MINISTRO DELLA SALVEZZA san Giuseppe padre legale di Gesù

   Ministro del Salvatore è San Giuseppe

   Nella ricorrenza del 150º anniversario della proclamazione di san «Giuseppe patrono della Chiesa universale», Papa Francesco ha pubblicato la lettera apostolica sul «Padre di cuore» ed ha aggiunto sette litanie a quelle approvate nel 1909 con invocazioni attinte dai testi pubblicati dai papi predecessori, riguardo a san Giuseppe: “Patrono degli esuli, degli afflitti e dei poveri” inoltre “Custode del Redentore; Servo di Cristo; Ministro della salvezza; Sostegno nelle difficoltà”.

   Un fatto che unisce questi titoli è che Dio dona la salvezza servendosi di cooperatori. Nella sacra Scrittura, specie nei salmi, la salvezza viene dichiarata unicamente come opera di Dio che pertanto viene invocato. San Giuseppe prega perché si realizzino i divini disegni.  Oggi, gli spiriti affranti, i piccoli, i retti di cuore, i poveri, i perseguitati e tutti coloro che hanno timore di Dio pregano per essere salvati unicamente da Dio e vengono esauditi dalla divina bontà. San Giuseppe sa che lui da solo non può far nulla, ma con umiltà contempla il realizzarsi del mistero di salvezza che è opera divina di cui è ministro perché il suo ruolo è di mettersi a servizio della vita nascosta del divin Redentore, Figlio di Dio incarnato e di custodirlo. Vede tutto come è nelle divine mani. «Dio salva», in lingua ebraico dice «Yesua», in italiano «Gesù» ed i credenti lo invocano, lodano e ringraziano come salvatore, redentore, medico delle anime e dei corpi. San Giuseppe apre le porte a Gesù, nutrendolo e difendendolo. Rappresenta in terra il Padre divino e offre a tutti l’esempio di amore, di pace e di giustizia.

   Giuseppe vive assieme con “Dio salva – Gesù ” e con lui è proteso a realizzare la salvezza delle persone.  E’ il padre legale che pratica l’obbedienza, la prudenza e la fedeltà e attua il suo ministero di educatore del fanciullo Gesù con l’esempio e con i consigli. Per ottenere perdono e grazie per tutti, vive di speranza e intercede con cuore benevolo, misericordioso, sincero, caritatevole verso gli altri, affidandosi a Dio. Con il salmo prega: «In te confidarono i nostri padri, confidarono e Tu li liberasti, a Te gridarono e furono salvati, in Te confidarono e non rimasero delusi» (Sal 22,5s). «Aiutaci Dio, nostra salvezza per la gloria del tuo nome; liberaci e perdona i nostri peccati a motivo del tuo nome» (79,9). «Lodarti sarà la nostra gloria» (106,47). «Ero misero ed Egli mi ha salvato» (116,6).  Nel salmo 35 Dio chiede che si abbia fede riconoscendolo Salvatore: «Dimmi: sono io la tua salvezza». San Giuseppe prega, con la lode e con il ringraziamento.

   A fondamento della preghiera tiene la fede che è certezza nella fiducia. Professa: «Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore? (27,1)». «La salvezza dei giusti viene dal Signore» (37,39)». «Lui solo è mia roccia e mia salvezza, mia difesa: non potrò vacillare (62,7)». Giovanni, il cugino di Gesù che è detto il “precursore” dichiara: «Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio (Lc 3,6)».

    San Giuseppe è ministro fedele del divino Amore misericordioso. San Paolo considera la speranza propulsiva: «Per questo infatti noi ci affatichiamo e combattiamo, perché abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente, che è il salvatore di tutti gli uomini, ma soprattutto di quelli che credono (1Tm 4,10)».

   L’intervento di san Giuseppe oggi è attuato come opera della divina volontà che lo rende operoso nel salvare le persone, le etnie, le società, i popoli quando desiderano di essere salvati e resi immuni dai mali, dal maligno, in particolare da sofferenze, da disperazioni, da difetti, da incapacità, da avversioni e da odi; come anche dai pericoli che li danneggiano.

   L’incarnazione di Dio Figlio, in Gesù Messia, è lo speciale intervento salvifico che diffonde la grazia della redenzione. Questa agisce fondamentalmente sul piano spirituale per recuperare le persone e sanarle nella vita interiore. La radice da sanare è la lontananza da Dio. La radice maligna è tutto quanto divide e pone una persona contro altra persona, pone un popolo o un’etnia contro altri. Ogni ministro della salvezza al contrario riavvicina e unisce a Dio. Svolge il servizio per amore di Dio e del prossimo. Così fa san Giuseppe.

   I cristiani professano la salvezza realizzata dal Cristo vivente e glorioso perché dopo l’immolazione sulla croce è risorto con una natura umana sana quale era nella creazione e come persona gloriosa che trasformerà le persone fedeli con la risurrezione finale dei loro corpi che saranno parimenti gloriosi in coloro che operano il bene nel suo regno divino. Ciò è già realizzato per la Vergine Madre Maria. In attesa di questa trasformazione definitiva dei credenti, Giuseppe vissuto in terra con la confidenza in Dio, sta oggi al suo servizio con apertura di cuore, anzi è modello per tutti i cuori.

   Il termine ministro è usato dalla Chiesa nel Nuovo Testamento per indicare colui che compie un servizio per il Vangelo. Il vocabolo, in generale, è usato anche in altri sensi non religiosi nella lingua italiana, e indica che sono ministri coloro che devono custodire fedelmente tutto quanto è loro affidato per il bene delle persone e in tale funzione le difendono dai falsi operatori che le danneggiano.

   In senso cristiano ciascun ministro del Salvatore è animato unicamente dallo Spirito Santo, effuso nella Chiesa cioè nei fedeli tramite gli apostoli, i diaconi, i presbiteri, i ‘episcopi’ specifici ministri del Salvatore. L’apostolo Giuda Taddeo, cugino di Gesù, nella sua Lettera raccomanda ai servi di Dio di agire contro gli impostori «che provocano divisioni, gente che vive di istinti, ma non ha lo spirito».

   C’è in san Giuseppe, ministro della salvezza, un’esemplarità nelle difficoltà da lui affrontate per la natività in una grotta, per la persecuzione di Erode e altro, egli è santo nell’accogliere il disegno divino. Fa capire che Dio tiene unite a sé le persone per liberarle dal male. In ciò san Giuseppe è coinvolto insieme con la santa sua famiglia, con Gesù e con Maria e assieme sono il più valido modello della missione della Chiesa nel mondo. Gesù è «causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (Eb 5,9)». Il Messia vuole che tutti gli uomini siano salvati, sia salvato «ciò che era perduto (Lc 19,10)».

   Ogni persona cristiana, a cominciare dalla Madre Maria, è ministra nel modo «come il Signore gli ha concesso (1Cor 3,5)» e ha da confrontarsi con San Giuseppe mite, pacifico, dolce, sapiente, modello di ministerialità tra il popolo di Dio. Riguardo alla collaborazione l’apostolo Paolo dice che deve servire a confermare e ad esortare (1Tes 3,2). Precisa: «Sarai un buon ministro di Gesù Cristo, nutrito delle parole della fede e della buona dottrina che hai seguito. Evita invece le favole profane, roba da vecchie donnicciole (1Tm 4,6)».

   San Giuseppe ministro della salvezza ha seguito la buona dottrina che ha ricevuto dalla rivelazione dell’Antico e del Nuovo Testamento, si è nutrito di fede, di fiducia e di amore per testimoniare il bene divino con tutti. E’ ministro esemplare, anche per noi, oggi.

                                                (Antimo Fattoretta)

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LA SALUTE DELL’ANIMA

CON LA GRAZIA DELL’AMORE MISERTICORDISO

Anima guarita, grata e sana

Lettura:   Vangelo di Luca 17, 19: «Alzati e va’, la tua fede ti ha salvato»

   Gesù Cristo, uomo Dio, traversava le contrade della Samaria e della Galilea. Un giorno, al suo passaggio, viene osservato da un gruppo di dieci miseri lebbrosi, segregati per legge dal centro abitato. Quando lo vedono venire verso di loro, al rimirarlo in atteggiamento dignitoso con una dolcezza e un’amabilità infinita, fissano lo sguardo dolente in quel volto divino, in quella fronte serena, in quegli occhi pietosi, gettano un grido supplichevole e commovente: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi». All’incontro con questo dolore, il sensibile Salvatore dice loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». L’amore e la fiducia di una pronta guarigione li fa muovere subito. E strada facendo, con stupore e gioia, si accorgono che le squame della loro lebbra cadono in un istante, si ritrovano purificati, e con tutto il corpo perfettamente sano. Uno di essi al vedersi guarito ritorna sui suoi passi, e, lodando Dio, ad alta voce, corre a gettarsi ai piedi di Gesù, per ringraziarlo. Gesù dice: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?» E gli dice: «Alzati e va’, la tua fede ti ha salvato».

   Fermiamoci, o fratelli, per un po’ di tempo a considerare gli insegnamenti di questo Evangelo. L’amore per la santificazione dello spirito fermi la nostra mente alle riflessioni che il miracolo offre. Osserviamo la sollecitudine dei lebbrosi per i mali del corpo. Per gratitudine, con la coscienza aperta d Dio, uno solo rende gloria a Dio. Riflettiamo sulla noncuranza per la sanità dello spirito.

   La lebbra in Oriente era allora una malattia incurabile e contagiosa come la peste. Perciò la legge di Mosè era severissima: i lebbrosi dovevano andare con capo nudo, le vesti aperte, dovevano avvisare chi si accostasse a loro, per evitare infezioni; costretti, così, ad una vita solitaria e abbandonati da tutti. Il Salvatore era consapevole della loro spaventosa condizione. Ascolta il loro grido pieno di speranza di esser liberati da quello stato insopportabile. Egli esaudisce il loro desiderio di recuperare quella sanità che godevano prima. Nove dei dieci guariti non manifestano riconoscenza al loro liberatore. Soltanto il samaritano, straniero, agisce con spirito di credente. Così mostra che gli è cara la salute del corpo assieme con quella dell’anima nutrita di fede. Gesù gli dice che sua fede lo ha salvato.

   Siamo noi somiglianti al riconoscente lebbroso oppure ai nove ingrati?

Tutti abbiamo sollecitudine per risanare i mali del nostro corpo. E per guarire dai mali dell’anima? Per guarire il nostro corpo malato non si risparmia nessuno sforzo, pur di salvare la vita. Si va a cercare i medici esperti e famosi, pure lontano da casa, anche quando bisogna abbandonare la famiglia e lasciare i propri affari in mano altrui, intraprendere lunghi viaggi, incontrar debiti per far fronte alle spese necessarie. Ma si sacrifichi tutto, purché si viva. E talora è fallace la speranza.

   Ora, cari cristiani, se Iddio avesse voluto che noi avessimo da affrontare queste stesse difficoltà e spese per salvare e guarire l’anima nostra dalla malattia del peccato, che cosa avreste pensato?! Lamentele: «Eh! Iddio, troppo esigente; eh! troppo crudele!» Dio vuole molti meno sforzi per la guarigione delle povere anime.

   Eppure, considerate che l’anima vale più di tutta la salute corporale e di tutte le ricchezze? Sappiamo che l’anima vale quanto il sangue di Gesù Cristo! Alla presenza di Dio, che cosa è di troppo per il bene dell’anima? Eppure quanto siamo piccini e vili, mentre Dio vuole non chiede denaro, né medicinali, né dure fatiche, sollecita semplicemente un amore di cuore umile, una volontà che odia il peccato, che preferisce morire piuttosto che commetterlo, una buona e sincera confessione per riconciliarsi con lui buon Padre.

   Quando il corpo è ammalato tutto si accetta: pillole amare, flaconi disgustosi, iniezioni sgradite, rigorose diete, digiuni, interventi chirurgici, ci fossero pure da tagliare una parte del corpo. Eppure, nonostante ciò, a volte, dopo simili sforzi, si muore. Accetteremmo cose simili per il bene l’anima? I santi rimedi per l’anima sono i doni della sua grazia, e non costano che un atto di generosa volontà per evitare i peccate del cuore, della carne, della superbia. L’aiuto della grazia data a noi da Dio è il farmaco che rende la vita e la salute. Chi avesse l’abitudine orrenda della bestemmia, dell’imprecazione, non gli sia grave troncarla, e metta in opera tutti quei mezzi che il ministro di Dio suggerisce, tra cui la confessione più frequente. Le relazioni funeste, le vanità procaci, le consuetudini dell’impudicizia, il parlare osceno, oh! abbandonate queste abitudini e guarite con la modestia, la mortificazione dei sensi, volgete il pensiero alla presenza di Dio.

   Una persona saggia non si ricorre soltanto all’arte medica, fa anche ricorso a Dio. Succede che, quando il malanno incalza, si fanno preghiere, novene, rosari alla Madonna, un’elemosina ai poverelli, un’offerta di promessa …  Certamente è lodevolissimo rivolgersi e pregare l’Autore della vita affinché ci liberi dalla morte. Ma l’anima mai sia messa dopo vilmente del corpo. Almeno si pratichi un eguale interesse per liberarci dai mali dell’anima, come facciamo per il corpo! Eppure se salviamo l’anima, non salviamo anche il corpo? Gesù Cristo stesso fa riflettere: «Che giova a una persona se guadagnasse tutto il mondo, e poi infligge danno all’anima sua?!» Non giova. Potreste godere per anni, poi vedere troncato il godimento. Il re Salomone, dopo avere assaggiato godimenti a dismisura, nella delusione e nell’angoscia del suo spirito, dovette dire che, sotto la cappa del cielo, tutto è vanità, svaniscono le cose materiali nel dolore di spirito. C’è per ogni persona il rendiconto finale e con il peccato si va all’inferno con l’anima e col corpo. O cristiani, nel rendiconto che risponderemo?

   Ridotta a servire al corpo l’anima è ridotta infelice nella schiavitù!  Oh, quanto siamo miseri! Nobile figlia di Dio, l’anima, è preziosa per Dio, quanto lui stesso. Che direste quando si presentasse un vostro servo prepotente, che con la più raffinata perfidia, seduto su un cavallo adorno di ricca bardatura, chiedesse e volesse farsi servire da una regina, resa così abietta come fosse schiava?

   Il corpo umano, che finirà nella putredine, o cristiani miei, consideratelo come un servo pretenzioso e considerate la povera nostra anima, è regina trattata da schiava. Pensate a questa ingiustizia, a questa tirannide del vostro corpo verso l’anima?! Evitiamo le stranezze degne d’orrore e di pianto.

    Ah! Corriamo, fratelli miei, ai piedi di Gesù Cristo, come il buon lebbroso: non imitiamo la ingratitudine degli altri nove, come purtroppo abbiamo fatto nel passato. Ci è accaduto, a volte, che, dopo una santa confessione che ci ha riacquistata la salute dell’anima nostra, per la grazia donataci da Gesù Cristo, non ci curammo di ringraziarlo, ingrati, come furono i nove lebbrosi andati ai loro interessi. Così per le vie del peccato, obbligammo l’anima, schiva sotto gli stimoli illeciti del nostro corpo. Sempre Gesù ci viene incontro, ci chiama, e con dolci lamenti ripete: «Che cosa dovevo fare che non ho fatto? Che devo far di più per te, o amata anima?»

   Quando, insensibili, lasciammo Gesù a gemere e ci volgemmo alle pretese della carne, ci facemmo dominare dal corpo, non ci curammo dell’anima, e fuggimmo da Gesù come ingrati lebbrosi.

   Oh! Fratello, poni fine all’ingratitudine, imita il riconoscente lebbroso, che, mostrò di aver premura e del corpo e dell’anima, e come con la fede meritò egli di essere risanato e nell’anima e nel corpo, così anche tu puoi meritarlo e udire dal dolce labbro del redentore: «Alzati! Va’, la tua fede ti ha salvato».

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Testo derivato e rielaborato da un manoscritto del 1905 circa.

Digitazione di Albino Vesprini

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L’immacolata e’ l’umanità redenta, esente dall’eredità di Adamo peccatore, Tutta Santa, per la nostra conformazione eterna.

IMMACOLATA CONCEZIONE

Chi è lei?

Il Signore con Maria ha distrutto il peccato.

Da Adamo ed Eva con il peccato venne la morte.

Dalla santità di Maria viene la vita, gioia divina

Suo Figlio, con il parto verginale di Immacolata

nasce immacolato, uomo Dio che libera da peccato.

E’ Madre delle persone e creature rinnovate, risuscitate

alla dignità originaria persa in Adamo alla quale queste sono destinate in eterno nella gloria e nella lode a Dio.

« IO SONO CONCEZIONE IMMACOLATA »

Lourdes 25 marzo 1858

“Tutta bella sei, o Maria, la macchia d’origine non è in te”

Cantate la novità del Signore che compie meraviglie

Liturgia – 8 dicembre

LEI IMMUNE DALLA MACCHIA ORIGINALE

   Oggi, un pensiero di letizia percorre la Chiesa tutta e dal cuore erompe un giulivo canto che si innalza a Dio Santificatore, nella liturgia e negli gli osanna degli angeli e dei beati nella patria celeste. Maria concepita senza peccato è Immacolata. Ha la superiorità sul male ed è piena della grazia dello Spirito Santo. È doveroso il canto di trionfo, di benedizione e di ringraziamento al Salvatore e Glorificatore che è fonte e completamento finale di ogni bene. In lei c’è il pegno sicuro di consolazione per ogni persona, è la regina dei cuori

   Oggi si innalzano le lodi perché Maria di Nazareth è redenta sin dal suo concepimento ad opera della Potenza divina d’Amore. «Tu sei tutta bella, o Maria, e la macchia d’origine non è in te». Da lei emana e ci sorprende la presenza divina che guida la storia per la nostra salvezza. Non per merito di persona umana, ma per pura grazia divina lo Spirito di Dio ci predestina fin dalla sua eternità per essere santi. Non restiamo nelle perplessità, ma accogliamo le certezze dalla Chiesa che svolge la missione del Messia Gesù.

   Il primo uomo creato, Adamo, viveva nell’armonia dell’universo e non poteva soggiacere né a malattie, né a sofferenze, tanto meno alla morte; ma quando Adamo ed Eva hanno rifiutato Dio chi emana il bene, con questo peccato hanno dato origine alla morte nel mondo. Per riscattare le persone dal male il divin Padre ha progettato che suo Figlio, il Verbo creatore, avrebbe preso la natura e la carne umana per mezzo di una donna libera dal peccato sin da prima della sua origine, distaccandola dalla eredità di decadenza di Adamo: donna libera dalla concupiscenza della carne, degli occhi e della superbia della vita, a cui soggiacciono tutte le creature umane. Maria è preservata dalla colpa dei progenitori, è benedetta con ogni benedizione spirituale in Cristo

    Per tanti secoli prima dell’incarnazione del Figlio di Dio avvenuta nel grembo di Maria di Nazareth, l’umanità è vissuta con un malessere derivante dal peccato originale, insinuato dal serpente demoniaco. Poi la Misericordia divina ci ha dato l’Immacolata, unica eccezione con il privilegio che lo Spirito Santo ha messo nell’umanità al fine di realizzare l’oracolo contro satana: «Lei schiaccerà il tuo capo». L’Immacolata esalta il divino Spirito che ha fatto cose grandiose in lei.

    C’è questa letizia dei popoli cristiani per l’Immacolata. La nostra fede ce la fa onorare gloriosa affinché testimoniamo la beata speranza del regno divino è già realizzata nella beata Vergine, per merito della sovrabbondante grazia del Cristo che viene incontro ad ogni persona. Il canto dell’umanità, che è stata redenta, solennizza la vittoria completa del bene sul male nella Sposa dello Spirito Santo.

   La vittoria della Tutta Santa sopra l’antico serpente comporta la redenzione dell’umanità tutta. E oggi la Chiesa con gratitudine ripete a Maria, «Tu sei la gloria, tu sei la letizia, tu sei l’onore del tuo popolo». Lei, Madre di Gesù è Madre anche dei fedeli del Figlio. Immacolata, Sposa dello Spirito Santo è regina di ogni bene e della pace, è ausiliatrice, soccorritrice, avvocata perché è unita al Figlio nel redimere ogni persona. Coopera con la sua carità alla nascita della fede nei credenti ad opera della Chiesa che è corpo mistico del Cristo.

   La Chiesa oggi invita a festeggiare lo speciale unico privilegio di Maria nella gloria della sua Concezione Immacolata e noi partecipiamo a questa esultanza. Oggi ricordiamo la più grande vittoria che Dio ha effettuato sul maligno nemico del genere umano, con la preservazione di Maria dalle conseguenze del peccato di origine. Ricordiamo insieme il meraviglioso evento che è stata la definizione dommatica dell’immacolato concepimento di Maria, data da Pio IX. Inoltre diamo valore alle apparizioni mariane che confermano la fede che viene dal divin Verbo.

   Proclamiamo che il Creatore è la sorgente della universale allegrezza e merita lode e ringraziamento. Ha chiamato Maria ad essere conforme all’immagine del Figlio e per questo l’ha giustificata e glorificata. Ricordiamo che in lei, preservata dal peccato di origine, la vittoria della divina grazia ha sopraffatto stabilmente il male. Ci rallegriamo del trionfo e della gloria della straordinaria santità che risplende in lei per la divina sua maternità vissuta nel totale abbandono alla divina volontà. Teniamo presenti due solenni eventi, quali: la proclamazione dell’Immacolata Concezione fatta dal Vicario di Dio nel 1854 e la presenza reale dell’Immacolata Concezione a Lourdes dove si è manifestata a Bernadetta, nel 1858.

   Esultiamo meditando una così celestiale creatura, unendo il nostro spirito a quello di tutta la Chiesa militante e trionfante. Volgiamo il pensiero alla Vergine e dichiariamo: “Tu sei il miracolo con cui Dio dona all’umanità l’incarnazione del suo Figlio; sei la gioia del Paradiso e lo illumini con i raggi della tua bellezza, sei la letizia e l’onore del popolo che sarà redento, come tu sei redenta, e a te affida le sue gioie, le sue speranze e i suoi affetti. La Chiesa che è pellegrina nella fede, come è stato per te, fino alla patria della Trinità santissima, o l’Immacolata che vivi con il corpo e con lo spirito, continua il tuo ruolo materno nei riguardi dei fedeli del tuo divin Figlio”.

   Oggi, l’Immacolata Concezione, la benedetta tra tutte le donne, schiaccia le potenze dell’inferno sotto il suo piede vittorioso per cui tremano i seguaci del maligno che istilla l’odio contro Dio. Rivolte all’Immacolata vincente, tutte le generazioni acclamano la sua piena beatitudine. Beata perché ha creduto alla Parola del Signore, beata nel cammino della fede che compiuto con l’obbedienza, la speranza e la carità. Tra gli alleluia, l’Immacolata non dimentica i problemi dei figli pellegrinanti nelle tempeste della vita terrena. Con la tenerezza di Madre purissima; ci stringe in un amplesso d’incoraggiamento che ci conforta per le lotte del passato e ravviva la speranza di pace per l’avvenire. Nell’Immacolata vediamo rifulgere i doni dello Spirito santo: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, pietà e timor di Dio.

   L’Immacolata Concezione, è la santa dimora di Dio, è la luce alle nostre menti, ci ispira pensieri degni di lei, e fa in modo che la fiducia conduca ogni cuore ad amare Dio.

   L’Immacolata è consapevole del ruolo dato a lei nella storia della salvezza, riconosce la gratuità dei divini doni. Vuole svolgere la privilegiata missione a favore di ogni persona umana. Sinceramente si reputa un nulla davanti alla Potenza divina d’Amore, pertanto esulta e magnifica il Signore, ed è beata dello sguardo rivolto a lei.

PROGETTO ETERNO DI DIO

    Un canto armonioso e sublime è risuonato un giorno nei cieli eterni, e l’universo ne ha sentito il dolce effetto. La creatura più che celestiale dichiara che lei è la primogenita in tutte le creature dell’Altissimo: prima dei secoli, fin da principio egli l’ha creata. Per tutta l’eternità non verrà meno. Nel cielo con lei è sorta una luce perenne. il Signore l’ha posseduta fin dal principio, l’ha rivestita della sua grazia, l’ha concepita tutta bella. Primo sorriso del pensiero di Dio, quando l’eterno Amore si mosse ad operare nel tempo le altre bellezze dell’universo, lei gli era fianco come prototipo. Quando assegnava leggi mirabili alla danza del moto degli astri, e segnava il sentiero al sole, alla luna, con accenti d’infinito amore, la Potenza divina donava il sole a lei per vestimento, e la luna per poggiare i suoi verginali piedi. Lei dichiara di essere la madre del bell’amore e della speranza. Sono questi cenni del Qoelet e dell’Apocalisse, riferibili alla Concezione Immacolata, prestabilita Tutta Santa, fin dall’eternità dall’Altissimo.

   Maria fu concepita per essere la Madre dell’eterna sapienza, la Madre del redentore degli uomini. Tutte le bellezze delle creature dovevano imitare questa suprema donna; tutte le meraviglie dovevano servire a lei; tutti i privilegi, tutto il fulgore di innocenza e di santità, dovevano rendere più ammirabile questa portentosa donna; tutto il creato, in una parola, doveva tributarle omaggio. San Bernardino dice che tutto l’universo è stato creato per questa privilegiata creatura. San Giovanni Damasceno la chiama abisso profondo di miracoli e San Germano ammira la più sublime meraviglia tra tutte le meraviglie concepibili.

   Pio IX, soprannominato “il Pontefice dell’Immacolata Concezione”, la chiama: “giglio tra le spine, Vergine illibata e libera da ogni contagio di peccato, trono eccelso di Dio, arca di santificazione costruita dall’eterna Sapienza, paradiso pieno di innocenza, di immortalità e di delizie”.

   La presenza di questa sublime Tutta Santa ha sempre destato l’esultanza e la gioia del cielo e della terra. Gli angeli tripudiano e le persone umane rinfrancano le loro speranze, rallegrandosi con lei che per divina volontà, sin dal primo istante della sua vita, ha vinto Satana il quale agisce sempre in modo da opprimere il popolo di Dio.

   Maria fu preveduta donna trionfante fin dall’eternità da Dio che promise la sconfitta del maligno attraverso la liberazione dal peccato per l’Immacolata fin dal primo istante della sua esistenza. Lei indora con i suoi raggi il cielo ed effonde nei credenti i doni dello Spirito Santo con cui fa sentire la cura che il divin Padre ha dei suoi figli arricchendoli dei carismi dell’Immacolata, quali carità, gaudio, pace, pazienza, benignità, bontà, longanimità, bontà, mansuetudine, fedeltà, modesta, purezza.

   Satana voleva insinuare il peccato in lei che al contrario è il riscatto dell’umanità erede del peccato. Il maligno insidiava, ma Iddio con una redenzione anticipata, con un prodigio tutto nuovo, l’ha voluta preservare da quel veleno originale, con il quale noi tutti figli di Adamo peccatore nasciamo.

   E Maria creata per sconfiggere l’inferno, si è tutta affidata alla Potenza divina d’Amore che la fa trionfare contro ogni peccato. Questo privilegio è coerente con la concezione verginale del Cristo, immacolato Figlio divino. Così viene attuato quell’anatema nell’Eden al serpente che sedusse e rovinò i nostri progenitori e la loro discendenza. Maria è chiamata a sconfiggere il serpente preavvisato: «Io porrò inimicizia tra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: costei ti schiaccerà la testa». Maria concepita vittoriosa, bella, pura, santa, è dotata di tutti i doni divini, e per lei la liturgia esulta: «Cantiamo al Signore perché ha compiuto strepitose meraviglie».

   La gloria del trionfo dell’Immacolata è il vanto del popolo cristiano che la esalta come speranza di tutti noi miseri peccatori: «Tu onorificenza del popolo nostro. Tu mediatrice, o Maria». E noi tutti dobbiamo confidare in Maria; confidare nella sua mediazione potente presso Iddio, mentre la vediamo come figlia di Adamo, con la medesima nostra natura, ma con la sua grande gioia d’essere preservata dai danni trasmessi dai progenitori che hanno peccato. Il profeta Isaia le fa dire: «Io gioisco pienamente nel Signore. La mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il manto della giustizia».

   Nella sua santità totale l’Immacolata Concezione è e sarà sempre esaudita dal suo divino Figlio in ogni preghiera, perché lui costantemente la ama più di tutte le altre creature. Lei riconosce che per solo riguardo alla nostra salvezza è stata l’unica persona preservata dalla universale infezione e ringrazia la misericordia divina che l’ha adornata del privilegio singolarissimo di piena unione con Dio suo creatore. Pertanto si sente impegnata ad aiutare i tristi figli di Adamo da redimere.

   Benedetto l’istante quando venne concepita questa Vergine, benedetto l’istante in cui lo Spirito Santo operò questo prodigio di santità per l’onnipotente misericordia, che l’ha resa immune da ogni qualsiasi malizia, pur soggetta alle pene del cuore.

   Tutte le persone hanno motivo per gioire e rallegrarsi del trionfo concesso a Maria, benedicendo la sublimità di Immacolata Concezione. Tutte le generazioni ricevono fiducia e conforto nel mirarla così totalmente santa, e loro mediatrice.

LA VERITA’ DETTA DAL VICARIO DI CRISTO

   I credenti cristiani, nel corso dei secoli hanno reso gloria, per fede, a Maria nel suo immacolato concepimento. I popoli cristiani hanno sempre fatto eco alla predicazione apostolica. I Padri della Chiesa cantavano Maria luminosa per la pienezza dei doni divini di Grazia nella totale perenne sua santità. Una dolce ispirazione della fede porta i cristiani a lodare Maria concepita senza macchia.

   Molte generazioni la chiamavano Immacolata Concezione, e diffondevano migliaia di scritti che ne parlano, a difesa del suo concepimento illibato, senza ombra di male; erigevano monumenti per farla ammirare, insegnavano articoli di fede e fervidi inni in suo onore.

   Se portiamo lo sguardo su tutto il corso dei secoli, per tutta la cerchia dello spazio, vediamo sorti ovunque e costantemente, altari, chiese, cappelle ad onore della Vergine concepita senza peccato. Sono sorte confraternite, congregazioni, oratori, a migliaia, che hanno scelto il nome dell’Immacolata Concezione. E da sempre tanti artisti sono intenti per lei a dipingere quadri, a scolpire statue, a coniarne medaglie. Permangono maestri, in ogni continente, ed oranti in ogni tempio, che con forte parola, giuravano e giurano di difendere fino al sangue la verità dell’Immacolata.

    E tantissimi fedeli nel rendere gloria all’Immacolata  nel corso di vari secoli, hanno richiesto ai sommi Pontefici di pubblicare il dogma che lei Maria è stata concepita senza peccato ed è Immacolata Concezione fin dal primo istante della sua esistenza. Quando i tempi della storia sono diventati maturi per fare questo, ecco che la Provvidenza divina ha dato alla sua Chiesa il grande Pontefice che fu chiamato il “Papa dell’Immacolata Concezione”, Pio IX che ha preso la decisione.

   L’apostolo Giovanni scrisse che egli udì da tutti gli angoli, voci innumerevoli che venivano dal cielo, dalla terra, dal mare, le quali tutte altamente gridavano la gloria divina e noi possiamo ripeterlo per l’Immacolata Concezione. E di fatto il cuore del gran Pastore e Padre dei credenti cristiani ha avuto vastissima eco per la Bolla infallibile nell’esplicare la fede, l’8 dicembre 1854.

   Come bello quel giorno tanto atteso con ardentemente desiderio! Nel maggior tempio della cristianità, in Vaticano, sulla tomba del martire principe degli apostoli, Pietro, il Vicario di Gesù Cristo, circondato da 53 Cardinali, da 43 Arcivescovi, da più di cento Vescovi, e da una moltitudine sterminata di popolo, dalla suprema cattedra del vangelo, con certezza di verità, in nome della Trinità eterna, con l’autorità di Cristo e di Pietro, proclamava, in mezzo ad una profonda e universale attenzione, che è verità di fede, rivelata da Dio, e da ritenersi tale da tutti, il fatto che Maria fu concepita senza peccato, e che è sempre l’Immacolata Concezione.

   Si propagò per l’universo il felice avvenimento e dappertutto furono feste, luminarie e acclamazioni. Nuovi templi, statue, istituzioni. La pittura, la scultura, la poesia, l’architettura hanno creato testimonianze per rendere più celebre questa glorificazione di Maria, che è acclamata come gioia della Chiesa ad onore del popolo cristiano. Pertanto la Chiesa canta a Maria, Genitrice di Dio: «Il tuo concepimento annunciò al mondo un grande gaudio».

   Satana vedeva allora raddoppiarsi sulla sua testa l’offesa dell’antica sconfitta, datagli già dalla sublimità del concepimento immacolato della divina Genitrice, poi dal vederla ancor più festeggiata tale in tutto il mondo dai credenti.

   La solennità di questo universale omaggio all’Immacolata Concezione, con il decreto di Pio IX, ha assicurato sul capo di lei una gemma fulgida nella corona di glorie. Questo importante evento storico continua ad accrescere il culto al suo immacolato concepimento.

Il dogma era sollecitato dal desiderio e dai voti di una moltitudine innumerabile di fedeli che lo attendevano come figli della Chiesa. E hanno voluto ringraziare la bontà del provvido Iddio che ha riserbato il secolo XIX per rendere tutti pronti a solennizzare tanta gloria della Madre.

   Per divino volere, per mezzo dell’oracolo infallibile del suo Vicario, sono state ribadite le le certezze di una dommatica verità e con le apparizioni mariane.

   E’ gioia e conforto per tutti i cristiani rendere grazie a Dio per questa dommatica definizione dell’immacolato concepimento di Maria Vergine.

   Oggi ancora Satana agisce contro i figli di Dio, perché il maligno vuole che Dio sia odiato e che questo odio si espanda tra le creature. La Chiesa lo contrasta onorando la Vergine per il trofeo conferitole dall’Altissimo con la vittoria sopra la sua perfidia. Noi sappiamo che l’Immacolata Concezione schiaccia, oggi e sempre, il capo al serpente infernale che va ispirando odio. E per l’importanza cristiana di questo avvenimento, è celebrato nella data memoranda con l’annuale solennità dell’8 dicembre.

   La celebrazione conferma la vittoria divina contro il male, mentre il nemico va insinuando ai suoi seguaci il disprezzo mentale contro l’Immacolata Concezione. La dicono un’impostura, e avversano la Chiesa che presenta questo dogma, recriminando: “Perché proclamarla come verità dopo 18 secoli?” e insinuano velenosamente che la Chiesa violenterebbe la libertà degli uomini, e asservirebbe le coscienze! Sono calunnie infernali. Tuttavia i prodigi a Lourdes sconfiggono anche questa maligna presunta rivalsa.

   E’ la fede che illumina le intelligenze per accogliere la Concezione Immacolata. E’ certo che la Chiesa non crea nuove verità di fede. La Chiesa è costituita dal suo fondatore Gesù Cristo che è il fondamento e la pienezza di ogni verità e lui ha posta questa maestra infallibile nell’impegno di spiegare le verità della rivelazione. Quelle meno ricordate vengono pertanto riproposte ai fedeli secondo la tradizione della predicazione apostolica e della liturgia. I credenti le ripresentano con canti, sculture e pitture, con la predicazione, con la pietà in tutti i secoli per cui sono state trasmesse le testimonianze e i segni di questo culto che viene elevato a maggiore chiarezza per mezzo della definizione dommatica.

   Gesù disse a Pietro convertito che confermasse i fratelli nella verità, giacché lui stesso prega per i suoi apostoli affinché non abbiano a cadere mai nell’errore.

Quando Pio IX, vicario di Gesù, ha definito il dogma non aggiunse una nuova verità alla rivelazione. Ha esplicitato e riproposto a tutti i credenti il possesso della vera fede costantemente basata sulla predicazione degli apostoli. Pertanto pubblicò che l’immacolato concepimento di Maria, è immune da ogni colpa di origine fin dal primo istante della sua creazione.  Questa verità non è affatto qualcosa di nuovo proposto a credere per la prima volta, ma è un suggello posto alla fede tenuta sempre dalla Chiesa universale.

