pete, vescovo di Arezzo, e da Roberto da Castiglione, il quale ha la meglio sul legato pontifìcio139.

Giunge allora nella Marca il cardinale di S. Maria in Cosmedin, Raniero, luogotenente dello Stato della Chiesa, che subito conquista il favore di parte delle città marchigiane; quest’ultimo ordina tra l’altro, nel 1248, la restituzione del castello di Torre di Palme, unitamente a quello di Grottammare e Moresco140. Proprio del castello di Torre di Palme, nello stesso anno, erano state restaurate le mura ed era stato incrementato il numero degli abitanti dall’imperatore Federico141, tanto che, ancora oggi, le mura duecentesche esibiscono splendide merlature ghibelline.

Nel 1249 il sindaco di Fermo, Iacopo di Thoma, riconosce a Torre di Palme i danni inferti dai Fermani nelle guerre passate e contestualmente i palmensi promettono che in futuro saranno cittadini di Fermo ed assolveranno ai loro oneri; la giurisdizione fermana sul castello palmense sarà di nuovo riconfermata nel 1258 da Manfredi142.

Intanto, nel 1250, era improvvisamente mancato Federico II, morto a Castelfiorentino lasciando la fazione ghibellina in grave difficoltà. Con la scomparsa di quest’ultimo cessa di fatto la dominazione imperiale nella Marca, e il comune di Fermo acquisisce di nuovo la giurisdizione sugli ottanta castelli143, garantendo fedeltà e obbedienza al papato.

CAPITOLO III

LA SANTA SEDE E LE PRELATURE NULLIUS IN

TERRITORIO DI PALMA

 

III.1 Concessioni, privilegi e riserve contenuti nella bolla di Alessandro III

I privilegi, le concessioni e le riserve, che la bolla del 1180 di Alessandro III144, inviata al priore degli Agostiniani di S. Pietro Vecchio, contiene, sono di duplice natura: spirituali e temporali.

Innanzitutto il pontefice intima ai frati palmensi il rispetto, nella loro chiesa, dell’ordine canonico e della regola di S. Agostino, in perpetuo. Una successiva bolla, di Urbano IV, datata 1264, si apre infatti con l’espressione (tradotta dal latino): “Per coloro che scelgono la vita religiosa è opportuna la difesa apostolica affinché per caso di aggressione temeraria o per forzature al proposito dei religiosi, cosa che mai avvenga, sia infranta”145.

La bolla elenca le concessioni territoriali che la Santa Sede conferma alla chiesa menzionata, distinguendo tra quelle possedute da essa giustamente e canonicamente, e quelle che in futuro potranno ad essa pervenire attraverso elargizioni o concessioni dei pontefici, dei re o dei principi, oppure dalle elargizioni dei fedeli, “cose che rimangano intatte e stabili per voi e per i vostri ”146.

Il nucleo principale del benefìcio concesso fa riferimento al luogo in cui è stata costruita la chiesa e alle sue dirette pertinenze, quindi ai territori siti lungo il fiume Ete Vivo, nel fondo di Palma e nel fondo Castellioni <o Castiglione>, dove l’antico monastero era situato.

Altre giurisdizioni, di natura temporale e spirituale, riconosciute dal papa all’abate palmense, si distinguono in quelle che sono inerenti i beni siti nella città di Fermo e quelli localizzati nel territorio dell’episcopato fermano.

“In civitate Firmana” viene riconosciuta l’amministrazione sulla cappella di S. Gregorio con le sue attinenze e sulla cappella di S. Liberatore con le sue spettanze. Nella diocesi fermana, inoltre, si riconosce alla comunità agostiniana la piena giurisdizione sulla chiesa di S. Salvatore in Colle e sulle sue appartenenze.

La chiesa di S. Pietro in Palma e le relative pertinenze sono annoverate fra i possedimenti del monastero palmense, ricordando che, col termine Palma, si riconoscono i territori di quasi tutta la circoscrizione palmense, esclusi quelli di competenza del castello- fortezza Turris Palmae.

L’ospedale nel Chienti con la cappella di S. Nicola e le sue pertinenze, fanno parte anch’essi dei beni ricevuti in feudo dal priorato agostiniano stesso.

Vengono legati ad esso anche la pieve di S. Stefano a Falerone, con diritto sulle decime sui riti per i vivi e i defunti, e la parrocchia integra con i suoi privilegi, concessi dai vescovi fermani e che il pontefice intende confermare all’amministrazione priorale palmense, con potestà di correggere canonicamente sacerdoti, diaconi, suddiaconi, chierici e laici.

Nell’elenco dei benefici figurano, inoltre, la chiesa di S. Paolo, Pietro e Gregorio a Monte S. Pietrangeli con le sue competenze, unitamente alla chiesa di S. Salvatore, S. Maria e S. Prospero e le relative prerogative. Le chiese di S. Cataldo e di S. Pietro a Montefiore <dell’Aso>e le pertinenze che ad esse fanno capo, sono poste anch’esse sotto la medesima giurisdizione.

All’amministrazione della prelatura di S. Pietro Vecchio sono concessi possedimenti “In castro Pondii”, come le chiese di S. Pietro, S. Maria e S. Donato. In Monteverde sono confermate, al priorato suddetto, le chiese di S. Vitale, S. Liberato e loro pertinenze; di questo feudo, in seguito, diverrà padrone indiscusso il vescovo fermano, tanto che al titolo di arcivescovo e principe di Fermo, aggiungerà quelli di signore di Monteverde e Abate di S. Claudio147.

Sono confermate, “in castro Macriani”, la chiesa di S. Salvatore e quella di S. Savino, e la chiesa di S. Angelo; nel castello di Monte Vidone, la cappella di S. Maria in plano e la cappella di S. Vito. La cappella di S. Martino, la cappella di S. Maria in Montelupone la cappella di S. Maria, nel medesimo castello, ricadono alla stessa autorità; “in Podio S. Petri”: le chiese di S. Pietro, S. Michele e S. Maria, con le rispettive pertinenze.

A Montappone, la chiesa di S. Maria, di S. Croce, S. Pietro, S. Paolo e S. Salvatore, con le loro pertinenze, sono amministrate dal priore palmense. Sono riconfermate, nel castello di Falerone, le chiese di S. Giovanni, S. Margherita, S. Leopardo, S. Fortunato, S. Paolino, S. Pietro, S. Maria, S. Valentino, con le loro pertinenze.

“In Colle de Morta”, area che viene riconosciuta come dell’Ete Morto, appartengono alla sopra indicata giurisdizione le chiese di S. Nicola e di S. Salvatore.

Inoltre, tutto ciò che dai vescovi cattolici della Chiesa Fermana è stato concesso nei tempi passati a tale priorale giurisdizione palmense, è confermato dal pontefice al priore e ai suoi successori, per l’autorità della Chiesa Fermana e della santa Chiesa Romana, in perpetuo e gli sono riconosciute le decime e le offerte dei vivi e dei defunti.

Si riconferma la processione serale del giorno di Pasqua, che la chiesa di S. Pietro è solita fare fin dall’antichità ed ancora oggi, in Torre di Palme, persiste tale consuetudine148, e non riguarda soltanto la zona del borgo o del castello, ma coinvolge l’intera frazione palmense.

Il percorso si avvia, ancora oggi, dalla pievania di S. Maria a Mare in Torre di Palme e, fino a qualche anno fa, alla volta dell’omonimo santuario di S. Maria a Mare, presso il fiume Ete Vivo, nei pressi della località ove una volta aveva sede il priorato di S. Pietro Vecchio. Suddetto rito, ed altri contenuti nello stesso scritto, vengono confermati dal pontefice alla comunità monastica.

E’ inoltre concesso, ed è pertanto lecito alla comunità, ospitare nella sua chiesa chierici e laici, e coloro che abbandonano il mondo per la conversione. La bolla proibisce che un religioso qualsiasi della chiesa testé citata, dopo la professione, possa abbandonare il luogo in cui si trova, se non ha ottenuto la licenza dal suo superiore e, senza questa licenza, nessuno osi tenerlo presso di sé.

Anche le concessioni sono di varia natura e riguardano particolari prerogative spirituali e temporali: seppellire nella chiesa di S. Pietro Vecchio coloro che hanno espresso tale volontà, salvo che siano stati scomunicati o interdetti, e fatti salvi i diritti della chiesa da cui provengono, se essa possiede diritti sui vivi e sui morti, come quelli riconosciuti al monastero di S. Pietro di cui sopra.

In caso di interdetto generale della terra, è lecito ai frati della comunità agostiniana palmense, chiuse le porte, senza suonare le campane, esclusi interdetti e scomunicati dal rito eucaristico, celebrare i divini uffici a bassa voce.

Nella bolla vengono invece negate al priore suddetto alcune prerogative, riconosciute al potere ordinario della diocesi del luogo: queste riguardano principalmente la prassi liturgica e pastorale, nelle quali viene in tal modo riconosciuta una certa superiorità all’autorità vescovile fermana: la consacrazione del sacro Crisma, la consacrazione degli altari e delle basiliche, l’ordinazione dei chierici da promuovere ai Sacri Ordini, sono riservate al vescovo della diocesi.

Alessandro III, prima delle sanzioni e delle benedizioni di seguito riportate precisa che, quando il priore stesso custode del luogo si allontanerà, o qualcuno dei suoi successori, a nessuno degli uomini sia lecito turbare la predetta chiesa, né impossessarsi dei suoi possedimenti o delle offerte, neanche in parte. Nessuno si proponga con astuzia o violenza come suo sostituto, ma colui che il consenso dei fratelli o la maggior parte del consiglio degli anziani, secondo timore di Dio e la regola di S. Agostino, abbiano stabilito di eleggere nell’incarico di priore.

La bolla stabilisce che a nessuno è lecito turbare la vita di detta chiesa, o importunarla con raggiri, ma tutto deve rimanere integro ed inviolato ad uso di coloro che hanno il compito di governare, o per il loro sostentamento, come concesso, salva la giustizia canonica dell’autorità della Santa Sede e del vescovo Fermano.

Corredano il documento anche le cosiddette sanzioni universali dette contro tutti nella terminologia ecclesiastica e nella prassi, la Suprema Autorità religiosa cattolica, il Sommo Pontefice, ha il potere di comminare l’interdetto: proibire le forme di culto a porzioni di territorio ma, in extremis, anche a tutto il mondo cattolico, la scomunica, singola, di un territorio, o universale149 .

La terminologia con cui un pontefice minaccia sanzioni divine, a chi volontariamente o in modo fraudolento, non rispetta, non ubbidisce o trasgredisce un ordine emanato in forma ufficiale da lui, è detta “contro tutti” per il potere e l’autorità che al pontefice derivano da colui che ha fondato la Chiesa Universale e, in base a questa prerogativa, scrive, ordina e ha potere di essere ubbidito da tutti.

Questa autorità deriva dal fatto che il papa è il successore dell’apostolo Pietro, al quale Gesù stesso concesse la prerogativa o facoltà, con l’affermazione: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa… A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra, sarà legato anche nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”150.

Le sanzioni postulano addirittura la privazione delle cariche: se in futuro una persona, sia essa religiosa o laica, conoscendo la pagina delle pontificie disposizioni, in maniera consapevole, tenterà temerariamente di non rispettarle, ammonita la seconda e la terza volta, se non si sarà corretta in modo degno, sia privata di ogni potestà, onore e dignità, sperimenti che esiste il giudizio divino per la iniquità commessa, sia esclusa dalla partecipazione al Corpo e Sangue di Dio, Redentore e Signore nostro Gesù Cristo e infine soggiaccia severamente alle pene nel giudizio finale.

Al termine dello scritto dei precetti pontifici, sono aggiunte le benedizione a chi osserva le disposizioni prescritte: a tutti coloro che in questo luogo osserveranno le prescrizioni suddette, giunga la pace del Signore nostro Gesù Cristo, ricevano i frutti della buona azione e, dal giudice severo, ricevano il premio della pace eterna.

III.2 II territorio nullius dioecesis in Palma Vetula e Turris Palmae: il priorato di San Pietro Vecchio e la commenda di Santa Maria a Mare

La circoscrizione territoriale una volta nucleo della città picena di Palma, sita entro i confini della diocesi fermana, sin dal periodo alto- medioevale, non cadeva direttamente sotto la gestione dell’episcopato ma era amministrata da due istituzioni, probabilmente accorpate alla fine del XII secolo: il priorato di S. Pietro Vecchio nella corte di Palma Vetula e la commenda di S. Maria a Mare in castro Turris Palmarum151.

Il primo documento pontificio che si riferisce al priorato di S. Pietro Vecchio è la bolla, riportata precedentemente, inviata da papa Alessandro III al priore di detta chiesa nell’anno 1180.

Il documento che si riferisce, alla commenda di S. Maria a Mare è la bolla di papa Clemente III del 1188, nella quale si ribadiscono i privilegi già concessi dal predecessore di Clemente, Alessandro, al priorato agostiniano palmense152.

Da quanto è affermato nei due documenti della Curia Romana, possiamo dedurre che i privilegi confermati siano gli stessi, che le aree di giurisdizione siano entrambe in diocesi fermana e con nucleo nella stessa circoscrizione, che infine i due priorati siano stati accorpati alla fine del secolo XII, tanto che la bolla di Clemente III ricalca fedelmente quella di Alessandro III, sebbene le istituzioni destinatarie non abbiano giuridicamente la stessa identità.

In entrambi i casi, però, trattasi di priorati agostiniani153, per tutti e due la localizzazione è nel territorio dell’antica città picena di Palma e del suo castello, Torre di Palma, per entrambi sono evidenti privilegi, prerogative, benefici e concessioni affini.

Lo storico Antonio Brandimarte aveva ipotizzato, per la città pre-romana di cui sopra, la presenza, in essa, di una cattedra vescovile autonoma rispetto a quella fermana. Scrive: “Onde la Diocesi Fermana, prima che fosse smembrata da S. Pio V e Sisto V, era stata formata non da sette Vescovati, che egli enumera, ma bensì da nove, che rimasero estinti”154. Nonostante questa ipotesi non sia dimostrabile, è tuttavia possibile considerare questo centro religiosamente e spiritualmente molto attivo, essendo presente, nel suo territorio, il santuario di S. Maria a Mare, da un punto di vista amministrativo e giurisdizionale, piuttosto libero dall’autorità episcopale fermana.

E’ inoltre chiaro che gli agostiniani palmensi, ed il loro priore, avessero un rapporto particolarmente stretto con la Santa Sede155, per la quale i suddetti priorati rappresentavano un presidio alleato di notevole importanza, data la posizione strategica rivestita dal castello di Torre di Palma, la cui città madre vantava storia illustre per il periodo pre- romano, tanto da essere considerata, dagli autori latini, la capitale dell’Ager Palmensis156.

Già come ordine religioso, gli Eremitani di S. Agostino, uniti tutti sotto un’unica regola nel 1256, con la bolla pontificia Licet Ecclesiae, e da allora comunemente chiamati Agostiniani157, avevano più volte ricevuto l’appoggio della Santa Sede: nel 1227 essi ottengono nuovamente, con Gregorio IX, la protezione del pontefice158. Questi motivi inducono lo storiografo, religioso altidonese, a ritenere il territorio della “diocesi di Palma”159 una circoscrizione amministrativa spiritualmente e giurisdizionalmente non soggetta, relativamente al periodo basso-medioevale e rinascimentale, all’episcopato fermano.

La fine del priorato palmense fu decretata dalla bolla di papa Leone X del 1516, con la quale i possedimenti e i benefici vengono definitivamente consegnati alla mensa capitolare dei canonici della cattedrale di Fermo160.

Prima delle bolle di Alessandro e Clemente, infatti, il territorio di Palma, era stato donato al vescovo fermano Ulderico, da Gualtiero del fu Ugo, nel marzo del 1062161.

Nuovamente Zabulina del fu conte Rinaldo, vedova di Ugolino, con il consenso di Bembo, suo mundoaldo, cede ad Ugo, vescovo di Fermo, nel dicembre 1088162, i castelli di Palma e di Palma Vetula, nonché millecinquecento moggi di terra siti nel fondo Castiglione, ove era sito il priorato di S. Pietro Vecchio.

Indubbiamente, nei momenti di maggiore tensione, il presidio palmense deve aver rappresentato un baluardo alleato contro l’avanzata della fazione ghibellina.

Nel periodo della lotta per le investiture, infatti, mentre Fermo si schiera alternativamente dall’una e dall’altra parte, il priore palmense resta sempre fedele alleato della Curia Romana164 .

Non a caso la concessione dei privilegi e la loro riconferma avviene sempre in circostanze particolari: le bolle di Alessandro III e Clemente III, entrambi fautori della teocrazia ecclesiastica nel periodo delle investiture, rispettivamente del 1180 e del 1188, sono immediatamente successive alla ritorsione imperiale contro l’episcopato fermano avvenuta nel 1176164.

La bolla di Urbano IV, del 1264, è inviata al priorato pochi anni dopo la morte di Federico II di Svevia, che aveva assediato Ascoli, costretto Fermo ad appoggiarlo e ridotto nelle sue mani il castello palmense165. Il territorio descritto, dunque, doveva avere prerogative affini a quelli amministrati dai monaci delle abbazie di Farfa, Fonte Avellana166, Montecassino167 , Subiaco e Pomposa

Il priore commendatario, aveva facoltà amministrative simili al potere ordinario del vescovo fermano e affini a quelle degli abati-nullius sopra elencati: nell’amministrazione temporale della commenda affidatagli esercitava una giurisdizione analoga a quella di un vescovo-conte, nella gestione pastorale e spirituale del priorato aveva gli stessi oneri.

Tuttavia, sebbene fosse, sotto queste prospettive, così autonomo, e potesse indossare mitria e pastorale, proprio come un vescovo, non aveva facoltà di ordinare religiosi e sacerdoti, di consacrare i sacri oli né luoghi sacri168: per queste particolari necessità doveva ricorrere all’autorità episcopale locale e si rendeva perciò necessaria la collaborazione con l’ordinario del luogo169. Il termine completo è: “Prelatura nullius dioeceseos”170 <prelatuta di nessuna dfiocesi>. In senso generico indica una chiesa o più chiese che vengono sottratte alla giurisdizione del Vescovo diocesano e quindi non più dipendenti dalla sua autorità. Nel codice aggiornato del Diritto Canonico si precisa che “Comprende una determinata porzione del popolo di Dio, circoscritta territorialmente, la cui cura, per speciali circostanze, è affidata al Prelato o all’Abate, che la regge, a somiglianza del Vescovo Diocesano, come suo proprio pastore” Canone 370171. La materia è regolamentata dai Canoni 370, 381 § 2, e 568 del predetto Codice.

L’origine delle Prelature territoriali, di quelle personali e delle Abbazie territoriali, risale all’opera di insigni monasteri che esercitavano sul popolo vicino, la cura pastorale in modo significativo: le troviamo ad iniziare dal IX – X secolo172 . Da allora i Sommi Pontefici confermarono tale esenzione e concessero anche la facoltà di fare i pontificali, come il vescovo diocesano nella propria cattedrale, con le insegne episcopali: mitria e pastorale.

Nel secolo XII le Prelature o Abbazie nullius erano poche e per questo motivo non si trovano nei Decretali di Gregorio IX; ma vi allude Alessandro IV173.

In tempi più recenti l’attività missionaria di alcuni monasteri condusse alla creazione di nuove abbazie territoriali, e papa Paolo VI, col Motu proprio “Catholica Ecclesia” del 23 ottobre 1976, dispose che, in avvenire, “non si procedesse più alla erezione di Abbazie territoriali se non per specialissimi motivi, e stabilì i criteri e le norme giuridiche per il riordinamento di questa antica struttura ecclesiastica”174.

Nel Codice di Diritto Canonico, promulgato da Giovanni Paolo II il 25 gennaio 2004, viene recepito il Motu proprio di Paolo VI, ma si stabilisce che l’abbazia debba avere “almeno tre parrocchie”175.

Una prelatura di questa natura è presieduta da un prelato, che la regge come suo pastore, come un vero Ordinario Diocesano, con piena giurisdizione legislativa, esecutiva e giudiziale (Can. 323)176 ed è direttamente soggetta al Romano Pontefice, che, attraverso il Prefetto del Dicastero della Congregazione per i vescovi, ne segue e controlla l’operato.

Il prelato non necessariamente deve essere insignito del carattere episcopale ma deve avere dei requisiti che già Alessandro VII, nella Costituzione Inter coeteras del 13 giugno 1659177, enumerava: legittimità di natali, buona vita, fama integerrima, almeno 25 anni di età.

Attualmente restano in vigore, ma con l’aggiunta che il promovendo dovrebbe aver reso alla Diocesi o all’Ordine di appartenenza un “qualche servizio particolare”, oppure ricopra una carica prevista dal Codice, come il Vicario Generale di una diocesi o di una prelatura178.

Le prelature o le abbazie possono essere di due nature: territoriali o personali. Le territoriali, come la parola stessa chiarisce, hanno anche un territorio e una serie di chiese sulle quali esercita tutti i poteri e la nomina compete al Sommo Pontefice. Esse hanno, o possono avere, un proprio seminario, clero e popolo separati da ogni diocesi, e il prelato o abate esercita la sua giurisdizione autonomamente (Can. 370).

Due esempi chiariscono meglio il concetto: l’abbazia di Subiaco e l’ Opus Dei.

L’Abbazia di Subiaco, vicino Roma, è una Prelatura territoriale che risale al sec. XI, ed è retta da un abate. Il territorio ha una superficie di 370 Km, 28.000 abitanti. Titolare attuale fa parte dell’Ordine di S. Benedetto; è Ordinario del luogo, con insegne episcopali e in base al Can. 448179 è membro di diritto della Conferenza Episcopale Italiana e quindi di quella Regionale del Lazio180 .

‘L’Opus Dei ha la casa prelatizia a Roma, è una Prelatura personale, con strutture giurisdizionali non circoscritte in un ambito territoriale, aventi come finalità “la promozione di una adeguata distribuzione dei presbiteri o l’attuazione di speciali iniziative pastorali o missionarie per le diverse regioni o categorie sociali”. E’ stata eretta il 28 novembre 1982; il titolare è anche Vescovo181.

Pur avendo 1.790 chiese in tutto il mondo, 1.902 sacerdoti, 355 seminaristi maggiori, 85.214 laici iscritti, non ha un territorio definito, ma solamente sacerdoti e laici che “possono dedicarsi alle opere apostoliche di una prelatura personale mediante convenzioni stipulate con la prelatura stessa; il modo di tale organica cooperazione e i principali doveri e diritti con essa connessi siano determinati con precisione  negli statuti” (Can. 296)182.