 L’IMMACOLATA DA’ PUBBLICA CONFERMA

   E la stessa Immacolata Concezione, a Lourdes, lieta della devozione rafforzata dai sommi Pontefici, di persona, con la diretta sua voce, si è degnata confermare la proclamazione dommatica della grande verità dell’immacolato suo concepimento come deciso nei divini progetti fin dall’eternità, e come dopo che era stato annunziato nel paradiso terrestre è stato attuato nel grembo della mamma della stessa Maria. Questa verità suggellata di certezza nella seconda metà del secolo XIX, ha avuto la sua conferma immediata nei prodigi dell’Immacolata, a Lourdes, luogo divenuto il centro di una glorificazione mondiale.

   Ritorniamo agli eventi. A Lourdes presso la grotta di Massabielle, alle falde dei Pirenei, il giorno 11 febbraio 1858, nell’ora del mezzogiorno, ricorrendo il giovedì grasso, la piccola città seguiva gli svaghi carnevaleschi. La pastorella Bernadetta Soubirous, era mandata dai poveri genitori a raccogliere legna in una piaggia dove coglievano i legumi, che erano il loro pasto giornaliero. Aveva fatto il suo fardello ed era sul punto di scalzarsi per guadare il fiume Gave.

   Ma ecco un soffio improvviso di vento si suscita intorno che fa temere che potesse venire un acquazzone e lei guarda le foglie agitarsi sugli alberi. Si accinge ancora a scalzarsi per il guado, e il turbine spira di nuovo. Al che la fanciulla alza lo sguardo. Allora è presa da piena meraviglia, cade in ginocchio: dentro la nicchia della parete rocciosa si è mostrata a lei una visione: era una giovane donna.

   L’ineffabile bagliore intorno alla persona apparsa non turba Bernadetta, né l’intensa luminosità ferisce i suoi occhi come farebbe di solito un simile splendore del sole. Vede un’aureola viva e mite, come fascio di raggi il cui splendore la invoglia a contemplare. Non gli appare una cosa fantasiosa, ma si rende conto di una realtà vivente, un corpo umano, una persona di comune statura, che si distingue soltanto per la sua aureola e per la sua bellezza. La sua veste è bianca come la neve delle montagne; una fascia azzurra, annodata a metà del corpo, scende in doppia lista sul candido vestimento. Dietro le spalle un bianco velo che avvolge le braccia, scende fino ai piedi sulla roccia, presso i rami di un rosaio. Sopra i piedi si aprono due rose di color d’oro.

   Non reca nessuno degli ornamenti usati per vanità. Nelle mani ha una corona i cui grani sono del candore del latte, e la catena è come oro smagliante. Con le verginali dita scorre i bianchi grani, senza muovere le labbra, e si inclina, attenta ad accogliere le preghiera che da tutti i punti dello spazio le giungono.

   Bernadetta, piena di stupore, reca la mano al suo rosario e vuole farsi il segno della croce, ma non riesce. L’apparizione celeste le sorride e con dolce maestà si fa il segno della croce e la mano di Benedetta, allora, fa lo stesso sacro segno, come portata invisibilmente dalla signora che prende a dire il Credo, il Padre nostro; poi al Gloria si dilegua nei cieli eterni dove la Trinità risplende nella sua gloria. In costei, tutte le bellezze umane risplendono emanate dall’eterna gioventù di Dio.

   La lieta notizia si sparse nella piccola città di Lourdes e la gente si affollava dietro l’innocente Bernadetta, che, quando poteva, si recava alla grotta di Massabielle. Durante l’apparizione, il popolo accorso nulla vedeva di meraviglioso, osservava i moti di Bernadette perché lei aveva la visione e ascoltava arcane parole che conservava nell’animo con indimenticabile gioia.

   La gente la sollecitava affinché chiedesse il nome alla donna meravigliosa. Venne il 25 marzo, solennità dell’Annunciazione, e quel giorno la portentosa visione avrebbe detto il suo nome. Era l’anniversario del grande mistero dell’incarnazione del Verbo e la Chiesa ripete: «Santa ed Immacolata verginità, come io renderò lode a te, poiché Colui che i cieli non possono contenere tu lo hai portato nel tuo seno?».

   Bernadetta gioiosa, di fronte alla grotta di Massabielle, appena si manifesta l’apparizione, cade in ginocchio. Allora si irraggia attorno un’aureola, il cui splendore è ineffabile. Bernadetta chiede: «Oh! mia signora, vi piaccia di dire chi siete e qual è il vostro nome». La Signora tiene congiunte le mani con lo sguardo rivolto cielo. La pastorella rinnova la richiesta. La bella Signora con le mani giunte ha nel viso l’irraggiamento splendido in una beatitudine celestiale. Bernadetta contempla. La sublime signora ad un tratto, disgiunge le mani, apre le braccia e le rivolge in giù come per mostrare alla terra l’effondersi delle benedizioni su tutti, dalle sue mani verginali. Poi le innalza e ricongiunge, guardando il cielo con sentimento di gratitudine e parla: «Io sono Immacolata Concezione».

E dopo sparisce dalla visione. Bernadetta guarda accosto a lei, la miracolosa sorgente che scorre in un rigagnolo che fa sentire il mormorio del flusso delle sue onde.

   Ecco adunque come a Lourdes dalla stessa Madre di Dio è chiaramente proclamato il suo Immacolato concepimento. Ecco la conferma che di persona l’Immacolata fa a quanto dichiarato dal Vicario di Gesù Cristo. Lei è davvero l’IMMACOLATA.

   E notiamo che la Vergine dice «Io sono Immacolata Concezione», non dice sono candida … ma io sono il candore. La purità è la sua propria essenza: lei è il concepimento incontaminato perché il Figlio divino vuole incarnarsi in modo verginale nel seno della Concezione Immacolata. Lei è tutto quello che all’inizio, nella genesi, era stata la specie umana, innocente e felice, come nel progetto divino.

    Pertanto Maria, nella grotta di Massabielle, ha proclamato il privilegio di Concezione Immacolata di cui Dio eterno l’ha incoronata, al di sopra degli angeli e dei santi. Quando lei ha lo sguardo elevato al cielo, sta contemplando la Trinità, Dio Padre di cui è la Figlia; Dio Figlio di cui è la Madre, Dio Spirito Santo di cui è la Sposa.

   Ma il serpente infernale non soffriva la sconfitta per tanta glorificazione di costei che lo tiene conculcato sotto il suo piede virgineo. Il maligno tornava a cagionare calunnie per distruggere la fede proclamata. Lucifero aizzava i suoi seguaci a gridare alla superstizione; e moltiplicava le nuove opposizioni. Ma l’avvenimento diveniva più ammirabile a causa dei miracoli che il popolo sperimentava dall’acqua prodigiosa dinanzi alla grotta di Lourdes, dove era scaturita la sorgente portentosa. Allora le persecuzioni e persino le violenze perpetrate finirono sopraffatte dagli strepitosi prodigi che illustravano Massabielle.

   E così l’Immacolata con l’eloquenza delle grazie si conferma e mostra ancor oggi a tutti che è gradito a lei questo titolo sublime che riunisce le sue prerogative e i suoi trionfi. La Trinità si compiace delle persone umili e compie in queste, per opera dello Spirito, le meraviglie delle grazie; segni dell’innocenza della Vergine Madre Maria che dona sempre ai suoi devoti un cuore umile semplice.

   Fiumi di popoli sono venuti affluendo da tutte le parti del mondo alla grotta di Lourdes, dalle lontane Americhe ed anche dall’estremo Oriente, a migliaia si muovono verso questo santuario, a professare la fede, e ammirare i portenti sui malati e per glorificare Dio nei privilegi dell’Immacolata. E’ noto che Lourdes riceve a migliaia malati, paralitici, storpi, ciechi, idropici, che chiedono la serenità dell’animo e la salute.

    Un grande numero di loro riportano miglioramenti e benessere, con sorprese per l’arte medica la quale con argomenti umani non sa spiegare tanti favori divini che pertanto vengono sfidati dalla scienza. Gli eventi richiamano a Lourdes le commissioni che fanno inchieste. I più insigni medici cercano una spiegazione, e non mancarono coloro che di fronte all’evidenza dei prodigi si sono ridotti, pur di negarli, ad ipotesi di autosuggestione, di ipnotismo o di altre nebulose teorie. Per comodità si disbrigano della realtà dei miracoli con vocaboli che ne negavano persino la possibilità. Chi vuol andare alla grotta di Massabielle conoscerà i benefici per gli infermi che nello spirito trovano pace e gioia nella grotta dell’Immacolata e ravvivano la fede.

   E l’apparizione sua nella grotta di Massabielle resta un segno celeste che contrasta le negazioni dei miscredenti, conforta la speranza contro le angustie di questa vita attraverso la carità nel cuore delle persone.

   La nostra tenerissima Madre dimostra come lei prende cura pietosa di tutti i figli sventurati di Adamo. Si pone vicina all’umanità, a Lourdes, per solo nostro conforto, per nostro aiuto e per nostra difesa. Maria, in questi nostri tempi, con le apparizioni, ha innalzato il trono della sua bontà e della sua misericordia per accogliere le preghiere di tutti i suoi figli spirituali che lei vuole consolare e rinfrancare. Oh! benedetto dunque ogni tempo quando l’Immacolata si mostra a noi in un luogo della terra! A lode dell’Amore misericordioso, la ringraziamo con la speranza di contemplarla poi nella serenità eterna.

                                        INVOCAZIONE

   Ora, ti contempliamo con la fede, o gioia del Paradiso, che vivi nella felicità eterna, mentre, sulla terra, noi, fiduciosi nel tuo amore, ci affidiamo alle tue preghiere. O benedetta fra le donne, noi vogliamo onorarti fra gli angeli e i santi, e vogliamo associare i nostri canti alle melodie dei cieli eterni. Dichiariamo, con immensa gioia: “Immacolata, tu sei Tutta Santa”.

   Siamo di fronte a te, o Madre di misericordia, e deponiamo ai tuoi piedi il nostro dovere di onore. A te ci rivolgiamo, perché vale più un tuo sguardo che tutti gli sforzi delle nostre parole. Benedici e metti nel cuore nostro la tua venerazione, il tuo amore, l’ispirazione per la via da seguire in modo che non sbagliamo strada. Siamo deboli e peccatori, o conforto dei pellegrini, fa’ che ci ravvediamo.

   O madre della speranza, guarda quanti fedeli ti vogliono amare per tutta la vita in modo da imitare gli esempi delle tue virtù. E noi, o Immacolata Concezione, ai tuoi piedi, offriamo la nostra fiduciosa ammirazione! Aiutaci ad amare la Parola, i Sacramenti, la Chiesa, i poveri. Da te, ausiliatrice dei cristiani, imploriamo la grazia delle grazie: la nostra conversione.

   Noi offriamo il nostro povero impegno, lo consacriamo a te, o amorevole Madre nostra; e rinnoviamo a te la solenne promessa di fedeltà. Ah! Ben altre volte, è vero, facemmo questa promessa di fedeltà, che purtroppo abbiamo tradito per nostra colpa; eppure, di nuovo, affidiamo alle tue immacolate mani i nostri affetti pieni di speranza: prendili per aiutarci a praticare la fedeltà a te e a Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro fratello.

   O regina degli apostoli, ogni comunità cristiana è sempre tua; ma se vi sono alcuni empii che ti bestemmiano e insultano il tuo glorioso nome, se, nell’ebbrezza del loro orgoglio, disprezzano il Vangelo e il sangue preziosissimo del tuo Figlio, tu implora perdono, o Vergine clemente. Vedi come il demonio attizza sempre l’odio, la falsità e il veleno negli animi! E tu, o Tutta Santa, con il tuo vergineo piede, schiaccia ancora e sempre il maligno. Devi farcela questa grazia.

   Intanto, o Madre della divina grazia, siamo certi che tu non abbandoni i figli tuoi. Potremmo perire? Nei tuoi occhi brilla la luce immortale della speranza, nei tuoi piedi spuntano le rose eterne del perdono di Dio. Regina degli angeli, innamora il popolo delle tue bellezze, metti in onore il tuo rosario.

    Tu stai oggi, o regina dei vergini, ad ascoltare i nostri pensieri di lode. O rifugio dei peccatori, porta i nostri cuori al cospetto di Dio e quando tu al tuo divin Figlio parli di noi, allora Dio ci accoglie con il suo perdono.

   O Immacolata Concezione, quando Dio ci vede accolti tra le tue braccia, ci tende anche le sue, e noi, o cara Madre di Gesù e nostra, dalle tue braccia, passeremo al bacio paterno di Dio.

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\\\ Digitazione di Albino Vesprini, dicembre 2021///

Testo derivato con elaborazione e aggiornamento del linguaggio da un manoscritto datato

“Villa Pilotti” Penna San Giovanni 8 dicembre 1904

« Jesus Maria Joseph – Immacolata Concezione»

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MONTELPARO (FM) NEGLI STUDI DI CROCETTI GIUSEPPE PER RIFERIMENTI STORICI FINO ALL’ETA’ DEI COMUNI

M  O  N  T  E  L  P  A  R  O

BIBLIOGRAFIA

LE FONTI

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N.G. TEODORI, Force nel Medioevo, Ascoli P. 1967

<PREMESSA: lo scrittore sacerdote Crocetti Giuseppe (1918-2000) nato a Santa Vittoria in Matenano e parroco a Monte Urano, dichiarava di godere per il patrimonio artistico e storico di Montelparo profuso un po’ dovunque nei palazzi e nelle chiese e in altre opere. Giovandosi di ricerche e di letture in diversi archivi e biblioteche ha esplorato molti rapporti di Montelparo con vari artisti, con l’Imperiale Abbazia di Farfa, con il monastero di Santa Vittoria in Matenano <per qualche decennio abbazia benedettina>, con il suo Presidato Farfense, con i Legati e con il Rettore della Marca. Sono apprezzate le pagine che egli ha redatto. Molte sue carte stanno nell’Archivio storico arcivescovile di Fermo (1). Auguriamo felice lettura di quanto qui estratto dai testi del Crocetti APPREZZANDONE LE CITAZIONI NELLE NOTE FINALI >

I

CENNI STORICI di MONTELPARO E DEI COMUNI VICINI FINO ALLE LIBERTA’ COMUNALI DEL SEC. XIII

   Il territorio di Montelparo certamente fu abitato nelle epoche protostorica e romana (2). La necropoli picena scoperta nel 1873 in contrada Celestrana testimonia la presenza di abitanti con la vita organizzata di provenienza pelasgica od etrusca (3). Non lungi dal confine di Montelparo, in territorio di Monterinaldo, la scoperta del maestoso tempio pagano (4), che si fa risalire al I secolo avanti Cristo, testimonia che in questa zona del Piceno, in epoca romana, repubblicana ed imperiale, pulsava la vita civile, e questo centro monterinaldese di culto era meta di pellegrinaggi da parte di famiglie e di gruppi sparsi nella zona, che in prevalenza abitavano le contrade più fertili esposte a sud-est, perché riparate dalle fredde correnti provenienti dal nord. Nel museo Pigorini di Roma ed in quello archeologico di Ancona si conservano suppellettili di notevole importanza archeologica con riferimento a diverse epoche dell’antichità: sono fibule, armille e pendagli estratti da tombe funerarie. Anche nell’area del nuovo campo sportivo, durante i lavori di scavo per effettuare il livellamento del terreno sono stati rinvenuti reperti che indicano presenza di insediamenti umani in epoca Picena e Romana.

   Documenti e monumenti del medioevo, anche se relegati in un grande silenzio testimoniano come la popolazione di queste zone era felicemente operosa nelle varie arti e mestieri.

   Allargando l’indagine si riassumono alcune notizie sui poderi Farfensi nelle diocesi del Piceno, dato che le testimonianze scritte altomedievali del territorio di Montelparo, specialmente del versante dell’Aso, provengono tutte dagli archivi dell’imperiale Abbazia di Farfa sita nella Sabina. Questo monastero laziale, secondo un’antica tradizione, fu fondato da S. Lorenzo il Siro, vescovo nel rietino nel corso del VI secolo. Sopraggiunta (nel 580 circa) l’invasione longobarda, i monaci furono dispersi e la costruzione andò in rovina. Alla fine del secolo VII un gruppo di monaci, reduci da un pellegrinaggio in Terra Santa, sotto la guida del francese Tommaso della Morienna, ricostruì gli edifici. La chiesa ebbe il nome di S. Maria in Acuziano, e il monastero S. Maria di Farfa, toponimo dal fiume che scorre vicino, a valle.

   La fama del risorto monastero accrebbe assai il numero dei monaci farfensi. Essi spesso furono intermediari per conciliare le vertenze conflittuali tra il papa ed il duca di Spoleto di parte imperiale, trovandosi il Monastero ai confini delle rispettive amministrazioni territoriali, e ricevettero aiuti, privilegi e protezione da entrambi. Il monaco farfense Marciano, che fu anch’egli pellegrino in Terra Santa con Tommaso, fu inviato dal papa a reggere, come vescovo, la diocesi di Fermo.

   Nel primo decennio del secolo VIII, il duca di Spoleto, Faroaldo II, assegnò al monastero farfense undici poderi curtensi, e ciascuna della superficie di undicimila moggi (o mogiuri) in diverse località. Queste “curtes”, legittimamente conferite e possedute dall’antichità, sono considerate da alcuni scrittori come “ il prestigioso feudo farfense” nei paesi dell’Appennino e nei suoi versanti sia tirrenico che adriatico (5). Al di qua degli Appennini, alcune di queste corti ricadevano nel Contado Fermano, «legalmente consegnate e possedute dall’antichità» (6), come si esprime lo storico dell’Abbazia di Farfa, Gregorio di Catino, nella sua Cronaca, quando elenca le possidenze «che furono poi disperse a causa della sottrazione fattane da persone inique» (7) soprattutto dal priore di Santa Vittoria in Matenano preteso abate, Ildebrando, a metà del secolo decimo.

   Tra le ‘corti’ cioè poderi con case, di fondazione del “feudo farfense” nelle Marche, attraverso documenti posteriori, ci sembra di poter riconoscere la corte di Mogliano di 11.000 moggi; la ‘corte’ di S. Marone, tra Belmonte e Monteleone, di 16.000 moggi; la ‘corte’ di S. Maria Matris Domini (=Madre del Signore), tra Ponzano, Petritoli e Monte Giberto, di 11.000 moggi; le ‘corti’ di Blotenano, Matenano e Montefalcone, lungo il versante sinistro dell’Aso, con il Monastero di S. Ippolito e S. Giovanni in Selva, di cui si hanno notizie sin dalla metà del secolo VIII (6).

   Gran parte dell’attuale territorio di Montelparo, per molti secoli, fece parte del «feudo farfense». Nei documenti dell’Abbazia, relativi ai secoli X, XI e XII, sono ricordate alcune corti particolari, quasi fossero un frazionamento della corte maggiore, o di fondazione, ricadenti proprio nel territorio di Montelparo. Vediamo di ricordarle nell’ordine cronologico dei documenti e, ove possibile, indicare la posizione geografica e la corrispondenza con le moderne contrade, sparse nel territorio montelparese. I testi più significativi sono anche confermati dagli atti notarili del «Codice Diplomatico di Santa Vittoria», pubblicato dall’abate Colucci nelle «Antichità Picene» (tomi XXIX e XXXI), nonché dalle «Pergamene» dell’Archivio Comunale di Montelparo (trasferite a Fermo).

.a- Il «Largitorio Farfense» ha una carta notarile dell’anno 926. Il documento dichiara che il diacono Oderigo Franco chiese all’abate Ratfredo la concessione a vita di 366 moggi di terra «in fundo Blotenano» e di 13 moggi «in fundo Casario», confinanti quasi da ogni parte con altri beni dell’abbazia di Farfa, impegnandosi il concessionario a corrispondere un canone annuo da versare nel castello del Matenano (8), che evidentemente cominciava a svolgere la funzione di «vicaria» di Farfa nel Piceno. Che il fondo, (o podere curtense) di Blotenano (o Plotenano) col suo castello, il suo villaggio (vicus) e la chiesa di S. Severino ed il fondo Casario erano siti in territorio di Montelparo, nel versante dell’Aso, come documentano alcune pergamene del «Codice Diplomatico di Santa Vittoria» (9) ed anche due pergamene di Montelparo, rispettivamente del 20.4.1279 e 10.5.1290. Il fondo Casario, probabilmente, corrisponde alla contrada «I Casali», nei pressi del fosso di Santa Maria che sfocia nell’Aso. In un manoscritto di Orazio Valeriani si legge che la chiesa di S. Severino era sita sul lato sinistro della strada per Monte Rinaldo in contrada «Bufine», probabile variante di Blotenano (10) nella contrada Cortaglie.

.b- Tra i beni dispersi dall’abate Campone nel 957 figurano 300 moggi a Feccline sull’Aso, 100 moggi in Emmiano, 42 in Casario e 30 in Collicello, dati a Rainerio di Adelberto con permuta onerosa (11). Le località di Emmiano, Casario e Collicello, per altri documenti del sec. X appartennero certamente al territorio di Montelparo. Quella di Feccline, probabilmente, era sita ad oriente, verso i confini con Monterinaldo.

.c- Nel luglio del 960 l’abate Ildebrando, che risiedeva a S. Vittoria, fece un’ampia concessione a terza generazione di 2.000 moggi di terra ad un tal Transperto d’Ingelperto; in questa carta sono menzionati circa trenta toponimi tra i quali Valle, Casario e Collicello (12). La contrada Valle è chiaramente localizzata nel privilegio imperiale di Enrico IV del 1084, ove si legge: «in Roncone (curtis) de Valle» (13); nonché negli «Statuti Comunali di Santa Vittoria», redatti nel 1446: nel riferire i confini territoriali con Montelparo dice: «Lungo l’Aso fino al fosso di Roncone, presso i confini di San Salvatore, quindi risalendo lungo la Valle di Giovanni di Bartolomeo raggiunga la strada di Montelparo sul Colle Gazinello, indi discenda per il Gaglianello e si rechi oltre Perito in contrada Ternano, verso Monteleone» (14).

.d– Nei diplomi di Ottone I ed Ottone III, rispettivamente del 967 e 998, unitamente alla ricordata «curtis de Blotenano», è nominata la «curtis de Sancto Antimo» (15).Quest’ultimo in origine poteva essere inglobata nella corte di Blotenano, poi, prese questo nome dopo che ebbe inizio la costruzione del centro di Montelparo con la chiesa ed il «vicus» dedicati a Sant’Antimo, santo particolarmente caro ai Farfensi (16). Donde ne deriva che risale al secolo X la costruzione del primo nucleo abitativo in cima al colle che diede origine al castello di Montelparo.

.e-  Lo storico di Farfa, Gregorio di Catino, nella sua Cronaca dedica un paragrafo ai possessi perduti tra la fine del secolo X e gli inizi del secolo XI. «Nel Contado Fermano… Gualcherio figlio di Ingelramo tiene ‘curte’ di S. Maroto e S. Gregorio a Ortezano con grandi pertinenze, la ‘curte’ di Feccline con le pertinenze, e Runcone e in Albangano e in Torrita… Il figlio Aderano tiene la ‘curte’ di Cerestano ivi» (17). Il podere curtense di Feccline era sito nel versante dell’Aso tra il territorio di Montelparo e quello di Monterinaldo; quello di Albaniano, o Alvagnano si presume che corrisponda all’attuale contrada di S. Maria, poiché in varie pergamene di Santa Vittoria e nelle ricevute delle «Rationes Decimarum» del 1290-92 è ricordata più volte la chiesa di S. Maria ‘de Alvagnano’, il cui rettore riceveva la nomina dal Priore di Santa Vittoria (18).

   Lo storico Pacini colloca la ‘corte’ di Torrita nella zona di confine tra Montelparo, Monteleone e Monsampietro Morico, ipotizzandone la identificazione con il castello «detto Torricella che è presso il torrente ‘Lubricu’» (ancor oggi), che era stato donato all’abbazia di Farfa da un tal Tedmario di Gisone nel 1019 insieme ad altri beni, posti al confine con una terra di un tal Gualcherio, quasi sicuramente il figlio di Ingelramo che si era impadronito di possessi farfensi contigui alle sue proprietà (19). Una contrada detta Torrecella esiste anche in territorio di Santa Vittoria nel sestiere di S. Croce, in una collinetta poco lontana dall’Aso. La Corte de Cerestano corrisponde all’attuale contrada solcata dal fosso Madonna della Celestiale, ove sussiste una chiesetta ricostruita, che nel dialetto locale è detta «Celestrana» e ricorda quella segnata nelle carte medievali: S. Maria de Cerestana.

.f – Nei diplomi degli imperatori Enrici, da quello di Enrico III (1050) a quello di Enrico V (1119) sono costantemente ricordati altri possessi farfensi ricadenti in contrade vicine o pertinenti all’attuale territorio montelparese. Si tratta di «’Corte’ de Cannitulo con un castello e la piccola ripa (Ripula)», S. Maria «in Casule con un castello et ara antiqua, ed il castello «de Tariamo» (20). La corte di Cannitulo richiama la contrada Cannigliette, o Ripa di S. Andrea, ad oriente del capoluogo; quella di S. Maria de Casule era in territorio di Monteleone; infine, il castello di Traiano sembra potersi identificare con la contrada Ternano di Santa Vittoria, sita al confine con Montelparo e Monteleone, ad oriente del corso del fiume Ete Vivo, come ricordato sopra.

   Gli storici sono consapevoli che questi diplomi dei secoli XI e XII, più che indicare un possesso reale, erano uno strumento giuridico per rivendicare l’inalienabile diritto dei Farfensi al possesso di diritti sottratti con ingiuste occupazioni e sopraffazioni. Ad esempio, è citata la «’corte’ di S. Maria Matris Domini» di Ponzano che certamente nel secolo XI era giuridicamente considerata «pieve» dal vescovo di Fermo.

.g – Nel «Codice Diplomatico di Santa Vittoria» si trovano altri documenti che riportano il nome del castello di Montelparo e di alcune sue contrade di campagna. Nel 1113 l’abate farfense, Berardo III, concesse in enfiteusi alcune possidenze monastiche, poste nel Fermano, ad Alberto di Azzolino, ai suoi figli e nipoti. Tra gli appezzamenti di terra concessi ne è ricordato uno posto lungo il Roncone: «Et in altro luogo detto Roncone, vocabolo Valle, terra estesa per misura di stari nove» (21).

   In un privilegio dell’abate Berardo V in favore del Monastero di Santa Vittoria dell’anno 1152, per ben tre volte ricorre il nome di Montelparo (Mons Elprandi) ed è la più antica testimonianza finora conosciuta. L’abate assegnò al detto Monastero, per il mantenimento e sostentamento dei monaci ivi residenti, le entrate provenienti “dalla ‘corte’ della stessa S. Victoria e di Montefalcone e di Monte ‘Elprandi’ e di castello Capistrelli provengono due parti… le decime tutte di frumento e di lino dalla ‘corte’ di S. Vittoria e di Monte Elprandi»”, «Inoltre in Monte “Helprandi” vi diamo un uomo per dover raccogliere la decima» (22).

Nel 1813 l’abate farfense Pandolfo concesse alcune possidenze del suo Monastero poste nel territorio di Móntelparo al signor Berardo de Dura Via: «bene di proprietà del santo nostro Monastero che est in territorio Firmano nella pertinenza di Monte ‘Helbrandi’, in loco detto Roncone, tenimento quod fu di Carbone di Janni per la pertinenza di costui ed altro “tenne in vita sua, terra” e vigna e selva et “salecta” (piccola sala =magazzeno) et corsi d’acqua e molini nell’Aso; da pedi Roncono et ha per confini da “capu ipsu Castellu”, da piedi il fiume Aso, da un lato Fluriano, dall’altro lato Colle Arsicio e fra isti confini giace questa terra» (23).

   Lo stesso abate Pandolfo nel 1192 ai fratelli Simone, Alberico e Rinaldo, figli di Ruggero di Alberico, concesse in enfiteusi a terza generazione (24): «i beni scritto sopra del nostro monastero posti in territorio Fermano in pertinenza di Monte ‘Elprandi’ e nello stesso castello: cioè due ‘masie’ (cascine) di uomini, cioè  iToseratio e i figli di Giso, beni con tutti i loro tenimenti e con tutte i loro servizi … concediamo a voi due molini nel fiume Aso presso il montem Cucumu (25). E concediamo a voi un campo in località chiamata Golficianu (26) una chiusa a Montecchio (27) con terra et vigne e selva … et concediamo a voi il  beneficio dove fuit Giovanni Rustici… Tuttavia non abbiate potestà di vendere, né di donare, né di cambiare, né trasferire nella potestà di altri se non soltanto per gli uomini nostri che abiteranno nel castello di Monte Elprandi. (28). Ogni anno all’Assunzione di Santa Maria,  o dentro la sua ottava, dovere dare tre denari Enrici di moneta alla chiesa di S. Vittoria a titolo di pensione» (29).

   In un documento che si può far risalire all’anno 1192, riguardante l’elenco delle famiglie che dovevano pagare il censo al monastero di S. Vittoria si legge: «In censo del castello di Monte ‘Elprandi’», segue un elenco di 53 famiglie, numero maggiore che non nella stessa Santa Vittoria dove le famiglie contribuenti erano solo 36. Nell’elenco dell’anno 1199 (circa), «nel censuario di Monte ‘Helprandii’» le famiglie contribuenti salgono a 59, per un totale della somma contributiva di 135 soldi e mezzo (30).

   Dai documenti selezionati e trascritti risulta che per oltre cinque secoli, dall’alba del secolo VIII agli inizi del secolo XIII, risultano poderi in quasi tutto il territorio di Montelparo facenti parte del ‘feudo’ dell’imperiale abbazia di Farfa. Si verificarono anche soprusi ed ingiuste appropriazioni. L’esame dei vari testi ci ha offerto una panoramica dello sviluppo estensivo dei vari possessi e una evoluzione sociale, graduale e progressiva, verificatasi nel corso di quei secoli. Prima si parla di «curtes», sinonimo di poderi con aziende agrarie; poi nella ‘corte’ si costruisce il castello omonimo «con castello», infine tra il secolo X e l’XI appare il «castello», cioè l’agglomerato di case delle famiglie raccolte nel perimetro di un nuovo sistema difensivo costituito sia dalla posizione naturale quasi inaccessibile, sia dalle mura castellane dotate di opportune fortificazioni, come suggerivano le necessità dei tempi. Alla fine del sec. XII (1192) si fa la distinzione tra gli uomini abitanti nel «castello di Monte Elprandi», dipendenti dal ‘feudo’ farfense (‘uomini nostri’), da altre famiglie gentilizie, collegate con i Signori di Falerone e rappresentate dai cadetti residenti a Belmonte e Chiaromonte (a sud est di Servigliano).

Il toponimo «Montelparo»

Sulla origine del toponimo «Montelparo» sono state espresse varie opinioni. Francesco Panfilo da S. Severino nel suo componimento poetico «De Piceni nobilitate et laudibus»(31) afferma che il nome di Montelparo derivi dal fatto che ivi si fronteggiano due colli di pari altezza: (tradotto) “Sta di fronte Elpero, in una forte altura che suscita speranza, che di fatto agli agricoltori produce molti cereali. Propinquo ad esso si notano i colli, i monti vicini, produttivi di messi per gli uomini di pari arte”. – «Spem pariens saxo contra sedet Elperus alto; \ Nam parit agricolis plurima farra suis: \ Aitquia vicinos montes, collesque propringuos \ Frugibus aequiparet, viribus, arte pari».-

   Lo scrittore Quinto da Quintodecimo considera un rapporto con il sacerdote Elperino, fatto vescovo di Ascoli nel 950; ma evidentemente si tratta di un errore in quanto Montelparo mai fu soggetto ad Ascoli.

Lo storico Luigi Pastori dedica un intero capitolo sulla etimologia di Montelparo e conclude dicendo che deriva dal «Monte di Elprando» scritto per esteso nel contratto enfiteutico del 1192; in seguito questo toponimo, scritto negli atti notarili con le abbreviazioni d’uso «Montis Elpri, o Elpi)» fu detto Montelparo, o anche Montelpare, o Monterebere come tuttora nel gergo dialettale.

   Chi fosse questo signore, di nome Elprando, non ci è dato di saperlo attraverso documenti storici. Il Pastori, come ipotesi di studio, dice che Elprando indica un nome longobardo, come Liutprando, Tachebando, Ildebrando, ecc., che sovente si incontrano in documenti prima e dopo il mille. Scrive considerando l’altura: «Questo signore, di nazione longobarda, resosi padrone di questo fondo, vi costrusse un castello all’uso di quei tempi, e colla signoria sopra d’esso da lui prese il nome di «Castello del Monte d’Elprando». Per quanto riguarda il plurisecolare possesso farfense, ancora come ipotesi, egli conclude: «Così conviene credere che il detto Signor Elprando, o alcuno dei suoi discendenti, in mancanza di successione donasse i suoi fondi col suo castello all’Abbazia stessa di Farfa» (32).

   Per quanto conosciamo dai documenti trascritti nel paragrafo precedente, lasciando insoluto il problema insoluto della genesi del toponimo, si può aggiungere dai documenti riprodotti che questa denominazione del «Montis Elprandi» più antica è da anticipare di ben quarant’anni, rispetto alla documentazione del 1192 prodotta dal Pastori, cioè all’anno 1152, in riferimento al privilegio dell’abate Berardo V in favore del Monastero di Santa Vittoria, inoltre tale forma è costante fino all’anno 1235, come risulta nell’atto di donazione di Cincio in favore della madre, Rubbata, di tre pezzi di terra siti « in tre luoghi … nelle pertinenze di Monte di ‘Elprando’ in luogo detto Roncone nel vico di S. Maria». Dopo quattro anni, nel 1239 appare la forma attuale di Montelparo, che si legge in un atto del Codice Diplomatico di S. Vittoria con cui la suddetta Rubbata, facendosi conversa del Monastero di S. Vittoria, sottoscrive una donazione dei suoi beni in favore di detto Monastero: «et una abitazione sita in ‘Montelparo’… e la vigna sita in Mandano nelle pertinenze di Monte di ‘Elparo’» (33) edita dal COLUCCI..

   Nelle pergamene di Montelparo del secolo XIII si alternano le diciture «Monte Elparo» e «Monte Elpero» indifferentemente. Anche oggi nel gergo popolare e dialettale risuona la seconda forma, nonostante che da più di un secolo sia stato ufficializzato il nome di Montelparo. In una pergamena del 1325, trascritta e pubblicata dal Tanursi, relativa al parlamento fatto presso l’accampamento militare dei Fermani sul Colle Lardone, si legge: «Redatto nel territorio della Terra di Monte ‘Erpero’». L’uso della r, «er» al posto della l «el» è frequente nel gergo popolare, come l’inserimento della «be» al posto della «pe»; questa seconda forma si legge nel coro di S. Maria nuova a Perugia, ove nel 1456 Mastro Paolino di Ascoli scrive che gli fu socio nei lavori d’intaglio «Johanne de Monterbero». Anche oggi non è infrequente sentire queste forme nelle espressioni dialettali.

Le antiche chiese di Montelparo

   In ognuno di questi poderi curtensi di proprietà monastica antica ed anche nei suoi successivi frazionamenti del podere furono erette piccole chiese per radunarvi i lavoratori ed i signori per il culto divino, presieduto dal proprio Rettore o Cappellano, nominato dal Priore dei monaci farfensi che risiedevano a Santa Vittoria in Matenano.

   Nel secolo XIII, tutte le chiese di Montelparo che conosciamo dai documenti, risultano soggette al monastero di S. Vittoria, al pari di quelle di Montefalcone. Nel territorio del comune di S. Vittoria, invece, le chiese site nelle contrade esposte al nord e ad est, cioè: S. Salvatore, Tasciano, Poggio, Monterodaldo e Campiglia erano soggette al Vescovo di Fermo.

   Un elenco delle antiche chiese di Montelparo ci è offerto da due importanti documenti. Il primo risale all’8 maggio 1257, quando l’abate di Farfa, Giacomo I (1253-59), su richiesta del sindaco di Montelparo, accorda a questo Comune ed ai Cappellani alcuni diritti sulle chiese esistenti in quel territorio; fra i quali il «diritto di seppellire e di portare i corpi delle persone nelle chiese predette». Prima di questa concessione, erano sepolti presso il Monastero di S. Vittoria; inoltre accordava il «diritto di trasferimento delle chiese…  riedificando quelle esistenti nel distretto di Monte Elparo all’interno del castello, o fuori attorno ai fortilizi del medesimo castello»; nonché il diritto «suonare (le campane) presso le chiese» per la S. Messa, l’ufficiatura delle Ore e del Vespro.