E’ considerata una eccezione che ha fatto Papa Giovanni Paolo II, non avendo almeno tre parrocchie, come esigeva il citato Motu proprio di Papa Paolo VI, ma solo la possibilità da parte di sacerdoti e laici di “prestare una organica cooperazione al compito pastorale proprio della Prelatura, senza la quale la Prelatura si troverebbe nella più assoluta impossibilità di perseguire la sua missione”183. Le prelature personali godono degli stessi diritti di quelle territoriali, ma esercitano l’autorità su una congregazione o aggregazione di fedeli (Can. 296), senza però un territorio proprio.

Il territorio centrale della diocesi fermana lungo il litorale, che non cadeva sotto la giurisdizione di alcuna pieve, era nei diritti e prebende al priore dei canonici agostiniani, secondo le prerogative da sempre riconosciute alle istituzioni nullius ancora oggi in vigore, come indicato nel Codice di Diritto Canonico.

Il priore palmense, in qualità di amministratore delegato della Santa Sede, gestiva un patrimonio di circa cento ducati d’oro l’anno184, e, nella bolla di annessione ed incorporazione alla mensa capitolare, il beneficio non è consegnato direttamente nelle mani del vescovo fermano, ma dei suoi canonici, che assumevano decisioni amministrative proprie. Ad essi spettva, dopo la concessione del pontefice Mediceo, l’obbligo di soddisfare alla celebrzione delle sante messe nelle chiese del priorato palmense, dato che i religiosi agostiniani abbandonavano il convento di S. Agostino185.

I canonici concessero al parroco di S. Giovanni Battista in Torre di Palma le rendite dei beni degli agostiniani, mentre subentrava al loro posto nei servizi inerenti. La chiesa palmense di S. Giovanni Battista, in precedenza, non aveva una giurisdizione né un potere amministrativo molto forte. Nella raccolta delle decime decise dal papa che questo parroco, secondo i documenti, ha corrisposto le decime anche negli anni 1290-1292 e 1299186.

III.3 Sull’incorporazione dei priorati di S. Pietro Vecchio e di S. Maria a Mare

Le testimonianze documentarie di un’avvenuta incorporazione o annessione tra i due priorati non sono pervenute, né sono giunti altri documenti che attestino direttamente un passaggio di privilegi, di concessioni e di benefici, se non le due predette  bolle di Alessandro III e di Clemente III.

Resta, peraltro, una testimonianza scritta, nel secondo libro dei battesimi dell’Antico Archivio Parrocchiale della chiesa di S. Maria a Mare in Torre di Palme, relativo agli anni 1638-1683: è l’annotazione, segnata nella seconda pagina, recita: “Memoria di una pietra antica, trovata nelle loggie di S. Maria a Mare di questa Chiesa, da me Alfonso Gaggi, vista da Don Anniballo Adamori, nell’arco della loggia incontro alla cantina < in traduzione italiana dal latino> “Eccone il tenore. La chiesa è stata fondata dal signor Priore Uberto ad onore degli apostoli Pietro e Paolo. Amen. Giorno 31 luglio anno di Cristo 1132.” Vi è annotato anche che due altre due lapidi hanno epigrafi divenute illeggibili: una di fuori a l’altra sotto la torre187.

Relativamente alla medesima iscrizione lapidea, Brandimarte pubblica come giorno: “IDUS S.TTI” 188

Lo studioso Muccichini189 sostiene che la lapide sia stata portata entro il cortile della canonica dal Piano di S. Pietro, ove esisteva l’antica chiesa di S. Pietro Vecchio e ne riporta l’iscrizione.

Facendo il confronto si nota che il testo dell’iscrizione riportata nel registro dei battesimi dell’Antico Archivio Parrocchiale di S. Maria a Mare di Torre di Palme, non coincide con quello riportato dallo storico altidonese e dal Muccichini.

Ma ciò che interessa dimostrare con la lapide, è che vi erano stretti rapporti tra i due priorati, come si può evincere anche dalle considerazioni del Brandimarte.

La località ove una volta era sito il monastero di S. Pietro Vecchio, presso il fondo Castellioni, ha ancora il toponimo “S. Pietro Vecchio” e si trova nel territorio che fino al 1877 era amministrato dal comune di Torre di Palme, che ora fa parte del comune di Fermo, e prima ancora Vocabulo Palme190.

  1. CONCLUSIONI

Il lavoro di ricerca svolto ha avuto come oggetto di studio, principalmente, i secoli successivi all’anno Mille, focalizzando la vita urbana e rurale della città di Fermo e del suo contado. Per giungere però alla narrazione delle vicissitudini storiche e politiche riguardanti i territori fermani nel periodo indicato dei secoli XI – XIII, è stato dapprima brevemente tracciato un profilo storiografico e geografico. Sono stati dunque indicati, nel capitolo introduttivo, quanti, negli anni passati e recenti, si sono occupati dell’argomento o hanno citato i centri urbani oggetto del presente studio.

Dapprima sono state considerate le principali fonti della storiografia latina: dagli autori classici ai tardo-antichi, passando per nomi illustri, Cesare, Cicerone, Procopio di Cesarea, Paolo Diacono; poi sono state analizzate quelle di natura diplomatica, laica ed ecclesiastica, cancelleresca e notarile, dai diplomi e dai capitolari dei dominatori longobardi e carolingi, fino a quelli sassoni e germanici.

Con le documentazioni d’archivio superstiti si è fatta una ricostruzione della vita sociale e dell’urbanesimo fermano, per quanto attiene ai secoli considerati. Importante è stata l’analisi di parte del materiale diplomatico contenuto nel prezioso Codice 1030, che gli studiosi Pacini, Avarucci e Paoli, hanno consegnato nella pubblicazione patrocinata dalla Deputazione di Storia per le Marche.

La maggior parte degli studiosi del Seicento e del Settecento si è impegnata nel recupero delle fonti diplomatiche . Così il Brandimarte, nella sua opera di “illustrazione” del Plinio Seniore, ha più volte fatto riferimento alle bolle inerenti la vita del priorato agostiniano palmense, dato poi in commenda.

Facendo gli opportuni confronti, sono state trovate spesso incongruenze tra la fonte pervenuta e la trascrizione redatta nelle opere storiografiche. E’ anche il caso dell’iscrizione lapidea dell’antica chiesa di S. Pietro Vecchio, riportata dallo storico altidonese con difformità rispetto allo scritto del pievano palmense che fece il ritrovamento.

E’ stato possibile, grazie alla collazione dei materiali paleografici, stabilire un rapporto di copia-modello tra le quattro fonti diplomatiche consegnate come supporto documentario al lavoro di ricostruzione storica svolto nei capitoli centrali.

Essi risultano mutili di conclusione, se non si considera l’innovazione apportata dal documento della fine del secolo XI: i territori di Palma e Palma Vetula segnalati, risulterebbero infatti  privi di attenzioni da parte delle forze politiche e amministrative in gioco. Si tratterebbe, oltretutto, di un disinteresse alquanto strano, se si analizza a fondo l’importanza che i feudi in questione avevano nei tempi pregressi ricoperto.

Si è fatto riferimento agli studi recenti che ne hanno riconosciuto i trascorsi splendori, l’egemonia politica ed il ruolo di spicco per l’economia prevalentemente agricola e marinara dei territori per l’antichità arcaica e classica.

Il vuoto lasciato dalle più antiche istituzioni picene – palmensi, risulta colmato da quelle cristiane, religiose e monasteriali, dei frati Eremitani e Agostiniani, confluiti tutti in un’unica regola, per volere della Santa Sede.

La medesima Sede Apostolica, tra l’altro, ha riservato nei secoli basso-medievali a questi luoghi, l’attenzione ed il trattamento che contraddistinsero gli intrattenuti rapporti con l’Ordine Agostiniano di cui sopra. I territori del duplice priorato indicato è soggetto dunque, probabilmente, ad uno di quei sistemi giurisdizionali ancor’oggi noto come prelatura nullius dioeceseos.

I legami relazionali del priorato di S. Pietro Vecchio e della commenda di S. Maria a Mare abbiano emergono non soltanto dal rapporto tra le strutture testuali del tutto simili, riscontrabili nei quattro documenti pontifici riportati, ma in particolare dall’esplicito riferimento fatto da papa Clemente III nella bolla del 1188. In essa, infatti, il Santo Padre riconferma, al priorato agostiniano di S. Maria a Mare, gli stessi privilegi concessi dal suo predecessore Alessandro III.

Da ultimo, è stato possibile riconoscere ai priorati suddetti un ruolo, non di scarso livello, nei gravi momenti di tensione originatisi dalla lotta tra papato e impero per le investiture.

Analogamente a Farfa il priorato palmense è stato più volte utilizzato dall’amministrazione pontificia, come baluardo della propria egemonia nei territori palmensi e marchigiani in periodi di rappresaglie del partito ghibellino. La ricostruzione storiografica non ha dimenticato gli autori contemporanei e le ultime pubblicazioni.

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N O T E

001-  C. Bellucci et alii, L’Archivio  Storico Arcivescovile di Fermo, 1985.

002- Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, a cura di G. B. Conte, vol. I, libro III, 18, 3, Torino, Einaudi, 1982, pp. 442-443. L’etimologia del nome della città di Palma può a buon diritto essere fatta risalire al termine “palma” frequentatissimo nei trattati latini e usato per descrivere il pampino della vite: è infatti necessario ricordare che la città picena era nota in tutto l’impero romano per la produzione di un pregevolissimo vino.

003 – Plinio il Vecchio, ed. cit., I, libro III, 18,3, pp. 442-443; III, libro XIV, 8,14, pp. 220-221

004 – Strabone, Geographia, a cura di A. M. Biraschi, libro V, 4,2, Milano, Bur, 1988, pp. 160-161.

005 – Varrone, De re rustica, a cura di A. Traglia, I, 31,3-4, Torino, Utet, 1974, pp. 660-661.

006 – Lucio Giunio Moderato Columella, De re rustica, a cura di R. Calzecchi Onesti, libro III, Torino, Einaudi, 1977, pp. 195 e segg.

007- G. Nepi, Guida di Fermo e dintorni, Macerata, 1985, pp.68-70. Nell’opera sono raccolti, anche in traduzione italiana, gli autori latini che si sono interessati del territorio fermano.

008- Cicerone, Filippica, a cura di W. C. Aker, 8, 23,  Cambrige, 1969, pp. 384-385.

009- Cicerone, Epistulae ad Atticum, a cura di W. S. Watt libro IV, epistula VIII, 3 Oxford, 1965, p. 133.

010- Cicerone, De Divinatione,  a cura di W. C. Aker, libro II XLVI, 98, Cambrige, 1969, pp.480-481.

011- Cesare, De Bello civili, a cura diA. G. Peskett, libro XVI,1, Harvad, 1966, p. 24.

012 – Tito Livio, Storie, a cura di L. Fiore, libro XXVII, 10, 7, Torino, Utet, 1981, pp. 214-215.

013 – Velleio Patercolo, Compendio di Storia Romana , a cura di E. Meroni, libro I, 14, 8, Milano, Rusconi, 1978, p. 53.

014 – Strabone, Geographia, a cura di A. M. Biraschi, libro V, 4,2, Milano, Bur, 1988, pp. 160-161.

015 – Nepi, Guida cit., p. 70.

016 – Frontino, Stratagemmata, a cura di C. E. Bennett, libro IV, 24, 1, Harvad, 1969, p. 276.

017 – Plinio il Giovane, Epistolario, a cura di R. A. B. Mynors, libro VI, XVIII, 1, Oxford, 1963, p. 178.

018 – Procopio di Cesarea, De Bello Gothico, a cura di G. Wirth, libro II, 16, 5, Lipsia, Ulmann, 1969, p. 233. Nei suddetti passi è riportato il resoconto delle lotte dinastiche di successione durante le guerre greco-gotiche, che vedono impegnato l’Oriente Romano nel recupero dei territori dell’Impero Romano d’Occidente, caduto nelle mani dei barbari.

019- Le notizie sono riportate in maniera dettagliata e precisa dal prof. Gabriele Nepi, che fa una breve ma efficace sintesi della storia Fermana nel periodo delle invasioni barbariche in Guida cit., pp. 29-30.

020- Paolo Diacono, Historia Longobardorum, a cura di A. Zanella, libro II, cap. 19, Milano, 1991, p.258.

021 – Capitolare di Lotario I, in RIS, a cura di L. A. Muratori, I/2, Mediolani, 1738, p.151.

022 – Il Nepi ,Guida cit. riporta il passo a p. 73, facendo riferimento ad Anastasio bibliotecario.

023 – G. Michetti, Fermo nella letteratura latina, vol. II, Fermo, 1980, p. 24 Liutprando vescovo di Cremona, all’anno 896.

024 – Michetti, op. cit., p. 84. Alla nota 17 fa riferimento al De Ecclesia Firmana di M. Catalani, p. 102

025 – San Pier Damiani, Vita Sancti Romualdi, a cura di G. Tabacco, Roma, 1957 p. 65.

026 – J. Lussu (a cura di), Storia del Fermano dalle origini all’Unità d’Italia, Roma, 1970, pp. 7-36.

027 – G. Nepi, Storia dei comuni piceni, Fermo, 1966-1985. Vi sono raccolte molte informazioni inerenti le origini e le cause che portano i vari comuni piceni alle controversie in oggetto, con riferimento a fazioni e di alleanze che vengono stabilite di volta in volta. Di particolare interesse sono le notizie che riguardano i principali centri di potere laici ed ecclesiastici, intervenuti di volta in volta in soccorso dell’una o dell’altra parte.

028 – F. Trebbi, Erezione della Chiesa Cattedrale di Fermo a Metropolitana, Fermo, 1890, pp. 43-45 e G. Cicconi, la chiesa metropolitana di Fermo e i recenti ritrovamenti archeologici sotto il suo pavimento, Fermo, 1940, pp. 5-9. Entrambe le pubblicazioni sono state recentemente riprodotte in ristampa anastatica nel volume La Chiesa metropolitana di Fermo (edito a Fermo nel 2003 in occasione dei restauri del Duomo).

029 – M. Vitali (a cura di), Fermo. La città tra Medioevo e il Rinascimento, Milano, 1989, pp. 9-32.

030- L. Bosio, La Tabula Peutingeriana. Una descrizione pittorica del mondo antico, Rimini, Ed. Maggioli, 1983.

031 – Pomponio Mela, De situ orbis, a cura di Ioachimi Vadiani Helvetij, libro II cap. 4, Lutetiae Parisorum, 1530, p.114.

032 – Tolomeo, Geografia, a cura di C. F. A. Nobbe, libro III cap.I, Lipsia, 1898, p. 150.

033 – A. Brandimarte, Plinio Seniore illustrato nella descrizione del Piceno, Roma, 1815, pp. 147-154.

034 – F. D’Acquarica, Storia del santuario di Santa Maria a mare, Fermo, 2000, pp. 7-9.

035 – A. Muccichini, Il “Comune” di Torre di Palme Marina Palmense-Santa Maria a mare. Storia-arte-immagini-tradizioni-vita paesana, Fermo, 2003, p. 13.

036 – D. Pacini et alii, Liber Iurium dell’Episcopato e della città di Fermo (977-1266), Ancona, 1996, passim

037 – Secondo quanto indicato dagli studi eseguiti dal Pacini e da altri paleografi e codicologi, sembra che fu proprio il segretario del Comune di Fermo, Hubart di Liegi, ad intervenire sull’originario corpus del codice 1030, aggiungendo alla collezione originale di documenti un ulteriore organico, precedentemente incluso in altro volume dell’archivio comunale di cui vengono fornite notizie.

038 – D. Pacini et alii, Liber  cit., il Codice 1029, così anche il 1030, furono fatti redigere a garanzia dei possedimenti ecclesiastici fermani, come confermato anche dal canonico Catalani delle sue opere.

039 – M. Catalani, De Ecclesia Firmana ejusque episcopi set archiepiscopis, Fermo, 1783. Opera nella quale lo storico ricostruisce la storia della diocesi Fermana, sostenendone i diritti e privilegi, che intende suffragare con i dati storici raccolti.

040 – M. Catalani, Origini ed antichità fermane, Fermo, 1778, passim, ma già in Memorie è presente lo stesso genere di considerazione che scaturisce dalla volontà del canonico di giustificare le pretese avanzate dall’arcivescovo fermano.

041 – Pacini et alii, Liber cit., p. XLII.

042 – Ibidem, pp. XLII e segg.

043 – Ibidem, pp. XLVII e segg.

044 – Nepi, Guida cit., p. 31 in nota.

045 – Ibidem, p. 32.

046 –  Ibidem.

047 – Ibidem, p.32, nota 18.

048 – A. Brandimarte, Plinio, cit., pp. 214.

049 – G. Colucci, Antichità Picene, vol. XXIX, 1798, pp. 59-60 del Codice Diplomatico della terra di Santa Vittoria riportato nel volume in copia anastatica; in esso sono contenuti documenti inerenti territori contesi dal priorato farfense di Santa Vittoria e da quello autonomo fermano di Santo Pietro Vecchio.

050 – C. Bellucci et alii, L’Archivio cit., pp. 5-7.

051 – V. Galiè, Le origini di Torre di Palme, Macerata, 1998, pp. 5 e segg.

052 – A. Muccichini, Il “Comune” cit., pp. 17 e segg.

053 – V. Galiè, Ubicazione dei porti e del navale fermano in epoca romana e altomedievale, Macerata, 2001, pp. 9-14.

054 – ASAF, Fondo capitolare, titolo XVII, Priorati e Badie, Rubrica 1, fascicolo 1, Priorato di S. Maria a mare, bolla del 1516 di Papa Leone X riportata in appendice (doc. n.4).

055 – D. Pacini, Per la storia medievale di Fermo e del suo territorio. Diocesi, Ducato, contea, marca (secoli VI-XIII), Fermo, 2000, pp. 11-12.

056 – S. Prete, Pagine di storia Fermana (edite in Studia Picena), Fano, 1984,pp. 1-8.

057 – Ibidem, pp. 27-28

058 – Ibidem, p. 65.

059 – Pacini, Per la storia cit., p. 200.

060 – S. Prete, Le pievi nelle Marche, in” Studia Picena”, Fano, 1978, pp. 10-12; D. Pacini, le pievi dell’antica diocesi di Fermo (secoli X-XIII), in Pievi nelle Marche cit.. Il Pacini elenca in questo saggio 34 pievi mentre nel volume Per la storia medievale di Fermo e del suo territorio cit. Nella prefazione a cura di Giuseppe Amato, si parla di trentasei distretti plebani.

061 – Pacini, Per la storia cit., p. 49.

062 –  Nepi, Guida cit., pp. 35-40.

063 – Pacini, Per la storia cit., p.12.

064 – A. Bittarelli, Le mura urbane di Camerino, Camerino-Pieve Torina, 1996, p. 471.

065 – S. Gasparri, I duchi longobardi, Roma, 1978, pp. 7-44.

066 – F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del sec. VII, Faenza, 1927, pp. 390-399; M. Catalani, De Ecclesia Firmana ejusque episcopi set Archiepiscopis commentarius, Fermo, 1783, pp. 14-15; G. Cappelletti, Le Chiese d’Italia dalla loro origine ai nostri giorni, Venezia, 1845, pp. 663-664.

067 – Nepi, Guida cit., p. 31.

068 – A. Sansi, I duchi di Spoleto, Foligno, 1870, pp. 34-36.

069 – Pacini, Per la storia cit., p. 28.

070 – G. Fatteschi, Memorie istorico-diplomatiche riguardanti la serie de’ duchi e la topografia de’ tempi di mezzo del ducato di Spoleto, Camerino, 1801, pp. 184-187.

071 – Prete, Le pievi cit., pp. 26-29.

072 –  Pacini, Per la storia cit., p.  3,49.

073 – G. Colucci, Memorie Istoriche dell’antica Badia di Farfa, in Antichità Picene XXXI, Fermo, 1797, pp. 1-100.

074 – Pacini, Per la storia cit., p. 31.

075 – Ibidem, p. 49. Pacini raccoglie la notizia dalla narrazione storiografica di un abate farfense: Destructio monasterii Farfensis edita a domno Ugone abate. La fonte storiografica è contenuta nel Chronicon Farfense di Gregorio di Catino, a cura di U. Balzani, I-II, Roma, 1903.

076 – C. Brühl, Codice diplomatico longobardo, III, I, Roma, 1973, p. 256.

077 –  Pacini, Per la storia cit., p. 45.

078 – Ibidem, p. 49.

079 – Ottonis II diplomata, a cura di T. Sickel, in MGH, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, II, 1, Hannoverae, 1888, p. 292 e pp. 334-335.

080 – Pacini, Per la storia cit., p. 60; Nepi, Guida cit., p. 32; L. Schiaparelli, I diplomi di Ugo e di Lotario, di Berengario II ed Adalberto, Roma, 1924, pp. 312-316.

081 –  Pacini, Per la storia cit., p. 55-56.

082 – E. Tassi, Gli arcivescovi di Fermo nei secoli XIX e XX, Fermo, 2006, p. 31.

083 – Ottonis I diplomata cit., p. 504.

084 – Tassi, Gli Arcivescovi cit. p. 31; Catalani, De Ecclesia, cit., pp. 114,116.

085 – Pacini, Per la storia cit., p. 66.

086 – Ibidem, p. 498.

087 – Ibidem, pp, 480-486.

088 – F. Trebbi – G. Filoni, Erezione della Chiesa Cattedrale di Ferno a Metropolitana, Fermo, 1890, p. 58.

089 –  Nepi, Guida cit., p. 34.

090 – L. Tomei, La piazza del popolo tra romanità, medioevo e rinascimento, in Fermo. La città tra medioevo e rinascimento, Fermo, 1989, p. 100.

091 – Pacini, Per la storia cit., p. 471

092 – Tassi, Gli Arcivescovi cit., p. 31

093 – Cronaca Fermana di Antonio di Nicolò dall’anno 1176 all’anno 1447, in De Minicis, Cronache della città di Fermo, cit., p. 3.

094 – Nrpi, Guida, cit. p. 35.

095- Tassi, Gli Arcivescovi cit., p. 32

096 – V. Curi, Guida storica e artistica della città di Fermo, Fermo, 1864, p. 16. Il Curi riporta che la lotta Fermana era stata presa nel 1192 dall’imperatore Enrico VI e, dopo la morte di lui, da Marcovaldo d’Anninuccio siniscalco dell’Impero.

097- Pacini, Per la storia cit., p. 471.

098 – Nepi, Guida cit., p. 35.

099 – Pacini, Per la storia cit., p. 472-474.

100 – Curi, Guida storica cit., p. 17.

101 – G. Michetti , Aspetti medievali di Fermo, Fermo, 1981, pp. 52-54.