   Per queste concessioni il Comune di Montelparo si impegnò a versare all’Abbazia di Farfa ed al Priorato di Santa Vittoria 100 lire di moneta volterrana da servire «per i vestiti dell’abate stesso, del priore e dei monaci». L’atto fu stipulato a Montelparo «in un’abitazione del Monastero Farfense» (34).

   Il secondo documento è costituito dalle ricevute delle decime straordinarie imposte dal papa ascolano, Nicolò IV, per sostenere le imprese di Sicilia nel triennio 1290-92 <Razioni di decime dell’archivio Vaticano> (35). Questi documenti non furono noti al Pastori, primo storico di Montelparo che nel Capitolo V della sua opera dà notizie sulle chiese di Montelparo in base ai documenti degli archivi locali. Noi le esaminiamo seguendo l’ordine del primo documento, integrandolo con annotazioni riguardanti la collocazione geografica ed l’evoluzione storica.

.1. – S. Maria de Alvangiano (Alvagnano), o de Albaniano; risulta elencata nelle predette Razioni delle Decime con i toponimi Maria de Alviano, o de Alvignano, o de Allungano (nn. 7536, 7693, 7695, 7703). Come accennato sopra ( .e-) si suppone che originariamente fosse collocata in contrada S. Maria, forse, nei paraggi di S. Maria de Camurano. Il toponimo ci induce ad ipotizzare che quella contrada, piuttosto arida, fosse stata data in concessione in epoca romana imperiale ad uomini, liberi, poveri, detti «albani». Certamente il titolo fu trasferito in altra chiesa costruita nel centro abitato moltelparese dopo il 1257; chiesa ben distinta da S. Maria Novella. La soggezione al Monastero di S. Vittoria fu confermata nel 1334 dall’abate Giovanni IV (1330-45): «chiesa di S. Maria de Alveniano»; doveva essere tra le chiese con cura d’anime più importanti del paese, poiché è ricordata espressamente dopo S. Angelo in Castello e prima di S. Maria Novella e S. Angelo de Gaglianello (36). Nel 1348 fu aggregata al Monastero (Collegiata) di S. Angelo de Castello; nel documento si dice: «chiesa di S. Marie de Alvangiano sita in detta terra di Monte Elpero»; ove «terra» indica espressamente il centro abitato (37).

.2. – Sant’Angelo de Castello è la chiesa parrocchiale e matrice (primaria parrocchia) di Montelparo, posta in cima al colle del suo centro abitato, rione che si chiama tuttora «Castello». Soggiacque per molto tempo alla giurisdizione farfense amministrata tramite il Monastero di S. Vittoria. Nel 1348 divenne Monastero e Prioria farfense autonoma; il monastero fu soppresso nel 1628, e la parrocchia fu data ai sacerdoti secolari con nomina riservata all’Abate Commendatario Farfense (38).

.3.- San Severino: secondo una memoria del Valeriani, pubblicata da Amico Ricci, era sita alla sinistra della strada per Monte Rinaldo, nella contrada detta «Butinè»; in essa nel secolo XVII si raccoglieva la maggior possidenza dei Frati di S. Agostino di Montelparo; l’abitazione fortilizio detta castello fu trasformata in casino di campagna di spettanza dei medesimi Frati agostiniani; poco lungi si dissotterrarono molti cadaveri con anticaglie d’epoca precristiana. Al tempo di Gentile II, abate di Farfa (1247-50), fu ricostruita in paese «in località detta Tufu»; il Priore di S. Vittoria conservò il diritto di nomina dei cappellani e di percepire due terzi dei diritti di sepoltura (39), essendo chiesa parrocchiale. Nelle R.D.I. (n. 7720) si legge che D. Tommaso di Raniero, prebendato di S. Severino, il 12.4.1291, nella qualifica di procuratore e nunzio del Priore di S. Vittoria, si recò in Offida per le decime del terzo anno, imposte dal papa Nicolò IV.

   Agli inizi del Trecento appare unita alla chiesa parrocchiale di S. Angelo in Castello. Il santo titolare della chiesa, S. Severino, figura nel polittico di Niccolò Alunno, dipinto nel 1466: è il primo personaggio in piedi sul lato sinistro, con spada in mano (40).

.4. – S. Maria de Roncone nel castello rurale omonimo, lungo il versante dell’Aso. Ad essa fu unita la chiesa di S. Pietro de Roncone. In un documento del 1298 si dice che possedeva molini all’Aso, poi passati al Comune. Non figura nelle ricevute delle Razione delle Decime del Vaticano. In altro documento del 1303 si dice che la prebenda di S. Maria de Roncone era unita alla chiesa parrocchiale di S. Angelo de Castello.

.5. – Sant’Angelo di Galianello nella omonima contrada; nel sec. XVIII, a testimonianza del Colucci e del Pastori, vi si scorgevano piccoli avanzi di detta chiesa curata, che nel 1348 restò unita con le sue rendite alla Prioria parrocchiale di Sant’Angelo in Castello. In un documento del 1533 è detto che era sita «sotto la ripa di Monte Elpero».

.6. – Sant’Angelo de Capistrello nella omonima contrada, attraversata dalla moderna strada provinciale «Monto(tt)onese», ai confini con il territorio di S. Vittoria in Matenano. In questa contrada vi era un castello; due parti delle rendite patrimoniali nel 1152 dall’abate Berardo V furono assegnate in favore del Monastero di S. Vittoria (41). In seguito fu unita alla parrocchia di Sant’Angelo de Castello. Non si sono conservate tracce né del castello, né della chiesa. Non figura nelle ricevute delle decime del triennio 1290-1292, segno questo che era avvenuta l’accennata aggregazione.

.7. – S. Pietro de Roncone era rurale e fu trasferita ricostruendola al centro del paese nel 1286. La designazione del cappellano spettava al Monastero di S. Angelo Magno di Ascoli che nella contrada Roncone, ai Casali, ebbe varie possidenze; ma la conferma giuridica della nomina del cappellano suddetto spettava al Priore di S. Vittoria. Cfr. S. Maria di Roncone.

.8. – Sant’Antimo, probabilmente è da considerarsi la chiesa più antica eretta nel centro abitato di Montelparo, figurando nei diplomi degli Ottoni del secolo X la «curte de Sant’Antimo». Fu chiesa parrocchiale. Nel 1279, dall’abate farfense, Morico, fu donata ai Frati dell’Ordine Eremitano di S. Agostino, i quali la trasformarono in chiesa conventuale dedicandola a S. Agostino. Era sita a nord-est dell’antica piazza del castello, accanto al Palazzo comunale; entrambi gli difici furono gravemente danneggiati dalla frana del sec. XVII e dal terremoto del 1703.

.9. – S. Benedetto – S. Lucia: queste due chiese rurali, vicine tra loro, erano site nella contrada di S. Lucia, non molto distanti dalla chiesa di S. Maria in Montorso, esistente in territorio di Monte Rinaldo. Andarono distrutte in tempo indeterminato. Una cappella dedicata ai SS. Benedetto e Lucia fu eretta nella chiesa di S. Maria Novella, con proprio beneficio di collazione farfense fino al secolo XVIII (42).

.10. – S. Maria de Cerestana sorgeva nella omonima contrada, fin dal secolo XI, sulle sponde del fiume Aso, fu distrutta dalle alluvioni del fiume troppo vicino, fu riedificata in luogo più discosto dal fiume nel 1690. Corrisponde all’attuale Madonna della Celestiale, nella omonima attuale contrada (43).

.11. – S. Pietro de Catelliano, nella contrada omonima, un tempo aveva un proprio castello, sorgeva a nord di Montelparo e ad ovest di Monte Rinaldo. Nel 1242, distrutto il castello, gli abitanti si raccolsero in maggior parte in un rione all’interno del paese, che prese il nome di Catigliano che comprendeva la chiesa di S. Pietro e quella seguente. Il suo cappellano pagò le decime nel 1290.

.12. – S. Martino de Catelliano chiesta esistente ancora presso il cimitero di Monteleone. Un tempo il territorio di Montelparo si stendeva fin là (44); i montelparesi l’hanno reclamata per molti secoli. Nel 1265 altra chiesa con la stessa denominazione fu ricostruita in Montelparo.

.13. – S. Martino de Podio, chiesa diruta da più secoli. Il Colucci annota che il sito in cui sorgeva la chiesa era l’aia del beneficio di S. Maria de Montorso e che per pochi passi era esclusa dal territorio di Montelparo ed inclusa in quello di Montalto (45).

.14. – S. Maria de Montorso, esiste tuttora e si conserva nella sua identità di struttura e di sito in territorio di Monte Rinaldo, poiché da quella parte i confini territoriali tra i due comuni furono fissati come stabili solo nel 1507 (46). La nomina del suo rettore era di competenza del Priore di S. Vittoria, fino al 1747 (47). Nel 1290, il suo rettore, D. Giacomo di Bucchiano, pagò otto soldi per la decima straordinaria (N. 7550).

.15. – S. Maria Novella, tuttora esistente nel centro abitato, non figura nel primo documento perché fu costruita nella seconda metà del sec. XIII; pagò regolarmente le decime straordinarie del triennio 1290-92 (nn. 7535, 7694 e 7705). Fu chiesa parrocchiale fino al 1960 circa.

.16. – S. Pietro di Bucchiano, nel castello di Bucchiano, ad ovest di Monte Rinaldo, nella giurisdizione del vescovo di Fermo. Il rettore, D. Giacomo, ed il cappellano, D. Tommaso, pagarono a Fermo le decime relative all’anno 1290. Fu distrutta nel 1378 (48). In S. Gregorio si conserva una campana fusa nel 1354, proveniente dalla chiesa di Bucchiano.

Montelparo libero comune del secolo XIII.

   Come già riferito, il primo nucleo abitativo attorno al colle, denominato Montelparo, esisteva già nel secolo decimo con la chiesa ed il «vicus» dedicati a Sant’Antimo. In seguito si aggiunsero il castello e la chiesa di Sant’Angelo de Castello. Nel secolo XIII si accentuò il fenomeno dell’incastellamento delle famiglie dei signori di campagna ed il trasferimento dentro le mura castellane dei titoli delle loro chiese rurali.

   All’inizio, alla formazione del nucleo abitativo contribuirono uomini liberi: ex feudatari inurbati, artigiani, commercianti, liberi professionisti, ecclesiastici e nullatenenti. Uniti insieme in aggregazioni naturali, denominate «comunanze», «unione di convenzioni», e talvolta «università», erano comunità rappresentate dai loro sindaci e governate da propri «consoli» e formavano il «consiglio», organo rappresentativo della comunità.

   Questa nuova realtà che si sviluppò tra la fine del secolo XII e gli inizi del secolo XIII in quasi tutti i centri abitati del Piceno, si consolidò giuridicamente in modo stabile per le concessioni fatte dalle maggiori autorità locali: il papa, il vescovo di Fermo, l’abate di Farfa e il consenso estorto ai signori feudatari laici.

   Fermo ed Offida ottennero la libertà comunale dal papa, rispettivamente negli anni 1189 e 1192, per far fronte alle mire di espansione dei marchesi imperiali nel Patrimonio di S. Pietro. Il vescovo di Fermo fece varie concessioni di libertà agli uomini di Monte Santo (= Potenza Picena) in data incerta, attorno al 1178, ancora nel 1199, a quelli di Ripatransone nel 1205; a quelli di Montottone, nel 1217, diede facoltà di eleggersi il loro Podestà da scegliere tra i Fermani.

   Nel secolo XIII, per concessione dell’abate farfense, divennero comuni autonomi: Santa Vittoria prima del 1213: una pergamena del 30 agosto1213 dell’Archivio Comunale di Santa Vittoria in Matenano contiene una transazione tra l’Abate di Farfa e la Comunità di S. Vittoria da una parte, ed i figli di Milone dall’altra, in cui si stabilisce che i vassalli di questi ultimi, dimoranti in Santa Vittoria, abbiano la libertà di cui già godevano i vassalli dell’Abbazia ed il diritto di far «comunanza», come gli altri (49); Montefalcone certamente comune nel 1214 (50); Montelparo, probabilmente nello stesso decennio, infatti da un documento del Monastero di Sant’Angelo Magno di Ascoli Piceno risulta che nel 1222 era Podestà di Montelparo il monaco farfense Enrico da Cossignano, famoso giurista, che, poi, fu anche abate di Farfa (51); il più antico documento superstite dell’Archivio Storico Comunale di Montelparo, che risale al 1242, riferisce che in quell’anno fu podestà del comune montelparese Alessandro di Attuccio da Falerone (52). Il comune di Force, nel 1239, si ribellò alla sudditanza farfense per passare sotto la protezione del Comune di Ascoli, e, nel 1247, ottenne dal papa la facoltà «di fare comunanza e di vivere liberamente nella fedeltà e nella devozione alla Romana Chiesa, come gli altri castelli della Marca» (53).

   Non conosciamo quando Montelparo conseguì la facoltà di organizzarsi in libero comune. Leggendo alcuni passi dell’istrumento stipulato tra l’Abate Matteo I e gli uomini di Montefalcone, nel 1214, ipotizziamo sostanzialmente che fosse simile a quello stipulato in quei tempi con gli uomini di Montelparo, e possiamo farci un’idea della portata dell’avvenuta concessione, tramite reciproca intesa. ”Concediamo agli uomini di Montefalcone, nella persona di Gerardo da Valcaturio che li rappresenta, piena facoltà di eleggersi i podestà, consoli, giudice, notai e balivi; di fare leggi ed organizzare il governo del paese con piena libertà, come e meglio di qualsiasi altro castello meglio organizzato al di qua dai monti”.

   L’abate si impegna a rispettare i loro diritti e a non intervenire nel loro territorio, se non per difendere i loro uomini e le loro cose; ed aggiunge: «se qualche altro paese, eccettuata Offida, avrà qualche concessione più favorevole col passar del tempo, sarà concesso anche a voi». Non si fecero, né si imposero regalie; i cittadini avevano regalato all’abate il campo Vignola; l’abate lo accettò con gratitudine e non pretese altro dal comune.

   Nel suddetto documento sono chiaramente ricordati gli elementi costitutivi del comune medievale: l’abate riconosce il «Sindaco», personalità giuridica che cura gli interessi del comune ed interviene per esso nell’atto pubblico; dà facoltà di formare il «Consolato», ossia il consiglio di amministrazione; di eleggere il Podestà, gli officiali (giudici e notai) ed i messi comunali (bajuli).

   Si presume che anche gli uomini di Montelparo, intorno al secondo decennio del sec. XIII, ottenessero dal medesimo abate farfense, Matteo I, la facoltà di organizzarsi in libero comune. Però la piena libertà di governarsi autonomamente fu acquisita gradualmente ed a titolo oneroso, come avvenne per gli altri comuni limitrofi.

   Nelle concessioni fatte dal vescovo di Fermo, per le libertà comunali, si prescriveva che l’amministratore della giustizia (Podestà), i rettori e i consiglieri (e consoli, qualora fossero scelti tra forestieri, dovevano aver licenza del vescovo. E quando la città di Fermo vincolò a sé i vari castelli del Contado Fermano, si fecero solo parziali concessioni di autonomia. Nei comuni riconosciuti dall’autorità Fermano, la comunità locale aveva il suo Parlamento Generale, il suo Consiglio ordinario con i Massari e Sindaci, mentre la Città vi inviava un suo «Vicario» con funzioni podestarili per la tutela dell’ordine pubblico e per l’amministrazione della giustizia.

   I Signori di Amandola e di Penna S. Giovanni, negli anni 1248 e 1265 vendettero i loro diritti feudali ai rispettivi comuni, ma si riservarono il diritto di amministrare la giustizia per uno o più anni (54). La stessa cosa si era verificata in Montelparo, dato che nel 1222 vi ricoprì la carica di Podestà Fra Enrico da Cossignano, monaco farfense del Monastero di Santa Vittoria. Così pure Rinaldo da Castelnuovo, che nel 1242 aveva venduto il castello di Bucchiano al Comune di Montelparo, nel primo semestre del 1249 è Podestà di Montelparo.

   Nelle prassi comunale dell’epoca il Podestà, eletto generalmente per sei mesi, talvolta anche per un anno, nel corso del tempo assunse sempre più il carattere di rappresentante politico, perciò doveva essere persona gradita al Rettore della Marca, uomo di legge, forestiero, non imparentato con cittadini del luogo.

   Il nome del primo Podestà che figura nelle pergamene di Montelparo è un certo Assalto di Taffurio da Ascoli. Nel 1244 fu retribuito con 40 libbre di moneta volterrana, oltre il rimborso delle spese per missione in Osimo per conto del Comune e per la spedizione di suoi soldati a Faenza in servizio presso la corte imperiale. La concessione di libertà comunale di Montelparo fu ottenuta a titolo oneroso, come si legge nella pergamena locale del 26 febbraio 1257 quando Fra Leonardo, procuratore dell’Abate di Farfa, Giacomo, esentò il Comune di Montelparo dall’annuo censo di 50 lire e da tutti gli oneri feudali dovuti al Monastero.

   L’affrancamento da ogni giogo di servitù e di gabella avvenne dietro esborso da parte del Comune della somma di 1250 lire volterrane, (a fine secolo XX circa 40milioni di lire italiane (55). Intorno all’anno 1257 si verificò nel Fermano il fenomeno dell’annessione di tanti comuni dei castelli alla città di Fermo. Montelparo, invece, preferì restare comune autonomo, pagando saporitamente la sua libertà. L’affrancamento ottenuto dal Comune di Montelparo riguardava tributi, omaggi, regalie, prestazioni reali e personali.

   Nel contempo rimaneva invariata la dipendenza religiosa, o delle realtà spirituali, in riferimento all’Abbazia di Farfa e al Monastero di Santa Vittoria. Per tutto il secolo XIII e la prima metà del secolo XIV, per l’erezione di chiese, per la loro demolizione, per il trasferimento delle chiese rurali dentro il castello i montelparesi hanno dovuto richiedere l’autorizzazione agli abati di Farfa, mentre la nomina dei rettori, o cappellani delle loro chiese era demandata al Priore del Monastero di Santa Vittoria.

   Risale al maggio 1257, cioè tre mesi dopo l’affrancamento, la concessione fatta dallo stesso abate alla comunità di Montelparo di poter seppellire i morti nelle chiese del territorio. non più presso il Monastero di Santa Vittoria, come riferito a proposito delle antiche chiese (56).

   Nel 1260 l’Abate di Farfa, Pellegrino, concesse al clero ed al popolo di Montelparo un privilegio di assoluta esenzione dalla autorità del priore di S. Vittoria (527. Ma, circa un mese dopo, il Vicario farfense nella Marca annullò alcune concessioni fatte al clero ed alla comunità di Montelparo, come pregiudizievoli ai diritti del Monastero di S. Vittoria (58). Per queste contraddizioni i rapporti tra le autorità di S. Vittoria e il clero di Montelparo non furono sempre pacifici.

   Nel febbraio 1261 il papa Urbano IV pose l’Abbazia di Farfa sotto l’immediata giurisdizione della Sede Apostolica, concedendoli il privilegio «nullius diocesis», cioè Abbazia non soggetta a nessun vescovo; e nell’elenco dei possessi e delle chiese appartenenti all’Abbazia incluse il «Castello di Monte Elprando con le chiese, le ville e le pertinenze» (59).

   La struttura amministrativa del comune nel secolo XIII era simile a quella degli altri comuni della zona montana e dell’area farfense. Il Podestà era Rettore e Giudice, coadiuvato dal socio milite e dai balivi (uscieri e guardie comunali). Egli presiedeva i consigli per garantirne la regolarità ed amministrava la giustizia secondo le norme statutarie montelparesi, restava in carica per sei mesi, proveniva sempre da altro paese, al termine del mandato riceveva il salario pattuito che, ordinariamente, oscillava tra 40 e 50 lire.

   In un primo periodo la nomina del Podestà doveva essere confermata dal Legato Pontificio della Marca di Ancona. Sul finire del secolo XIII il papa Nicolò IV concesse a molti comuni marchigiani la facoltà di eleggersi autonomamente Podestà e gli officiali. Tra le prime concessioni figura la bolla in favore del Comune di Montelparo che reca la data 28 ottobre 1291. Il Podestà era competente a istruire, giudicare e sentenziare su tutte le vertenze giudiziarie, civili e criminali, eccettuati i crimini di lesa maestà, di omicidio, di adulterio, di rapimento di vergini, di incendio doloso e furto; per detto privilegio a questo Comune fu imposto il censo annuo di 34 lire ravennate (60).

   La convocazione del Parlamento Generale ci doveva essere per la riforma delle norme statutarie la convocazione del Parlamento Generale, che pur ci doveva essere per la riforma delle norme statutarie. Dalle pergamene, che generalmente fanno riferimento ad atti amministrativi relativi a possessi, non risultano notizie sul Parlamento. Più volte, invece, si parla del Consiglio Generale, specialmente nella nomina di «Procuratori» per la stipula di contratti per l’incastellamento dei signori rurali e dei loro vassalli; Questo Consiglio era formato da 100 uomini scelti in pari numero tra le quattro contrade, o quartieri: S. Angelo; S. Maria o del Mercato; S. Pietro; e S. Giovanni. Al Consiglio di Cernita, formato da 32 elementi, 8 per contrada, competeva l’amministrazione ordinaria.

   Il Sindaco era il rappresentante legale del Comune; il Massaro ne era l’economo; il Cancelliere fungeva da segretario; i Notai erano impiegati con distinte mansioni ed avevano rapporti di dipendenza alcuni col Podestà, altri dal Cancelliere. I Balivi erano impegnati in compiti diversificati; messi comunali, banditori, guardie per vigilare sull’ordine pubblico ed uscieri.

   Per diversi anni il comune di Montelparo non ebbe un suo Palazzo, cioè una sede fissa per gli organi amministrativi. Le assemblee consiliari si tenevano nella chiesa di S. Michele de Castello, o in case di privati. Nell’ultimo ventennio del sec. XIII con regolarità si tennero nella casa dei signori di Chiaromonte, che, probabilmente divenne la sede stabile del Comune (61).

   Dal punto di vista giurisdizionale, il Comune di Montelparo dipendeva dalla Sede Apostolica, per il tramite del Legato Pontificio nella Marca di Ancona. Nella lotta tra Guelfi e Ghibellini la comunità montelparese rimase fedele al papa; nel 1254 si oppose con le armi ad alcuni ribelli e nemici della S. Sede, ed avendo loro arrecati molti e gravi danni, fu da questi citata presso il tribunale del Rettore della Marca. I Montelparesi allora ricorsero al papa Innocenzo IV, il quale da Assisi spedì un breve al suo Legato nella Marca con l’ordine di non molestare in alcuna maniera il Comune di Montelparo per i danni arrecati a quei cittadini nemici e ribelli (62).

Intorno al 1275, per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia ed altre competenze territoriali proprie del Legato Pontificio la Marca di Ancona fu divisa in tre «Giudicature»: al nord «ludicatus S. Laurentii in Campo» dal fiume Esino fino ai confini con la Romagna; al centro: «ludicatus Camerini, Auximi, Humane et Ancone»; «ludicatus a fluminibus Salini, Tenne ac Tennacule usque ad partes Regni»’, che in seguito più comu¬nemente fu detto: Presidiato dell’Abbazia di Farfa, con sede a Santa Vittoria, presso il Palazzo Comunale, al piano superiore.

Il territorio di Montelparo fu compreso in quest’ultima circoscrizione giudiziaria; ad essa dovevano ricorrere i montelparesi per cause di appello, civili e criminali; nelle questioni circa i confini territoriali; per far autenticare copie di pubblici strumenti; per ricorsi contro le tasse imposte dal Comune; per pagare censi e taglie dovuti alla Sede Apostolica (63).

   Nei successivi paragrafi saranno riferiti alcuni interventi dei giudici del Presidato Farfense in controversie riguardanti l’integrità territoriale del comune, il trasferimento dei beni mobili degli immigrati che si incastellavano, emigrando da altro comune, per reprimere ogni appoggio che si desse a banditi e ribelli.

   Il Presidato Farfense col trascorrere dei secoli perdette lentamente la sua iniziale- forza giuridica di Curia Generale, per il progressivo accentramento delle pratiche presso la Curia del Legato Pontificio con sede a Macerata. Mentre gli altri Presidati svanirono sul finire del Quattrocento, quello Farfense funzionò fino agli inizi del pontificato di Sisto V (nel 1585). Nel primo anno del suo pontificato, il papa indirizzava un suo Breve «ai diletti figli, alla comunità, e alle persone del nostro Castello di Monte Elparo, nel Presidato Farfense». Ma l’anno appresso, 1586, cercò di dargli nuova vitalità, creando il «Presidato di Montalto» che durò fino all’istituzione del primo Regno Italico, al tempo di Napoleone.

                                                                      L’incastellamento

   Alla formazione del libero comune inizialmente no partecipò tutta intera la popolazione concentrata dentro le mura del castello, ma solo una parte. L’organizzazione comunale conferì grande forza morale e sicurezza difensiva alla generalità dei suoi abitanti e residenti. I nobili signori di campagna progressivamente nel tempo rimasero isolati ed indifesi, facile preda di scorrerie militari da parte degli imperiali e dei fiancheggiatori ghibellini (64).

   L’istituzione del libero comune contribuì notevolmente al cambiamento della condizione sociale di molte famiglie. Tra le sue finalità istituzionali non ultima era quella dell’ampliamento del proprio territorio e l’accrescimento della popolazione urbana per i conseguenti miglioramenti tributari. Questo processo avveniva a scapito dei vari signorotti di campagna che possedevano i loro poderi curtensi (curtes) nell’ambito dell’originario territorio del comune. Gli amministratori comunali costringevano costoro, persino con l’esercito e con la violenza, a cedere l’antica giurisdizione feudale e ad inurbarsi nel centro abitato con i propri vassalli. Quando il signore di campagna chiedeva di rifugiarsi in paese, trovava accoglienza e protezione dall’amministrazione comunale, mediante il contratto di incastellamento (“fare castellania”), col quale ordinariamente il comune concedeva al signore un’esenzione dai tributi, almeno per un certo numero di anni, una casa dentro le mura del castello, o il materiale, e lo spazio per costruirla ed un orto. Era norma abituale che dalla nuova sede il proprietario inurbato potesse controllare a distanza le attività svolte nei campi donde era partito. Ai signori di Catelliano fu concessa un’intera contrada del paese che prese il loro nome, nella quale poterono costruire una loro chiesa.

   Come contropartita per l’incastellato il Comune dava ai signori alcune prestazioni personali, armi e cavalli per la comune difesa in tempo di guerra; per assicurare che i prodotti delle sue terre rimanessero nell’ambito del comune; per finire con il cedere al comune, previo pagamento di una somma convenuta, ogni diritto sui suoi beni e sulle famiglie dei lavoratori (65). I servizi gratuiti che i vassalli sottoposti e i servi della gleba avevano prestato al loro signore, conseguentemente ai patti, venivano dati al comune che li aveva resi liberi.

   I vassalli potevano continuare a lavorare per il vecchio padrone, ma non gratuitamente; il lavoro doveva essere adeguatamente ricompensato in giornata; e contro eventuali inadempienze ogni cittadino trovava giusta difesa presso la curia del Podestà.

   In questa nuova situazione il signore di campagna non perdeva la sua funzione politica e sociale, ma, per quanto è logico pensare, una volta inurbato, entrava a far parte dei cavalieri dell’esercito comunale con competenze dirigenziali, ed essendo formato da una secolare tradizione amministrativa, veniva naturalmente a far parte del ceto dirigente del comune. Una ventina di pergamene dell’Archivio Comunale di Montelparo documentano l’incastellamento di alcune famiglie rurali. Eccone un breve elenco, riassumendone il contenuto, poiché documentano i primi passi del nostro libero comune.

   II 24 febbraio 1242 Marco di Tebaldo da Catelliano promette ad Alessandro di Attuccio da Falerone, Massaro e Rettore di Montelparo, di inurbarsi con la sua famiglia e tutti i suoi beni mobili ed immobili e di prestare giuramento di sudditanza al Podestà, e di corrispondere le collette al pari degli altri abitanti (66). L’8 luglio 1242, Ruggero, figlio del defunto conte Ferro, vende al procuratore del Comune per 100 lire una casa, un orto, dieci mansi con i rispettivi lavoratori livellari (per contratto di livello) esistenti nel castello di Bucchiano con l’impegno di farli abitare in Montelparo (67).

   Il 24 novembre 1242, Rinaldo e Gentile, figli del fu Giacomo di Fratre, a nome proprio e del loro fratello Giberto, si impegnano con il procuratore del comune a fare incastellare in ‘Montelpero’ alcuni livellari della corte di Bucchiano di loro proprietà, ed in cambio dovevano ricevere la protezione da parte del Comune. La cessione era a titolo oneroso. Nel 1245 i suddetti rilasciano ricevuta di una rata di 80 lire (68). Il 15 gennaio 1245, Ruggero da Castelnuovo ed il figlio Ferro vendono al Comune di Montelparo i loro beni immobili ed i livellari dei castelli di Bucchiano e di Pastina per la somma di 1000 lire volterrane (69). Il 12 maggio 1264 il Consiglio Generale ed il Podestà di Montelparo nominano loro procuratore Bonaggiunta di Gisone di Benedetto per ottemperare a tutte le formalità richieste dalla legge locale per incastellare Matteo, Paganuccio e Federico Vinciguerra; Trasmondo e Ruggero di Leto da Chiaromonte, proprietari di metà della corte di Torre di Casole, oggi Monteleone, dietro pagamento di 550 lire. L’anno seguente il suddetto Ruggero di Leto completava l’atto di incastellamento, cedendo tutti i suoi beni e le sue competenze giuridiche nei territori di Torre di Casole e di Montelparo, dietro compenso di 137 lire. La corte di Torre di Casole e di Montelparo, dietro compenso di 137 lire. La corte di Torre di Casole apparteneva ai Signori di Chiaromonte, colle a sud-est di Servigliano, cioè: Ruggero di Leto, Gualtiero di Alistrante, Risabella figlia del fu Corrado. I Signori di Chiaromonte possedevano in Montelparo anche una casa, usata dal comune per le riunioni del Consiglio, ma nonrisulta che vi fissarono la loro residenza, dato che nessuno di essi compare mai come testimone, né come attore nei documenti montelparesi (70).

   L’8 gennaio 1268 avvenne l’incastellamento di Suppolino di Giorgio da Fermo e della moglie Anfelisia, con i loro beni e i vassalli nella corte del diruto ed incendiato castello di Catelliano, facendo obbligo a non ricostruire detto castello in pregiudizio e danno del Comune di Montelparo. Per i danni precedentemente arrecati alle case ed alle persone Guamerio e Guglielmo, rispettivamente marito e figlio della suddetta Anfelisia, il Comune corrisponde in due rate la somma di 100 lire volterrane (71).

In data 1 agosto 1269 si registra l’incastellamento di Marco di Pietro da Catelliano, dietro esborso di 180 lire da parte del Comune. Facendo eccezione alle leggi statutarie, si concedeva la facoltà, a sua scelta, di abitare anche a Fermo, e l’esenzione per sé e per i suoi eredi dal combattere contro la città di Fermo, qualora il Comune di Montelparo avesse sostenuto una guerra contro questa città. Documenti successivi riferiscono che i rapporti tra il Comune di Montelparo e gli eredi di Marco, cioè la vedova Contadina ed i figli, furono pieni di tensioni per ratei non corrisposti in tempo debito dal Comune (72).

   In occasione dell’incastellamento non si potevano trasferire nel comune di nuova residenza i beni mobili posseduti in altro comune. Questa norma singolare emerge da un atto del 3 novembre 1291 del giudice del Presidiato Farfense, Giorgio di Lorenzo da Tivoli, il quale ordina ai signori amministratori di Monte Rinaldo di proibire ai rappresentanti di Pucciarone, diventato cittadino di Montelparo, di esportare da Monte Rinaldo a Montelparo i beni mobili di costui. La sentenza fu confermata da Malomo, Podestà di Fermo, al quale si era rivolto lo stesso Pucciarone, dato che Monte Rinaldo si trovava sotto tale giurisdizione (73).

   Il Comune, inoltre, non perdeva alcuna occasione alcuna per consolidare ed ampliare i suoi possessi in terre e case, non solo nell’ambito territoriale di Montelparo, ma anche nei comuni confinanti. Nel 1267, per 50 lire di moneta corrente acquistava da Gualtiero di Alistrante da Chiaromonte le sue proprietà immobiliari con i suoi lavoratori, site nelle pertinenze di Torre di Casole (74). Nel 1291, Pucciarone di Giuliano, insieme con i suoi fratelli Federico ed Anselmuccio, vendeva al Comune di Montelparo per la somma di 800 libre di moneta corrente, una casa, diversi appezzamenti di terra, una vigna ed un orto, siti in territorio di Monte Rinaldo, tra il fosso Ilico (= Indaco) ed il fiume Aso (75).

   Nel 1294 il Comune montelparese prendeva possesso delle chiese di Sant’Angelo in Capistrello e di S. Maria di Scerestana (= S. Maria Celestiale) e dei rispettivi beni, già proprietà del fu Andriolo di Guglielmo di Ascaro, inoltre acquisiva alcuni appezzamenti di terra, case e mulini sull’Aso (76).

   Le pergamene montelparesi registrano anche atti con cui il Comune prende in affitto case e terreni, oppure procede alla vendita di case site nel centro abitato. L’economia del comune era basata principalmente sul gettito delle imposte pagate dai proprietari terrieri, sulla tassa del focatico (o del fumante) e sui proventi derivanti dal macinato. Per assicurarsi quest’ultima entrata gli amministratori comunali, nel 1298 si preoccupavano di acquistare dai rispettivi proprietari ben cinque mulini, posti lungo l’Aso ed il Roncone (77).

   Nonostante tutte le buone intenzioni che gli amministratori mettevano nel curare la prosperità del comune, non sempre conseguirono la pace e l’armonia tra i cittadini. Non fu cosa certamente facile ottenere la concordia e convivenza pacifica tra tutti i diversi residenti e abitanti. I nobili incastellati, abituati a comandare, miravano sempre più all’affermazione del prestigio del loro casato; mentre gli artigiani ed i liberi professionisti, che si consideravano i fondatori del libero comune, non volevano essere sopraffatti dalle famiglie incastellate.

   Alcune pergamene riferiscono glii atti giudiziari emessi dalla Curia del Presidato Farfense per furto in qualche bottega (78), per rissa fra cittadini, e cose simili. Un rotolo membranaceo, lungo 190 cm., riferisce con molti particolari le scuse e le difese del Sindaco di Montelparo, Giovanni di Pasquale, presso il suddetto Presidato per fatti di sangue ed eccessi verificatisi nel suo territorio ad opera degli abitanti di Bucchiano, onde ottenere la sospensione dell’inchiesta, promossa per competenza da quella Curia (79). Si conserva anche una ricevuta del 10.8.1301, rilasciata dal Tesoriere della Marca di Ancona a Mastro Lorenzo da Foligno, Cancelliere del Presidato Farfense, per conto del comune di Montelparo che era stato multato e condannato per aver dato ricetto a due banditi di Rovetino (80).

                L’antico convento dei padri Agostiniani (75bis)

   Concomitante alla formazione dei liberi comuni fu la diffusione degli ordini mendicanti: francescani, agostiniani e domenicani. A Montelparo nel 1259 erano presenti una comunità religiosa francescana ed una agostiniana: ricevettero lasciti nel testamento di un certo Andreolo di Rinaldo (81).

   La primitiva loro residenza fu certamente in campagna, in ossequio alla fondamentale scelta eremitica, cui univano un apostolato deambulante di casa in casa. Il Pastori dice che il luogo dei Frati Minori fu alle «Macchie» che era distante per un miglio dal centro abitato; però non vi dovettero restare per lungo tempo. Solo più tardi i francescani del Terz’Ordine Regolare verranno a stabilirsi presso la chiesa di S. Maria in Camurano, alla metà del Cinquecento, e vi resteranno fino al sec. XVIII.

   Per quanto riguarda la prima residenza dei Frati Eremitani di S. Agostino, si suppone che fosse stata presso la chiesa semiabbandonata di S. Severino, in contrada «Butinè», lungo la strada che conduce a Monterinaldo; in quel luogo gli agostiniani ebbero la maggiore estensione delle loro possidenze con annesso casino fino alla loro soppressione, nel sec. XIX. Più tardi, essendo quel luogo esposto alle scorribande dei soldati di opposte fazioni, sull’esempio di altre comunità religiose, decisero di trasferire la loro residenza nel centro abitato. Il 19 marzo 1279, l’abate di Farfa, Morico, donò loro la chiesa di Sant’Antimo, sita sulla parte alta del castello. Per dote e mantenimento della cura d’anime assegnò una vigna «in località detta Leguni», ossia «Liù». Di questa concessione esistevano nel convento le pergamene con gli atti notarili originali, lett dal Pastori (82).

   Intorno al 1290, nel sito urbano assegnato, gli agostiniani intrapresero l’ampliamento della chiesa  a cui era annesso il loro convento, dedicato a S. Agostino. In quel tempo i religiosi ricevettero diverse donazioni in case e terreni di cui il Padre Provinciale della Provincia Fermana, Fra Urbano da S. Giusto, autorizzò la vendita per utilizzare il ricavato in moneta sonante nel finanziamento della intrapresa costruzione (83).

   Una relazione del 1650 ce la descrive così: «La chiesa di S. Agostino è sita dentro la Terra di Montelparo, a capo della Piazza. Dentro vi sono sette altari: nell’altare maggiore, dedicato a S. Agostino, si conserva il SS.mo Sacramento; gli altri altari, disposti nelle cappelle alle pareti laterali, erano dedicati a S. Stefano, S. Monica, SS.mo Crocifisso, S. Nicola di Tolentino; seguivano quelli della Pietà e della Madonna della Consolazione; questi due ultimi erano gestiti dalle proprie Confraternite.

   Il convento ha un impianto largo 80 piedi (= 34 metri) e lungo 45 piedi (= 19 metri). Ha nella parte di sotto, ossia piano terra, sacrestia, cantina, refettorio, cucina, dispensa legnaia e granaio. Nel chiostro, in mezzo, una cisterna che non tiene acqua per una voragine che divide sacrestia, chiesa e convento; la quale continuamente cagiona rovine. Si ascende al piano superiore, dove c’è il dormitorio, per una scala. Lungo i corridoi sono disposte quattro o cinque camere per ogni lato con libreria e granaio dalla parte del chiostro. All’esterno si stendeva l’orto» (84).

   L’antico convento agostiniano di Montelparo fu ritenuto di notevole importanza: lo dimostra il fatto che in esso si tennero tre Capitoli Provinciali: nel 1341, 1498 e 1541. Il Priore e un religioso, cioè due religiosi per ogni convento agostiniano delle Marche partecipavano al Capitolo, per più giorni. Per una piccola Terra come Montelparo era un grande onore ospitare un Capitolo Provinciale.

   Ordinariamente la famiglia religiosa montelparese era formata da 10-13 religiosi, tra sacerdoti, conversi e studenti. Molti religiosi montelparesi furono apprezzati professori nelle scuole e nelle università del tempo, altri occuparono i più alti gradi della gerarchia dell’Ordine di S. Agostino, come i Priori Generali Fra Gregorio Petrocchini, elevato alla sacra porpora del papa Sisto V, e Fra Fulgenzio Travalloni.

   Molti giovani montelparesi usufruirono di una ricca borsa di studio, fondata nel 1512 da Fra Mario Marcolini, religioso offidano e figlio del convento di Montelparo; con le rendite di un terreno, sito in Offida, si assegnavano 4 ducati d’oro all’anno ad ogni giovane religioso professo, figlio dello stesso convento di Montelparo, per otto anni continui; inoltre 25 ducati d’oro erano dati «una volta per tutte» a ciascun religioso montelparese che fosse giunto a conseguire la laurea magistrale (85). Per questo lascito molti religiosi montelparesi frequentarono gli Studi Generali dell’Ordine in altre provincie e nelle università, ivi compresi gli illustri personaggi ricordati sopra.

   Purtroppo, chiesa e convento erano impiantati su terreno soggetto a slittamento verso nord-est. La voragine sotterranea, segnalata nella relazione del 1650, nell’anno 1683 causò il diroccamento della parte nord-orientale del centro abitato; nel 1686 gli agostiniani incominciarono una nuova costruzione dell’edificio del loro convento in altra parte del paese. L’antico fu devastato dal terremoto del 2 febbraio 1703. Fra le macerie della sacrestia trovò la morte il P. Maestro Alessandro Travalloni, ivi sorpreso mentre nei consueti riti, dopo aver celebrato la Messa della Candelora (86).

                                        I possedimenti del monastero di S. Angelo Magno

   A Montelparo esistevano due parrocchie e alcuni poderi appartenenti al Monastero femminile di S. Angelo magno di Ascoli Piceno sin dalla seconda metà del secolo XII (87). Nel diploma imperiale di Enrico VI, del 1187 si legge una conferma generica di quanto posseduto dalle religiose nel Comitato e nella Città di Ascoli, e in quelli di Fermo «e quanto possedete nel distretto dell’Abbazia di Farfa». L’enigma di quest’ultima indicazione è sciolto dal privilegio di Innocenzo III del 1199: «Nel Comitato Fermano (vi confermiamo) la chiesa di S. Pietro presso Roncone con la sua parrocchia, un campo in Rotiliano e un campo da Valle S. Martino, la chiesa di S. Silvestro con la sua parrocchia e il campo vicino alla prenominata chiesa, e il campo Polisiano».

   In un documento del 1235 si precisa che la chiesa di S. Silvestro era nelle pertinenze di Poggio Fantolino. Il Pastori ricorda che la chiesa di S. Martino era in contrada Sala, mentre nella contrada Cocciarella esisteva una chiesina dedicata alla Madonna Polisiana (88). Dalle pergamene del Monastero ascolano di S. Angelo Magno si rileva anche che nell’anno 1200 l’abbadessa Marsibilia concesse in enfiteusi ad Ogicio Pavimelda un terreno sito in contrada Roncone; nel 1273 il detto Monastero, tramite un proprio procuratore, fece una permuta di terre in contrada S. Lucia di Bucchiano, distretto di Montelparo.

   Nel 1286 il Monastero di S. Angelo, passato alle Clarisse, chiese al Vice Legato della Marca anconetana, residente a Macerata, la facoltà di trasferire dalla campagna il titolo della chiesa di S. Pietro de Roncone e la parrocchia in un piccolo oratorio, esistente dentro le mura del castello di Montelparo; la richiesta fu motivata dal fatto che, essendosi incastellati gli abitanti di quella contrada, per loro era molto disagevole scendere alla propria chiesa parrocchiale per assistere ai divini offici, specialmente nei mesi invernali. Successivamente, presso l’oratorio costruirono un piccolo monastero femminile.

   Contrariamente a quanto affermato da alcuni storici, sulla chiesa di S. Pietro in Montelparo la badessa di S. Angelo Magno esercitava solo un diritto di patronato per cui proponeva il nome del Cappellano all’abate di Farfa, che provvedeva alla nomina giuridica essendo giurisdizione della «Abbazia ‘nullius’ Farfense» non sottomessa ad alcun’altra diocesi: lo testimoniano in forma esplicita alcune pergamene inedite del Codice Diplomatico di S. Vittoria del sec. XIV e due documenti del 1524 dell’Archivio di S. Angelo Magno, al tempo in cui il detto Monastero dal papa Pio II era stato assegnato ai PP. Benedettini Olivetani. Questi nel 1555 unirono la chiesa di S. Pietro con quella di S. Silvestro, a Poggio Fantolino, esistenti nelle pertinenze dei loro beni, per cui prese titolo di S. Pietro e S. Silvestro, come documenta un’iscrizione tuttora esistente.

   Dal Catasto del 1783 si rileva che il grosso dei possedimenti, cioè un corpo unito di 293 mogiuri, (circa ettari 52,75), era in contrada «Casale», nel versante dell’Aso (89).

   La Biblioteca del Convento di San Nicola da Tolentino a Tolentino (MC) ha raccolto un’ampia bibliografia agostiniana. Auguriamo agli studiosi di ampliare le ricerche storiografiche (90).

UN ARTICOLO SULLA PROTOSTORIA EDITO NEL 1873

Preistoria

La necropoli di Montelpare e l’età Pelasgica nel Piceno

Nello scorso anno (1872) venne a mia conoscenza come si era scoperta a Montelpare una antica Necropoli, e poco appresso ne leggevo una relazione nel giornale fermano che si intitola: «Il Piceno». Il desiderio di studiare questo monumento che si riferisce alla storia dell’intero Piceno e rivela il costume di un’epoca assai remota e civile mi determinò a portarmi sul luogo dove avvenne la scoperta in compagnia del bibliotecario comunale, l’egregio amico G. Gabrielli; ed ecco quel tanto che ne fu dato osservare.

Tutti gli oggetti raccolti in questa Necropoli vennero dal proprietario, Sig. Sgrilli, ordinati in una camera di quel Municipio. Essi consistono in una completa collezione di fibule in bronzo e in ferro, quali di ambra e quali di eleganti pendenti di rame adorni: vasi di terracotta, ed utensili da cucina in rame, alcuni dei quali muniti di ansa di ferro. Avanzi di collane a pendagli: orecchini con ambra, o conchiglie cipree: impugnature di varie armi in bronzo; frammenti di corazza di rame; vari braccialetti che servirono a circondare gli avambracci; lame di spadoni, di pugnali e di coltelli e molte asce ed accette e filetti di cavallo in ferro; collane di ambra, di vetro e di bronzo; e finalmente parecchi grossi e pesanti anelli metallici, dei quali non può determinarsi l’uso.

Tutti questi oggetti rappresentano le tre sole età del bronzo, del ferro e del rame; cioè a dire un’epoca storica, nota appena per la sola tradizione.

Secondo quanto ci disse il cortese Sig. Sgrilli, questo sepolcro venne scoperto casualmente. Lavorandosi il terreno alla profondità di quasi due metri, si giunse a conoscere che in molti punti questo si avvallava sotto i piedi dei lavoranti. Allora egli faceva scavare pochi centimetri più sotto e trovava parecchi semicerchi di ferro, circondati da legni infradiciati e cedenti al peso lor nuovamente sovrapposto. Rimossa la terra, si rinvenivano scheletri, volti all’oriente, che tosto polverizzavano al contatto dell’aria e, intorno ad essi, i sopradescritti oggetti che venivano da lui cautamente raccolti e custoditi. Nessuna moneta, nessun oggetto d’oro o in argento gli venne fatto di rinvenire in più di cento tombe scoperte.

Sotto la testa di qualche guerriero trovava un anellone, del quale appunto abbiamo detto di non conoscere l’uso, e soventi volte intorno allo scheletro erano accumulate ossa di cavalli, di montoni, o di altro animale.

È cosa quasi impossibile rintracciare qual razza di popolo abitasse primitivamente la contrada, che poi si appellò al Piceno. Le armi di pietra, questi avanzi della prima industria umana, ritrovate nella valle del Tronto ed in quella della Vibrata, accertano l’esistenza di una popolazione antichissima che occupava questa regione, prima che altri popoli la conquistassero; ma investigarne il nome e le gesta sarà sempre una difficoltà insuperabile per qualunque archeologo. Si ha, poi, tutta la certezza (vedi C. BALBO, Meditazioni, e G. MICALI, L’Italia avanti il dominio dei Romani) tradizionale della comparsa in questa regione dei Pelasgi, così appellati dal semitico nome «phaleg», che significa dispersione: vaganti e dispersi erano essi che vi arrivaro¬no seicento anni prima della fondazione di Roma, e millequattrocento anteriormente all’era volgare. Ora a questo popolo Asiatico, agguerrito e già maturo nell’industrie, possono appartenere le Necropoli pur ora scoperte a Colli del Tronto, a Cupramarittima, a Montedinove e a Montelpare. Le due prime già furono descritte dal chiarissimo archeologo, Cav. Concezio Rosa e dal suddetto Gabrielli, i quali ammisero, in pieno accordo, un’epoca ante-romana per gli oggetti in esse ritrovati.

Quella di Montedinove, in prossimità del Tesino, non è ancora ben conosciuta, perché ciò che vi fu raccolto andò per la maggior parte in dispersione. Il Museo Archeologico di Ascoli ne Acquistò qualche avanzo che, tuttavia, basta ai confronti con le accennate due Necropoli, e a stabilirne la contemporaneità. L’ultima, ossia quella di Montelpare, venne descritta, come si è detto, nel periodico «Il Piceno», e si fa appartenere ad epoca romana, opinione motivata forse dall’avere osservato fra quei resti una lamina di metallo, ove è ritratta la «Lupa Romana».

Tale lamina, però, lo stesso Sgrilli confessa di avere acquistato e non aver trovato negli scavi. È mia opinione, invece, che corra tanta analogia fra le antichità dissotterrate a Montelpare e quelle delle altre tre Necropoli anzidette, da potersi ritenere, quasi con certezza, che tutte si riferiscono ad una medesima età.

Negli scavi Felsinei si sono trovati scheletri che avevano in mano un «Aes rude», ed in altri, ove vennero discoperte le tombe dei tempi romani, non mancarono mai le monete, come rappresentanti quell’epoca; ma qui dove sono esse?… E il non avervi trovato ombra affatto di oro, o di argento, non dice abba-stanza che quei popoli ivi sepolti siano di origine asiatica ed in conseguenza Pelasgici? Avvalora questa opinione il tradizionale costume di quelle genti: allorché qualcuno moriva, primo pensiero dei congiunti era la sepoltura; essi ve lo accompagnavano, portando ciascuno, per lasciarli presso il cadavere, le armi, gli ornamenti e gli utensili che esso aveva preferito vivendo. Chiudevano nel tumulo stoviglie e vasi pieni di cibo, nella superstiziosa credenza che il defunto avesse avuto a fare un lungo viaggio e, perciò, avesse avuto bisogno di rifocillarsi lungo il cammino.

Si sacrificavano sulla tomba cavalli, montoni, tori, e qualche volta serviva di vittima uno schiavo, se si giudica dalle ossa calcinate, che di frequente si incontrano in questi tumuli.

Checché dicasi in contrario su tale proposito, rimane sempre ragionevolmente appoggiata ai confronti archeologici già dichiarati, l’opinione che gli oggetti trovati nelle suddette Necropoli hanno l’età Pelasgica.

Ascoli Piceno 1873.

                                                                     Don Emidio Luzi

NOTE

(1) Cfr. G. CROCETTI “Il Convento di Sant’Agostino di Montelparo” in «Quaderni dell’Archivio storico arcivescovile di Fermo», n. 10 (a. 1990) pp. 39-62.

(2) Montelparo era abitato dai Piceni di cui parla Plinio nella “Naturalis Historia” cap. 13, 1-3. Molti studi illustrano i reperti archeologici del Piceno che sono stato trovati abbondanti in particolare a Belmonte Piceno

(3) E. LUZI, “La necropoli di Montelparo e l’età pelasgica nel Piceno”, Ascoli P. (Tip. Cesari) 1873.

(4) A. STRAMUCCI, “Conosci le Marche – Prov. di Ascoli P.” – Ancona 1974. T. EGIDI, “Gli scavi archeologici di Monterinaldo”, in «Annuario», Montelparo 1973, p; 32.

(5) G. COLUCCI, “Antichità Picene”, vol. XXXI, Fermo 1797, p. 7. Pubblica il testo del «Chronicon Farfense», pubblicato dal Muratori (col. 320) della «Pars Altera» dell’opera “Rerum Italicarum Scriptores”, Milano 1726. Edizione integrale in due volumi: U. BALZANI, “Chronicon Farfense di Gregorio di Catino”, Roma 1903, Vol. I, p. 135 (in seguito: Chron. Farf.): traduzione dal latino: “Gli antichissimi venerabili monaci seniori hanno riferito una relazione fatta a loro dai monaci anteriori e ci dicevano che il duca  di Spoleto a questo sacro cenobio e al religioso don Tomasso, fece offerta di undici poderi curtensi (curtes) e ciascuna di queste era congruente <alla superficie> di undici mila moggi».Si intende <duca longobardo Faroaldo II nel 705 circa>

(6) BALZANI, Chron. F. cit., vol. I, p. 151.

(7) Ibidem.

(8 ) “Liber Largitorius, vel notarius Monasterii Pharfensis”, a cura di G. ZUCCHETTI, vol. I, Roma 1913, n. 80, p. 73. (In seguito: Lib. Larg.).

(9) G. COLUCCI, “Antichità Picene”, vol. XXXI, Fermo 1797, «Supplemento al Codice Diplomatico di S. Vittoria», doc. XVIII, p. 27. L’abate di Farfa, Gentile II, nel 1250, permise la demolizione della chiesa «di S. Severino posta in località detta Blotenano fuori dal castello di Monte Elparo» perché fosse ricostruita dentro il castello di Montelparo. Quella contrada nel sec. XVIII era detta «Butiné», secondo alcuni appunti lasciati dal canonico santavittoriese Orazio Valeriani. Nei suoi paraggi, in seguito, nel secolo XX, si fece un sito di cacciagione «Roccolo» frequentato dai cacciatori.

(10) D. PACINI, “Possessi e chiese farfensi nelle valli Picene del Tenna e dell’Aso (secoli Vili-XII)”, in «Atti e Memorie della deputazione di Storia patria per le Marche» n. 86 (1981), pp. 352, 358. IDEM. “Per la storia medievale di Fermo e del suo territorio” Fermo 2000 pp. 361, 366, 371, 405, 419.  A. RICCI, “Memorie storiche delle arti e degli artisti nella Marca di Ancona”, Macerata 1834, vol. I, p. 63, nota n. 9.

(11) Il “Regesto di Farfa di Gregorio di Catino” pubblicato in 5 volumi da I. GIORGI e U. BALZANI tra il 1879 e il 1914 in Roma presso la Società Romana di Storia Patria. (In seguito: Reg. Farf.) vol. III, n. 362, p. 67; – Chron. Farf, vol. I, p. 309. <Il duca di Fermo Rabennone nel Reg. Far. vol II n. 20 p. 34 (il padre) ebbe successore il figlio che per omicidio fu deprivato delle sue proprietà: Reg. Farf. II n. 148, p. 124. Qualche studioso pensa che gran parte di queste proprietà che Carlo Magnò donò a Farfa costituirono il maggiore “feudo” farfense. Cfr. PACINI, Per la storia … pp. 35, 352 riferisce il fatto all’anno probabile 748>.

(12) Lib. Larg., vol. I, n. 232, p. 148.

(13) Reg. Farf. V, n. 1099, p. 95-99; – Chron. Farf. II, pp. 173-79.

(14) G. CROCETTI, “Gli Statuti Comunali di S. Vittoria”, in «NEPI G. -SETTIMI G. ,” Santa Vittoria in Matenano. Storia del Comune», Camerino 1977, pp. 537-38. Gaglianello: cfr. PACINI, Per la storia …pp.  392, 417.

(15) Reg. Farf, III 135; V 98, 304; – Chron. Farf, I, 7.

(16) D. PACINI, op. cit., p. 372s.

(17) Chron. Farf, I 251; – Reg. Farf. V, 287.

(18) Chron. Farf, I 252; Reg. Farf. V 287; – Pergamena inedita di Montelparo n. 22; P. SELLA, “Rationes decimarum Italiae – Marchia” – Città del Vaticano 1950, nn: 7536, 7693, 7695, 7703.

(19) PACINI, op. cit., pp. 123, 379, 381s.

(20) Reg. Farf. IV, 275; – V, 96 e 305; – Chron. Farf, II 139, 174, 284. D. PACINI, op cit., pp. 398, 405, 419.

(21) COLUCCI, op cit., XXXI, «Supplemento al Codice Diplomatico di S. Vittoria», p. 103.

(22) Ibidem, pp. 4 e 5.

(23) Ib., p. 6

(24) . PASTORI, “Memorie istoriche della nobile Terra di Montelparo”, Fermo 1781, pp. 16-18. G. COLUCCI, op. cit., vol. XVII, pp. 10-14.

(25) Ibidem, p. 19. Mons Cucumus = Monte Cucco.

(26) Non è noto nemmeno al Pastori.

(27) Non è il Montecchio del territorio di Force. Il Pastori ci assicura che ai suoi tempi la contrada di Montecchio esisteva anche nelle pertinenze di Montelparo (p. 19). Montecchio di Force cfr. PACINI, Per la storia … pp. 404, 420

(28) Questa clausola, non comune nei documenti dei secoli precedenti, ma obbligatoria nell’organizzazione dei liberi comuni, evidenzia che già in Montelparo incominciava a funzionare una prerogativa protezionistica che fu fatta propria da ogni libero comune del secolo XIII.

(29) PASTORI, op. cit., pp. 16-18.

(30) COLUCCI, op cit., vol. XXIX, pp. 50, 53 e 54.

(31) F. PANFILO, “De Piceni nobilitate et laudibus” = Francisci Pamphili, praestantiss. poetae Sanctoseverinatis Picenum; hoc est de Piceni, quae Anconitana vulgo Marchia nominatur; et nobilitate, et laudibus opus. Nunc primum in lucem Iani Matthaei Durastantis, philosophi Sanctoiustani auspiciis, ac sumptibus, editum (Maceratae : Sebastianus Martellinus, 1575

(32) PASTORI, Op. cit. p. 20

(33) COLUCCI, Op. cit. XXXI, pp. 80 e 87

(34) COLUCCI, op. cit., vol. XXXI, Supplemento cit., pp. 28-31.

(35) P. SELLA, op cit., nn.: 7535, 7536, 7548, 7549, 7560, 7691, 7692, 7693, 7694, 7695, 7700, 7701, 7702, 7703, 7720.

(36) COLUCCI, op. cit., vol. XXIX, Codice cit. p. 179.

(37) Ibidem, p. 191

(38) Ibidem, p. 190-193.

(39) COLUCCI, op. cit., vol. XXXI, Supplemento cit. pp. 27 e 29. A. RICCI, Memorie cit., I p. 63, n. 9.

(40) G. CROCETTI, “M° Giovanni di Stefano da Montelparo, intagliatore marchigiano del sec. XV”, in «Arte Cristiana» N. 736, Milano 1990, p. 18.

(41) Vedi nota n. 20.

(42) PASTORI, op. cit., pp. 25-32.

(43) COLUCCI, op cit., vol. XXXI «Supplemento cit.» p. 29, nota 10.

(44) Ibidem, nota 11.

(45) Ib., nota 12.

(46) Ib., nota 14.

(4)7NEPI-SETTIMI, op. cit., p. 266.

(48) Ibidem, p. 234.

(49) G. CROCETTI, “Le pergamene dell’Archivio Comunale di S. Vittoria in Matenano”, in «Quaderni dell’Archivio Storico Arciv.le di Fermo», N° 5 (a. 1988), p. 96.

(50) G. COLUCCI, op. cit., vol. XXXI, «Supplemento cit.» p. 14.

(51) G. AVARUCCI, “Su Enrico da Cossignano ed altri Abati Farfensi della prima metà del sec. XIII”, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia» dell’Università di Macerata, VII (1974), pp. 369-370.

(52) M. R. MANCINI, “Le Pergamene cit., Doc. I. Certamente errata è la datazione (1216) che il Cicconi dà alla prima pergamena del suo regesto; essa è stata diligentemente corretta nella trascrizione fatta da M.R. Mancini del Doc. n. 61, che riferisce al 18.1.1287, al tempo del papa Onorio IV e dell’Abate Farfense Nicola II.

(53) N. G. TEODORI, “Force nel Medio Evo”, Ascoli P. 1967, p. 69.

(54) COLUCCI, op. cit., vol. XXX, «Penna S. Giovanni». P. FERRANTI, “Memorie storiche della città di Amandola”, vol. I, p. 52; vol. II, Doc. 65.

(55) G. CICCONI, “Le Pergamene dell’Archivio Municipale di Montelparo, oggi custodite nell’Archivio Diplomatico di Fermo”, in «Fonti per la Storia delle Marche» presso Deputazione di storia patria per le Marche, Ancona 1939, p. 15. MANCINI, op. cit.; Doc. n. 12.

(56) COLUCCI, op. cit., vol. XXXI, «Supplemento «cc.»» pp. 28-32.

(57) I. SCHUSTER, “L’imperiale Abbazia di Farfa”, Roma 1921, p. 312. A.L. PALAZZI-CALUORI, “I monaci di Farfa nelle Marche”, Ancona 1957, p. 80.

(58) COLUCCI, op. cit., vol. XXIX «Codice Diplomatico cit.» p. 99.

(59) J. GUIRAUD, “La Badia di Farfa alla fine del sec. XIII”, in «Archivio della R. Società Romana di Storia Patria», Vol. XV, fase. 1-2, Roma 1892. Trascrive e commenta la Bolla del papa Urbano IV del febbraio 1261 tratta dall’originale che si conserva nell’Archivio Segreto Vaticano (Miscellanea 1260-75). Copia autentica posteriore si conserva nell’Archivio di Stato di Ascoli Piceno.

(60) A. THEINER, “Codex Diplomaticus Domimi S. Sedis”, I Roma 1861, p. 311. G. CICCONI, op. cit., Pergamena XLII; – MANCINI, op. cit., Doc. n. 67. Analoga concessione ottennero i comuni vicini con censo proporzionato alla popolazione residente: Amandola 44 lire, Force 20 lire, Montefiore 74 lire, Monterubbiano 76 lire, Monte S. Martino 40 lire, Porchia 25 lire, S. Vittoria 81 lire.

(61) MANCINI, op. cit., p. LXIII. Nella perg. n. 6 si dice che il Consiglio Generale fu adunato nella chiesa di Sant’Angelo.

(62) L. PASTORI, Memorie storiche della nobile Terra di Montelparo, in G. COLUCCI op. cit., Vol. XVII, pp. 29-30.

(63) THEINER, Op. cit., II, Roma 1862. Nella «Descriptio Marchie Anconitane», erroneamente trascrive «Mons Thorarius» in luogo di «Mons Elparus».

(64) G. MICHETTI, “Dal Feudalesimo al governo comunale nel Piceno”, Fermo 1973, pp. 61 e ss.

(65) MANCINI, op. cit., pp. XLII-XLIII, con riferimento alle pergamene di Montelparo da lei numerate: 1, 2, 3, 17, 18, 19, 23, 25, 26, 27, 28, 29.

(66) La corte di Catelliano apparteneva a Marco di Tebaldo, a Marco di Pietro, ad Anfelisia, moglie di Suppolino da Fermo, e ad altri cfr. PACINI, Per la storia pp. 410, 419; MANCINI, op cit., Pergamena n. 1).

(67) Le corti di Bucchiano, Pastina e Castello degli Infanti appartenevano ai Signori di Castelnuovo, un ramo cadetto dei conti di Falerone: Ruggero del fu conte Ferro, al figlio di Ferro, Fratre e Compare di Fratre, Rinaldo, Gentile e Giberto, figli del fu Giacomo di Fratre. Per Bucchiano cfr. PACINI, Per la storia … pp. 407, 418.

(68) MANCINI, op. cit., Pergamene nn. 4, 6, 7, 8.

(69) MANCINI, op. cit., Pergamene nn. 6 e 7.

(70) Ibidem, pp. XLV e XLVI, nota 6.1. Pergamena n. 18.

(71) Ib., p. XLVII, Pergamene nn. 22 e 24.

(72) Ib., pp. XLVII-LI, Pergamene nn. 25, 30, 36 e 41.

(73) Ib., pp. LI-LII, Pergamena n. 68.

(74) Ib., p. LII; Pergamena n. 21.

(75) Ib., p. LIV; Pergamena n. 66.

(76) Ib., p. LIV; Pergamena n. 69.

(77) Ib., pp. LVI-LVII; Pergamene nn. 86, 87, 88.

(78) Ib., Pergamena n. 81.

(79) G. CICCONI, op. cit., Doc. LXXI, p. 31.

(80) Ibidem, Doc. LXXIII, p. 31.

(81) MANCINI, op. cit., Perg. n. 13. «Inoltre (lasciò) ai frati di sant’Agostino dieci soldi. Inoltre ai frati minori de Macchie dieci soldi».

(82) L. PASTORI, “Memorie appartenenti al Ven. Convento di S. Agostino della Terra di Montelparo, ms. n. 34, presso Bibl. Com.le di Ascoli.

(83) MANCINI, op. cit., Perg. nn. 70, 71, 72 e 73.

(84) Archivio Generale Agostiniano (A.G.A.) I – i/3, ff. 327 e ss.

(85) L. PASTORI, “Memorie istoriche e cronologiche della Religione Eremitana”, ms. n. 23 dell’anno 1776, presso Bibl. Comunale di Ascoli Piceno.

(86) Ibidem, p. 36.

(87) Le notizie di questo paragrafo sono state tratte dai volumi manoscritti «Archivum S. Angeli Magni» e dagli «Indici Cronologici» delle carte di detto Monastero che si conservano nell’Archivio di Stato di Ascoli Piceno.

(88) L. PASTORI, Memorie istoriche di Montelparo op. cit., p. 32.

(89) Archivio di Stato di Fermo, «Catasto di Montelparo del 1783», contrada Casale.

(90) Ai conventi agostiniani hanno dedicato particolare attenzione GAVIGNON – CRUCIANI, “La Provincia Picena negli ultimi due secoli”, in «Analecta agostiniana» Roma vol. 44 (a. 1981) pp. 307, 310, 313. V. FUMAGALLI – A. ROCCOLI, “Bibliografia storico-artistica degli insediamenti Agostiniani in Italia”, Provincia Agostiniana d’Italia. Monografie storiche Agostiniane N. S. N. 1. Biblioteca Egidiana, Tolentino 2005, pp. 58-67 in particolare p. 60 cita “Montelparo,. Sant’Agostino”, in «Gli Agostiniani. Architettura, arte spiritualità», a c. di F. Mariano, Milano, Federico Motta Editore S.p. a. 2004 pagg. 220-221

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LO STATUTO MEDIEVALE DI MONTELPARO (FM) NEGLI STUDI DI GIUSEPPE CROCETTI E NOTIZIE DEI SECOLI XIV E XV

                                    GLI ANTICHI STATUTI COMUNALI DI MONTELPARO

   Nel medioevo ogni libero comune o Terra si governava a norma di statuti o leggi comunali proprie. Dalle pergamene montelparesi relative al sec. XIII si rileva che le nobili famiglie dei signori rurali, incastellandosi, dovevano assoggettarsi in tutto ai propri statuti; parimenti i Podestà a Montelparo dovevano giudicare attenendosi agli statuti locali. Questi riferimenti indicano che Montelparo fin dal suo essere costituito a Comune aveva un atto notarile di norme e consuetudini scritte, raccolte insieme dai residenti. Come avviene solitamente, col passar degli anni, mutano e cambiano le abitudini degli abitanti, e ci sono leggi antiche che cadono in disuso, altre divengono imperfette, altre debbono essere adeguate al regime generale in vigore presso lo Stato della Chiesa, per cui il Comune di Montelparo riunito in Consiglio Generale, al tempo del legato Egidio d’Albornoz il 17 gennaio 1559, festa di S. Antonio, conferiva solenne incarico di aggiornare i quattro libri dei vecchi statuti a quattro giuristi del luogo, un esperto giurisperito per ogni libro normativo: il Libro I: Il regime <governativo> et i pubblici offici al sig. Giovanni Tommaso Squarcia; il Libro II: le cause civili al sig. Mariano Poliziani; il Libro III: I reati (Malefici) al Sig. Angelo Poliziani; il Libro IV: I Danni Dati al Sig. Orfeo Lorenzini. Nel contempo dava incarico a tre notai di affiancarsi ai suddetti per la stesura finale del testo: ser Troiano Roselli, ser Bartolomeo Cifarelli e ser Giulio Rampecon. Il nuovo volume sulle leggi e i diritti municipali della Comunità e delle persone della Terra di Monte Elparo, scritto in lingua latina: «Leges ac iura municipalia Communitatis et hominum terrae Montis Elpari», è diviso in sei libri: I = Gli offici pubblici 143 rubriche (r.); II l. = Le Cause Civili r. 57; III l. = Le Causis Penali (Criminali) r. 115; IV l. = Le Cause straordinarie r. 79; V l. = Gli Appelli r. 11; VI l. = I Danni dati r. 37.

   Il tutto fu approvato l’anno seguente, 1560, invocando il nome di Dio Onnipotente e della Beata Vergine Maria e protestando fedeltà ed obbedienza alla Santa Romana Chiesa, al Papa Pio IV ed al Governatore Generale della Marca Anconetana, Mons. Loreto Lauri di Spoleto. Veniva reso esecutivo per conservare nel benessere di salute e porre nei retti comportamenti il popolo montelparese: Lo si diede alle stampe, la prima volta nel 1570, per i tipi di Adolfo De Grandis di Ancona, e la seconda volta nel 1781, nella tipografia fermana di Giuseppe Agostino Paccaroni.  Notiamo alcune cose essenziali. Il primo libro sancisce norme per il culto divino e l’autonomia amministrativa del Comune. Ricorda che si celebravano le feste dell’Assunta, dell’Annunciazione, e della Visitazione della B.V. Maria, del protettore Sant’Angelo, di S. Pietro e S. Giovanni, con maggior solennità delle altre, dato che erano i santi titolari dei quattro quartieri in cui era divisa la popolazione del paese e del territorio e creavano armonia tra i rioni.

   Il magistrato al completo che riuniva il Podestà, i Priori e gli Officiali accompagnati dai balivi nella festa dell’Assunta (15 agosto) si doveva recare nella Chiesa di S. Maria de Lavognano (= de Abbagnano o de Mercato) al centro del paese, dove, nell’assistere alla santa Messa offriva un cero del peso di una libra; similmente faceva nella festa della Annunciazione (15 marzo) nella chiesa di S. Maria Novella e nella festa della Visitazione (2 luglio) nella chiesa di S. Maria delle Grazie; sita fuori delle mura dalla parte di Porta di Catigliano; nella festa di S. Pietro offrivano il cero nella omonima chiesa sita nei pressi della Porta del Sole; e per la festa di S. Giovanni si recavano nella propria chiesa, sita in contrada Montecchio. Nella festa della Purificazione (2 febbraio) un cero nella chiesa di S. Maria de Laudo; mentre il martedì dopo la Pentecoste si recavano nella chiesa di S. Maria della Misericordia. Queste chiese rimasero diroccate nel terremoto del 1703; le ricorda un affresco traslato nella cripta di S. Angelo.

   Inoltre, affinché la popolazione di Montelparo fosse difesa e protetta dalla S. Croce e da Sant’Angelo, il 3 e l’8 maggio, il magistrato, oltre i ceri, offriva due ‘palli’ di seta, i migliori

che si trovavano, del valore di 100 soldi e 10 libre di moneta corrente, rispettivamente nelle chiese monastiche di Sant’Agostino e Sant’Angelo in Castello. Detti palli restavano esposti nel coro per otto giorni, e in seguito, erano conservati come buon ricordo. Infine, facevano l’offerta di 10 lire «per sussidio delle tonache» ai frati di Sant’Agostino, nella festa del Titolare della loro Chiesa (28 agosto). Tra i frati di detto Convento veniva incaricato il predicatore annuale per le feste di Avvento e di Quaresima con retribuzione di tre ducati a carico dell’erario comunale. Essi predicavano in chiesa nei giorni festivi nelle Domeniche, a Natale con i due giorni successivi, inoltre nelle solennità e feste liturgiche, come Circoncisine, Epifania, Venerdì Santo e tutti i venerdì di marzo, Pasqua con i due giorni seguenti, Ascensione, Pentecoste con i due giorni seguenti, Corpus Domini, Purificazione, Concezione, Natività, Annunciazione e Assunzione della B.V. Maria, S. Giovanni Battista. Nello statuto si indicavano anche altri giorni: dei 12 Apostoli, dei 4 Evangelisti, dei 4 Dottori della Chiesa, Invenzione ed Esaltazione della S. Croce, S. Michele (8 maggio e 29 settembre), S. Antonio Abate, S. Antonio di Padova, S. Lorenzo, S. Sebastiano, S. Rocco, S. Martino, S. Nicola da Tolentino, S. Caterina di Alessandria, S. Lucia, S. Maria Maddalena, S. Maria de Camurano (1 agosto). Per le prime feste era vietato ogni tipo di lavoro, tenere botteghe aperte, trasportare cose con animali. I contravventori pagavano una multa di 25 soldi, il basto bruciato. Si faceva eccezione in occasione della fiera che si teneva nella Festa dell’Assunta, per i rifornimenti alimentari, per chi rientrava da un paese forestiero, per la vendita di frutta, uova, formaggi, polli, pesci e agnelli. Nelle feste minori era consentito trasportare pietre e mattoni, legna e prodotti agricoli e, se c’erano abbinati fiere o mercati, era consentito l’accesso di forestieri con le loro mercanzie, ma l’apertura delle botteghe e la vendita era consentita solo dopo la celebrazione dei divini uffici. Era consentito fare lavori per riattare strade e i lavori per il Comune, o per le Chiese, se urgenti e necessari, con licenza del Podestà. Si precisa che la giornata festiva era di 24 ore, dalla sera precedente a quella seguente, quando in cielo incominciavano ad apparire le stelle. Per le festività minori si faceva obbligo al Podestà di farle preannunciare dal banditore nella sera avanti, «al suono della tuba e della campana».