102 – I. Schuster, L’imperiale abbazia di Farfa, Roma, 1921, p. 296; D. Pacini, Possessi e chiese farfensi nelle valli picene del Tenna e dell’Aso (secoli VIII-XII), in Istituzioni e società nell’alto medioevo marchigiano (Deputazione di Storia Patria per le Marche), Ancona, 1983, pp. 412-413.

103 – Tassi, Gli Arcivescovi cit., p. 35.

104 – Pacini, Per la storia cit., p. 495.

105 – Ibidem, pp. 495-496.

106 – L. A. Vicione, Dissertazione sull’esistenza di ripa o Ripatransone prima dell’anno MCXCVIII, Fermo, 1827, pp. 156-157

107 – Tassi, Gli Arcivescovi cit., p. 32-35.

108 – Pacini, Per la storia cit., p. 497.

109  – Avarucci, Liber cit., 2, pp. 329-331.

110 – Pacini, Possessi cit., pp. 413-414.

111 – Pacini, Per la storia cit., p. 499; G. Piccinini (a cura di), Il trattato di Polverigi: analisi e vicenda storiografica, in La Marca di Ancona fra il XII e XIII secolo:le dinamiche del potere, in Atti del Convegno: VIII Centenario della “Pace di Polverigi” (1202-2002), (Polverigi, 18-19 ottobre 2002, (Deputazione di Storia Patria per le Marche), Ancona, 2004, pp. 39-70.

112 – Pacini, Per la storia cit., p. 501.

113 – M. Natalucci, Federico II di Svezia e la Marca di Ancona, Fabriano, 1947, pp. 35-41.

114 – Pacini, Per la storia cit.,  pp. 502-503; Werner Laleczek,” Innocenzo III”, Enciclopedia dei Papi, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2000, pp. 326-350.

115 – E. Winkelmann, Acta imperii inedita saeculi XIII, I, Innsbruk, 1880, pp. 61-62.

116 – G. Fracassetti, Notizie storiche della città di Fermo ridotte in compendio, Fermo, 1841, p. 24.

117 – Pacini, Liber cit. pp. 256-257; Avarucci, ibidem pp. 437-439.

118 – Pacini, Per la storia cit, pp. 504.

119 – Fracassetti, Notizie  cit.  p. 24; D. Pacini, “I Vescovi e la Contea di Fermo negli anni di Federico II”, in Federico II e le Marche, a cura di C. D. Fonseca, in Atti del convegno di studi su Federico II (Jesi, 2-4 dicembre 1994), (Deputazione di Storia Patria per le Marche), Roma, 2000, pp. 43-84. Il Pacini a p. 55 ribadisce la rinuncia sui territori marchigiani da parte di Federico II “con 2 atti del 12 luglio 1213 e del settembre 1219”.

120 – Pacini, Per la storia cit, p. 504

121 – Nepi, Guida cit., p. 38; Pacini, Per la storia cit., p. 505.

122 – V. Galiè, Insediamenti romani e medievali nei territori di Civitanova e S. Elpidio, Macerata, 1988, p. 53.

123 – Pacini, Per la storia cit., p. 506.

124 – Tassi, Gli Arcivescovi cit. pp. 32, 35.

125 – Pacini, Per la storia cit., p. 509.

126 – Nepi, Guida cit. p. 38.

127 – Pacini, Per la storia cit. p. 511

128 – Catalani, De Ecclesia cit., pp. 169-170; Hagemann, Jesi cit., p. 45.

129 – G. Marangoni, Delle memorie sagre e civili dell’antica città di Novana oggi  Civitanova nella provincia del Piceno, Roma, 1743, pp. 270-271.

130 – Pacini, Per la storia cit., p. 513.

131 – Pacini, Ibi., pp. 516-517.

132 – Nepi, Guida cit. p. 39.

133 – Fracassetti, Notizie storiche cit.  p. 24.

134 – Nepi, Guida cit. p. 38.

135 – Ibidem, p. 39

136 – Ibidem.

137 – Fracassetti, Notizie storiche cit.  p. 24.

138 – Pacini, Per la storia cit., pp. 522.

139 – Ibidem, pp. 528-529.

140 – F. E. Mecchi, Il Comune di Fermo e Federico II di Svezia, Fermo, 1903, pp. 28-29.

141 – Nepi, Guida cit. p. 195.

142 – Nepi, Guida cit. p. 196.

143 – Ibidem, p. 195.

144 – Bolla di Alessandro III del 1180, ASAF cit..

145 – Bolla di Urbano IV del 1264, ASAF cit.

146 – Bolla di Alessandro III cit.

147- Annuario de l’Archidiocesi di Fermo, (Quaderni della Segreteria Arcivescovile di Fermo). Fermo, 1935, passim.

148 – Muccichini, Il “Comune” cit., pp. 100-101.

149 –“ Pene ecclesiastiche”, Enciclopedia Europea, Garzanti Editore, 1979, p. 757. Le pene ecclesiastiche sono sanzioni previste dal codice di diritto canonico per correggere i delitti, pene medicinali o per ristabilire l’ordine giuridico, pene vendicativi, punendo i colpevoli di violazioni. Queste, a 2seconda delle autorità che le comminava, o il delitto commesso, potevano essere contro una persona, ad aliquem, contro i chierici, contra clericos, pure contro i laici e i chierici, contra omnes: nelle bolle papali si trova frequentemente si quis, contro chiunque non avesse rispettato l’ordine o le norme. Questi termini risultano ricorrenti nel vecchio codice di diritto canonico.

150 – Vangelo di Matteo, cap. 16, vv. 15-19.

151 – A. Brandimarte, Plinio seniore cit., p. 187

152 – Bolle di Alessandro III del 1180 e Clemente III del 1188 cit.

153 – Ciò si evince dalle bolle sopra indicate, nelle quali figurano come destinatari gli ordini agostiniani citati con i relativi priori; U. Mariani, Gli Eremitani di S. Agostino, in M. Escobar (a cura di), Ordini e Congregazioni religiose, Torino, 1951, pp. 523-543.

154 – A. Brandimarte, Plinio seniore cit., p. 196. Con quest’affermazione lo storico intende sostenere che uno dei suddetti episcopati fosse quello della città Picena di Palma.

155 – A. Brandimarte, Plinio seniore cit., p. 215. Il passo riporta un episodio del 1232: “Ma il magistrato fermano, non dovette almeno godere pacificamente Torre di Palma, imperocché trovò, che Gregorio IX l’anno 1232, in una costituzione, che incomincia Rex excelsus proibisce l’alienazione di beni patrimoniali della Chiesa romana senza il consenso comune dei cardinali. Fra questi per più cautela ne nomina tre soli nella Marca Anconetana, cioè la Rocca di Pioraco, Serravalle e Torre di Palma”; Escobar, Ordini cit. p. 529.

156 – Si è già detto nel capitolo introduttivo riportando le testimonianze degli autori latini, letterati e storiografi.

157- Escobar, Ordini cit., p. 531

158 – Ibidem, p. 529.

159 – Brandimarte. Plinio Seniore cit., p. 187.

160 – Bolla di Leone X del 1516, ASAF cit..

161 –  Pacini, Liber cit., pp. 30-32.

162 – Ibidem, pp. 39-42; Catalani, De Ecclesia cit., pp. 329-330. Concambium de Cucurre et de Palme et de Palma Vetula.

163 – Brandimarte, Plinio Seniore cit., p. 214. L’autore riporta le vicende legate all’investitura del marchese Azzo d’Este, con la quale viene sottratta al priore palmense la giurisdizione sopra Torre di Palma; il passo riporta: “I Fermani acquistarono il diritto sopra Torre di Palma, Barbolano, Altidona e Lapedona. Ecco come l’acquistarono. Ottone IV Imperatore, soprannominato il Superbo, essendosi dimenticato dei benefici che egli fece Innocenzo III, scorse con armati tutta l’Italia, e fra le altre città, che occupò, presenti raramente la Marca Anconetana. La conferì ad Azzo di Este suo consanguineo, e nell’investitura, ch’egli fece in Chiusi l’anno 1210, egli specificò queste città: Ascoli, Fermo, Camerino, Umana, Ancona, Osimo, Jesi, Sinigallia, Fano, Fossombrone, Cagli, Sassoferrato e la Rocca dell’Appennino”.

164 – “Cronaca Fermana di Antonio di Nicolò dall’anno 1176 sino all’anno 1447”, in De Minicis, Cronache cit., p. 3.

165 – Brandimarte, Plinio Seniore cit., p. 214. L’autore riferisce: “fu confermato ad Aldovrandino figlio di Azzo d’Este il marchesato ed egli confermò ai Fermani la giurisdizione, che avevano nel loro distretto …. Nell’anno poi 1214 al 10 Giugno confermò ai detti non solo i nominati Castelli, ma loro donò Torre di Palma, Barbolano, Lapedona, Altidona…”

166 – Ibidem, p. 199. Il passo riporta: “Le Chiese di Torre di Palma caddero sotto la giurisdizione del Priore della Canonica di S. Maria a Mare; quelle di Lapedona sotto la giurisdizione dell’Abbate di Fonte Avellana, e molte di Altidona sotto la giurisdizione dell’Abbate di Farfa”.

167 – Nepi, Guida cit., p. 41. La stessa abbazia di Montecassino aveva giurisdizione su alcuni benefici siti di diocesi fermana; Barbolano, S. Maria in Leveriano e S. Giovanni de Garzania. Dei tre possedimenti tra casinensi, indicati nel battente sinistro delle porte dell’abazia suddetta, Barbolano era ubicato nella circoscrizione palmense, al confine tra Torre di Palma ed Altidona.

168- Come indicato nelle bolleASAF cit.

169 – Muccichini, Il ‘Comune’ cit., p. 43.

170 – Annuario Pontificio anno 2006, Città del Vaticano, 2006, p. 1852.

171 – La sigla C.J. C. sta per Codex Juris Canonicis.

172 – Annuario Pontificio cit., p. 1852.

173 – Ibidem.

174 – Ibidem.

175 – J. I. Arrieta (a cura di), Codice di Diritto Canonico le leggi complementari, Città del Vaticano, 2004, p. 254.

176 – Ibidem, p. 271.

177 – Bullarium Romanum, XVI, Torino, 1869, p. 472.

178 – Arrieta, Codice cit., p. 254.

179  – Ibidem, p. 356.

180 – Ibidem , p. 1852

181 – Ibidem.

182 – Ibidem, p. 254.

183 – Discorso di Giovanni Paolo II del 17.03.2001, riportato da l’Osservatore Romano del 18.03.2001, p. 6.

184 – Bolla di Leone X del 1516, ASAF cit.

185 – Muccichini, Il ‘Comune’ cit., pp. 113-114. L’autore riporta: “i beni furono assegnati al poverissimo parroco di S. Giovanni con obbligo di soddisfare a quattro Messe la settimana e con peso di dare 20 scudi annui ad un cappellano, acché soddisfaccia ad altre tre Messe la settimana”.

186 – P. Sella, Rationes Decimarum Marchia sec. XIII/XIV, Città del Vaticano, 1950, pp. 452-550. A p. 542: “Item a domno Matheo Cappellano S. Iohannis de Turri Palmarum X sol minus II den. Summa istius lateris XXXIV lib. XIII sol. VI den.” A p. 550: “Item a domno Matheo Cappellano S. Iohannis de Turri Palmarum facta ecstimatione cum iuramento XX sol….”.

187 – Antico Archivio Parrocchiale di Torre di Palme, registro dei battesimi n. 2, Baptizatorum 1638 usque ad Annum 1683, nella pagina seguente la coperta.