   Per il Podestà e per i giudici del Comune, oltre alle suddette feste, erano considerati tempi di ferie i periodi dal 20 dicembre al 7 gennaio, dal Sabato delle Palme alla Domenica dopo Pasqua, la festa di S. Benedetto (21 marzo), S. Domenico, S. Pietro Martire, S. Francesco, S. Tommaso d’Aquino, S. Gioacchino, S. Giuseppe, S. Anna, i tempi della mietitura e della vendemmia. Per le attività del tribunale, non erano validi eventuali processi svolti in detti giorni e periodi; e le sentenze emesse erano considerate nulle.

       L’Amministrazione Comunale era articolata in organici elettivi, presieduti ed assistiti da persone con mansioni specifiche che duravano in carica per determinati periodi. Il Podestà, con funzioni di «Pretore», era il vero capo e «Rettore» di tutta l’amministrazione Comunale, per sei mesi, era garante di libertà presso tutti; nell’espletamento delle sue funzioni era coadiuvato dal Notaio forense e dal Camerario, o Cassiere. All’avvicinarsi delle scadenze dei rispettivi mandati, trenta giorni dalla scadenza, 12 elettori, tratti a sorte dal Consiglio dei Cento, tre per ogni quartiere, dopo aver prestato giuramento nella chiesa di S. Agostino, facevano la graduatoria di tre nominativi di persone forestiere, esperte in diritto e idonee per ognuno dei suddetti incarichi, dandone immediata comunicazione agli interessati.

   Al Podestà, dottore in legge, era corrisposto in tre rate uno stipendio complessivo di 60 fiorini. Ne riceveva 50, o 40 se era soltanto legisperito o esperto giusperito. Ogni giorno di buon mattino, eccettuate le feste ed i giorni feriati, doveva recarsi al proprio ufficio, «al banco del diritto», per amministrare la giustizia. Mediante giuramento era impegnato a proteggere chiese, orfani, vedove, poveri. Egli istruiva e definiva cause civili, criminali e miste; osservava e faceva osservare tutte le norme degli Statuti Comunali; imponeva e riscuoteva multe e contravvenzioni, sulle quali era consentito percepire una percentuale. Tutte le cause dovevano essere istruite e decise nel termine di 40 giorni.

   Per le sentenze non pienamente convincenti, nei primi tre secoli si fece appello ai giudici del Presidato Farfense; nel secolo XVI, per espressa concessione fatta al comune di Montelparo dal papa Leone X il 9 giugno 1513, gli appelli alle cause civili e miste, inferiori a 10 fiorini, giudicate dal Podestà, potevano essere riesaminate dal Cancelliere, o dal Segretario Comunale, con processo sommario, secondo giustizia. L’indulto fu motivato dal fatto che Montelparo distava più di 30 miglia dalla Curia Generale della Marca di Ancona, che aveva sede in Macerata. Per gli appelli delle cause penali il foro competente era la Curia Generale, tramite le sedi distaccate, o presidati.

Alla fine del mandato, Podestà, Notaio e Cassiere forensi dovevano sottostare al sindacato del loro operato da effettuarsi nello spazio di tre giorni.

   Il Notaio Forense faceva parte della curia podestarile, fungeva da segretario, redigeva gli inventari, riceveva denunce, scriveva le sentenze del Podestà, redigeva copie autentiche di atti con autorizzazione del Podestà o dei Priori, sorvegliava l’igiene pubblica, i pesi e le misure, controllava la retta manutenzione delle strade, compilava il registro delle tasse, registrava multe e contravvenzioni. Era responsabile dell’archivio podestarile. Aveva l’obbligo di continua residenza in Montelparo; per eventuali assenze non autorizzate, o inadempienze, erano previste severe multe da detrarsi dal suo salario, che per sei mesi era di 40 fiorini.

   Il Camerario svolgeva funzioni di «cassiere» ed «esattore» generale delle imposte (collette e dative) del Comune e delle multe e contravvenzioni fatte dal podestà e suoi ufficiali. Nei pagamenti ed esazioni superiori a 12 soldi era necessaria la presenza di due testimoni; doveva redigere due registri: uno per sé e l’altro per il Sindaco. Nel Palazzo Comunale aveva una stanza riservata per la custodia dei pegni consegnati da coloro che non avevano moneta per pagare dative, multe o condanne. Trascorso un certo tempo i pegni erano venduti mediante asta pubblica, legalmente bandita ed eseguita all’aperto lungo la loggia o sulle scale del Palazzo Comunale. Il plusvalore ricavato era restituito. Inoltre aveva l’incombenza di presiedere ai lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria delle mura e delle strade comunali, dei fossi, dei ponti e delle fontane. Custodiva i pesi e le misure adottate dal Comune, «secondo il pesare della Città di Ascoli» e vigilava, con l’assistenza di esperti, sulla mattazione di animali grossi e sulla vendita delle carni.

   Il Camerario era assistito da un Notaio per redigere verbali e rilasciare ricevute; ogni due mesi doveva dare il resoconto delle entrate e delle uscite al Consiglio di Cernita. Per eventuali inadempienze riscontrate dagli inquisitori sul suo operato al termine del mandato era multato con trattenute del suo salario che ammontava a 30 fiorini per 6 mesi.

   Il Sindaco era il legale rappresentante del Comune, inteso come persona giuridica, o ente morale. Perciò interveniva nei negoziati con altri Comuni, negli atti di compravendita, nei contratti di mutui, di incastellamenti; nella scelta dei Rettori delle chiese (sulle quali il Comune aveva il giuspatronato) per l’opportuna presentazione dell’eletto alla competente superiore autorità ecclesiastica; rappresentava il Comune nelle cause civili, criminali e miste se lo interessavano come procuratore speciale, designato con delibera dal Consiglio Generale.

   Era responsabile della manutenzione delle proprietà comunali: palazzo civico, fogne-fossi (regalitias), rote, molini, terre, prati e selve. Ogni anno doveva fare la ricognizione dei confini del territorio con l’assistenza di un notaio e quattro uomini. Degli oggetti mobili del Comune doveva curare un aggiornato inventario. L’incarico era a tempo indeterminato; senza compenso, tranne la diaria se inviato in missione fuori del territorio; al termine del mandato, doveva fare il rendiconto ai rappresentanti dei quartieri, detti «raziocinatori».

   Fondamento al potere legislativo del Comune era il Parlamento Generale che doveva essere convocato almeno una volta all’anno, o più volte, se necessario; era composto da tutti i capifamiglia con età superiore ai 25 anni, iscritti nel ruolo della tassa del «fumante», o focatico. Le riforme approvate a maggioranza dal Parlamento non potevano essere modificate da nessuno dei tre Consigli inferiori.

   Tutta l’amministrazione operativa del Comune faceva capo a tre distinte organizzazioni consiliari.

.a.   Il Consiglio Generale dei Cento, formato da 100 consiglieri, o anche in numero inferiore scelti in numero 25 per ciascuna delle quattro contrade, uomini stimati, di buona forma, amanti del progresso e della pace nel paese, di età superiore a 25 anni. In caso di morte, durante il mandato, il figlio sostituiva il padre, il fratello maggiore era sub rogato dal minore, oppure dal più degno della contrada. Ogni Consigliere eletto doveva prestare giuramento con cerimonia solenne nella chiesa di S. Agostino. Il Consiglio Generale era convocato dal Consiglio di Cernita, non dal Podestà, per discutere proposte o riforme di leggi e consuetudini di maggiore importanza.

   Nella discussione erano ammessi solo quattro «arrengatori» (parlavano dal luogo detto dell’arringa), eccezionalmente sei, col consenso del Podestà e del Consiglio di cernita. Ogni decisione o delibera era presa con voto pubblico, per alzata o seduta, oppure con voto segreto con immissione di fave o pallottoline nel bussolo bicolore: cassetta rossa per il ’Sì’, bianca per il ’No’; aveva valore legale, se non risultava contraria agli Statuti Comunali.

Il Consiglio Generale dei Cento, d’intesa col Consiglio Priorale e quello di Cernita, convocava il parlamento Generale per decidere su problemi di maggiore importanza riguardanti riforme legislative e gravi condanne.

.b.   Il Consiglio di Cernita, formato da 32 uomini scelti dal Consiglio Priorale, 8 per quartiere, con incombenza di eleggere quattro uomini saggi, esperti nelle leggi, da affiancare ciascuno al gruppo della propria contrada. A questo Consiglio non potevano essere ammessi uomini rissosi, scandalosi, perturbatori della pace comune, gli infami, i condannati per furto, falsità e sacrilegio. Il Podestà doveva far ricerca circa i requisiti di idoneità di ciascuno, sotto pena di 25 lire.

   Questo Consiglio di Cernita era convocato con ordine del giorno preparato dal Consiglio dei Priori: deliberava fino alla spesa di 11 lire di moneta corrente, e non di più in ciascuna seduta. Per somme superiori era competente il Consiglio Generale dei Cento. Le decisioni sulle spese erano valide solo a lavori ultimati, o a negoziazioni condotte a termine, secondo un precedente patto concordato. Era fatto divieto al Segretario ed Economo del Comune di dare acconti di qualsiasi genere. Ogni consigliere era vincolato al segreto di tutto ciò che fosse stato riferito nelle riunioni consiliari, col vincolo del segreto imposto dal Podestà o dai suoi officiali.

.c.   Il Consiglio di Credenza o dei Signori Priori era formato da 8 persone, due consiglieri per ogni quartiere, durava in carica solo due mesi. All’inizio dell’anno amministrativo si formava il bussolo per un biennio, cioè si arrotolavano pallottole di carta in cui avvolgevano cartucce per il nome dei singoli abbinamenti per ogni contrada, (unendo dotti con meno dotti); dette pallottole, sigillate, venivano immesse in una cassetta, detta bussolo, custodita nella cassaforte del Comune, chiusa con due chiavi, una custodita dal Sindaco e l’altra dal priore dei PP. Eremitani di S. Agostino.

   Otto giorni prima della scadenza bimestrale, convocato il Consiglio Generale dei Cento, nella sala del Palazzo Comunale, presenti il Sindaco, l’Economo, il Notaio ed i Signori Priori, un messo Comunale recava il bussolo nella sala, e con un rito pubblico e solenne lo apriva, ne estraeva a caso una pallottola, la consegnava nelle mani del Podestà, o chi per lui (Notaio o Camerario), il quale la dissigillava, la apriva e leggeva ad alta voce i nomi dei Consiglieri iscritti, facendone redigere apposito verbale. I Consiglieri di Credenza, detti comunemente Signori Priori, dopo aver prestato solenne giuramento, entravano in carica effettiva al 1° giorno del mese del loro bimestre. Ogni giorno, di prima mattina, (ore 6), dovevano sedere al banco dove il Podestà amministrava la giustizia, fino alle ore 9; recandosi al loro ufficio dovevano rigorosamente indossare abiti neri, o almeno mantelli o cappe nere. Loro compito era di ascoltare le richieste della popolazione, le denunce di danni o di molestie. Inoltre avevano il compito di provvedere con sollecitudine a tutte le necessità ed incombenze, riguardanti l’amministrazione del Comune, autorizzare tutte le spese previste dagli Statuti; per quanto non previsto potevano disporre liberamente fino alla somma di 100 soldi. Per le spese straordinarie, fino alla somma di 11 lire, dovevano convocare il Consiglio di Cernita, e per quelle superiori il Consiglio Generale.

   Mentre erano in carica godevano dell’immunità personale e familiare; ma erano vincolati al segreto di quanto ascoltato al banco di giustizia. Il Pastori riferisce che nell’ultimo quarto del Settecento si mantenevano i tre Consigli, ma era ridotto il numero dei componenti. Il Consiglio dei priori era composto di 12 Consiglieri delle Famiglie Nobili; il secondo grado ed il terzo si componeva ciascuno di 12 Consiglieri scelti da altre famiglie, onde in numero di 36 formavano il Consiglio Generale; in alcune occorrenze si convocava ancora il Parlamento Generale. Il Magistrato che si rinnovava ogni due mesi, era composto dal Gonfaloniere e da due Priori. Il Podestà non era più eletto dalla comunità, ma inviato dalla Sacra Consulta.

   Il Comune per svolgere la sua funzione amministrativa aveva bisogno di entrate e di impiegati stipendiati. Le entrate erano costituite dalle rendite dei beni posseduti in proprio, case e terreni, e concessi in affitto; dal focatico, o tassa del «fumante»; dal Terratico, o imposta sui terreni in base all’estimo registrato nel catasto comunale. Inoltre ogni semestre, al tempo del rendiconto podestarile, se risultavano passività di rilievo, il Consiglio Generale deliberava una speciale imposta detta «colletta» o «dativa», per portare il bilancio a pareggio. Detta imposta era applicata in modo proporzionale: per due terzi era ritratta dall’allibramento al valore catastale, e per un terzo dal registro della tassa del «fumante» che era pagata per intero dal nucleo familiare che possedeva beni stimati 7 lire; per metà, un terzo o un quarto, proporzionalmente, se l’estimo era inferiore.

   La «dativa» doveva essere riscossa dal Massaro o Cassiere del Comune, nei termini del tempo deliberato; il ricavo doveva essere impiegato e speso unicamente per saldare il debito per cui era stata richiesta l’imposta. Per le spese relative alla manutenzione dei molini e stipendio dei mugnai era in vigore l’imposta «per bocca», cioè per ogni abitante, eccettuati i bambini con età inferiore a tre anni. Nel caso che il Comune fosse impegnato a far fronte a riscatti, foraggiamenti di truppe, imposizioni violente a tutela della libertà, per ricavare la somma richiesta, detta comunemente «taglia» si dovevano far quattro partite. Una gravava sul raccolto (frutti), una si ricavava dall’estimo catastale, una dal registro del fumante, e la quarta si ricavava dalla tassa sul bestiame: buoi, porci, pecore e capre.

   Chi acquistava terre o case aveva l’obbligo di fare l’iscrizione al catasto dentro un mese. Se il padrone che aveva affittato case o terreni a terzi, avesse trascurato il pagamento della «dativa», l’affittuario era tenuto a corrispondere la somma dovuta, con diritto di rivalsa sul proprio padrone, per la ‘rata’. Tra gli impiegati del Comune sono da ricordare ancora:

Il Cancelliere, o Segretario Comunale, legisperito, con compiti di verbalizzare le Adunanze Consiliari, ordinare l’archivio, trascrivere documenti ed autenticarli, stendere il testo delle ambasciate, e altro.

Il Massaro o Economo del Comune.

Gli Ambasciatori, o Oratori, inviati a patrocinare presso città e paesi, presso gli uffici giudiziari e Superiori gli interessi del Comune, erano designati dai Signori Priori, ricevevano un mandato scritto con memoriale di quanto deliberato dai diversi Consigli. Se la missione si svolgeva in giornata con cavalcatura ed aveva per meta Santa Vittoria, Monteleone, Sant’Elpidio Morico, Montalto o simili. Il compenso era di 16 soldi; il doppio se si doveva pernottare: per missione in luoghi più lontani, nell’ambito della Provincia, il compenso era di 50 soldi al giorno. Se nei luoghi circonvicini vi si recava a piedi il compenso era ridotto a 6 soldi, e 24 soldi per ogni pernottamento. Per le ambasciate a cavallo fuori della Marca il Consiglio dei Cento, di Cernita e di Credenza decideva di volta in volta d’accordo con gli interessati. Ogni spesa di missione doveva essere documentata; ogni ambasciatore doveva riportare le ricevute delle spese fatte. L’uso degli ambasciatori era assai frequente, poiché Podestà, Segretari, Economo, Priori e Consiglieri avevano l’obbligo di residenza continuata nel tempo che restavano in carica. Solo il Sindaco si poteva assentare, come procuratore del Comune, per atti che interessavano la Comunità.

   Due baiuli (balivi), annualmente erano nominati a sostegno delle funzioni dei vari officiali; uno di essi, detto Trombetta, fungeva da banditore, dava avvisi e pubblicava a suon di tromba le ordinanze delle autorità comunali, inoltre bandiva avvisi ed aste pubbliche a richiesta dei privati. Lo stipendio annuale era pattuito tra le parti; però ogni ‘bando’ aveva un compenso suppletivo di due denari, se richiesto dal Comune, di 6 denari, se richiesto da privati. L’altro era a disposizione, fungeva da guardia, riferiva e multava i contravventori, riceveva denunce e alle norme statutarie, verificava i danni arrecati. Quanto riferito dalla guardia era ritenuto per vero. Suppliva il Trombetta quando questi era inviato presso altre Curie o Uffici Giudiziari. Dovevano andare disarmati in territorio di Mont’Elparo. Potevano essere rieletti, ma solo dopo cinque anni. In ogni modo, se utile e necessario, potevano essere confermati con delibera del Consiglio Generale.

   Il Palazzo Comunale al tempo della compilazione degli statuti era sito nel piazzale antistante la chiesa di S. Angelo. Era una costruzione eminente, isolata. Nessun forno, officina e scuola poteva attivarsi all’intorno se non alla distanza di 6 canne, di 5 piedi per canna; equivalente a m. 12,75. Doppia distanza doveva osservare ogni privato che voleva elevare nei paraggi una sua casa, con altezza non superiore a quella del Palazzo Comunale. Il Palazzo, riservato agli Uffici Civici e alla residenza del Podestà e degli officiali con le loro famiglie, non poteva essere venduto per nessun motivo; solo le stanze ricavate nel piano inferiore potevano essere affittate. Sopra il muro che era a fianco della scala anteriore del palazzo si suggeriva la costruzione di un locale idoneo alla conservazione, dentro apposito armadio, di tutti i registri, gli atti ed i carteggi del Comune; la chiave di questo archivio si riteneva dal Sindaco o dal Massaro; l’apertura doveva essere autorizzata dal Podestà, o dai Consiglio Generale. La visione del carteggio era consentita previa licenza dei suddetti.

   Podestà e Consiglieri dovevano mettere gran cura nella manutenzione ordinaria e straordinaria del Palazzo Comunale e delle mura di cinta. Tra gli obblighi fatti ad ogni Podestà c’era quello di far costruire nel semestre due canne di scarpata lungo le mura di difesa del Comune, pari a m. 8,5 con facoltà di cooptare con ogni mezzo la collaborazione dei montelparesi per mezzo delle ben note giornate obbligatorie. Il Comune interveniva nella spesa per l’acquisto dei materiali. Coloro che erano stati autorizzati ad elevare la propria casa vicino alle mura di cinta a capo della ripa e nelle vicinanze, dovevano munirle ed ornarle di buoni ed idonei merli, propugnacoli per la difesa.

Presso il Comune erano registrati tutti coloro che avendo ricevuto armi, archibugi, loriche e coscialetti erano obbligati a prendere le armi in caso di difesa; in altro registro erano elencate le persone esentate. Le armi avute in consegna non potevano essere consegnate ad altri. Altre armi erano in deposito presso il Palazzo Comunale.

Il Podestà, il suo Notaio ed il Cassiere, entrando in carica, dovevano far dono al Comune di un archibugio del valore di 3 fiorini.

La custodia diurna e notturna delle porte di accesso al paese era affidata a quattro clavigeri con incarico annuale, durante il quale erano esentati dalle tasse e godevano di immunità personale. Di notte potevano aprire solo col consenso del Podestà. Solo dopo tre anni potevano avere nuovo incarico. Dalle case costruite lungo le vie pubbliche era proibito far sporgere terrazze e balconi. Ogni costruzione all’interno dell’abitato doveva essere approvata dalla competente autorità, con apposizione dei termini alla presenza dei confinanti. Fuori della porta di casa, lungo le vie più larghe, era consentito porre una panca di legno o cippo in pietra larga 45 cm.

   Nel medio evo ed anche più tardi, fino alla Rivoluzione Francese, fu tenuto in gran conto il diritto di precedenza, sia tra il clero e gli ordini religiosi, come tra le diverse categorie di cittadini. Gli Agostiniani, per esempio, avevano la precedenza sul Terz’Ordine Regolare di S. Francesco. Gli statuti di Montelparo, onde evitare discussioni, nella penultima rubrica del primo libro prevedono la seguente graduatoria da seguire nelle manifestazioni pubbliche e rapporti privati: la prima preferenza era per i dottori in Legge e Medicina e in pari grado, se dottori, per i Capitani dello Stato Pontificio, dell’imperatore e delle libere città; seguivano i giurisperiti, i notai, gli anziani e le persone oneste delle nobili famiglie. Poi si faceva la graduatoria degli artisti: i lanai precedevano aromatari (= farmacisti), pittori, orefici; indi seguivano calzolai, clitellari e sellai; fabbri e legnaioli, tessitori e sarti.

   Gli agricoltori aprivano il corteo per l’offerta del cero in occasione della festa di Sant’Angelo e Sant’Antonio; indi procedevano gli altri in ordine inverso; in quanto i più degni dovevano essere più vicini al Magistrato che, stando dietro, chiudeva il corteo il clero con il resto della popolazione.

Quanto riferito è contenuto nel primo libro degli Statuti, particolarmente importante per la ricostruzione della organizzazione amministrativa del libero Comune.

 –   Il Secondo Libro, detta norme per i processi giudiziari e lo svolgimento delle cause civili (57 rubriche).

 –   Il Terzo Libro tratta dei malefici (reati) commessi, ossia dei delitti pubblici e privati, del relativo processo e condanna, o pene da comminare. Qui c’è da notare che i legislatori per Montelparo, forse, furono influenzati dall’asprezza dei tempi del brigantaggio e nel Piceno esso si incrementava favorito dal banditismo. Ciò farebbe giustificare le draconiane e barbare sanzioni penali, compresa la pena di morte, sancite dallo Statuto, mentre la legislazione del vicino Comune di Santa Vittoria, compilata un secolo prima, esclude la pena di morte ed assegna pene più miti e mirate alla correzione del delinquente. Come prova, vanno sottolineate alcune rubriche:

Rubrica 34. Per quelli che formano una setta <mafiosa>: chiunque ha incitato il popolo,e ha indotto qualche gente contra i Reggitori di Monte Elparo … sia punito con la pena capitale lui stesso e i suoi seguaci … con la confisca dei beni.

R. 42 Per gli omicidi: sia tagliata la loro mano destra.

R. 44 Per gli assassini. Siano tagliate prima la lingua e una sola mano loro, poi siano impiccati alla gola.

R. 48 Per chi percuote una femmina pregnante. Sia tagliata loro la testa dalle spalle.

R. 49 Per chi somministra una bevanda nociva. Venga bruciato in modo tale che muoia.

    Solo negli statuti di Monte Monaco si riscontrano analoghe sanzioni. La nostra sensibilità prova un profondo sgomento soprattutto per la esacerbata ricerca di barbari modi nella applicazione stessa della pena di morte. Non avendo prove dirette della esecuzione effettiva delle accennate sanzioni, siamo inclini a pensare che fossero state sancite solo come deterrente. Inoltre per la esecuzione della pena capitale si richiedeva l’exequatur del Rettore della Marca.

 –   Il Quarto Libro tratta argomenti vari di diritto civile, amministrativo e penale, come l’osservanza dei giorni festivi, lo svolgimento di fiere e mercati, l’orario di apertura delle botteghe. Vi si leggono anche sapienti provvedimenti per la pulizia dei pubblici macelli, per lo spaccio delle carni, per i forni, le fontane, per le strade interne e territoriali; norme di polizia urbana, e di pubblica igiene che destano ammirazione ai moderni cultori di tali discipline: non si potevano gettare acque, specialmente le immonde, dalle finestre, né far girare liberamente animali neri.

 –   Il Quinto Libro riguarda gli appelli delle Cause Civili: su quelle inferiori a 10 fiorini, giudicate dal Podestà, si poteva ricorrere al Segretario Comunale. È un libro che trae origine dal privilegio di Leone X, ricordato sopra.

 –   Il Sesto Libro tratta dei danni dati, sia per opera di uomo, sia per danneggiamento causato da bestie. Per queste cause il Consiglio Generale nominava, ed il Comune stipendiava un giudice col nome di Ufficiale Maggiore.

   Attraverso la lettura del testo, sempre molto preciso, esplicito e concreto, emerge viva l’immagine della vita del Comune di Montelparo nell’arco temporale compreso tra il XIII e XIX secolo. In quelle norme, pregne di senso umano, religioso e di realismo pratico, si riflettono comportamenti ed abitudini, virtù e passioni, indole e carattere degli antenati.

                                  EVENTI STORICI A MONTELPARESI VICINANZE NEI SECOLI XIV E XV

                                 Montelparo nella storia della prima metà del Trecento

   Uno studio completo degli avvenimenti storici della Marca di Ancona relativi al secolo XIV con il contesto storico italiano, ancora non è stato pubblicato. Agli inizi del secolo, il processo di consolidamento dei liberi comuni fu turbato dal risveglio delle fazioni ghibelline che mettevano in subbuglio i pacifici ordinamenti comunali e politici nello Stato della Chiesa e altrove, a motivo, tra l’altro, del trasferimento del papa e della corte pontificia in Avignone.

   Si può ricostruire un sommario racconto storico locale, tracciando le linee fondamentali attraverso lo studio delle numerose pergamene montelparesi che riferiscono piccoli e grandi avvenimenti, relativi a questo periodo; con opportune integrazioni ricavate dai documenti giacenti in altri archivi, specialmente quelli Capitolare e Comunale di Santa Vittoria in Matenano.

   Nel 1303 il Comune incastellò la famiglia di un tal Giacomuccio con obblighi e diritti conseguenti. Negli anni successivi, 1307 e 1311, sono documentate sentenze di condanne perché i suoi abitanti hanno creato disordini in Monterinaldo, oppure, insieme con altri Comuni, si sono ribellati agli ordini del Rettore della Marca. Nella primavera del 1320 Montelparo fa solenne promessa di prestargli aiuto e di spedire tre uomini a cavallo, armati, spesati e foraggiati; nel maggio del 1323 il papa stesso, Giovanni XXII, loda e ringrazia i montelparesi per la loro fedeltà e per i servizi prestati alla santa Sede contro i Fermani ed i Fabrianesi.

   Nel 1325, per questioni di confini tra Monteleone e Monterinaldo l’esercito dei Fermani si accampò sul colle Lardone, ad est di Montelparo, allora tutto il Parlamento locale accorse per parlamentare col capitano, Tarlantino da Pietramala, e sottoscrivere un pubblico atto di amicizia ed incolumità. Si faceva promettere il risarcimento di ogni danno fatto dai soldati, e a loro montelparesi fu consentito di muoversi liberamente nel territorio, nella città di Fermo ed in tutto il suo Stato. Nell’agosto 1331 il comune pagava una multa di 50 lire per aver dato ricetto a Marchetto e Giovanni, ex-Signori di Rovetino, messi al bando dalla Curia Generale del Rettore della Marca.

   Nel quadriennio 1329-1333 si fecero diversi atti notarili di mutui finanziari con forestieri ed ebrei locali; per la restituzione di 600 fiorini a tal Gentile da Penna S. Giovanni, per cui il Comune fu costretto a vendere alcune terre. Nel documento non è esposto il motivo di sì grande indebitamento; probabilmente si dovettero consolidare le mura di cinta per stare al riparo dalle incursioni delle soldatesche del signorotto fermano, Mercenario da Monteverde e di altri.

   Il 14 aprile 1338 la Comunità, dichiarava di sottomettersi al giudizio dei giudici per aver arrecato danni in territorio di Montalto con la cattura di alcuni uomini e per aver opposto resistenza contro il Giudice del Presidato Farfense e i suoi familiari. E veniva assolta dal Rettore della Marca in considerazione dei danni subiti ad opera dei ribelli contro la Chiesa, ed anche perché erano andati incontro a molte spese in occasione della custodia di Montalto contro gli assalti degli Ascolani, affidatagli dal Rettore stesso.

   L’anno seguente la Comunità di Montelparo è condannata a pagare 60 fiorini d’oro per aver disobbedito al Rettore della Marca non spedendo i soldati richiesti per far l’esercito contro il castello di Apiro. Oltre a Montelparo, allora non inviarono soldati per la formazione dell’esercito contro Apiro anche i comuni di Offida, Ripatransone, Porchia, Rotella, Castignano, Force, Santa Maria in Lapide (= Montegallo), Montemonaco ed Arquata; ad essi fu data analoga condanna, proporzionata al numero dei soldati richiesti; tuttavia poi si fece una speciale transazione fu rimessa ogni pena per le molte benemerenze ed atti di fedeltà di dette Terre.

   Non si hanno notizie montelparesi in merito alla grande pestilenza che colpì l’Italia negli anni 1348-49, dimezzando la popolazione. Esistono comunque informazioni nelle cronache di Fermo e di altri comuni, tra cui Amandola e si viene a sapere che il numero delle vittime fu così grande che si dovette ridurre il numero dei componenti il Consiglio Generale del Comune che comprendeva i rappresentanti deputati dei castelli del contado.

                                           Aspirazioni autonomistiche del clero montelparese

   In tutta la prima metà del Trecento continuavano le agitazioni del clero montelparese che era riluttante alla piena sottomissione al priore del Monastero Farfense di Santa Vittoria. Avvenivano anche soprusi. Il 13.4.1301, i rettori delle chiese di S. Maria de Alvagnano e di S. Angelo in Gajanello, Fra Bonaventura, nominato da Jocerando (1296-1311) (sedicente abate di Scandriglia di Rieti che si qualificava Vicario dell’Abate di Farfa nelle chiese farfensi delle Marche), per tale atto illegale erano costretti a rinunciare la loro rettoria nelle mani del Priore di Santa Vittoria il quale, il 5 maggio seguente, nominava D. Matteo di Tebaldo di Montelparo, rettore della chiesa di Gajanello.

  Il 13 nov. 1303, il Priore di Santa Vittoria, Marcoaldo, ordinava a D. Giovanni di Gualteriolo di Giso, cappellano di S. Angelo in Castello di presentare, dentro il termine perentorio di otto giorni, gli istrumenti pubblici mediante i quali aveva ottenuto il godimento della prebenda di S. Biagio de Teramo (in Comunanza), e di quelle unite di S. Angelo, S. Maria de Roncone e S. Severino di Montelparo, la cui nomina era di competenza del Priore e del Capitolo farfense di Santa Vittoria. Ma, poiché il suddetto D. Giovanni non ottemperava alla richiesta ingiuntiva, il 3 dicembre 1303, il Priore di Santa Vittoria ordinava ai rettori-curati di S. Angelo in Castello e di S. Maria Novella di pubblicare che il sedicente, D. Giovanni di Gualteriolo, fruitore di molte prebende, che era scomunicato. Anche per la nomina del rettore e dei prebendati della chiesa di S. Benedetto nascevano interferenze e vertenze per favorire il medesimo D. Giovanni di Gualteriolo; ma energicamente il Monastero di Santa Vittoria fa ricorso al papa Benedetto XI, asserendo che ogni diritto di nomina e di destituzione gli spettava «ab immemorabili», certamente da più di 30 e 40 anni.

   Da una relazione del 1327, fatta da Fra Tommaso di Giacomo da Santa Vittoria, Vicario dell’Abate di Farfa nelle Marche, si ha notizia che tutti i rettori delle chiese di Montelparo dovevano dare al Monastero di Santa Vittoria due parti delle decime loro ed un annuo censo «in segno di sottomissione, obbedienza et riverenza»;  per l’«omaggio» personale si dovevano recare nella chiesa di detto Monastero il mercoledì delle Ceneri di ogni anno, perché le loro chiese erano state istituite e fondate dagli abati farfensi ed erano considerate come membra del Monastero di Santa Vittoria.

   Nell’Archivio Capitolare della Collegiata di Santa Vittoria si conservano molte pergamene attestanti il pacifico diritto di nomina dei rettori-curati e dei cappellani delle chiese di Montelparo e di Montefalcone, relative alla prima metà del Trecento. Ma, pietra di scandalo in Montelparo continuò ad essere l’intrigante chierico Giovanni di Gualteriolo il quale, il 26 febbraio1321, fu colpito da scomunica da parte del Vicario Farfense nelle Marche, Fra Claudio, proposto di Monte Cretaccio, perché, accusato di convivere con una donna scostumata, non si era presentato per discolparsi. Contro costui altra scomunica fu inflitta dallo stesso Vicario il 15 marzo seguente, perché aveva fabbricato un oratorio, o cappella nel quartiere di S. Maria per seppellirvi la salma di Gualteriolo di Rinaldo, in pregiudizio della chiesa di S. Maria de Alvagnano. Altri documenti dicono che il D. Giovanni Gulateriolo si sottomise solo dopo una sentenza emessa dal Giudice del Presidato Farfense e che, divenuto cappellano della chiesa montelparese di S. Pietro di Catigliano, ivi fece seppellire la salma di Gualteriolo di Rinaldo del Colle. Poi, nel gennaio del 1334, le sue ossa e quelle di altri bambini, già sepolti nella detta chiesa di S. Pietro, furono esumate per essere seppellite nella chiesa di S. Angelo in Castello, perché non fossero pregiudicati i diritti di questa chiesa. Infine, il turbolento sacerdote montelparese fu trasferito alla chiesa di S. Maria in Muris, in territorio di Belmonte.

   Altre vertenze riguardarono la riscossione di alcuni censi e porzioni di decime, dovuti dal clero montelparese al Monastero di Santa Vittoria, per cui si registrano frizioni e frequenti ricorsi alle autorità superiori da ambedue le parti contendenti. L’Abate di Farfa, Giovanni IV di Rieti, nell’aprile del 1334, riconfermava ufficialmente al Monastero di Santa Vittoria alcune possessi per il mantenimento dei monaci, tra cui «tutte e singole le chiese e le cappelle site nel castello di Monte Elparo, cioè: la chiesa di S. Angelo in Castello, la chiesa di S. Maria ‘de Alveniano’, la chiesa di S. Maria Novella, la chiesa di S. Angelo de Gajanello et generalmente tutte le altre site nel distretto di Monte Elpero e nel suo territorio» ( G. COLUCCI, Ant. Pic., vol. XXIX, p. 179).

   Lo stesso Abate, il I maggio 1337, dava facoltà ai montelparesi di edificare la chiesa di S. Maria de Laude e concedeva particolari indulgenze per i visitatori in certe solennità dell’anno. Anche in Santa Vittoria, qualche anno prima, era stato eretto un oratorio sotto lo stesso titolo. L’appellativo «de Laude» indica un luogo ove la gente si raccoglieva per preghiere particolari in onore della Vergine Maria con la recita delle «Laudi» (come le Litanie Lauretane).

   Il 6 maggio 1337, su richiesta del Comune di Montelparo, il medesimo Abate spediva da Rieti una bolla con cui esentava la chiesa di S. Angelo in Castello dalla soggezione del Monastero di Santa Vittoria e vi istituiva una comunità monastica, osservante la Regola di S. Benedetto, con assegnazione di quattro religiosi ed un Priore. Incaricava il monaco Farfense, Fra Giacomo, priore di Rotella, di provvedere a vestire come monaci i rettori e i cappellani delle altre chiese e di dar possesso della vacante chiesa parrocchiale di S. Angelo in Castello a D. Francesco Agnone, già rettore della chiesa di S. Maria Novella, proclamandolo Priore della nuova comunità monastica, la quale, in segno di sottomissione all’Abate di Farfa, nella festa di S. Michele (29 sett.), avrebbe dovuto pagare un censo annuo di cinque fiorini d’oro buono.

   Detta bolla, però, non conseguì il suo effetto esecutivo. Ci sfugge il motivo di ciò; forse per le agitazioni guerresche, forse per l’opposizione non documentata del Priore di Santa Vittoria. Certo è che i rettori delle chiese montelparesi l’anno seguente rifiutavano al Monastero di Santa Vittoria in censo, le decime e le altre prestazioni tradizionali, per cui, fino al 1341, dinanzi alla Curia Generale del Rettore della Marca Anconetana si facevano cause, promosse dall’una e l’altra parte con appelli e contro appelli. I rettori delle chiese di Montelparo si videro rigettata ogni loro richiesta con l’obbligo confermato di dover continuare a corrispondere censi, decime e prestazioni al Monastero vittoriese nella seguente misura per ciascun rettore e chiesa: S. Angelo in Castello 3 salme di grano, pari a Kg. 485; S. Maria de Alvagnano: 7 quarte di grano pari a Kg. 190; S. Angelo in Gajanello: 7 quarte di grano e una torta; ma S. Maria Novella: nulla.

   Si realizzarono le novità dopo alcuni anni, e l’idea di istituire presso la chiesa di S. Angelo in Castello una comunità monastica maturò a tal punto che il Vicario Generale di Farfa unitamente al Priore di Santa Vittoria, il 22 gennaio 1348, richiesero al legato della Marca, il Card. Bertrando de Dencio l’erezione di un Monastero e Collegio di monaci presso la detta chiesa, evidenziando alcune condizioni particolari: Priore e monaci vestivano l’abito nero e praticavano la vita comunitaria sotto la Regola di S. Benedetto. Alla nuova chiesa Collegiata di S. Angelo in Castello erano aggregate la chiesa rurale di S. Angelo in Gajanello e quella di S. Maria de Alvagnano dentro la Terra, con tutti i precedenti diritti. In segno di sottomissione e riverenza ed in compenso delle due parti delle decime, il Monastero di Santa Vittoria ebbe la facoltà di imporre alla chiesa di S. Angelo l’annuo censo di 5 fiorini d’oro, da corrispondere nella festa dell’Assunta. Per Montelparo, la nomina del priore, la creazione dei canonici, la correzione e punizione rimanevano di competenza del priore di Santa Vittoria. (G. COLUCCI, p. 190). Il legato della Marca concesse il pieno effetto esecutivo.

                                      Avvenimenti della seconda metà del Trecento

   Nel settembre 1355 il Card. Egidio d’Albornoz, restauratore dello Stato Pontificio, convocò a Fermo i legali rappresentanti di tutti i liberi Comuni. Vi partecipò anche il Sindaco di Montelparo che consegnò le chiavi della sua Terra in segno di piena sottomissione al Rettore della Marca, Blasco di Fernando da Belviso, nipote del cardinale Egidio che emanò ordini categorici per impedire le frodi nel pagamento delle collette, come mostra l’apposta pergamena. Non si può dire quanto durasse quest’atto di sottomissione; certamente ci furono dissensi, dato che nel corso dell’anno 1359, avendo fatto combutta con gente di iniqua società, ribelle contro la Santa romana Chiesa, probabilmente la Comunità montelparese fu condannata per aver favorito incursioni, latrocini, uccisioni e saccheggi delle milizie del famigerato Monreale, e in tre rate pagò una sonora penalità, ascendente ad 800 ducati d’oro.

   Nella Descrizione della Marca anconetana in lingua latina, «Descriptio Marchiae Anconitanae», redatta al tempo dell’Albornoz, circa l’anno 1356, si ricava che Montelparo era una Terra che godeva della libertà ecclesiastica, direttamente dipendente da Santa romana Chiesa, faceva parte del Presidato della Abbazia Farfense, e agli effetti di ogni specie di collette e taglie le imposizioni si facevano su 200 fumanti. Pertanto si comprende che la popolazione complessiva si aggirava intorno ai mille abitanti.

   Il Comune era incluso tra le “città piccole”, perciò doveva mettere a disposizione della Curia Generale un baiulo (balivo), guardia con berretto rosso con ornamento delle chiavi incrociate; ogni anno a Pasqua pagava alla Camera Apostolica il censo di 34 lire, ed a maggio 10 lire «per affitto». Inoltre, per il mantenimento della corte e dell’esercito dell’Albornoz gli fu imposta una taglia annuale di 600 fiorini, da pagarsi in tre rate, per tutto il tempo del suo rettorato. Altre ricevute di taglie furono rilasciate nel 1362, 1369, 1372, 1373, 1390, 1391. Il 15 sett. 1369 pagò 80 fiorini per sua tangente nella guerra contro Perugia, ove mandò 20 soldati ben istruiti e 10 balestrieri bene equipaggiati.

   Nel 1373 lo Stato Pontificio, dovendo sostenere la guerra contro i Milanesi «perfidi ed iniqui nemici di santa Madre Chiesa», impose a Montelparo al pagamento di 382 fiorini; 370 ne aveva pagati l’anno precedente, secondo quanto stabilito nel Parlamento di Bologna, quando, essendo in atto la guerra tra Veneziani e Genovesi, lo Stato della Chiesa si armò per una maggiore sicurezza; poi, per varie circostanze continuò a pagare imposte straordinarie per la difesa dello Stato della Chiesa, fino al 1377.

   Poi nel Fermano imperversò l’azione militare del crudele tiranno Rinaldo da Monteverde che s’era impadronito del potere a Fermo nel 1376, turbando la tranquilla vita paesana negli anni 1378, quando il tiranno s’impossessava del castello di Bucchiano, accampando diritti ereditari su di esso, e vi inviava il fermano Fucaporo; in ciò fu favorito dalla presenza in Montelparo di alcune nobili famiglie, incastellate nel secolo precedente.

   Il Comune, sostenuto dall’altra maggior parte della popolazione, insorse, fece l’armata, ed il 25 marzo 1378 snidò il tiranno dal Castello di Bucchiano, mettendo al bando le famiglie che per lui avevano parteggiato. Fu allora che da Ripatransone il Vice- Rettore della Marca dette ordini perentori ai Comuni di S. Vittoria e Montelparo di radere al suolo il castello di Bucchiano dentro il termine di sei giorni, comminando la penale di 1000 ducati in caso di disobbedienza. L’ordine fu eseguito.

   Per conseguire la riconciliazione tra famiglie montelparesi ed assicurare nel paese una pacificazione salutare, il 19 dicembre 1378, si tenne un pubblico e generale Consiglio; e, due giorni dopo, fu inviato presso il Legato della Marca un cittadino per trattare la riconciliazione del Castello con lo stesso Rettore; infine, l’8 gennaio 1379 fu stipulato un istrumento di pace tra il Comune di Montelparo e gli esuli di detta terra, redatto in Ripatransone, alla presenza di Napoleone Orsini, Luogotenente del Rettore della Marca.

   Per tutte queste imprese il Comune, non solo fu risarcito dei danni subiti, ma il papa Urbano VI spedì ben tre bolle con le quali, in premio alla devozione alla Santa Chiesa Romana, il Comune fu esentato dal pagamento delle collette, dei sussidi arretrati di quattro anni e di quelli degli anni futuri; gli venne confermato il privilegio di Nicolò IV, riguardante la libera elezione del podestà e degli altri Officiali; e che tutte le prime istanze delle cause civili e criminali dovevano essere giudicate dal Podestà e suoi Officiali a Montelparo stessa, mentre nessuno poteva essere forzato dinanzi ad altro tribunale. Inoltre si fece grazia di ogni pena per i crimini ed i delitti in cui erano incorsi i cittadini, in considerazione delle guerre e delle altre calamità sofferte, nella fiducia di una sempre migliore condotta per l’avvenire.

   Il 9 marzo 1390, il Vicario Generale della Marca ridusse una taglia da 330 a 280 ducati, perché la popolazione era diminuita, si era ridotto il raccolto a causa della carestia, mortalità e guerre; e l’imposta risultava non sopportabile. Durante lo scisma d’occidente, che turbò la Chiesa dal 1379 al 1417, Montelparo rimase sempre fedele al papa legittimo, per cui meritò diversi attestati di riconoscenza, sgravi fiscali e riduzioni di taglie. Generalmente tutti i comuni dell’area farfense rimasero fedeli, mentre a Fermo il vescovo Antonio de Vetulis, per aver aderito all’antipapa Clemente VII, nel 1385, fu deposto e scomunicato dal papa Urbano VI; per cinque anni si rifugiò nel castello di Montottone, fino alla riabilitazione ottenuta da Bonifacio IX nel 1390.

   Nell’Abbazia di Farfa avvennero mutamenti sostanziali; sotto gli ultimi due abati, Sisto I (1363-1387), originario di Force, e Nicola II (1387-1399), napoletano, quando i feudatari incominciarono a rifiutare pagamenti, regalie e servizi. Tra le conseguenze si ebbe che la vita monastica conobbe un rilassamento generale; cosicché sopravvenne la commenda che nel 1400, il papa Bonifacio IX fece per suo nipote, Francesco Tomacelli. In seguito, per tutto il secolo XV, l’ebbero in commenda vescovi e cardinali della nobile famiglia Orsini. Questo avvicendamento indebolì il rapporto di dipendenza tra l’Abbazia madre e tutte le prepositure e monasteri delle Marche.

   Nell’ottobre 1391, Andrea Tomacelli, fratello del papa Bonifacio IX, Rettore della Marca, per ordine pontificio rinnovò a Montelparo i privilegi concessi da Urbano VI; così fece con le altre Terre del Presidato al fine di cooptarle in una lega guelfa per combattere la lega ghibellina cui avevano aderito le città di Fermo, Ancona, Macerata e Camerino. Queste avevano assoldato il capitano di ventura Biordo de’ Micheletti, il quale, l’11 sett. 1393, nei pressi di Penna S. Giovanni, roccaforte dei Signori da Varano di Camerino, in una sortita contro la brigata del Conte di Carrara, che si era fatto fin sotto le mura, fece prigioniero il Rettore della Marca, Andrea Tomacelli e lo deportò a Macerata. Grande fu il dolore del papa. In una lettera al Comune di Santa Vittoria assicurava di aver provveduto subito all’invio di 1500 cavalli e molti fanti, capitanati dal fratello Giovannello e li invitava a continuare nella fedeltà e devozione da bene in meglio, esortando a ciò anche i comuni vicini, rimasti fedeli al papa. Tra questi, fra i primi, si deve includere Montelparo.

   Al movimento di riscossa per la riconquista delle città e per la liberazione del Tomacelli prese parte attiva il capitano Marino Marinelli di Santa Vittoria, il quale sconfisse il capitano Biordo nei pressi di (Monte) S. Giusto nel 1395, aprendo la via per la liberazione del fratello del papa, che successivamente poté rientrare nella città di Fermo, donde lo stesso Marinelli aveva scacciato i ribelli, capitanati da Antonio Aceti. A tutti questi avvenimenti, nonostante il silenzio dei documenti, con molta probabilità, presero parte anche i generosi montelparesi.

                         Alcune notizie di avvenimenti del sec. XV

   Le pergamene di Montelparo relative al secolo XV documentano quasi esclusivamente suppliche e concessioni per riduzioni di collette e taglie, quasi sempre a motivo di guerre, o di altre pubbliche calamità sofferte. Ve ne sono di argomento diverso, in particolare la misurazione del territorio e la formazione del «Catasto di Montelparo» fatta nel 1421 dall’agrimensore M° Contadino di Onofrio da Assisi; il cottimo dei terreni di S. Angelo Magno dati ai lavoratori del posto nel 1427; un concordato con il comune di Santa Vittoria dell’8 gennaio 1439 intorno ai beni della signora Sanzia Tiveri di Santa Vittoria, venduti ad Antonio Boldini di Montegiorgio; in una pergamena del comune santavittoriese del 15 maggio 1467 si legge un accordo per fissare i confini tra Santa Vittoria e Montelparo; un altro istrumento notarile servì a designare i confini tra Montelparo e Monteleone il 6 maggio 1479. Infine, risale al primo luglio 1539 la sentenza definitiva nella lite tra Montelparo e Monterinaldo per i confini ed i diritti sul castello di Bucchiano, pronunciata dall’Uditore del Legato della Marca, Mario Favonio di Spoleto, ed accettata con soddisfazione dalle parti, nonostante che Montelparo fosse privato di parte del territorio comprendente l’ex castello di Bucchiano e la chiesa di S. Maria di Montorso.

   Non si trovano fonti storiche da cui appaia che Montelparo fosse stata terra di conquista dei Signori Malatesta di Rimini, né dei Signori da Varano di Camerino, i quali nel primo quarto del secolo XV occuparono diverse Terre del Piceno. Certamente corse il pericolo di essere occupato dall’esercito del Conte Francesco Sforza di Milano quando nel 1433, sceso nelle Marche, occupò Jesi, Osimo, Macerata e Fermo. Però, fin dal 1432, il Giudice del Presidato Farfense, intravedendone il pericolo, aveva ordinato ai Comuni compresi nella sua giurisdizione, primo fra tutti Montelparo, di fortificarsi e mettersi alla parata contro qualunque assalto (Cfr. G. COLUCCI, op. cit., vol. XVII, p. 107). Il dominio dello Sforza, durato per più di un decennio, non fu mai pacifico, ma sempre contrastato. Tuttavia, solo nel dicembre 1443, quando le truppe del Piccinino erano impegnate a Montegranaro, i soldati dello Sforza, dopo aver sottomesso Montegiorgio, attraversarono il Tenna ed occuparono Santa Vittoria e Montelparo.

   Fu soppresso il «Presidato Farfense»; come luogotenente del Conte fu inviato un «giudice protettore ed esgravatore di molti affanni», il sig. Paolo da Orvieto; mentre il fratello Alessandro Sforza, dopo aver svernato con le sue truppe a Santa Vittoria, il’4 aprile 1444 partì per Montefortino, Force ed altri luoghi. Nell’estate del 1445, per far fronte ai Malatesta, lo Sforza fu impegnato a Pesaro. Allora ci fu la riscossa della bassa Marca col supporto del Piccinino che si mosse dalla città di Ascoli per liberare le Terre site più a nord. Il Comune di Montelparo riacquistò la sua libertà il 3 ottobre 1445; Santa Vittoria il giorno successivo, come documentato dalle convenzioni, o capitolati sottoscritti tra i rappresentanti comunali ed il Card. d’Aquileia, Camerlengo e Legato della S. Sede Apostolica (Cfr. COLUCCI, op. cit., p. 100; e vol. XXIX, p. 236), dove si sancisce la pacifica sottomissione allo Stato della Chiesa.

   Dopo questi avvenimenti lo Stato Pontificio acquistò maggiore stabilità come anche i grandi principati italiani. Le scelte autonome dei liberi comuni si adeguavano alle leggi generali, per cui dappertutto si attuava una certa uniformità e la storia di ogni Terra è diventata quella stessa della sua Provincia. Il libero comune nella vita civile era assorbito, come una goccia d’acqua, nel pelago dello Stato moderno. Così anche per Montelparo.

    Altri capitoli «Guida turistica ai monumenti di Montelparo» e “Personaggi illustri” danno notizie riguardanti i secoli successivi al XV.

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MONTELPARO (FM) NEGLI STUDI DI CROCETTI GIUSEPPE SUL TERRITORIO

GIUSEPPE CROCETTI, Note sul patrimonio delle radici religiose, amministrative, artistiche e socio- culturali del passato e delle attuali permanenze a 

 M  O  N  T  E  L  P  A  R  O

<PREMESSA aggiunta: Nell’anno scolastico 1988\1989 la Presidenza serviglianese della Scuola Media inferiore fu sollecitata dai colleghi montelparesi a far riscoprire il patrimonio storico di Montelparo. Si rivolse pertanto allo scrittore sacerdote Crocetti Giuseppe che dichiarava di godere per il patrimonio storico dell’arte montelparese profusa un po’ dovunque nei palazzi e nelle chiese. Allora decise di dare voce alle opere edificate, ai monumenti e alle tradizioni locali in base alle ricerche e letture in diversi archivi e biblioteche che gli rivelavano molti rapporti di Montelparo con vari artisti, con l’Imperiale Abbazia di Farfa, con il monastero (in un periodo abbazia benedettina) di S. Vittoria, con il Presidato Farfense, con il Rettore della Marca. Si apprezzano le pagine che egli ha redatto in un anno d’intenso lavoro intellettuale con lodevoli risultati che illustrano i tesori d’arte profusi nelle chiese del territorio dia Montelparo, facendo scoprire, tra l’altro, i nomi di artisti finora sconosciuti. L’autore che è nato a Santa Vittoria in Matenano ed è stato parroco a Monte Urano, ha lasciato le sue carte all’Archivio storico arcivescovile di Fermo. Auguriamo felice lettura di quanto qui estratto. >

I. IL TERRITORIO E LA POPOLAZIONE DI MONTELPARO (FM)

   Montelparo anticamente fece parte del Comitato di Fermo ed anche del Presidato dell’Abbazia di Farfa (in comune rietino di Fara). Attualmente fa parte della diocesi di S. Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto. Il suo territorio ha una superficie di 21,5 Km quadri, tra la zona sorgentifera del fiume Ete Vivo ed il fiume Aso, nel comprensorio della «Comunità Montana dei Sibillini» che beneficia dei favori disposti dalle leggi per le zone montane. Questo comune confina con i territori di Santa Vittoria in Matenano, Monteleone di Fermo, Monsampietro Morico, Monterinaldo.

  Il centro abitato  ha le abitazioni disposte lungo ripiani a semicerchio da oriente ad occidente, rinforzati dai sostegni di mura fatte con pietra locale. Le loro diversità testimoniano la graduale espansione abitativa del castello medioevale, lungo il corso dei secoli. Tra un ripiano e l’altro fanno da collegamento le vie piuttosto ripide che nel risalire si muovono tra i progressivi livelli dei ripiani dell’altura fino ad arrivare alla cima collinare detta contrada Castello. Uno slittamento franoso nella parte settentrionale del colle nel 1683 produsse rovine notevoli; altre lame avvennero con il terremoto del 1703. Ma tale instabilità permane nella zona orientale che è infida per le costruzioni abitative, nonostante la bella esposizione al sole.

   Le coordinate geografiche del capoluogo: Longitudine Est da Greenwich 13°, 40’, 20”; dal meridiano Romano di Monte Mario = 1°, 04’, 20”.  Latitudine Nord dall’equatore al parallelo 43,01.

   Molti sono i fossi che scavano i versanti collinari del territorio; sono alimentati dalle piogge con sorgenti secolari e scendono ripidi e profondi a valle, delimitando le rispettive contrade rurali. Ecco quelli notevoli.

.-. Il fosso Gajanello si forma sotto le mura occidentali del paese, attraversa la omonima contrada fino a confluire nel fiume Ete Vivo.

.-. Il fosso delle Streghe nasce dalle alture Colle Tondo e Colle Acuto nel territorio moltelparese di settentrione, poi scorre a valle, determinando i confini con i comuni contigui di Monteleone di Fermo e Sant’Elpidio di Monsampietro Morico.

.-. II fosso Sant’Andrea scaturisce sotto le mura orientali del paese, scende rapido a valle tra dirupi per confluire nel torrente Indaco il quale riceve le acque dei fossi della contrada Cortaglie, al confine con Monterinaldo.

.-. Al fiume Aso confluiscono i fossi delle contrade di Santa Lucia, del Serrone, della Celestiale, di S. Maria e del Roncone scritto ‘Rengone’ nella cartografia dell’lstituto Geografico Militare di Firenze. Roncone deriva da roncola (di uso agricolo) e questo fosso ha un percorso curvo, ad arco, nello scendere rapido a valle facendo una curva a sinistra per scorrere poi un tratto in parallelo al fiume Aso, dove finisce per confluire.

Scrive B. Egidi: «Il terreno, prevalentemente del Miocene e del Pliocene, presenta piegamenti e rilevamenti che, uniti alla vasta attività. erosiva dei vari torrenti sono in continua ondulazione con caratteri accentuati e nervosi, con incavature abbastanza profonde, e ritmici canaloni nei calanghi della contrada Gajanello».

    Eccoi dati altimetrici più significativi del territorio montelparese. Il centro urbano si eleva alla bella altitudine di 588 metri sul livello del mare. I versanti collinari digradano fino a m. 222. Ecco le quote più basse: altitudine m. 230 al fiume Ete Vivo; m. 256 Torrente Indaco; m. 290 contrada Madonna Celestiale; il fiume Aso, m. 283 a confine con Santa Vittoria in Matenano; il fiume Aso m. 222 al confine con Monte Rinaldo.

Studi geologici recenti esplorano la ricognizione di una grande vena d’acqua che attraversa l’altura del territorio da Nord verso Sud-Est. La sua acqua va ad alimentare diverse antiche fonti e finisce per scaricarsi nella zona del Campo Sportivo.

   Le fonti hanno tutte un necessario rapporto con sorgenti d’acqua e le più note sono: Fonte Carello in contrada Sala, documentata nel sec. XVI; Fonte della Via, a Nord-Est fra le contrade di Catigliano e Madonna delle Grazie. Ci sono fonti menzionate nel catasto del 1783 nelle contrade: Fonte Coppa (o del coppo); Fonte Sant’Angelo, Fonte Maggio, Fontanelle, e Fonte.

   Nel territorio montelparese non si riscontrano sorgenti di acque termali, o dotate di acque particolarmente terapeutiche. Per gli usi domestici, tutto il territorio comunale è servito dalla rete idrica dell’Acquedotto del Pescara, con alto serbatoio sulla vetta al Monte Cucco, opera realizzata nella seconda metà del secolo XX.

Le strade serpeggiano lungo il suo territorio, molto ondulato e frastagliato. Ecco le strade provinciali, tutte bitumate:

.a. – La Provinciale «Montottonese» che viene dl confine con la contrada Sant’Elpidio Morico, attraversa il capoluogo, prosegue per Santa Vittoria in Matenano.

.b. – La Prov.le di collegamento con Monteleone, si inserisce da oriente del Monte Tondo con la predetta «Montottonese».

.c. – Altra Prov.le collega la parte montelparese con Monterinaldo ed Ortezzano;

.d. – La Prov.le delle «Coste» collega con la nota Strada Statale N° 433, Valdaso.

   Due strade assai utiui sono state realizzate negli ultimi anni del secolo XX, dagli Enti di Bonifica, uno di Valtenna e l’altro di Valdaso: la prima in tortuosi tornanti attraversa la contrada Gajanello per congiungersi cori la strada lungo la valle dell’Ete; la seconda lungo la pianeggiante valle dell’Aso parte nei pressi del Ponte Maglio, lungo la sponda sinistra dell’Aso va al bivio per Ortezzano.

   Le strade comunali, che si cerca di mantenere bene, facilitano il collegamento tra le abitazioni sparse nelle contrade rurali con percorsi verso il capoluogo ed verso i comuni vicini.

   Il clima è tipico dei paesi di alta collina ed è gradevole. Scrive il Pastori nel suo libro su Montelparo: «L’aria che qui si respira è sottile e salubre; l’orizzonte che si gode dall’alto è spazioso e molto aperto». Dalle alture l’occhio è appagato al vedere i Monti Sibillini, le prominenze preappenniniche di Montefalcone, Smerillo, Santa Vittoria in Matenano e il Monte dell’Ascensione. Si nota il digradare delle colline verso il mare e tutto attorno emergono i paesi arroccati su alti colli stondati.

   Per fruire del buon clima le case del paese sono prevalentemente esposte verso Sud ed Est, al riparo dalle correnti di tramontana. Come in molti altri paesi piceni, i capricci dei grandi temporali, spesso, si concludono con dannose grandinate. Si ricorda che anticamente, per rompere ed allontanare le correnti dei rannuvolamenti turbinosi, si ricorreva al suono insistente del campanone ed allo sparo fragoroso dei mortai.

   La buona stagione favorisce un turismo di ritorno, invitando a trascorrere a Montelparo una vita serena e ben ossigenata: sono molti i montelparesi emigrati, per lavoro o altro, che, da altre città, con la loro famiglia, tornano non solo per il nostalgico richiamo del paese natio, ma anche per respirarne l’aria salubre e disintossicante.

   La popolazione residente gode le ottime qualità ambientali, ma da anni è in diminuzione. Nel 1990 in tutto il territorio comunale risiedevano poco più di mille abitanti, con una densità demografica di 47 abitanti per Kmquadrro, densità ben assai inferiore alla media nazionale italiana che allora era di 172 abitanti, ma andava anch’essa dimuendo. Nei secoli passati la popolazione di Montelparo ebbe consistenza numerica in un’ascesa dipendente da circostanze di floridezza economica, che tuttavia era spesso minacciata da carestie, guerre e pestilenze. Da mezzo secolo l’indirizzo economico ha compromesso l’occupazione nel settore agricolo di fronte all’incremento conseguito dai settori industriale e terziario, anche nei pubblici servizi.

   Un tempo, Montelparo arrivò ad avere quai 2.400 abitanti. Nella «Descrizione della Marca Anconitana» dell’anno 1356 si legge che a Montelparo pagavano la tassa del «fumante» (cioè del focatico) 200 famiglie, che, moltiplicate per il coefficiente 5 dato dagli studiosi di statistica storica, indicherebbe una popolazione di mille abitanti, così come ai nostri giorni. Per gli ultimi due secoli i registri documentano:

ANNO 1782 ABITANTI 1168; an. 1860 abit. 1641; an. 1936 abit. 2358; an. 1951 abit. 2310,  an. 1961 abit. 1866; an. 1971 abit. 1267; an. 1981 abit. 1121, ANNO 1990 abitanti 1013.

   Dopo una secolare crescita costante; a cominciare dalla seconda guerra mondiale si è verificato un calo continuo, molto accentuato nel quaranternni dal 1951 al 1991, i censimenti mostrano la perdita di oltre mille abitanti. Tra il 1936 ed il 1990 la popolazione di Montelparo è diminuita del 57%, percentuale tra le più alte nella provincia di Ascoli Piceno. C’è stato un complesso di concause come la crisi dell’agricoltura e dell’artigianato paesano, la mancata creazione di insediamenti industriali ed artigianali di un certo rilievo, la sottoccupazione del bracciantato. Molte persone emigrano dai paesi collinari per trovarsi altrove un lavoro più dignitoso e meglio retribuito. Di molto è diminuita anche la natalità: pochi i nati.

   Peraltro, il reddito medio per abitante si è andato accrescendo, grazie anche alle pensioni di anzianità. Inoltre la meccanizzazione agricola e le scelte migliorate nelle colture i terreni hanno dato rese sempre più alte a beneficio dei pochi lavoratori rimasti a lavorare la terra. Le coltivazioni di un tempo erano basate sulla produzione di cereali e foraggio ed sulla coltivazione delle viti sparse nei campi, o a filari, poi si sono sostitute con altro come gli impianti di frutteti nella pianura del fiume Aso, e i razionali vigneti nelle colline esposte al sole. Si accentua la tendenza verso colture estensive di barbabietole da zucchero, granoturco e girasoli. Cambiamenti anche nell’allevamento del bestiame: bovini, suini e pollame vario sono allevati in moderni e razionali stalle. Scomparsa la conduzione a mezzadria, la lavorazione prevalente dei campi è quella diretta; poi si sono create alcune aziende agricole, condotte a mezzo di salariati fissi e giornalieri.

Per quanto riguarda le altre attività il censimento fatto nel 1981 dava queste indicazioni anche per quelli che non lavoravano la terra: artigiani numero 41; commercianti num. 49; servizi occupati n. 8 vennditori ambulanti n. 13.

   Le aziende artigiane comprendevano i seguenti settori: calzaturieri n. 3; Falegnami n. 3, nell’edilizia n. 6, nelle maglieria n.2, in macellerie n. 2; fabbri n.2) termoidraulici n. 2; parrucchieri n. 2. Figuravano 4 negozi di generi alimentari, 3 negozi per tessuti, 5 agenti, o rappresentanti di commercio.

   Tra i professionisti sono elencati il medico, il farmacista, l’odontotecnico, geometri ed architetti, periti agrari e consulenti del lavoro, assicuratori, ecc.

   La scuola dell’obbligo comprendeva: la Scuola Materna in un ambiente ben strutturato con giardino e cortile ombreggiati; la Scuola Elementare e la Scuola Media Statale avevano sede nei locali dell’ex convento di S. Agostino, con biblioteca, sala di lettura, cortile, porticato e spaziosi corridoi.

   Il sogno nel cassetto di ogni amministratore comunale è quello di far diventare il proprio paese un centro con forte richiamo turistico nel potenziamento di alcune attrattive fondamentali: paese pulito, edifici restaurati, passeggiate alberate, ristoranti con cucine caratteristiche, manifestazioni folkloristiche e popolari.

Fior d’ametista,

Montelparo ha buon clima e bella vista,

ricco è di storia, arte e quanto basta

per suscitare l’incanto del turista.

 A Montelparo si organizzavano il «giovedì grasso» per ragazzi, il «1° Maggio dei lavoratori», la «festa di S. Maria» che si svolge nella prima decade di settembre, il «premio Castello» per la pittura estemporanea, la promozione di convegni culturali e scientifici, l’attività della piscina coperta. Inoltre si prodigava particolare cura per il restauro delle chiese, ricche di storia e di opere d’arte. Una particolarità è la presenza dei giovani handicappati, presso l’Istituto di Riabilitazione «G. Mancinelli» con ospiti provenienti da tutta la regione marchigiana.

   L’Associazione «Pro Loco» ha provveduto per la promozione di attività sociali e culturali per collegare a Montelparo le famiglie emigrate, per esaltare le glorie storiche ed artistiche del paese, dando vita per qualche anno ad un foglio periodico: «Il Murello». Ha favorito le celebrazioni centenarie in onore del Card. Gregorio Petrocchini, illustre figlio di questa terra,  e provveduto per la pubblicazione del libro «Montelparo. Guida Storico-Turistica».

Il futuro turistico di Montelparo viene promosso con le attività recettive di pensioni, alberghi e ristoranti create da privati con genialità, decoro e buon gusto. Tra queste «il Cantinone», è il noto ristorante del centro abitato. L’albergo-ristorante «La Ginestra» in contrada Coste è dotato di campi da tennis e piscina.

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MONTELPARO (FM) negli studi di Giuseppe Crocetti sulla visita a monumenti e chiese interessanti per arte e di storia

                       CHIESE E MONUMENTI DEL CENTRO URBANO DI MONTELPARO

    Montelparo, come si può vedere da planimetrie, o da vedute panoramiche dall’aereo, ha un centro storico che allinea vie e case con irregolari lineamenti quadrangolari, aventi per centro, o vertice nella piazza del Castello, altre vie che, ripide, salgono (o scendono) a ridosso del colle intersecano i ripiani. L’esposizione prevalente delle case è ad oriente e verso mezzogiorno; escludendo il settentrione, in modo che gli abitanti sono al riparo dal gelido vento di tramontana.

    Il centro urbano, in precedenza era chiuso e fortificato con alte mura di cinta, dotate di scarpate e bastioni, fino al secolo scorso, e si accedeva al centro, sia a piedi che a cavallo, attraverso quattro porte, costruite con arco gotico e custodite da altrettanti clavigeri: .1. Porta di Catigliano, a nord-est; .2. Porta di S. Maria, o del Mercato, ad oriente, poi tolta; .3. Porta del Sole, a mezzogiorno; .4. Porta Catanova, verso occidente, sommersa dalla strada provinciale Montottonese, costruita nel 1864.

    Nel secolo XX sono stati realizzati livellamenti e tornanti di raccordo per dare accesso anche alle autovetture lungo le principali vie interne al centro urbano. Si percorrono alcune varianti della suddetta strada provinciale e ci si avvicina alle predette porte. Gli studiosi dell’urbanistica medievale e delle fortificazioni periferiche trovano in Montelparo significativi elementi conservati in gran parte nella loro autenticità originaria. Si vedono lunghi tratti di mura fortificate con terrapieni, scarpate, bastioni e torri, soprattutto in prossimità delle Porte, site ai quattro angoli del quadrilatero.

                                                Visita al Convento e alla Chiesa di S. Agostino

   Chi raggiunge Montelparo seguendo l’antica strada provinciale da Monteleone o da Monsampietro Morico, arriva di fronte all’imponente mole monumentale del convento di S. Agostino, gli gira attorno e fa sosta al Largo Marconi. Presso il Bar-ristorante «Al Cantinone» ha sede il Circolo cittadino dell’Associazione «Pro loco». E’ questo il quotidiano punto di incontro dei montelparesi d’ogni ceto e condizione, è il luogo di accoglienza per i visitatori in cerca di informazioni. Il locale è stato ricavato nei magazzeni o locali seminterrati dell’ex convento di S. Agostino. E’ stato provvisto adeguatamente per ristoro, letture, giochi da tavolo. Lungo le pareti si ammirano foto panoramiche ed artistiche di Montelparo. Agli amanti dell’arte muraria e dell’archeologia si suggerisce di fare anche una capatina nei retrostanti ambienti per vedere alcuni reperti ed ammirare l’armoniosa serie di volte e pilastri, costruiti con mattoni al nudo. Un tempo fungevano da cantina, granaio e scuderia del Convento. Una scala scende verso il locale adibito a ghiacciaia praticata con l’innevazione invernale.

   Questo Convento di S. Agostino è sito all’estremità occidentale dell’abitato e si raggiunge risalendo l’ampia scalinata esterna, dotata di 26 scalini di pietra locale, ed attraversando un piazzale ammattonato sul quale si affaccia anche l’ingresso della chiesa. Poiché la costruzione del Convento precedette la realizzazione della chiesa, è d’uso visitare prima il convento e poi la chiesa. I Padri Agostiniani iniziarono la costruzione di questo grandioso convento, nel 1686, su disegno del Cav. Onofri da San Ginesio. Le salde fondazioni furono impiantate su roccia di tufo; la sua elevazione fu adattata alle esigenze di un terreno roccioso e scosceso. Oggi costituisce un bell’esempio di costruzione comunitaria degli inizi del Settecento.

   L’impianto del convento, al livello del suo ingresso, ha base quadrate, con stanze di rappresentanza, corridoi e porticato. Di rimpetto all’ingresso, in fondo, c’è una stanza di smistamento, detta «Sala delle statue», donde parte lo scalone di accesso al piano superiore. Le tre statue della Sala raffigurano S. Agostino, S. Nicola di Tolentino e S. Chiara da Montefalco; quelle dello scalone rappresentano Gesù Redentore, S. Michele Arcangelo, e S. Tommaso da Villanova, vescovo agostiniano. Le stanze del piano superiore si succedono con ritmo regolare lungo i corridoi da tre lati; nel quarto lato, quello orientale, è addossata la chiesa. Tali locali del convento nei decenni scorsi furono destinati alla Scuola Media Statale, al Corso Biennale di Specializzazione per gli insegnanti di alunni portatori di handicap, autorizzato dal Ministero della P.I., con la collaborazione di professori universitari e raccoglieva normalmente un centinaio di frequentanti. La Biblioteca Comunale con sala di lettura, conserva anche alcuni volumi dell’antica biblioteca agostiniana.

   Contigua sta la Chiesa di S. Agostino, costruita diversi anni dopo il convento, con orientamento sud-nord, su disegno dell’Arch. Luzio Bonomi di Ripatransone (1669-1739), il quale si distinse in progetti dalla linea classica in un periodo in cui i gusti artistici, in Roma ed altrove, si sbizzarrivano nelle esasperazioni del barocco e del rococò. Fu aperta al culto nel 1730, prima che fosse stata completata internamente. Sul portale di ingresso corre l’iscrizione: A Dio ottimo massimo. Il tempio del santo padre Agostino fu edificato al tempo che era priore il frate Giacinto Pentelli.

   L’anno 1730, non più leggibile per frattura della pietra, ci è stato trasmesso dal Pastori, che ve la lesse al suo tempo. Allo zelo costante ed entusiasta del Priore suddetto, oriundo di Matelica, ma montelparese per elezione, che morì nel 1773, si deve il completamento del convento, la costruzione della chiesa ed il suo ornato all’interno.

   La chiesa di S. Agostino ha una facciata imponente, esposta a mezzogiorno, dalle linee architettoniche semplici, classicheggianti; all’interno sviluppa un impianto a croce latina, di navata, transetto e presbiterio con coro sopraelevato. L’ingresso è protetto da un’artistica bussola in legno con porte concave, abbombate e piatte; sopra la bussola è impiantata la cantoria con l’organo a canne.