188 – Brandimarte, Plinio Seniore cit. p. 141-142. Oltre all’iscrizione dell’autore narra della presenza, nel piano di S. Pietro, anche dei resti dell’antica chiesa: “Il piano, che nel colle mentolato, chiamasi anche a giorni nostri piano di S. Pietro, ed esistono ancora i ruderi di questa chiesa. Aveva una lapide, che secoli sono fu portata entro Torre di Palma, e rimane collocata in un muro dell’orto del Piovano… Da questa lapide si raccoglie, che detta chiesa fu restaurata, o fabbricata da Uberto, che era Priore della Canonica di S. Maria a Mare, a cui apparteneva. Bisogna poi credere, richiamandosi ambedue i Castelli col nome di Palma nascesse confusione. Quindi fu creduto bene dal popolo lasciare il nome assoluto di Palma a Palma Vecchia: e l’altro poi non mutargli il nome, ma chiamarlo con qualche prerogativa, che avesse. Questa prerogativa era una Torre, ossia Fortezza”

189 – Muccichini, Il ‘Comune’ cit. , p.125.

190 – Brandimarte, Plinio Seniore cit. p. 141. Circoscrizione indicante il territorio di Palma Vecchia, Palma Vetula, corte di Palma, o più semplicemente Palma, come deduce l’autore citato.

 

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  4. Galiè, Insediamenti romani e medievali nei territori di Civitanova e S. Elpidio, Macerata, 1988.
  5. Galiè, Le origini di Torre di Palme, Macerata, 1998.
  6. Galiè, Ubicazione dei porti e del navale fermano, Macerata, 2001.
  7. Gasparri, I duchi longobardi, Roma, 1978.
  8. Lanzoni, Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del sec. VII, Faenza, 1927.
  9. Marangoni, Delle memorie sagre e civili dell’antica città di Novana oggi Civitanova nella provincia del Piceno, Roma, 1743.
  10. E. Mecchi, Il Comune di Fermo e Federico II di Svevia, Fermo, 1903.
  11. Michetti, Aspetti medioevali di Fermo, Fermo, 1981.

Idem, Fermo nella letteratura latina, Fermo, 1980.

  1. Muccichini, Il “Comune ” di Torre di Palme, Marina Palmense, Santa Maria a Mare, Fermo, 2003.
  2. Natalucci, Federico II di Svevia e la Marca di Ancona, Fabriano, 1947.
  3. Nepi, Guida di Fermo e dintorni, Macerata, 1985.
  4. Nepi, Storia dei Comuni Piceni, Fermo, 1966-1985.
  5. Pacini, I Vescovi e la Contea di Fermo negli anni di Federico II, in C.D. Fonseca (a cura di), Federico II e le Marche, in Atti del convegno di studi su Federico II (Jesi, 2-4 dicembre 1994), (Deputazione di Storia Patria per le Marche), Roma, 2000, pp. 43-84.

Idem, Le pievi dell’antica diocesi di Fermo (secoli X-XIII), in S. Prete (a cura di), Le pievi nelle Marche, in Studia Picena, Fano, 1978, pp. 31- 147.

Idem, Per la storia medievale di Fermo e del suo territorio. Diocesi ducato contea marca (secoli VI-XIII), Fermo, 2000.

Idem, Possessi e chiese farfensi nelle valli picene del Tenna e dell’Aso (secoli Vili-XII), in Istituzioni e società nell’alto medioevo marchigiano, (Deputazione di Storia Patria per le Marche), Ancona, 1983, pp. 333- 425.

  1. Piccinini (a cura di), Il trattato di Polverigi: analisi e vicenda storiografica, in La Marca di Ancona fra XII e XIII secolo: le dinamiche del potere, in Atti del convegno: VIII centenario della “Pace di Polverigi” (1202-2002), (Polverigi, 18-19 ottobre 2002), (Deputazione di Storia Patria per le Marche), Ancona, 2004, pp. 39-70.
  2. Pratesi, Genesi e forme del documento medievale, Roma, 1987.
  3. Prete, Fermo: Città e Diocesi, in Pagine di storia Fermana, in Studia Picena, Fano, 1984, pp.1-10.
  4. Prete (a cura di), Le pievi nelle Marche, in Studia Picena, Fano, 1978, pp.9-493.
  5. G. Properzi, Torre di Palme. Lettura di un episodio urbano, Verona, 1988.
  6. Sansi I duchi di Spoleto, Foligno, 1870.
  7. Schiaparelli, I diplomi di Ugo e di Lotario, di Berengario II e di Adalberto, Roma, 1924.
  8. Schuster, L’imperiale abbazia di Farfa, Roma, 1921.
  9. Tassi, Gli Arcivescovi di Fermo nei secoli XIX e XX, Fermo, 2006.
  10. Tomei, La piazza del popolo tra romanità, medioevo e rinascimento, in Fermo. La città tra medioevo e rinascimento, Fermo, 1989, pp. 91- 144.
  11. Trebbi – G. Filoni Guerrieri, Erezione della chiesa cattedrale di Fermo a metropolitana, Fermo, 1890.
  12. A. Vicione, Dissertazione sull’esistenza di Ripa o Ripatransone prima dell’anno MCXCVIII, Fermo, 1827.
  13. Vitali (a cura di), Fermo. La città tra Medioevo e Rinascimento, Milano, 1989.
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A SERVIGLIANO la chiesa rurale Santa Lucia permane millenaria già edicola dei legionari romani defunti, poi culto cristiano grazie all’opera dei monaci Farfensi e del Vescovo di Fermo

SANTA LUCIA NELLA CONTRADA DI SERVIGLIANO

Tra le contrade campestri del comune di Servigliano è nota quella di Santa Lucia per le manifestazioni tradizionali che coinvolgono le contrade viciniori del versante collinare del fiume Ete, tra cui la contrada di San Filippo.

Storicamente è stata molto popolosa per l’operosità degli abitanti e per il numero degli edifici adibiti ad abitazione, con impianti per gli allevamenti. Questa contrada ha antiche memorie perché è situata lungo il percorso della strada collinare Fermana che un tempo muoveva da Santa Vittoria in Matenano verso Belmonte Piceno, fino al capoluogo.

Le notizie più antiche si riferiscono alla venuta dei soldati veterani romani a cui furono concesse queste terre, dopo le guerre civili, sul finire del primo secolo avanti Cristo, nel territorio Piceno. Tra essi c’era Servilio che ha dato nome all’attuale Servigliano per la sua villa nei pressi del fiume Tenna, dov’è l’attuale centro storico.

Altra villa romana era nel ripiano dell’antica fornace della famiglia Galli. Qui l’edicola dei defunti romani divenne per i cristiani la chiesetta di Santa Lucia, in posizione elevata a 285 metri di altitudine.

Le più antiche memorie scritte sono riferite nella pergamena della vita di San Gualtiero che è stata pubblicata nel 1695 negli Acta Santorum (Atti dei santi al 4 giugno). In particolare vi è menzionato il luogo “Mara” vocabolo latino che significa fossato, oggi fosso di Santa Lucia. Qui esisteva un “vico” cioè un insieme di case abitate presso una strada nella campagna popolata da agricoltori.

Il 13 dicembre, quando il sole vittorioso sulle tenebre ricomincia ad allungare la durata della luce diurna, ricorreva la memoria liturgica di santa Lucia il cui culto era diffuso a Roma ed i monaci Farfensi venuti nel Piceno hanno lasciato molte cappelle, oratori o chiesine dedicate a questa santa.

San Gualtiero venne da Roma, si stabilì presso il fossato Mara e la chiesa di Santa Lucia, nella seconda metà del secolo 13º accompagnato da un monaco ‘Armeno’, e favorirono la vita sociale attiva, per organizzare i servizi utili alla gente nell’infermeria, nell’istruzione, nella manutenzione di strade e ponti, creando incarichi a persone specificamente demandate all’amministrazione di questo territorio.

La chiesa di Santa Lucia è nota non soltanto ai Serviglianesi, anche agli abitanti dei paesi vicini e frequentata da gente di molte provenienze nell’occasione della festa della stessa santa che ogni anno è solennizzata, da quasi dieci secoli, con larga partecipazione nel giorno 13 dicembre, come si fa ancora, tanto che recentemente vi è intervenuto anche l’arcivescovo di Fermo, monsignor Rocco.

Dopo che i Savoia nel 1866 per il loro demanio hanno sottratto i beni dei benefici ecclesiastici, le altre chiesette rurali sono abbandonate, talora ridotte a ruderi. Questa è rimasta custodita dalla popolazione nel corso degli anni.

Come accennato, la strada collinare, un tempo detta Fermana, univa le case della contrada di Santa Lucia. Oggi è asfaltata. La percorrevano bambini e bambine del posto che sono divenuti già nonni e nonne quando raggiungevano la sacrestia di questa chiesa per frequentarvi le prime classi della scuola elementare sotto la guida di un insegnante. Attualmente resta unita alla chiesa di Curetta che è stata fatta parrocchiale nel 1784.

Chi visita oggi questa chiesa trova la statua della santa nella tribuna ed alcuni dipinti nei quadri alle pareti. In confronto alle dirute chiese rurali che esistevano nei versanti destro e sinistro del fiume Ete, questa di santa Lucia è ben curata nella manutenzione, con restauri, e tra l’altro tutti gli anni,  è frequentata ogni giorno del mese mariano di maggio, per la recita serale del Rosario e per l’incontro degli abitanti delle contrade intorno.

 

 

 

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Blasi Mario parroco evangelizza domenica XVIII tempo ordinario anno A Matteo 14,13ss

Domenica XVIII T. O. Matteo 14, 14, 13ss  Don Mario Blasi parroco

Mt.14,13-21)

“Egli vide una grande folla, sentì compassione per loro, e guarì i loro malati”.

     Gesù si prende cura di tutti. Gesù è Colui che libera dal male, guarisce i malati, soccorre con amore chi vive nella sofferenza.

Gesù è nel deserto, ha lavorato tutto il giorno. La giornata ormai volge al termine. I discepoli sono preoccupati; nel deserto non c’è cibo per tanta gente. Gesù, proprio nel deserto, prepara un banchetto per tutti. Egli fa parte della famiglia umana.

Gesù mette alla prova i Suoi discepoli dicendo loro: “Voi stessi date loro da mangiare”.

Come possono essere i discepoli cibo per tanta gente? Gesù vuole sperimentare la loro fede. Essi non sanno come eseguire il comando di Gesù; hanno solo cinque pani e due pesci. Gesù chiede che gli sia donato tutto: sfida la loro fede.

Gesù trasforma quel poco pane donato in un pasto abbondante per tutti: che stupore! Le meraviglie del Signore si devono sperimentare nella comunità cristiana. Ogni fedele è chiamato a mettere in pratica la Parola di Gesù, deve diventare un autentico servitore dei deboli e dei poveri.

Gesù, prima di donare il pasto, comanda che tutti siano sdraiati. Il comando di Gesù indica che tutti gli uomini sono chiamati ad essere liberi. Gli uomini liberi, al tempo di Gesù, mangiavano il pasto della Pasqua, cioè della liberazione, sdraiati.

Prima di donare il pasto, Gesù rende grazie a Dio Padre. “Attraverso l’azione di grazie che Gesù rivolge a Dio per il pane, esso viene svincolato dai loro possessori umani per essere considerato dono di Dio, espressione della Sua generosità e del Suo Amore per gli uomini”. Condividere i pani e i pesci viene perciò a significare il prolungare la generosità di Dio Creatore.