   All’interno oltre all’altare maggiore nel presbiterio con coro, altre sei altari, tre su ciascuna parete laterale; Il primo, centrale fu ricostruito nel 1803, insieme all’artistica balaustra, opera di Girolamo Giulietti.  Dietro di esso, l’artistico coro, lavorato in legno noce, composto di 11 stalli soprelevati e 10 seggi inferiori, ha al centro il badalone, o leggio corale. Una scritta intarsiata documenta che fu costruito a ricordo dell’Anno Santo 1750.

   Le cappelle degli altari laterali sono costruite tutte in legno, dipinto marmorizzato e dorato, con disegno architettonico simmetrico, coppia a coppia con quello corrispondente nell’atra parete. Ogni altare è completo di paliotto, gradini per candelieri, pala sovrastante ove sono raffigurati i santi titolari, in quadri con tela, e in altro un intaglio dorato al centro del timpano spezzato.

Incominciando dall’ingresso, a sinistra, il primo altare è dedicato ai Santi Eremiti, Paolo ed Antonio, in relazione al fatto che i religiosi di Montelparo erano «Eremitani». La pala raffigura una santa Martire, da identificare con Santa Vittoria V. e M.

Il secondo altare è dedicato al santo vescovo agostiniano, Tommaso da Villanova, che si distinse in opere di carità ed elargizioni verso i poveri; nella trabeazione è scolpito lo stemma dei Frati Agostiniani e nel timpano lo Spirito Santo con raggiera.

   A metà chiesa, sopra le porte laterali, ovest verso il convento e ad est verso l’esterno, sono impiantati due pulpiti lavorati in legno. Erano in uso per le predicazioni dialogate delle Sacre Missioni al Popolo in cui il «dottore» doveva rispondere alle obiezioni dell’«richiedente» che appariva disinformato o ignorante. I confessionali alle pareti, tutti uguali, sono riferibili alla metà del Settecento.

   Nel transetto sinistro l’altare è dedicato alla «Madonna della Cintura», o della Consolazione. I santi raffigurati sono dell’Ordine Agostiniano. Nella tela del Timpano è dipinto il vegliardo di Patmos, S. Giovanni Evangelista. Sotto l’altare il corpo ricostruito di S. Paolino, martire.

   Nel transetto destro l’altare è per il culto di S. Nicola di Tolentino, protettore delle anime purganti, nonché per la devozione alla «Madonna del Buon Consiglio», raffigurata in un piccolo quadro, esposto in un ricco tronetto-residenza, intagliato in stile rococò e dorato. L’altare è privilegiato in perpetuo, e riservato ai sacerdoti agostiniani per indulto del 1749, da parte del papa Benedetto XIV, concesso per alcuni anni, come si legge nella lapide commemorativa, a destra.

   La cappella successiva è dedicata alla «Madonna di Loreto» unitamente alle Beate Chiara da Montefalco e Rita da Cascia, agostiniane. Nel plinto sinistro, si nota uno stemma con aquila reale e gamba piegata su campo azzurro e strisce verticali rosse. L’ultimo altare a sinistra è dedicato al «SS.mo Crocifisso», raffigurato in una pregevole scultura in legno, proveniente dalla vecchia chiesa. In mezzo al timpano spezzato sta il quadro di S. Vincenzo Ferreri. Questi due ultimi altari recano la segnatura dell’anno di fabbricazione: 1741, al tempo del Priore Fra Giacinto Pentelli da Matelica, Baccelliere e Predicatore Generalizio.

Sul lato sinistro del presbiterio un’iscrizione lapidaria ricorda che la chiesa di S. Agostino fu consacrata il 25 giugno 1848 dal vescovo di Montalto, Mons. Eleonoro Aronne. A tale epoca si devono riferire le decorazioni della volta e della cupola, anche la costruzione del «tronetto espositorio», intagliato in linea classica con i simboli eucaristici del pellicano e delle spighe di grano, messo tutto in oro fino, opera da attribuire alla bottega montegiorgese di Sante Morelli (1803-1878), come la costruzione dei banchi di legno con l’inginocchiatoio in noce piena.

   All’esterno, presso il transetto, si eleva il campanile a base quadrata con scala interna murata per raggiungere le quattro campane, dotate per un armonioso concerto. Nell’angolo opposto rimane la sacrestia, dotata di lavabo, altare, doppio canterano a sei scomparti, sei cassetti e quattro stipetti laterali, per la custodia dei paramenti, reliquiari e vasi sacri. Il tutto merita un’adeguata conservazione.

   I Padri Agostiniani in Montelparo furono un punto di riferimento assai importante. Tra Comune e Convento si stabilì, fin dalle origini, un rapporto di reciproci favori. Il Comune ogni anno dava un contributo di 10 lire per le tonache dei frati, tre ducati per il Maestro in Teologia, eletto Predicatore per le feste, l’avvento e la Quaresima, e offriva cera e pallio nelle feste di S. Agostino e S. Croce. Nella chiesa conventuale avveniva il giuramento dei Consiglieri Comunali all’inizio del mandato; qui si riuniva il Parlamento Generale ed il Consiglio Generale dei 100; il Podestà vi ascoltava le deposizioni delle donne nelle cause civili e penali; il Priore del Convento custodiva una delle chiavi del bussolo biennale, donde ogni bimestre si estraevano i nomi dei Magnifici Signori Priori.

   La presenza continua di una decina di religiosi influii notevolmente sulla formazione spirituale del popolo e sulla pubblica istruzione. L’agostiniano Fra Luigi Pastori è l’autore delle «Memorie istoriche della Nobil Terra di Montelparo», date alle stampe nel 1781 e riedite nel 1783, con dedica all’illustrissimo Gonfaloniere ed ai Priori della medesima Terra, perché gliene avevano dato formale incarico. Gestirono la Confraternita della Pietà che curava l’assistenza ai malati moribondi e la sepoltura dei morti; amministrarono l’Opera Pia Ospedale, il Monte di Pietà ed il Monte Frumentario di S. Giuseppe.

   Per le loro benemerenze ricevettero lasciti testamentari in ogni tempo. Nel 1650, l’asse patrimoniale degli Agostiniani era di circa 100 ettari; nel catasto del 1783 risulta triplicato, con una rendita media annua di 900 scudi romani. Questa rendita cospicua, unita alle contribuzioni della popolazione, permise loro di realizzare l’opera monumentale tuttora degna di grande ammirazione.

   Il 29 aprile 1809 i Padri Agostiniani, per le leggi eversive del Regno Italico, subirono la prima soppressione che durò alcuni anni. Con la restaurazione dello Stato Pontificio furono reintegrati nei loro diritti che finirono religiosi; nel 1848 fecero decorare la volta della cupola della chiesa, indi si procedette alla sua solenne consacrazione.

   Nel 1861 il convento fu definitivamente soppresso per ordine del Re Vittorio Emanuele II e l’anno dopo il Comune di Montelparo lo acquistava dal Demanio dello Stato per istituirvi la scuola elementare maschile e femminile. La municipalità ebbe l’obbligo di conservare aperta al culto la chiesa annessa che pure le era stata ceduta. Al contrario la chiesa, chiusa al culto ha manifestato le negligenze degli anni trascorsi, ancor più gravi perché è la chiesa più bella, più grande e più comoda di Montelparo.

   Nelle sere d’estate è opportunamente utilizzata l’ampia gradinata per spettacoli all’aperto, ove siedono gli spettatori per godere contemporaneamente tre spettacoli diversi: quello offerto dalla natura col cielo stellato, monti, campagne e paesi trapunti di luci; quello prodotto da attori e cantanti; quello del televideo trasmesso sullo schermo gigante.

                                                           Visita al Municipio

   Il Palazzo Comunale fu costruito nell’antica contrada di Catanova, oggi Via Roma, tra la fine del sec. XVII e gli inizi del sec. XVIII con innalzamento della parete esterna meridionale sulle antiche mura di cinta ed appoggio sul lato destro alla quattrocentesca torre di vedetta, ora Torre Civica con monumentale campana, fusa nel 1527.

   Sul piano stradale si affacciano, oltre l’ingresso municipale, l’ufficio delle Poste, la Farmacia e l’Ambulatorio medico. Nella parete del primo pianerottolo della scala interna è stato incastonato il seguente endecasillabo: LASCIATE OGNI RANCOR O VOI CHE ENTRATE MDCCXIII (1713)

Saggio monito per amministratori, pubblici ufficiali e giudici, affinché svolgano con imparzialità il loro mandato.

   La Sala Consiliare occupa la parte centrale del piano superiore; ha le varie porte per accedere alla stanza del Sindaco, alla saletta della Giunta, agli Uffici comunali, alla segreteria, all’anagrafe e all’ufficio tecnico. La sala è illuminata da quattro finestre. Al centro della parete di fondo il «Civico Gonfalone» è uno stendardo ornato. Nello stemma del Comune è raffigurato S. Michele Arcangelo, Protettore di Montelparo. Vi figurano anche i colori araldici dell’antico castello: oro in campo azzurro, ed il motto latino: IN JUSTITIA PAX. La pace nella giustizia.

   Alle pareti tre dipinti su tela con cornice originaria del sec. XVII, raffiguranti scorci panoramici con piramide, archi e colonne. Altra tela con grande cornice originaria del sec. XVII, raffigura la Strage degli Innocenti (cm. 126 x 280). Fa da sfondo una ricca architettura con l’effetto di una prospettiva grandiosa e monumentale. La tragica scena ha due momenti essenziali: sul lato destro è dipinto Erode in trono con la sua corte; in primo piano, è rappresentata la ferocia dei soldati, il pianto delle madri, il martirio dei piccoli innocenti un racconto serrato e molto reale. Un’iscrizione nel tergo, indica Bartolo da Siena, ma è un’aggiunta postuma. Poiché il dipinto è dello stile tipico del manierismo e somiglia ai dipinti firmati da Fra Lorenzo Bonomi da Ripatransone (1603-1666), con qualche dubbio nel fargliene attribuzione.

   La Sala Consiliare ha una coppia di canterani con tiretti, lavorati in legno di noce piena, ed una consolle; il tutto riferibile ad artigianato locale del sec. XVIII e proveniente dal Convento di S. Agostino.

   Nella Saletta della Giunta si possono ammirare il ritratto del montelparese Card. Gregorio Petrocchini (1536-1612) e suo stemma con elefante (82 x 55), e quello del Ministro Generale dell’Ordine Eremitano di S. Agostino, Fra Fulgenzio Travalloni (1616-1693); inoltre altro dipinto ad olio raffigurante la Madonna delle rose con Bambino. Tra il mobilio, una coppia di mobiletti intagliati in legno di noce piena, ex-inginocchiatoi con tiretti, provenienti dalla sacrestia di S. Agostino.

   Nello Studio del Sindaco, un dipinto raffigura S. Giovanni Battista ed un moderno piatto in ceramica, ricordo diocesano montaltese del Centenario Sistino del 1986.

Di lato, si accede alla torre civica, ove è stata curata una esposizione museale di vari oggetti, paramenti e vasi sacri, antifonari ed argenti provenienti dalla stessa chiesa di S. Agostino. Sopra c’è l’Archivio Storico del Comune, nel sottotetto.

                                          Porta del Sole – San Gregorio – San Pietro

Lungo la pianeggiante Via Roma, si incontrano le abitazioni delle famiglie notorie del paese, compresa quella del parroco. Sono state restaurate in conformità alle norme che tutelano l’integra conservazione dei centri storici.

   Verso oriente, si va alla Porta del Sole; più oltre, ai gradini del «Murello», punto di ritrovo per il commento ai fatti di cronaca, mentre da questo balcone si spinge lo sguardo più lontano verso i monti e verso il mare. In basso si vedono significativi resti delle fortificazioni medioevali, la scarpata ed il basamento di un torrione. Di fronte le nuove villette costruite ai piedi del Monte Cucco, verso il Tiratore.

   La Porta del Sole, nel tardo medioevo, era crocevia ed ingresso principale al paese. La Porta del Sole conserva integre le mura castellane originarie più antiche e l’arco gotico del sec. XIV e il bastione di difesa. Salendo l’era strada si va alla spianata dove sboccano le strade che conducono verso la piazza, e verso le parti più alte del paese e verso la via Catanovetta.

   La chiesa di S. Gregorio Magno si eleva con la sua facciata incompleta; però dotata di coppie di lesene. Il portale lavorato in pietra calcarea con timpano spezzato, reca al centro lo stemma del montelparese Card. Gregorio Petrocchini, poiché fu lui che la fece costruire dalle fondamenta, sostenendone l’intera spesa, e dedicandola all’omonimo san Gregorio, pontefice e dottore della Chiesa, verso il quale era molto devoto.

   La chiesa fu aperta al culto nel 1615, tre anni dopo la sua morte. Con lascito di altri 6.000 scudi vi istituì una prebenda per il mantenimento di un arciprete, cinque canonici, un sacrista ed un chierico, che la dovevano officiare in tutti i giorni festivi e durante la Settimana Santa. Dispose che il suo cuore, in pegno di eterno affetto per Montelparo, sua patria, dopo la morte, fosse custodito in S. Gregorio, racchiuso in una capsula di piombo, rivestita in legno. La dotò di cose preziose andate distrutto da un incendio doloso del 1745.

  L’interno, con l’altare maggiore in mezzo al coro ha la volta a botte, è decorato con cornicioni, lesene e capitelli di stile corinzio-romano. Vi sono quattro altari alle pareti laterali di cui restano i paleotti con dipinti allegorici su tavola. Da sinistra, la pala del primo altare raffigura S. Leone Magno che ferma Attila; quella del secondo rappresenta La deposizione di Cristo nel sepolcro. Nell’abside un rivestimento ligneo forma il coro con il seggio centrale e 8 scanni. L’ornato con stucchi barocchi e il grande dipinto su tela raffigura S. Gregorio Magno tra S. Agostino e S. Nicola di Tolentino, ed in contemplazione stanno i committenti il Card. Petrocchini ed i suoi eredi.

   Nel presbiterio, due nicchie neo-classiche del sec. XIX accolgono le statue di S. Giuseppe e dell’Immacolata. L’altare in legno dorato e marmorizzato è opera della prima metà del sec. XIX.

   La serie dei 14 quadri della «Via Crucis» sono dipinti di maniera, gradevoli per la vivacità dei colori, si possono riferire alla bottega fermana del Troiani, attiva nella seconda metà del Settecento.

   La pala del secondo altare a destra raffigura La Madonna di Costantinopoli tra S. Biagio, S. Emidio e S. Maria Maddalena. La pala dell’ultimo altare, detta comunemente di “sette Sante Vergini”, rappresenta, al centro, Santa Vittoria con il dragone ai piedi, ai lati sei sante vergini e martiri che, attraverso i simboli, possono identificarsi in S. Lucia (oculari), S. Caterina d’Alessandria (libro), S. Barbara (frecce e fulmini), S. Apollonia (tenaglia con dente), S. Agnese (agnellino), S. Agata (mammella?). Tutte queste tele furono dipinte a Roma, senza che si conosca il nome dei pittori.

   Nella controfacciata, sopra l’ingresso, c’è una cantoria con parapetto ligneo policromato; vi manca l’organo a canne che un tempo contribuiva a dare solennità alle funzioni religiose. Questa chiesa di S. Gregorio chiusa al culto continuato dopo la soppressione risorgimentale, è stata riaperta nella seconda metà del XX secolo per lodevole iniziativa del Priore D. Domenico D’Alessio.

   Fanno corpo unico con la chiesa un’abitazione per il custode e la sacrestia con i suoi armadi, l’archivio e la sala per le riunioni del Capitolo. In sacrestia si conserva il «cappello cardinalizio» del Petrocchini, ed il suo ritratto, dipinto su tela, ben conservato. All’esterno si eleva il campanile con tre campane, di cui una nolana, di forma allungata, fusa nel 1354, proviene dal castello di Bucchiano.

   Di fronte a S. Gregorio sta l’ex-palazzo Lombi, famiglia emigrata, che diede uomini di governo all’amministrazione comunale. E’ stato ristrutturato in appartamenti.

   Procedendo per la «Via Catanovetta», sul lato sinistro, i resti di un arco a tutto sesto ornato hannocon tre decorazioni: una geometrica, un fiore ed una figura umana stilizzata; sul lato destro, sta l’antica chiesa parrocchiale di S. Pietro con l’annesso ex-monastero femminile: notevole il portale gotico lavorato in pietra arenaria e riferibile al sec. XIX. Appartenne al Monastero di S. Angelo Magno di Ascoli, che nel 1286 vi trasferì il titolo della parrocchia rurale di S. Pietro de Roncone. Nel 1555 i PP. Olivetani vi trasferirono anche il titolo della Parrocchia rurale di S. Silvestro di Poggio Fantolino, come dice l’epigrafe dipinta sopra l’altare maggiore.

            Via Castello

   Si sale verso la parte più alta del paese. All’angolo destro l’edicola consunta della «Madonna del Soccorso»: dipinta sul muro nel sec. XVIII. A destra l’imponente massa architettonica del Palazzo Petrocchini ha duplice facciata ed ornati di vario stile dal quattrocento in poi, e rivelano diversi interventi. La facciata più alta presenta un portale rinascimentale e tre ordini di finestre sovraesposte, distribuite su tre piani. Nell’altra si scorgono residui di archetti pensili e porzioni di archi con decorazioni in cotto, raffiguranti serpentine con uva e pampini.

   Più oltre, sul lato sinistro, si incontra il portale datato del «Monte Frumentario» con la scritta datata 1511: “Onore e gloria a Dio soltanto. e storicamente può essere annoverato tra quelli più antichi. Furono istituiti da una Confraternita, come ammasso di cereali, soprattutto di grano, per permettere ai contadini poveri di prelevare dal Monte la quantità di grano a loro necessaria per la semina, o per il sostentamento della famiglia nel periodo della congiuntura stagionale, col patto scritto di restituzione al tempo della raccolta con una modica percentuale di aumento.

   Una casa del sec. XV  ha l’ingresso con sovrapporta a lunetta gotica, ornata con decorazione di serpentina con pampini e grappoli d’uva, simili a quelli visti nel Palazzo Petrocchini

                                        La chiesa di Sant’Angelo

   In vetta alla contrada Castello, sull’antica piazza del Comune, la chiesa di Sant’Angelo ha il portale con due tipi di colonnine tortili, separate da una coppia di semipilastrini, con basi, capitelli ed arco a pieno centro, disposti a strombo. Sopra l’architrave è ricavata la lunetta. Sul fronte corre una fascia di pietra arenaria con decorazione fogliare e floreale. In alto, conclude una cuspide con nicchia trilobata. È opera di notevole interesse artistico, riferibile agli inizi del sec. XV.

   La coppia di portali laterali, ad arco ribassato, fa riferimento ad arte del Cinquecento. All’interno, nel lato sinistro il Fonte Battesimale, costruito in legno dorato e marmorizzato, riferibile ad arte del sec. XVII. Nella calotta della nicchia restano frammenti di affreschi con le figure votive di S. Sebastiano e S. Giacomo apostolo, santi invocati in occasioni di pestilenze.

Nel primo altare a sinistra, dedicato al Mistero dell’umana salvezza, si distinguono quattro dipinti affreschi: – Il Crocifisso con S. Girolamo, S. Antonio di Padova e committente, nella parete concava; – L’Arcangelo Gabriele e l’Annunziata, nei pennacchi; – La Pietà, o Compianto al Cristo Morto, nella lunetta; – Il Cristo risorto, nella cuspide. L’iscrizione dà i nomi: Giovanni Caterini Carelli nell’anno 1527 e Marino de Pezzi in  due righe di segnatura mutila e lacunosa. Lo stesso pittore nello stesso periodo ha affrescato le figure votive di S. Giacomo e S. Sebastiano, come rivelano le tonalità cromatiche e la linea del disegno. Questi dipinti potrebbero assegnarsi al Maestro Giacomo Bonfini da Patrignone, pittore noto dal 1470 al 1535.

   Segue l’altare della Madonna del SS.mo Rosario con propria cappella. il dipinto, pala d’altare è riferibile alla fine del sec. XVI, raffigura: La Madonna del Rosario col Figlio in braccio, tra S. Domenico e S. Caterina da Siena, in primo piano, il papa S. Pio V, che attribuì alla Madonna del Rosario la vittoria delle armate cristiane nella battaglia di Lepanto il 7 ottobre 1570; per cui la Madonna del Rosario fu detta anche «Madonna della Vittoria».

   Gli affreschi che sono sul lato sinistro del presbiterio, frammento di una Crocifissione, la B. Vergine Maria, S. Sebastiano e S. Rocco, sono dipinti votivi del 1497, espressi nei canoni della pittura popolare umbro-marchigiana.

  Al centro dell’abside è raffigura l’Immacolata, coronata da 12 stelle, la luna sotto i piedi, col Figlio in braccio che trafigge il biblico serpente; tutt’intorno gruppi di angeli di diversa grandezza; in basso, una scritta latina riferisce che il dipinto fu fatto eseguire per voto riconoscente da P.S.P.A. probabilmente, vuol ricordare il Pucci Sac. Pietro Antonio, priore che resse la chiesa di S. Angelo dal 1776 al 1806.

   Sul lato destro del presbiterio pende un affresco distaccato che raffigurata la Madonna in trono col Figlio in braccio tra due angeli. Rassomiglia quell’altro che è nella cripta, datato 1412.  Segue la lapide funebre del canonico recanatese, Mons. Anastasio Adriani, oriundo di Montelparo, morto nel 1857.

   Sotto il presbiterio c’è una cripta n cui sul muro della parete orientale meritano molta attenzione gli affreschi quattrocenteschi di S. Caterina d’Alessandria e della Madonna del latte, nonché la segnatura in caratteri gotici che, integrata, suona così:” Nel nome del Signore. Amen. Il 23 maggio 1412, indizione quinta, la tribuna (parte del presbiterio) e l’altare furono consacrati con il titolo della vergine santa Caterina e presso questi si lucravano le indulgenze e la remissione delle pene nelle festività della Pentecoste , di S. Maria assunta in cielo e di san Michele.

   Frammenti di affreschi, eseguiti dallo stesso pittore, affiorano anche lungo la parete settentrionale; evidente la presenza di una Madonna con Bambino in braccio. Nella parete occidentale, nel secolo XVIII, fu innalzato un altare e sulla retrostante parete fu fatta dipingere la Madonna della Misericordia tra S. Emidio e S. Lucia, S. Biagio e S. Caterina.

La tradizione locale riferisce che la frana del secolo XVII ed il terremoto del 1703 fecero crollare due Oratori, dedicati, uno alla Madonna della Misericordia e l’altro a S. Maria Laude; di essi si parla anche negli antichi Statuti Comunali di Montelparo. Per conservarne il culto in onore a S. Maria de Laude, nella cripta traslocarono con tutto il muro il frammento di affresco che aveva conservato intatto il busto della Vergine col Figlio in braccio, ordinando al pittore di completare l’immagine della Madonna nella raffigurazione tradizionale della Madonna della Misericordia che accoglie devoti sotto il suo manto, con raggiunta dei santi ausiliatori contro il terremoto, la pestilenza e le malattie degli occhi e della gola.

   Nell’oratorio della Confraternita del SS.mo Sacramento si conserva un affresco cinquecentesco raffigurante il Crocifisso, deturpato nel volto, tra l’Addolorata e S. Francesco d’Assisi. Gli altari laterali della parete destra della chiesa sono dedicati rispettivamente al «Transito di S. Giuseppe», e alla «Madonna del Carmine», con pala e cappella in muratura. La tela della morte di S. Giuseppe, assistito dalla Madonna e dal Figlio, Gesù è riferibile al sec. XVII. Quella della Madonna del Carmine con S. Giovanni Battista e Santo Martire, è riferibile ad arte della fine del sec. XVI.

                                                       Parchi e panorami

  Sulla Piazza del Castello il turista o il visitatore gode di un ampio e spettacolare scorcio panoramico verso il mare Adriatico, con colline variopinte per culture diversificate nei campi, paesi con torri svettanti e casolari sparsi. E’ caratteristica la visuale dell’antico Monte Nero, o Monte dell’Ascensione, dei monti della Laga, tra Marche e Abruzzo.

   Sul lato settentrionale, il «Parco E. Marziali», dotato di impianti per partite a tennis e gare di bocce, fiancheggiato dal «Viale E. Marziali» dove si scende verso la sottostante contrada di Gajanello, per tendere lo sguardo lungo le valli dell’Ete Vivo e del Tenna, e per ammirare i paesi arroccati sulle prime alture preappenniniche: S. Vittoria, Montefalcone, Smerillo, Penna San Giovanni, e per godere altresì dell’immenso scenario offerto dalle frastagliate cime dei monti Sibillini: del Vettore (m. 2474), la Sibilla (m. 2175), la Priora (m. 2232), Pizzo tre Vescovi (m. 2092), Sassotetto, e altre alture; le quali, d’inverno ed in primavera, essendo innevate, in un sereno mattino sono scintillanti ai riflessi del sole, e, d’estate, quando il sole accentua le diverse colorazioni dei boschi, dei prati e delle rocce dolomitiche, tra luci ed ombre le profonde gole ove hanno origine il Tenna, l’Ambro, il Tennacola, l’Aso.

  La «Piscina Comunale» coperta (m. 25 x 12, 5 x 1, 2-2,8), funziona nel periodo estivo. Procedendo si nota il monumenti ai caduti montelparesi delle ultime guerre mondiali e lungo la parete di sostegno del terrapieno, sono state fissate due lapidi con i nomi.

   La chiesa di S. Antonio di Padova è una costruzione del sec. XV con campanile a vela sul lato destro della facciata. Dall’anno 1753 sull’altare maggiore fu incastonato un pezzo di muro con la prodigiosa immagine cinquecentesca di Maria Santissima, detta Polisiana, che proveniva da una chiesina diroccata, sita nella contrada della Cocciarella, che era possesso del Monastero di S. Angelo Magno di Ascoli, come si rileva dal Privilegio di Innocenzo III, del 1199 :«et campum Polisianum». L’affresco cinquecentesco raffigura «La Madonna col Figlio in trono», avente sulla mano destra una rosa, manto azzurro e veste color rosa. Un po’ più in alto resta un frammento di affresco della metà del sec. XV che ci presenta il volto espressivo del «Cristo sofferente», riferibile all’arte del monaco-pittore Fra Marino Angeli da S. Vittoria.

                                      S. Maria Novella – contrada Catigliano

La chiesa di S. Maria Novella, costruita nella seconda metà del sec. XIII; fu rimodernata nei secoli successivi. Fu sede parrocchiale fino all’anno 1960, quando fu aggregata all’unica parrocchia di S. Angelo. Agli spigoli del muro di facciata sono murati due mattoni con segnatura storica: (traduzione dal latino) “Nel 1790 il 20 settembre fu messa la prima pietra con inaugurazione”. Il portale in cotto spicca sulla facciata originaria in pietra. L’interno è un monolocale a tre campate, in stile neoclassico, coperto a volta; vi erano disposti tre altari: il maggiore e due laterali. Ornamento del nuovo altare maggiore è il dipinto ad olio su tavola (196 x 145) raffi: Madonna col Figlio in trono tra S. Giovanni Battista e S. Maria Maddalena con committente inginocchiato, opera attribuita dalla critica più recente al pittore Vincenzo Pagani di Monterubbiano (1480-1568), da datare nel secondo decennio del Cinquecento. La santa con ampolla raffigura S. Maria Maddalena compatrona del paese per cui nella sua ricorrenza il 22 luglio era considerato giorno festivo a tutti gli effetti. Il mantello nero e la chierica indicano che il committente fu un sacerdote.

   Nella cappella di sinistra, entrando, il dipinto raffigura: S. Benedetto da Norcia in gloria ed il martirio di S. Lucia, vergine siracusana. Un frammento di affresco affiora nella parete destra del presbiterio: vi è raffigurato il volto della Madonna. La tela della cappella di destra rappresenta «Il pianto di S. Pietro», dopo il canto del gallo, confortato da Giovanni Marco, l’evangelista che fu suo segretario. E un dipinto fortemente espressivo, riferibile al sec. XVII. In altra tela è dipinto S. Michele Arcangelo.

   Proseguendo la via in discesa, si arriva in Piazza Cavour; nel medioevo era detta «Piazza del Mercato». Per concessione papale vi si tenevano mercati settimanali ogni venerdì, oltre le rinomate fiere nelle ricorrenze di S. Gregorio, S. Giuseppe, S. Maria, S. Croce e S. Michele. Le abitazioni hanno alcune strutture con fregi in cotto, riferibili al sec. XV; in una casa, l’ultima a destra, è murata una pietra tombale con lo stemma della nobile famiglia Pellei, che nel Cinquecento e Seicento diede lustro a Montelparo, con valenti personaggi, ecclesiastici e forensi.

   Indi si discende verso la contrada Catigliano. Qui furono accolte le famiglie del castello de Catelliano, sito in cima all’attuale Monte Tondo; saccheggiato ed incendiato verso la metà del sec. XIII. Una parte di questa contrada fu assegnata ad alcune famiglie di giudei. La loro presenza è documentata in diverse pergamene di Montelparo del sec. XIV per prestiti fatti al Comune.

   Tra le altre realtà, sparse nel territorio, il Santuario di

                                                                                 Santa Maria in Camurano

   Nel territorio di Montelparo, fin dall’alto medioevo, c’era una contrada dedicata a S. Maria si trova la chiesa di S. Maria in Camurano. I religiosi francescani che l’ebbero nella metà del Cinquecento, diedero alla chiesa la forma attuale e costruirono il piccolo convento dei Frati Minori del Terz’Ordine Regolare di S. Francesco, collegato con la chiesa dalla parte dell’abside. La primitiva cappella, o tempietto stradale in prossimità di un trivio, fu isolato a mo’ di Santuario e protetto da un rivestimento in pietra arenaria, squadrata e levigata, ad imitazione della chiesina della Porziuncola in S. Maria degli Angeli di Assisi.

   La chiesa di S. Maria in Camurano si presenta ampia e lunga m. 27, larga m. 12, in alta m. 15, coperta con capriate di legno a vista. La tribuna e l’abside sono a volta reale. La sua costruzione si fa risalire intorno all’anno 1549, quando il primitivo tempietto fu isolato dentro l’edificio maggiore. Sul tettino, lungo la fascia incorniciata, corre l’iscrizione: (traduzione) “AVE MARIA PIENA DI GRAZIA. Anno del Signore 1549”.

   La Cappella situata al centro della chiesa, ha base rettangolare; e volta a botte con decorazioni risalenti al sec. XVI; vi si entra attraverso ingressi laterali, con cancelli in ferro battuto; riceve luce da un’ampia finestra con grata aperta sulla parete orientale, comunicante con il corpo della chiesa. ll suo altare si estende per quasi tutta la lunghezza della cappella. Nella parete occidentale è interessante l’affresco raffigurante «S. Maria Maddalena», compatrona della Comunità di Montelparo: figura giovanile, aureolata, dalla lunga e fluente chioma che scende dalle spalle, nell’atto di sorreggere con ambedue le mani il vasetto degli aromi; a destra, la devota immagine della «Vergine con il Figlio», seduta nella cavità di un nicchio ornato di conchiglia, aureolata e coperta parzialmente da un velo color rosa, che la Madre solleva con la mano sinistra con gesto delicato e pudico.

   Lungo la parete di destra si nota l’immagine votiva di S. Antonio abate, e a fianco c’è affrescata l’«Annunciazione». Una colonnina, sulla quale posano due archi ribassati, separa i due personaggi. Su un drappo rosso, nello sfondo, risaltano le figure aureolate della Vergine Maria e dell’Arcangelo Gabriele. Dolci le espressioni dei due volti, eloquenti gli atteggiamenti delle mani incrociate, caratteristico il leggio con l’ondulato drappo di lino. Lo stile degli affreschi è riferibile alla seconda metà del sec. XV, opera di ignoto. Per quanto riguarda un’individuazione del suo autore, si fa riferimento alla scuola di pittura dei monaci farfensi con Fra Marino Angeli a Santa Vittoria in Matenano

   Sul piano del presbiterio sono stati eretti due altari circa l’anno 1567: uno dedicato a S. Antonio abate e l’altro all’Immacolata. Nel primo altare è raffigurato S. Antonio abate, seduto in trono su fondo azzurro, con baculo sulla sinistra e destra benedicente, dentro la finzione prospettica di una grande nicchia, nei pilastri della quale sono disegnate candelabre, mentre all’interno dell’arco si sviluppa una serie di grottesche simmetriche. È firmato dal pittore patrignonese, Giacomo Agnelli.

   Il pittore anonimo del secondo altare ha voluto dipingere un altare a forma di Cappella in stile rinascimentale. Due colonne, ai lati, sorreggono la trabeazione ed il timpano; dentro questo ha dipinto l’Eterno Padre Reggitore del mondo, in un alone di luce, circondato da nubi. Nei pennacchi ha ritratto il mistero della Annunciazione. Al centro, nella cavità di un nicchio domina la figura dell’Immacolata, disegnata eretta, in veste rossa e manto verde, a mani giunte, con la luna sotto i piedi; corona regale sul capo, un alone giallo ocra la circonda dal capo ai piedi; nei bianchi cartigli è riprodotto il testo dell’apparizione descritta nell’Apocalisse (12,1): “Una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle”

   Nella parte alta, fanno da contorno cinque medaglioni ove sono raffigurati: al centro, lo Spirito Santo in forma di colomba; ai lati, i Quattro Dottori della Chiesa Occidentale, in vesti pontificali. Si notano i vistosi cartigli con scritti alcuni testi celebranti le glorie di Maria, tratti dalle loro opere.

Questa rappresentazione figurativa del Dogma dell’Immacolata Concezione di Maria acquista notevole rilevanza se si considera che segue di poco le sessioni del Concilio di Trento su quel tema, e quanta incidenza abbiano avuto i committenti, i Padri Francescani, nel suggerire testi ed immagini di loro antico culto. Il canonico santavittoriese don Pennesi visitò questa chiesa nel secolo XIX, trascrisse l’epigrafe, ora molto lacunosa per caduta del colore: (traduzione) “Il 22 gennaio 1567 la Signora Fabia, moglie del fu Antonio Ercolani da Montelparo, sindaco di questa chiesa, fece erigere quest’altare”. La seconda metà del Cinquecento per questa chiesa fu il periodo di maggiore splendore. Fu officiata dalla famiglia Francescana del Terz’Ordine fino al 1638, cioè fino alla soppressione del convento, per disposizione del papa situata al centro della chiesa, Urbano VIII, probabilmente perché era insufficiente il numero dei religiosi che il papa riteneva necessario per la formazione di una comunità che ordinariamente ne doveva avere almeno sei.

   Ogni anno, il 1° agosto di ogni anno, vi si solennizzava l’acquisto delle indulgenze della Porziuncola, essendo chiesa gestita da Francescani. Grande era il concorso della popolazione. Per norma statutaria, vi si recava processionalmente anche il Magistrato per l’offerta del cero, partecipando alla Messa cantata. Ancor oggi vivo è il pellegrinaggio popolare durante la pratica del «mese di maggio» in onore della Madonna, come pure nel giorno della festa, trasferita all’8 settembre.

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MONTELPARO (FM) negli studi di Giuseppe Crocetti su illustri personalità e opere

PERSONALITA’ E OPERE AMMIRATE MONTELPARESI

                                    Il polittico di Montelparo

Nella sala VI della Pinacoteca Vaticana è esposto il grande polittico di Niccolò Liberatore, detto l’Alunno, che dal quadro centrale prende il nome di «Incoronazione della Vergine». La didascalia ne indica la provenienza: «detto il Polittico di Montelparo». La Guida della Pinacoteca Vaticana del 1933 precisa che proviene dalla chiesa di S. Angelo di Montelparo e fu acquistato dal papa Gregorio XVI, nel 1844. Tra i polittici dell’Alunno, sebbene non sia il più grande, appare come il più complesso ed anche il meglio conservato per il cromatismo vivace che ancora ci offre la primitiva bellezza e per la cornice che ancora espone tutti i suoi elementi originali di intelaiatura, ornato e doratura. Messo a confronto con il Polittico di Gualdo Tadino, storicamente documentato come frutto di collaborazione tra il pittore ed il Mastro Giovanni di Stefano da Montelparo intagliatore, ci colpiscono più le somiglianze che le differenze: il disegno dei registri centrali si svolge nelle medesime linee architettoniche fondamentali; nella parte superiore, invece, si notano maggiore inventiva e finezza di disegno che danno a tutta l’opera uno spiccato senso di agilità nelle guglie svettanti e nelle cimase proporzionalmente più piccole, sia nel primo che nel secondo ordine. Fu maggiore l’impegno che l’intagliatore ha messo nell’opera destinata all’ammirazione e al giudizio dei compaesani.

   Nonostante il silenzio dei documenti, la cornice di questo polittico è da assegnare al predetto M° Giovanni di Stefano. Manca anche ogni documento per la presenza dell’Alunno in Montelparo per l’esecuzione dei dipinti nelle 72 nicchie, preparate dal falegname montelparese. Ogni nicchia poteva essere opportunamente smontata per l’eventuale trasporto, e facilmente ricomposta, dorata, a lavorazione ultimata dei corrispondenti pannelli dipinti. Il polittico è datato e firmato (in latino) dal pittore: «NICOLA DA FOLIGNO 1572». Lo stile della cornice si adegua al gusto del gotico fiorito, che appare aggiornato un po’ con alcuni elementi rinascimentali che danno risalto alle tavole centrali dell’Incoronazione della Vergine e della Pietà. Nel complesso alto cm 280, e largo 266 sono state ritratte ben 77 figure di Angeli e Santi, così distribuite: 27 nella predella, 18 nelle paraste laterali, 11 nel registro centrale, 21 nel registro superiore, comprendendovi anche le cimase.

La predella, o supporto sporgente basilare, ha sul fronte una doppia serie di piccole nicchie gotiche con archetti trilobati, separati da colonnine tortili. Dentro le nicchie della serie inferiore (12,6 x 10) sono raffigurate le immagini di 15 Sante con la segnatura del nome di ciascuna: S. Margherita da Cortona con il cane, S. Monica, S. Chiara d’Assisi, S. Chiara da Montefalco, S. Orsolina con bandiera e navicella carica di vergini, S. Agata; seguono tre nicchie più distanziate e più larghe (12,6 x 15) con le immagini di S. Nestasìa, S. Aluminata e S. Elisabetta collocate nella zona centrale poiché ebbero il privilegio di assistere al parto della Madonna, stando al racconto dei vangeli apocrifi; indi riprende la serie con le figure di S. Agnese, S. Susanna, S. Apollonia, S. Maria Jacopa, S. Nestasia, S. Felicita.

   Le nicchie della fila superiore sono 13 in tutto: tre centrali (17,1 x 21,5) e dieci laterali (17,1 x 17,1). Ogni nicchia contorna la figura di un apostolo, il cui nome è indicato dalla segnatura; ciascun apostolo proclama un articolo del «Credo», o «Simbolo apostolico Niceno-costantinopolitano», trascritto in cartigli svolazzanti. S. Pietro con le chiavi, Sant’Andrea, S. Giacomo maggiore col vessillo, S. Tommaso, S. Giovanni Evangelista, S. Filippo con gli occhiali; nicchia vuota riservata alla porticina del tabernacolo; S. Giacomo minore, S. Bartolomeo col coltello, S. Matteo, S. Simone, S. Taddeo, S. Mattia.

   Le paraste laterali, simili a pilastri, si innalzano alle estremità del polittico con effetto di linea architettonica fondamentale ed insieme ornamentale. La base, proporzionatamente più grande, sporge in avanti delimitando la predella, e forma due mensole idonee a sorreggere piccoli vasi da fiori, piccoli candelieri. Sul fronte del plinto si sovrappongono due nicchie con ornato gotico: in quelle di sinistra sono raffigurati: S. Lorenzo, diacono, ed il vescovo S. Emidio, benedicente; in quelle di destra il diacono S. Stefano e S. Petronilla, orante. Lungo lo sviluppo superiore fanno da ornamento sette piccole nicchie per parte, ove sono raffigurati 14 Santi appartenenti a diversi ordini religiosi. A sinistra, dal basso verso l’alto: S. Francesco d’Assisi, S. Antonio abate, S. Amico col cane, S. Leonardo col ceppo dei prigionieri, S. Benedetto che scrive la Regola, S. Romualdo abate, S. Antonio di Padova; a destra, dal basso verso l’alto: S. Domenico, un Santo Evangelista, Santo Francescano, S. Vincenzo Ferrer, S. Pietro martire. Le paraste terminano con due guglie piramidali.

   Il registro centrale presenta sette scomparti, aventi, come separatori, complicati raggruppamenti di colonnine tortili con base e capitelli mistilinei. Gli archi terminali sono ogivali: la doppia cornice di archetti ornamentali dà ad essi un vago senso di prospettiva, maggiormente avvertito nello scomparto centrale. Sopra gli archi corre una cornice orizzontale, rialzata nella parte mediana; delimita ih registro centrale da quello superiore. La cornice mistilinea è formata dall’allineamento di piccole foglie di acanto accartocciate; insieme alla accennata ricerca di prospettiva costituisce un evidente inserimento di motivi rinascimentali in una cornice gotica. L’arte dell’intagliatore montelparese si evidenzia, quasi fosse una firma, nelle foglie che ornano i pennacchi tra l’esterno degli archi e la cornice orizzontale, simili a margherite irregolari, aventi al centro un bottoncino.

Le figure del registro centrale sono rappresentate in piedi, in proporzione dimezzata della grandezza naturale. Nello scomparto mediano è dipinta l’incoronazione della Vergine (120 x 55); in quelli laterali (100 x 25) sono rappresentati: S. Severino, compatrono di Montelparo, S. Nicola di Bari, S. Agostino, a sinistra; S. Giovanni Battista, S. Paolo Apostolo, S. Sebastiano con arco e frecce, a destra.

   Il registro superiore mantiene la ripartizione in sette scomparti. La cornice gotico-rinascimentale contorna la figura penetrante della Pietà, che domina per proporzioni anatomiche e rifulge dalla sua centralità su tutte le figure del polittico. Le figure del registro superiore sono disegnate a tre quarti. L’architettura dell’ancona si arricchisce di un nuovo elemento che è linea ed ornamento: tra una nicchia e l’altra nascono paraste mediane che, in proporzioni minori, svettano verso l’alto in forma di guglie, al pari di quelle laterali. Lo scomparto della Pietà misura (72 x 44), quelli laterali (48 x 21) ciascuno. In questi sono raffigurati: S. Monica, madre di S. Agostino, S. Caterina d’Alessandria, l’Addolorata, rivolta verso il Figlio, a sinistra; S. Giovanni Apostolo, rivolto verso il Cristo, S. Maria Maddalena, S. Anatolia(?), S. Vittoria con corona e bandiera, a destra.

   Le cimase si elevano slanciate e capricciose al di sopra dei sei scomparti laterali. Una cornice mistilinea si snoda in curve e controcurve dalle basi delle guglie terminali delle paraste minori, poi si incrociano, formano un fiore a calice, indi riprendono il movimento lineare per tracciare il contorno di una nicchia gotica, si riuniscono per far sbocciare il fiore a forma di croce. All’esterno della cornice, in scansione ascensionale, si muove il fogliame vario in capricciose evoluzioni di accartocciamento. In ogni scomparto si sovrappongono due targhe, o specchi di superfice liscia, ove il pittore si è sbizzarrito nel creare due serie di composizioni pittoriche: nella prima ha raffigurato Cherubini e Serafini contemplanti ed oranti; nella seconda ha dipinto altri Santi che nella Chiesa hanno avuto la missione di scrivere ed insegnare: S. Luca Evangelista, con il bue imbolico, S. Agostino con libro, S. Gregorio Magno con la tiara papale, S. Girolamo col cappello cardinalizio, S. Ambrogio con libro, S. Marco Evangelista, che soffia sulla penna.

  È alquanto sconcertante che le figure di S. Agostino e S. Monica sono state ripetute due volte ciascuna. Forse originariamente questo polittico è stato eseguito per essere collocato nella antica chiesa conventuale di S. Agostino che finì diruta per frane e terremoti. La nuova chiesa fu costruita nel 1730 in luogo stabile con arte neo-classica. Il polittico acquistato dal papa proveniva dalla più antica chiesa montelparese di sant’Angelo, che era detta in Castello, nell’alta piazza dell’antico municipio. Tra i Santi delle figure in piedi figura S. Severino compatrono di Montelparo.

       Mastro Giovanni di Stefano da Montelparo intagliatore

              di cori e polittici del sec. XV

   Nel secolo XV l’arte dell’intaglio fu molto fiorente nelle Marche dove si ammirano i loro capolavori, ame anche nell’Umbria. Tra i maestri d’arte sono da ricordare: Giovanni di Matteo da Maltignano; Francesco e Paolino da Ascoli e suoi figli, Apollonio da Ripatransone, Giovanni di Stefano da Montelparo, ed i fratelli Domenico e Nicola Indivini da Sanseverino.

   Mastro Giovanni di Stefano, probabilmente, apprese l’arte dell’intaglio nella bottega ascolana del M° Giovanni di Matteo da Maltignano. La sua prima opera risale al 1448. Il P. Giambattista Porti, domenicano, gli commissionò il Coro per la chiesa di S. Domenico di Fermo, per la spesa di 290 ducati; la doveva armonizzare con l’altare maggiore, costruito in stile gotico internazionale.

   Questo Coro è stato più volte rimaneggiato, con eliminazione dell’architettura gotica, ora si presenta ristrutturato nelle linee essenziali dello stile neo-classico, con i suoi 24 stalli, compreso quello presidenziale, i quali conservano, quali perle incastonate, alcuni pannelli intagliati a giorno, altri con decorazioni a sbalzo, raffiguranti fogliame vario con pigne e reti a losanghe: una ricca esposizione di quadretti uguali e simmetrici nelle misure, ma vari nel disegno, lodevoli capolavori di intaglio su legno.

   Nel 1456 mastro Giovanni di Stefano collaborò con Paolino da Ascoli nella costruzione del Coro gotico per la chiesa di S. Maria dei Servi di Colle Landone in Perugia, definito dai contemporanei “bellissimo” (pulcherrimus). Circa l’anno 1542, detto Coro fu trasferito nella chiesa di S. Maria Nuova; nell’adattamento al nuovo diverso ambiente fu eliminato il coronamento di pinnacoli e cuspidi con rosoni intagliati a giorno; il numero dei seggi fu ridotto a 27. Nel postergale del seggio priorale è raffigurato il bellissimo grifone, simbolo della città di Perugia. Nel primo stallo dell’ala destra, resta una iscrizione in latino (tradotta): Paolino da Ascoli fece questa opera insieme con il suo socio Giovanni da ‘Montelbero’. Ogni stallo è composto da una parte disadorna (sedile e stipiti sottostanti); e da una tarsia, <che> apparentemente uguale (con la riproduzione di un vaso di fiori) ricopre il primo specchio di fondo. I partitori superiori sono lavorati a tutto tondo. Il tettino aggettante è ornato con placche intagliate. Il tutto fa da contorno al pannello centrale di ogni stallo, capolavoro di finissimo intaglio, sempre vario ed ottimamente conservato.

   E cosa molto problematica voler selezionare l’intervento specifico per ciascuno dei due maestri. Sembrerebbe consono assegnare al M° Paolino la concezione generale dell’opera, la lavorazione delle tarsie e dei pannelli centrali. Lo stile del M° Giovanni di Stefano si rifletterebbe meglio nelle strutture portanti, partitori e tettini.

   Il M° Giovanni di Stefano da Montelparo è da considerarsi anche un fantasioso costruttore di cornici per polittici, dipinti da affermati pittori della seconda metà del secolo XV. Alcuni noti documenti del tempo riferiscono intorno alla collaborazione del maestro di intaglio con il pittore folignate, Niccolò Liberatore, detto l’Alunno, per la costruzione di un’ancona per il polittico di Gualdo Tadino (PG). Il contratto fu stipulato a Foligno il 13 settembre 1470. Altro contratto stipulato a Fermo il 18 giugno 1481, con il pittore veneto, Vittore Crivelli, residente a Fermo, è avvenuto per la cornice destinata al polittico disperso di Loro Piceno (MC), come figura nel contratto.

   Dall’esame delle opere certe di Mastro Giovanni di Stefano, rilevandone lo stile del disegno e la tecnica della lavorazione, gli studiosi hanno segnalato le loro proposte per dare convincenti attribuzioni anche per alcune cornici di altri polittici che erano dipinti dai suddetti e da altri pittori del tempo, tra cui l’Alunno, Fra’ Marino Angeli, Girolamo di Giovanni da Camerino; Pietro Alemanno, Vittore e Carlo Crivelli. Si fanno attribuzioni.

   Per l’Alunno mastro Giovanni intagliò anche la cornice del polittico di Montelparo del 1466, ora nella Pinacoteca Vaticana, ricco di 72 nicchie tra piccole e grandi; inoltre la cornice del polittico di Sarnano (1467 c.), di cui si conservano due significativi scomparti del registro centrale nella Collegiata di S. Maria di Piazza. Parimenti l’elaborazione per il pentittico di Sanseverino (1468), discretamente conservato nella Pinacoteca Comunale; e la cornice del polittico di Nocera Umbra (1483), quasi gemella a quella gualdese, ottimamente conservata.

   Tra gli altri pittori che sembrano aver usufruito dell’opera dell’intagliatore montelparese, Fra’ Martino Angeli da Santa Vittoria cornice per il polittico di Monte Vidon Combatte (1458 c.), di cui si conserva un significativo frammento presso l’Arcivescovado di Fermo.

   M° Girolamo di Giovanni da Camerino ebbe cornice per il piccolo polittico di Monte S. Martino (MC), datato 1473, ora sistemato nella Pieve di S. Martino; altra servì per la cuspide di un polittico dipinto per la chiesa di S. Agostino dello stesso luogo, raffigurante il Calvario (1465 c.), ed ora esposto nella Galleria Nazionale delle Marche in Urbino. La cornice per tutta la parte superiore del polittico esposto nella sala XXIII della Pinacoteca di Brera a Milano, suo capolavoro.

     Pietro Alemanno, attivo nelle Marche nella seconda metà del sec. XV, ebbe cornice per il polittico di Montefalcone Appennino, chiesa di S. Francesco, presso il cimitero, databile intorno al 1475.

   Vittore Crivelli, pittore veneto residente a Fermo, ebbe cornici per il disperso polittico di Loro Piceno, per il polittico di Monte San Martino, Pieve di S. Martino, dipinto insieme al fratello Carlo intorno al 1481, ben conservato nelle strutture originali della sua cornice; anche per il registro centrale del trittico di Monteprandone, scomposto e disperso dopo il 1939; e per il polittico di Monte Sampietrangeli, chiesa di S. Francesco, iniziato a dipingere dal pittore veneto nel 1501, e completato dal pittore fanese, Giuliano Presutti, nel 1506.

   Dalla complessa varietà delle cornici, esaminate ed attribuite, scaturisce il convincimento che il nostro M° Giovanni di Stefano fu un artigiano molto stimato ed apprezzato dai suoi contemporanei, sia per la costruzione e decorazione di Cori lignei, sia per l’intaglio di ricche cornici per polittici d’ogni specie e grandezza, e fu ricercato da committenti vicini e lontani, da sindaci amministratori di enti pubblici, nonché famosi pittori umbri, marchigiani e veneti.

           Bartolomeo da Montelparo orafo incisore del sec. XVI

   A Monteleone di Fermo, il pregevole Reliquiario della santa Croce, è opera firmata da Bartolomeo da Montelparo. Si conserva con molta cura presso la chiesa parrocchiale di S. Giovanni Battista, dentro dignitosa custodia, ed è usanza esporlo nelle feste della S. Croce del 3 maggio e del 14 settembre. Serve per le processioni nella festa di S. Marco (25 aprile Litanie Maggiori) e nel triduo delle Rogazioni (Litanie Minori) che precedeva la solennità dell’Ascensione.

     Questa croce-reliquiario a doppio uso, può catalogarsi come «croce astile» per guidare le processioni, e come «croce stazionale», quando, mediante apposito supporto ligneo, viene esposta sull’altare in occasione di particolari riti liturgici. È opera lavorata in lamina d’argento, sbalzata e dorata; misura 45 x 31cm; datata all’anno 1524 e con firma di Bartolomeo da Montelparo.

   Nel «recto», alle estremità dei bracci, sono raffigurati in altorilievo i busti dell’Eterno Padre, dell’Addolorata e di S. Giovanni Evangelista; nel braccio inferiore, un tempo, c’era un Angelo, mentre ora vi si trova adattata una teca in metallo con ornato interno in filigrana. Nella teca inserita all’incrocio dei bracci è racchiusa la reliquia insigne della Santa Croce: lo indica la segnatura che gira attorno (in latino, tradotta): «Dal legno della Croce». Al centro, la figura massiccia del Crocifisso, proclamato Salvatore dell’umanità dalla riproduzione del monogramma di san Bernardino, ripetuto quattro volte dentro i rombi, disposti lungo i bracci e disegnato a niello: «J.H.S.» (= Jesus Hominum Salvator = Gesù Salvatore degli uomini). Durante le processioni, con il passo si ondulavano e risuonavano le quattro campanule pensili, recanti le epigrafi: AVE MARIA – PATER NOSTER – PETRI ET PAULI

   Nel tergo, in corrispondenza dei busti, sono fissate le teche con varie reliquie di Santi, indicati con opportune segnature (in latino, tradotte): Dei Beati S. Petro et S. Paulo \ – Beati Simone e Giuda Taddeo. All’incrocio dei bracci la figura a sbalzo di S. Maria Maddalena dai lunghi capelli. Lungo i bracci, dentro i rombi, si ammirano quattro pregevoli figurazioni a niello, rappresentanti: l’Eterno Dio Padre tra angeli; – l’Arcangelo Gabriele, – la Vergine Annunziata, – la Madonna adorante il Figlio. L’importanza storica e artistica di questo prezioso oggetto devozionale è data soprattutto dalle segnature disposte nella zona inferiore. Attorno al piedistallo è scritto (in latino, tradotto):

PER MEZZO DE SEGNO DELLA CROCE LIBERA NOI DAI NEMICI NOSTRI

Lungo l’asta, l’epigrafe nella parte estrema inferiore (in latino, tradotta): <anno> 1524 – Opera di Bartolomeo da Montelparo – Ad onore di Dio e della Concezione della Vergine – Croce costruita dalle elemosine fatte dalla Comunità di Monte Leone al tempo del signor Lorenzo Crucitti e dei sindaci (= amministratori della chiesa di S. Giovanni di Monteleone) Pierangelo di Matteo e ser Gerolamo di Pietro di Speranza.

   Attualmente esiste il cognome Crocetti (come l’autore di questa Guida di Montelparo) derivato dal patronimico Crucitti qui indicato. Nelle vicinanze è attuale il cognome Speranza. Con alta soddisfazione si apprezza l’artista montelparese, orefice incisore, Bartolomeo da Montelparo, che la tradizione locale dice essere un religioso dell’antico convento dei Padri Agostiniani di Montelparo.

                    Il Card. Gregorio Petrocchini, agostiniano

Lo scrittore agostiniano, P. Luigi Pastori, primo storico di Montelparo, ha scritto: «Fra gli uomini’ illustri di Montelparo meritatamente tiene il primo posto il Cardinale Fra’ Gregorio Petrocchini, agostiniano. Era nato a Montelparo il 12.2.1546 da onestissimi, ma non oscuri (=poveri) parenti. Seguì la vocazione religiosa, entrando nel convento di Sant’Antimo in Montelparo, ove fece il Noviziato e la Professione Solenne».

   Poi si recò in diversi Studi dell’Ordine Agostiniano per completare la sua formazione culturale e spirituale i suoi studi, fino a conseguire la Reggenza a Fermo e la Laurea Magistrale. Nel 1572-74 stette a Montelparo, donde partì per Macerata per insegnare Filosofia in quella rinomata Università e vi si trattenne per diversi anni, molto ammirato ed applaudito.

   Per volontà dei suoi superiori fu nominato Priore del Convento agostiniano di Salerno, allora capitale del Principato ulteriore del Regno di Napoli, ove era fiorente uno Studio dello stesso Ordine. Qui manifestò ancora le sue doti di sacra eloquenza dai pulpiti delle chiese e la sua profonda dottrina dalla cattedra: l’arcivescovo di Amalfi lo nominò suo Teologo.

   Nel 1583 tornò nel convento montelparese, donde fu eletto Ministro Provinciale della Marca nel 1585, nell’anno stesso in cui il Card. Felice Peretti (frate conventuale di Montalto) fu eletto pontefice e prese il nome di Sisto V. Alla scadenza biennale del predetto incarico, Sisto V lo nominò Ministro Generale dell’Ordine Agostiniano, con sede presso il Convento di S. Agostino in Roma. Volle rendersi conto della situazione e rinfrancare le comunità religiose, intraprendendo la visita delle Provincie Agostiniane in Italia e fuori d’Italia, in Francia, Spagna e Portogallo. Fondò nuovi conventi, riparò i disordini in diversi conventi, quietò odiosi disturbi, distribuendo premi e pene in tal giusta misura da meritare l’elogio esplicito di Filippo II, Re di Spagna, con foglio diretto al Papa.

   Scrive il Pastori che delle lettere « Sisto V fece sì gran pompa che quasi impaziente di attendere in Roma il ritorno del Ministro Generale degli Agostiniani, card. Petrocchini, inviò le lettere insieme al berretto cardinalizio in Firenze, ove egli si tratteneva, dirette al Granduca Ferdinando; e nel Palazzo dello stesso Granduca gli venne conferito il «berretto rosso» e furono pubblicamente letti gli encomi a sua gloria scritti dal Re di Spagna.

   Il 20.12.1589 il M° Fra Gregorio Petrocchini fu insignito della sacra porpora ed ascritto al Sacro Collegio, come Cardinale Prete dal titolo di S. Agostino. Fu stimato anche da tutti i sommi pontefici, successori di Sisto V. Prese parte a ben sei Conclavi. Paolo V, il 16 agosto 1611, lo promosse Cardinale Vescovo di Palestrina. Il 20 maggio 1612 accolse la morte, pieno di meriti e di esemplari virtù, all’età di 76 anni. Nel 1609 aveva fatto testamento in favore del nipote Giacomo Filippo, ed il giorno antecedente la sua morte vi aggiunse un codicillo. Assegnò 6.000 scudi per la costruzione in Montelparo della chiesa di S. Gregorio, che fu inaugurata nel 1615, ed altri 6.000 scudi per istituirvi una Collegiata di 8 sacerdoti, compreso l’Arciprete.

   Dimostrò così di amare il paese natio, «sua cara patria». Come Felice Peretti usava sottoscriversi «Cardinale Montalto», così il Petrocchini si firmò sempre «Cardinal Montelpare», dando lustro e notorietà all’umile Terra che ebbe la felice sorte di dargli i natali.

   Negli anni 1590-91 ci fu grande carestia nelle campagne del Fermano, e per questo il Comune di Montelparo si rivolse al suo Cardinale per sollecitare aiuti dalla Camera Apostolica. Il Card. Petrocchini inviò in quella circostanza un cospicuo contributo personale, accompagnandolo con le seguenti affettuose espressioni: «altro non posso dirvi se non che io vorrei trasformare in grano tutto quello che ho e me stesso, per consolarvi». Per tutte le sue opere, la sua memoria è tuttora viva nell’Ordine Agostiniano e fra la popolazione di Montelparo che nell’anno 1990 ha dato l’avvio a varie manifestazioni ed iniziative per celebrare il IV Centenario della sua nomina a Cardinale e lasciarne una memoria scritta negli atti dell’apposito convegno.

                Fra’ Fulgenzio Travalloni Ministro Generale O.E.S.A.

   Eusebio Travelloni nacque in Montelparo il 2.6.1616 da Andrea e da Giovanna Montani da Montegiorgio. A 25 anni vestì l’abito religioso dell’Ordine Agostiniano e fu accolto nel convento di Montegiorgio, ove intraprese il Corso di Noviziato e fece la solenne Professione Religiosa con il nome Fra’ Fulgenzio. Indi si perfezionò non solo negli studi secondo le costituzioni dell’Ordine, ottenendo la Laurea Magistrale, anche in una pietà solida unita a grande prudenza, per cui, godendo stima dei superiori, fu subito impegnato in delicati incarichi.

   Fu Visitatore Generale nei conventi dell’Ordine nella città di Napoli, cioè in quello di S. Agostino e quello di S. Giovanni a Carbonara, rinomato per l’ottima educazione impartita ai figli delle migliori famiglie napoletane. Negli anni 1660-64 fu Vicario Generale dell’Ordine; nel biennio 1665-66 fu Priore di S. Agostino in Roma e Vicario della Sacra Congregazione dei Vescovi e Religiosi. In seguito, per sfuggire ad ogni altro onore, con profondo senso di umiltà si ritirò nel convento di Montelparo, sua patria. Quivi condusse vita esemplare di semplice religioso.

   Nel 1671, essendo note le sue virtù e buone qualità come uomo di governo, fu eletto Ministro Provinciale dell’Ordine Agostiniano delle Marche; terminato il biennio, tornò alla vita umile nel convento montelparese. Nel 1776, dal Vescovo di Montalto fu nominato Esaminatore Sinodale.

Dopo pochi anni fu richiamato a Roma per ricoprire l’onorevole impiego di Procuratore Generale dell’Ordine. Quindi si recò nel Tirolo e nella Bavaria in qualità di Commissario e Visitatore Apostolico, a Parigi presso la corte di Luigi XV che lo onorò di profonda stima ed amicizia.

   Nel 1685 fu eletto Ministro Generale di tutto l’Ordine Agostiniano Eremitano; emanò diversi ordini per regolamentare la vita religiosa che sono restati famosi e tenuti in considerazione anche nei tempi che seguirono. Nel 1691, con dispensa del papa Alessandro VIII, fu confermato Generale per altri tre anni. Morì a Loreto, nell’Ospizio agostiniano di Monte Reale, nel 1693, all’età di 77 anni; e fu sepolto nella cappella del SS.mo Sacramento della Basilica Lauretana della Santa Casa.

                                 Il Dott. Giovenale Mancinelli

L’intitolazione dell’Istituto Medico-Psico-Pedagogico a «Giovenale Mancinelli» a Montelparo nel 1967 fu data in ricordo di questo Dott. G. Mancinelli, che agli inizi del 1900 fu medico condotto del paese e presidente della locale Congregazione di Carità. Una bella lapide all’ingresso dell’Istituto ricorda che il 22 novembre 1905 il Dott. Mancinelli, nell’eseguire un’operazione chirurgica, fu vittima di una infezione: «per salvare gli altri infettò se stesso».

    L’Istituto dipende dall’Opera Pia Ospedale di Montelparo, la quale nella prima metà dell’Ottocento fu amministrata dai PP. Agostiniani; dopo la loro soppressione, fu assegnata alla Congregazione di Carità; ora nella parte amministrativa dipende dal Comune. Nel corso dei secoli l’ente pubblico ha ricevuto in continuazione donazioni e dotazioni di capitali per svolgere e potenziare diverse attività assistenziali a favore dei più deboli: tra le quali sono da ricordare in modo particolare l’Ospedale e l’Asilo Infantile, funzionanti sino agli anni 1940-50.

 Dal 1960 è stata effettuata la ristrutturazione dei locali del vecchio Ospedale, adattandola ad una specie di scuola-convitto per accogliervi giovani adolescenti, assistiti dalle Amministrazioni Provinciali e dall’ENAOLI, bisognosi di assistenza economica, scolastica ed educativa. Questo tipo di assistenza fu costante fino al 1980, quando subì un cambio di indirizzo, rivolgendo la attenzione maggiore verso soggetti handicappati psico-fisici, assistiti dalle UU.SS.LL. della Regione Marche, ed anche di altre zone. Sono passati nell’Istituto moltelparese «G. Mancinelli» alcune centinaia di giovani; molti di loro hanno trovato inserimento ed occupazione nella società con lodevole successo.

                                      NEL MUNICIPIO E NELLE PARROCCHIE

SINDACI DEL COMUNE nel regno Savoia dal 1861 al 1945

1861  ADRIANO GAETANO

1862  MARINI ORAZIO

1867  ANGELOZZI NICOLA

1885  LOMBI VITO

1890  SIMONI GAETANO

1896  ANTOGNOZZI NICOLA

1900  VECCHIOLI LUIGI

1905  ANTOGNOZZI NICOLA

1915  VECCHIOLI LUIGI

1920  COTRINA ETTORE 

1924  VECCHIOLI FILIPPO

1931  LOMBI MICHELE               Commissario Prefettizio

1933  LOMBI MICHELE               Podestà

1934  DARA GIOVANNI              Commissario Prefettizio

1934  LOMBI GIUSEPPE              Commissario Prefettizio

1935  TEMPESTILLI GIULIO       Commissario Prefettizio

1938  LANDISIO GIOVANNI       Commissario Prefettizio

1938  TEMPESTILLI GIUSEPPE  Commissario Prefettizio

1939  TEMPESTILLI GIUSEPPE  Podestà

1943  NOVELLI ENRICO              Commissario Prefettizio

1944  ILLUMINATI GIULIO         Commissario Prefettizio

1944  ILLUMINATI GIULIO         Sindaco

                                         Sindaci nella Repubblica Italiana dal 1946

1946 LOMBI VITO

1950  LUPI GIULIO

1951  FANO ONOFRIO

1954  TIRABASSI FAUSTO

1956  LACCHE’ UBALDO

1960  MASSACCESI CESARINO

1965  MARZIALI ENZO

1966  FUNARI LUIGI

1970  PICCIOTTI OVIDIO

1980  QNTOLINI FRANCESCO

 1985  PICCIOTTI OVIDIO

1990  JOBBI GIBERTO

                                                   PARROCI

Parrocchia matrice di S. Michele Arcangelo

1586 D. QUINTILIO CIFFARELLI

 (Mancano registri nel periodo 1614-1735)

1736 D. PIETRO VARAMENTI

1743 D. GIUSEPPE PIERANTOZZI

1776 D. PIETRO ANTONIO PUCCI

1806 D. GERVASIO TROJANI

1851 D. PIETRO MARIA TROJANI

1900 D. PIETRO MARZIALI

1907 D. SILVIO ANGELICI

1919 D. GIOVANI MECOZZI

1947 D. DOMENICO D’ALESSIO

1986 D. PIERINO VALLORANI

Parrocchia nella Chiesa di S. Maria Novella

1737 D. FRANCESCO BERARDI

1741 D. NICOLA PELLEI

1744 D. MARCELLO ERRICHI

1747 D. LIBERATO ANGELONI

1749 D. LUDOVICO CATALANI

1781 D. FORTUNATO ADRIANI

1783 D. RUFFINO ADRIANI

1813 FRA GIUSEPPE ERCI, economo Curato

1833 FRA MICHELE ANGELO SCARAFONI

1880 D. PIETRO MARZIALI

1900 D. VINCENZO AGRESTI

1949 D. EGIDIO PETROCCHI

1960  (unione con la parrocchia di S. Michele A.)

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SAPIENZA E GIUSTIZIA NELL’UMILE GIUSEPPE PADRE DI GESU’

IL SAGGIO E GIUSTO PADRE DI GESU’

   Giuseppe, padre di Gesù, pregava il salmo 111: «Principio di sapienza è il timore di Dio: rende saggio chi ne segue i precetti. La lode del Signore rimane per sempre (Sal 111,10)». Egli meditava il libro di Giobbe (20, 12): «… ma la sapienza da dove si estrae? e il luogo dell’intelligenza dov’è? (28,20)» Non sono realtà da comprare o scambiare: Dio solo sa dove si trovi. «Ecco: il timore del Signore, questo è sapienza; evitare il male, questo è intelligenza (28,28)».

   Dalle meditazioni bibliche Giuseppe apprende come Dio si manifesta a quelli che confidano in lui, per stare con lui si allontanano da ogni discorso insensato e rifuggono dall’ingiustizia, dalla maldicenza, dallo spadroneggiare. Giuseppe è giusto nel comprendere la verità e la fedeltà fino alla fine. È perspicace nel timore di Dio che lo conduce alla sapienza. «Chi teme il Signore si convertirà di cuore (Sir 21,6)». Sa usare attenzione, prudenza e rispetto verso gli altri. Il consiglio del saggio «è come sorgente di vita (28,13)». Al confronto la sapienza umana è vuota.

   Giuseppe, marito di Maria di Nazaret, nella preghiera cerca e trova la sapienza e la giustizia, che gli giungono come grandi doni di Dio, per cui ha il cuore docile e sa distinguere il bene dal male. Sapiente è il suo discernimento nel giudicare le vicende umane. Il diacono Stefano negli Atti degli apostoli ricorda le opere di Dio compiute per mezzo del figlio di Giacobbe, di nome Giuseppe, quand’era schiavo in Egitto Dio «gli diede grazia e sapienza davanti al faraone re d’Egitto(At 7,10)» Anche il padre di Gesù, Giuseppe, ha avuto la saggezza e la giustizia che lo orientano verso quello che è richiesto dal Signore nei comandamenti.

   Saggezza e stoltezza sono descritte e narrate da Gesù con la parabola delle dieci vergini di cui cinque erano persone avvedute e presero l’olio per alimentare le lampade durante la notte; mentre le altre cinque si trovarono impreparate al momento dell’arrivo dello sposo e furono escluse. Gesù conclude. «Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora (Mt 25,13)». Non si tratta di ammassare beni materiali, come il ricco che si diceva soddisfatto dei nuovi magazzini riempiti, ma morendo la stessa notte, annichilì quel suo progetto edonistico: «Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti (Lc 12, 19s)».

   Nell’esortazione di Paolo ai Corinzi, il dono divino della sapienza non fa porre fiducia in noi stessi, ma nel generoso intervento di Dio: «… e per la speranza che abbiamo in lui, ancora ci libererà (2Cor 1, 10)». Giuseppe, educatore di Gesù, valuta ogni cosa non soltanto nella materialità ma le vede alla luce di Dio e pensa a lui e desidera con cuore umile i beni spirituali.

   Sa tacere con mitezza mentre ascolta gli altri. Come sono qualificati i doni della saggezza e della giustizia? L’apostolo Giacomo dice: «La sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e buoni frutti, imparziale e sincera (Gc 3,17)». Rende sagge le persone semplici, più degli altolocati, come dice il Qoelet. «più di dieci potenti che sono nella città (Qo 7,19)». E’ meglio la sapienza che la forza (9,16). Il profeta Geremia ammonisce il popolo eletto con l’oracolo del Signore: «Non si vanti il sapiente della sua sapienza. Non si vanti il forte della sua forza. Non si vanti il ricco della sua ricchezza. Ma chi vuole vantarsi, si vanti di avere senno e di conoscere me, perché io sono il Signore che pratico la bontà, il diritto e la giustizia sulla terra e di queste cose mi compiaccio. (Ger 9, 22-23)».

   Il cuore umile arriva a cantare la vittoria, perché mentre riconosce la propria debolezza, si rivolge alla potenza del generoso intervento divino, come incoraggia l’apostolo Giacomo: «Se qualcuno di voi è privo di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti con semplicità e senza condizioni, e gli sarà data (Gc 1,5)»

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Pio X Benedetto XV e il no al partito cattolico in Italia

L’articolo sulle elezioni amministrative del 1921, a distanza di un secolo, nella rivista «La Civiltà Cattolica n.4113» ricorda Pio X Benedetto XV e il no al partito cattolico ricorda. Nel 1905 ecco le indicazioni che Pio X aveva dato ai cattolici spagnoli in materia elettorale: «I cattolici – aveva scritto il Papa – debbono con ogni industria sforzarsi a far riuscire nelle elezioni, siano municipali o nazionali, coloro che, giusta la circostanza di ciascuna elezione, dei tempi e dei luoghi, sembra che meglio debbano provvedere, nel loro governo, ai vantaggi della religione e della patria». In seguito, dopo costituito il Partito Popolare di don Sturzo, sotto il pontificato di Benedetto XV, la parola d’ordine che la Santa Sede dava in quel momento agli elettori cattolici, attraverso le pagine della rivista dei gesuiti, “La Civiltà cattolica” era che essi continuassero a votare per il Ppi, scegliendo però, all’interno delle sue liste, quei candidati più sensibili alle questioni di carattere religioso. Questo era il punto di vista del Papa, che non desiderava che il partito dei cattolici si scindesse al suo interno, o che le sue forze si disperdessero in alleanze politiche diverse. Benedetto XV non era favorevole alla formazione di un «partito guelfo», cioè apertamente cattolico, accanto a quello «popolare». Questo indirizzo politico fu poi ribadito dalla maggioranza del partito nel Congresso di Venezia dell’ottobre 1921.

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