Quando la creazione viene liberata dall’egoismo umano, ce n’è d’avanzo per  provvedere alla necessità di tutti”.

Al termine del pasto Gesù ordina che tutto sia raccolto; nulla deve andar perduto. La grandezza del dono è messa in evidenza dal numero degli uomini senza contare i bambini e le donne. Il pasto indica familiarità.

Nessuno si deve chiudere in sé stesso. Chi si chiude nel proprio egoismo rimane estraneo alla sorte degli altri.  Il vero discepolo è colui che aiuta in modo generoso le persone nelle loro necessità morali e materiali.

 “VIDE UNA GRANDE FOLLA E SENTI’ COMPASSIONE PER LORO E GUARI’ I LORO MALATI”.

Gesù è il Pastore vero; è la bontà e la misericordia di Dio. La Sua tenerezza si estende a tutti. Ha compassione di tutti e guarisce ogni infermità. Egli si fa carico delle necessità corporali e spirituali di ogni persona.

Nel deserto sfama una folla numerosa. Egli è il nuovo Mosè. E’ il profeta atteso. E’ pieno di Spirito e realizza in maniera inaudita i prodigi dei profeti Elia ed Eliseo.

L’Atteso è arrivato. La Sua presenza dona gioia. La Sua Parola illumina e salva. Il Suo pane, carico di amore, nutre la fame di ogni uomo, dà senso alla vita ed indica a tutti la meta. Con Lui è nata la Nuova Comunità dei credenti. Con Lui gente diversa, dispersa e senza guida, è riunita. Il Suo amore è segno di unità per tutti.

Venuta la sera i discepoli dicono a Gesù che bisogna mandar via la gente perché comperi il pane nei villaggi vicini. Essi pensano che chi ha i soldi compra, mangia e vive! Chi non ha i soldi non compra, non mangia, non vive. Questa è la mentalità di chi non ha il cuore di Cristo. Gesù, invece, insegna a condividere ciò chi si ha e ciò che si èQuando si condivide, tutti mangiano a sazietà. Quando non si condivide, molti soffrono la fame.

Venuta la sera è il verbo che l’Evangelista adopera nell’Ultima Cena. E’ il verbo che ricorda l’amore grande di Gesù che si dona come Pane vivo per ogni uomo.

Gesù non manda la gente a comprare il cibo, ma dice ai discepoli: “Date loro voi stessi da mangiare”.

I discepoli devono prolungare l’amore di Cristo nella storia, devono essere pane carico di amore per ogni persona. Devono condividere ciò che hanno e ciò che sono per sfamare tutti. Hanno cinque pani e due pesci. Danno tutto. Nella Bibbia i numeri non hanno valore aritmetico, ma simbolico. Cinque più due è uguale a sette. Il sette è simbolo della totalità, del tutto. Il cinque indica l’attività dello Spirito: amore di Dio.

I discepoli, guidati dalla forza dell’amore di Dio, danno tutto quello che hanno e lo mettono a disposizione della folla. Tutto è messo in comunione e tutti mangiano a sazietà.

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Blasi Mario Parroco evangelizza Matteo 13, 44ss tempo ordinario domenica XVII anno A

(Mt 13,44-52)

“PIENO DI GIOIA, VENDE TUTTI I SUOI AVERI E COMPRA QUEL CAMPO. TROVA UNA PERLA DI GRANDE VALORE, VA, VENDE TUTTI I SUOI AVERI E LA COMPRA”.

La scoperta di un tesoro cambia la vita di due uomini: un bracciante agricolo e un mercante di perle. Vendono tutto per avere il tesoro e la perla.

La scoperta del tesoro e della perla provoca in essi una decisione rapida: trovano, vendono, comprano. E’ un’occasione unica della vita. E’ il tesoro che cambia la vita. E’ una scoperta meravigliosa.

Il tesoro nascosto e la perla preziosa rappresentano il Regno di Dio. Il Regno di Dio è presente nella persona di Gesù. Il Suo messaggio di amore è straordinario: Dio ama tutti, buoni e cattivi, giusti e ingiusti.

“L’adesione totale e incondizionata a Gesù e al Suo messaggio permette di sperimentare tutta la potenzialità di amore che l’uomo porta dentro. Il messaggio assimilato e vissuto produce pienezza vera e personale”.

Gesù stimola a dare tutto perché l’uomo si realizzi in pienezza di vita. Dio dona vita piena a tutti quelli che fanno proprio il messaggio di Gesù: “se quotidianamente produciamo amore, cioè potenziamo le nostre capacità di generosità, di voler bene, trasformandole in atti concreti a favore dell’altro, provochiamo un accrescimento di capacità: più diamo, più cresciamo. Più siamo capaci di voler bene e più sentiamo aumentare dentro di noi questa capacità, questo desiderio di donarci all’altroPiù siamo capaci di perdonare quotidianamente gli altri e più cresce, aumenta in noi questa capacità di perdono” (A.Maggi).

Tutti siamo di fronte a questo messaggio di amore. E’ un’imperdonabile sciocchezza non accogliere un così grande messaggio che realizza la vita dell’uomo. Nulla è troppo caro di fronte al dono offerto da Gesù.

“Avete capito queste cose? Gli risposero: sì”.

Il tesoro per cui si rinuncia ad ogni altro bene è la sapienza del Regno di Dio. “Per l’argento vi sono le miniere e per l’oro luoghi dove esso si raffina… La sapienza da dove la si trae?”.

La sapienza, amore di Dio donato, si trae dalla Sua Parola, Parola che ci sostiene nella ricerca, Parola che dà il senso alla vita.

Accogliamo il messaggio del Signore Gesù per trasmetterlo poi ad altre persone insieme con Lui e come Lui!

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Mario Blasi parroco evangelizza domenica XVI tempo ordinario anno A Matteo 13, 24ss

Domenica XVI tempo ordinario anno A Paroco don Mario Blasi

(Mt 13,24-43)
“APRIRO’ LA MIA BOCCA IN PARABOLE“.

La Parola di Dio viene offerta a tutti. L’uomo, però, la può accogliere o rifiutare.

Il Regno di Dio rivelato attraverso le parabole è il Regno in cui si rivela l’Amore del Padre. E’ un Regno senza confini. E’ un Regno dove Dio non governa imponendo leggi da osservare, ma è un Regno dove si comunica la forza dell’Amore di Cristo.

“Un Regno che non domina gli altri popoli, ma si mette al loro servizio. Un Regno che non accumula ricchezze, ma le condivide. Per far comprendere che il Suo Regno non ha nulla in comune con quelli conosciuti che si fanno avanti a forza di prepotenza e di appariscenza (Gv. 18,36), Gesù insegna la breve ma intensa parabola del granello di senape: è come un grano di senape che quando è seminato sulla terra è il più piccolo dei semi che sono sulla terra, ma quando è seminato cresce e diventa più grande di tutti gli ortaggi“.

Il Regno di Dio “non sarà qualcosa di appariscente e maestoso, come un cedro, lo stupendo albero considerato il re degli alberi. Un cedro non può rimanere nascosto e si impone orgogliosamente alla vista e alla ammirazione di tutti.

Gesù paragona il Regno di Dio ad una pianta comune che cresce in ogni luogo, anche sui muri delle case. Cresce “nell’orto di una casa, tra gli ortaggi e sarà una pianta tanto comune da non attirare l’attenzione dei passanti”.

La Chiesa, popolo santo di Dio, deve essere una casa umile, ma ospitale verso i poveri, gli umili della terra, luogo semplice ma ricco di tenerezza e di protezione.

“Gli uccelli del cielo possono accamparsi sotto la sua ombra”.

Il Regno di Dio è rifugio tranquillo per tutti, è pace e gioia per chi accoglie l’amore di Cristo e lo ridona.

“Con la figura dell’arbusto di senape Gesù avverte che trionfalismo, ricchezza, gloria e splendore non sono frutto del Regno di Dio, ma è opera di Satana, l’avversario al piano del Signore”

(A.Maggi).

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Blasi Mario parroco evangelizza nella XV domenica tempo Ordinario anno A Mt 13, 1ss

Parroco don Mario Blasi Domenica XV tempo ordinario anno A vangelo Matteo 13,1-23
“Il seminatore uscì a seminare”.

Il seminatore è una persona tutta particolare! Getta il seme su quattro campi con larga mano e lo sparge anche là dove non c’è nessuna speranza di raccolta.

Il seminatore rappresenta Dio Padre che, per mezzo di Gesù, dona il Suo Amore a tutti. Ogni uomo ha bisogno del Suo Amore: giusto e ingiusto!

La Parola di Gesù, che rivela la grandezza dell’Amore di Dio, non trova facile accoglienza. Il discepolo di Gesù che incontra difficoltà non deve mai venir meno. Davanti al rifiuto non deve perdere la fiducia; alla fine ci sarà una raccolta straordinaria, inaspettata, supererà ogni immaginazione.

Portare nel mondo il messaggio di Gesù è un compito difficile. Nessun discepolo deve perdere la fiducia: l’insuccesso è sempre parziale. Il Signore, con la Sua potenza, farà sempre emergere la grandezza del Suo Amore. Egli vuole la salvezza di ogni uomo. Il piano di Dio, nonostante le contraddizioni, si realizzerà a pieno. Fiducia dunque sempre in Dio che guida la storia!

L’Amore di Dio sia accolto in un cuore buono!

“A voi è dato di conoscere i misteri del Regno dei Cielima ad essi non è dato”.

La conoscenza del Regno dei Cieli il Signore la concede all’uomo dal cuore accogliente. Nulla è dato a chi ha cattiva disposizione di animo.

Le parabole di Gesù annunciano il Regno, lo chiariscono, lo dischiudono e lo rendono attuale. Iddio aiuta l’uomo che accoglie il messaggio di Gesù perché, con le proprie forze, non lo può comprendere. Dio dà a coloro che accolgono e toglie a coloro che sono sordi ad accettare la Buona Novella.

“Presso gli uomini avviene che un recipiente vuoto accoglie qualche cosa, ma non uno pieno. Ma con Dio non avviene così, con Lui un recipiente pieno accoglie, ma non uno vuoto”.

Dio affida i Suoi misteri a chi ha piena fiducia in Lui!

Il discepolo, che ha fiducia in Dio, ha occhi che vedono e orecchi che ascoltano.

 

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Nepi Gabriele ricorda gli eventi del papa Pio IX e del principe Umberto di Savoia sulla costa fermana

Le persone dell’entroterra pe la prima volta videro insieme il Papa e il mare

17 maggio 1857, mentre “primavera d’intorno brilla per l’aria e per li campi esulta”, nel maggio che “risveglia i nidi”, che “risveglia i cuori” come canta Carducci, i cuori dei fermani battevano esultanti ed in corale tripudio. Il pontefice Pio IX si trovava a Fermo in visita alla città, una delle più importanti del suo Stato. Venuto la sera precedente, fu accolto a Porto S. Elpidio (il primo comune costiero a nord dell’allora Provincia fermana) dai maggiorenti della città. Spiccavano fra essi Vinci cav. Raffaele; Brancadoro cav. Antonio; Benedetti conte Saverio; Morrone-Mozzi conte Ludovico “tutti vestiti di spada, meno il conte Vinci in uniforme di vice-console della Russia”. A Porto S. Elpidio c’era una folla veramente oceanica. Erano qui convenuti da una vasta zona circostante, stipati come acciughe in lunghe carrette, contadini e contadine, vestiti a festa. Alcuni vedevano il mare per la prima volta. Era una festa di colori, di sole, di mare. Archi ovunque; festoni, drappi. Fra l’altro, sempre a Porto S. Elpidio, era stata eretta una statua dell’Immacolata tutta di cera. Un famelico sciame di api le si avventò sopra, attaccandola da tutte le parti. Fortunatamente qualcuno pensò ad una salutare fumata di zolfo: la statua fu salvata, ma ne uscì deturpata ed i ricami d’argento rovinati.

A Fermo, il Papa restò dalla sera del 16 tutto il 17 e parte del 18. In città scritte, luminarie, fuochi artificiali, bande musicali, canti, popolo tripudiante! Il 17 maggio, giorno di domenica, il Papa celebrò in Duomo quindi tra due fitte ali di popolo, si recò a Villa Vinci e lì benedisse la folla che assiepava il Girfalco. Poi, a piedi, discese lungo lo stradone e si recò nel Palazzo Apostolico. Attraversò la piazza, acclamatissimo e tornò in arcivescovado, accompagnato sempre dall’arcivescovo card. Filippo de Angelis. A sera, fuochi d’artificio, luminarie, suoni di bande musicali. Ripartì il giorno 18 diretto ad Ascoli.

Diciassette maggio 1863 ! In questa data, un altro fausto evento si verificò per Fermo e per il suo antico porto. Alla presenza del principe Umberto (il futuro Re Umberto I) veniva inaugurata la ferrovia e la sta-zione ferroviaria. Come si vede i binari della storia, fissano appuntamenti al 17 del mese di maggio. Le Gazzette e le Effemeridi del tempo, riportarono la notizia il 19 maggio. Anche giornalisticamente la storia si ripete.

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Nepi Gabriele ricorda Cesare Borgia signore di Fermo narrato da Niccolò Macchiavelli

NEPI Gabriele

Cesare Borgia signore di Fermo nel lontano primo maggio

La famiglia Borgia, oriunda dalla Spagna, celebre nella storia, per avere espresso dal suo seno Papa Callisto III (+ 1458) e Papa Alessandro VI (+1503) sotto il cui pontificato venne scoperta l’America, nonché Lucrezia Borgia, Cesare Borgia, detto anche Duca Valentino ed altri.

Cesare, figlio del Cardinale Roderico Borgia (poi Alessandro VI) e di Vannozza Cattanei, fu avviato alla carriera ecclesiastica di arcivescovo e cardinale. Ma rinunciò ad ogni dignità e al diaconato, secolarizzandosi ebbe subito parte importante nelle vicende politiche d’Italia, narrate da Niccolò Machiavelli, autore, tra l’altro della “Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nell’ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini”. Come è noto occupò la Romagna e poi il Ducato d’Urbino. Machiavelli, che lo conobbe in questa città, ne rimase ammirato. Leonardo da Vinci lavorò per lui, fortificando varie località. Astuto, intelligente, colto, valente nelle armi, era diventato l’incubo dei signorotti dell’Emilia e Romagna. Suo motto era Aut Caesar aut nihil o essere come Giulio Cesare o niente. Sulla sua spada aveva fatto incidere Cum nomine Caesaris omen (il nome di Cesare è un augurio). I regnanti e signorotti dell’Italia centrale, temendo di essere sconfitti ed uccisi, si unirono nella lega di Magione). Vi facevano parte tra gli altri Oliverotto da Fermo. Ma egli li prevenne. Con “il bellissimo inganno” (Macchiavelli) li convocò a Senigallia ed il 31 dicembre 1502 li fece strangolare; più tardi il 18 gennaio 1503 farà strangolare altri.

A Fermo, la notizia dell’uccisione di Oliverotto giunse fulminea il 10 gennaio 1503. Grande l’esultanza dei fermani che vedevano “spento” il loro tiranno. Oliverotto aveva commesso molti delitti e molte uccisioni per giungere alla signoria della città. Le città ed i potenti “trovavano più sicuro aderire a lui che resistergli”, (Machiavelli) e Fermo ben presto manda ambasciatori al Borgia. Tra essi il conte Paccarone e Francesco di Leonardo. Ritornarono in città gli esuli banditi da Oliverotto. Venne il legato pontificio (si ricordi che era Papa il padre di Cesare) e requisì le rocche dello Stato di Fermo; venne anche il conte Giacomo Nardino da Forlì delegato di Cesare Borgia; “homo molto destro che oprò tanto che li cittadini elessero per signore il Duca e così voleva el Papa che se facesse. Il primo de magio in consiglio fu gridato per signore il Duca Valentino e dato lo governo a detto conte Giacomo”.

Ma il 18 agosto 1503 muore Alessandro VI. Gli succede Pio III che aveva retto la Diocesi di Fermo prima di salire al soglio pontificio. Proteggeva Valentino, ma dopo soli 26 giorni di papato, muore il 18 ottobre 1503. Giulio II, che gli succede, esautora il Valentino e lo fa imprigionare. Dopo fortunose vicende e varie peripezie, il 12 marzo 1507 il Valentino muore combattendo sotto le mura di Viana nella Spagna.

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Nepi Gabriele ricorda Sisto V di nazione Fermana

Gli ultimi giorni di Sisto V

Faceva caldo, molto caldo in quell’ultima decade di agosto 1590. Sisto V era al quinto anno di pontificato .Lui diceva che Il lavoro febbrile, i dispiaceri causati dalla Spagna, le cure del governo, gli avevano procurato febbri intermittenti. Tuttavia, pur con la febbre, aveva celebrato il pontificale; aveva ricevuto delegazioni di vari Stati ed esplicava un’attività incessante e poliedrica. Soleva dire che “un principe deve morire in mezzo agli affari del suo ufficio”. E così avvenne.

Nonostante il persistere della febbre, il 18 agosto partecipò, a piedi, ad una processione di lunga durata; nei giorni 22; 23; 24 agosto disbrigò affari di Stato. La febbre dapprima scomparve; poi ritornò, violentissima. Il 27 agosto, Sisto V moriva nel palazzo del Quirinale; primo papa ad abitarvi, primo Papa a morirvi. In soli cinque anni, aveva rinnovato Roma, innalzato obelischi, eretto la cupola di S. Pietro, costruito acquedotti, estirpato il brigantaggio, risanato le finanze pontificie.

Prima di essere papa, Sisto V era stato Vescovo di Fermo; era nato nel territorio del suo Stato e amava definirsi natione firmanus: di nazione fermano. Rinunciò alla sede di Fermo nel 1577 per altri ed alti incarichi in Vaticano. Elevò la sede vescovile di Fermo ad arcivescovile, dandole quali Diocesi suffraganee: Macerata, San Severino M., Tolentino, Ripatransone e Montalto. Rinnovò l’università ed accordò a Fermo molti altri privilegi.

Abbiamo parlato di Quirinale dove avvennero quattro conclavi (altri in Vaticano). Tale palazzo fu fortunato per i marchigiani. Nel solo periodo dal 1823 al 1846, vi furono eletti ben tre Papi marchigiani su quattro: Leone XII di Genga di Fabriano (1823); Pio VIII di Cingoli (1829); Gregorio XVI (il solo non marchigiano: di Belluno) e Pio IX di Senigallia (1846).

Altra curiosità è che, quando morì Sisto V, furono celebrate solenni cerimonie funebri in tutto lo Stato pontificio, e specialmente in tutte le Marche, data la sua origine marchigiana. In Ascoli, finite tali celebrazioni, non si trovava chi pagasse le spese. Solo cinque anni dopo la morte di Sisto V, ci fu qualcuno che pagò. Il motivo? Perché Sisto V non aveva elargito ad Ascoli i benefici concessi a Fermo. Ad Ascoli, riferisce lo storico mons. Giuseppe Fabiani, aveva regalato “un bel nulla d’oro rilegato in argento”.

Però Ascoli ha allestito nel 1990 in onore di Sisto una mostra, stupenda.

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Nepi Gabriele ricorda Ettore Fieramosca memorato nelle cronache fermane

Ettore Fieramosca ad Offida combatté nella guerra  tra Ascoli e Fermo

Ettore Fieramosca (o Ferramosca come si legge in una lettera autografa conservata in Ascoli Piceno) è legato alla Disfida di Barletta (ed eternato anche nel romanzo di Massimo D’Azeglio) dove rinverdì dopo secoli le gesta degli Orazi e Curiazi. Potremmo dire che il tredici fu un numero per lui fortunato. Il giorno 13 febbraio 1503 avviene la disfida; ognuno dei due gruppi opposti, italiani e francesi, “l’un contro l’altro armati” è composto di tredici cavalieri. Ecco il gruppo dei nostri: Capitano comandante è il nostro Ettore Fieramosca; gli altri componenti: Fanfulla da Lodi; Giovanni Capaccio di Tagliacozzo; Giovanni Brancaleone e Ettore Giovenale, romani; Francesco Salomone siciliano come Guglielmo Albimonte; Ludovico Annibale da Terni; Marco Carellario da Napoli; Miele da Troia; Mariano Albignate da Sarno; Romanello da Forlì; Riccio da Parma. I tredici francesi sono capitanati da Guy de la Mothe e fra di essi vi è un italiano: Graiano d’Asti. Strano destino che i rinnegati e traditori abbiano il nome che inizia con la “G”: Giuda che tradì Cristo; Gano di Maganza che tradì il paladino Orlando a Roncisvalle; Giunio Bruto traditore di Giulio Cesare, ecc… Abbiamo visto qualche giorno fa che in Offida soggiornò un altro rinnegato, Fabrizio Maramaldo (anche se fa eccezione alla G) l’osteggiato ed inviso uccisore di Francesco Ferrucci. Ora registriamo che nel 1497 Offida “ospitò” l’eroe della Disfida, Ettore Fieramosca. Ciò avvenne in uno degli episodi della lotta tra le due rivali Ascoli e Fermo. Astolfo Guiderocchi, con inaudita ferocia si era impadronito di Offida, nota roccaforte di Fermo; si era poi avventato contro Ripatransone e nonostante i ripetuti assalti, non era riuscito ad espugnarla. Scornato, abbandona Offida e cede il comando delle truppe ad Ettore Fieramosca.

“… Astolfo Guiderocco era andato a Napoli per aiuto et negozio tanto con quel Re che ottenne, se disse, per soi denari, settanta cavalli e duecento spagnoli e se ne venne volando, e di notte saltò (sic = assalì) Ripa, ma essendo avisati ne furono rebuttati e ci lasciò parecchi morti e de feriti gran numero e poi vedendo non far niente ne lasciò Ettore Fieramosca in Offida con cavalli e fanti, e di continuo faceva scaramucce e d’ogni banda”. Così l’anonimo fermano negli Annali. Se è vero come è vero che Wellingthon abbia detto che la battaglia di Waterloo fu vinta nei campi di addestramento di Eton (The battle of Waterloo was won in the playing fields of Eton) alludendo agli esercizi praticati in esso, chi può negare che le “scaramucce di Offida” non siano state utili esercitazioni per lo scontro di Barletta? Due sono monumenti importanti di Barletta raffigurano: uno l’imperatore Eraclio e l’atro ricorda la battaglia; ma perenne è la fama del nostro Fieramosca che fu in Offida “ che era un piccolo centro dello Stato di Fermo sito a la sinistra del Tronto con mura e bastioni del sec. XIV, noto per S. Maria della Rocca et Palatio comunale et fabrica di merletti et-dolciumi appellati funghetti” e, aggiungiamo noi, anche per la presenza nel 1497 dell’eroe Ettore Fieramosca.

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