LA FIERA DI FERRAGOSTO A FERMO Regolamento antico

Mercato liberto negli STATUTI DEL TERRITORIO FERMANO ed.1589  pagina 204

CAPITOLI EDITI SUL MERCATO E SULLA FIERA DELLA MAGNIFICA CITTA’ DI FERMO, IN AGOSTO, COME FURONO ORDINATI AD OPERA DEI CITTADINI CON DECRETO DI CERNITA.

– 1- II luogo ove si debba fare la fiera, cioè dove si debbano vendere gli animali, sia dove sinora è consuetudine; ma il luogo ove si vendono le altre mercanzie si intenda che è dentro la Città, nella piazza di San Martino, e lungo le strade maestre.

– 2- Parimenti che la fiera predetta sia e che debba essere “franca” <libera> a tutti i forestieri che condurranno <porteranno>, compreranno o venderanno le loro mercanzie nella detta fiera, stando il tempo che sotto si dichiarerà; cioè che possano mettere, portare, vendere o comperare ogni genere di merce e di animali senza alcun dazio, ovvero gabella <tassa>; non estendendosi a coloro che vendessero grano, farina, pane, vino, olio all’ingrosso, carne da taglio e ogni altro genere di biada, e vettovaglie, espressamente specificando che la carne salata e il cacio <formaggio> che si vendano venduti a pezzi interi, non debbano pagare <alcuna> gabella; salvo che non si vendesse al taglio, ma i forestieri anche se vendessero carne salata e formaggio a taglio, non siano obbligati a pagare alcun dazio ovvero gabella.

– 3- Parimenti durante il tempo della fiera i Cittadini e i Contadini, i quali conducessero o vendessero o immagazzinassero, o comprassero o portassero qualche mercanzia, non siano tenuti a pagare alcuna gabella, dichiarando però che le robe che si avessero da immagazzinare, si debbano segnalare ai gabellieri <dazieri>, e finita la fiera i cittadini siano obbligati, a richiesta dei Gabellieri, con giuramento, chiarire quello che gli avanza; ma espressamente si dichiara che di robe comperate per proprio uso non si paghi gabella. E se vi fosse qualche difficoltà per le cose che si vendessero o portassero, di qualunque specie siano, allora ci si attenga al giudizio di quei Cittadini che saranno incaricati come sovraintendenti della fiera con giuramento di colui che la vendesse o portasse o immagazzinasse; o in qualunque modo capitasse qualche dubbio; ma in tale modo da ultimare, esaminare e chiarire prima che si abbiano questi dubbi e differenze, tramite i Consoli dei mercanti di luglio e di agosto.

– 4- Parimenti che i mercanti forestieri possano manda le loro mercanzie e le robe nel Porto e nella Città di Fermo entro l’anno come a loro capiterà e conservarle, e per riporle fino al tempo della fiera senza alcun dazio, né pagamento di gabella. Ma se prima del tempo della fiera le vendessero, siano obbligati, per quello che vendono, a pagare il dazio ovvero la gabella ai Gabellieri senza alcuna opposizione. E ciò abbia luogo per il passato, al presente e nell’avvenire. E si intenda che se le robe si inviassero tramite un commesso o per commenda <accomandita> si debbano immagazzinare tutte in un luogo che verrà stabilito tramite il Comune.

– 5- Parimenti che i mercanti e qualunque altra persona di qualsiasi stato e condizione essa sia, possano, nell’avvenire, per tutto il mese di agosto, in qualunque anno della fiera, liberamente vendere o comperare senza alcun pagamento di dazio o gabella. E siano liberi ed esenti da questi dazi e gabelle per tutto il mese di agosto, ed anche i mercanti forestieri possano portare tutte le mercanzie e le robe loro e farle portare per tutto il mese di settembre seguente in ogni anno quando la fiera si farà, senza pagamento di detti dazi o gabelle. Ma se qualcuno passasse con robe e con apparenza di franchigia, le portasse in tale tempo, con l’intenzione di non vendere nella detta fiera, mettesse roba, sia obbligato al dovuto pagamento delle gabelle.

– 6- Parimenti che a ciascuno sia lecito fare la senseria <mediazione> in questa fiera, purché sappia scrivere, affinché possa tener conto delle vendite che si fanno di mano sua, in modo che si abbia a far scrivere dal notaio dei sovrintendenti della fiera; altrimenti qualsiasi vendita, che viene fatta di loro mano, non sia valida.

– 7- Parimenti che questa fiera sia e debba essere franca e libera per ogni persona che ci verrà in modo che nessun Cittadino, Contadino o forestiero, di qualunque condizione e luogo egli sia, cioè durante il tempo di questa fiera, possa essere costretto né concordato da alcun suo creditore per qualche debito contratto prima del tempo di questa fiera, né per rappresaglia del Comune, né da parte di una persona speciale che avesse  <rivalsa> contro qualcuno, salvo per un debito che si contraesse o si facesse nella fiera, si debba fare accordo e costringere a quel che la ragione volesse.

E similmente non si possa, durante il tempo della fiera, giurare <affermando>

 qualcuno sospettato e fuggitivo, e così neanche si possa fare alcuna molestia durante questa fiera a quelli che fossero condannati per danni dati, ma anche essi siano liberi e sicuri.

– 8- Parimenti che la detta libertà e sicurezza non si intenda per qualche bandito, nemico, ribelle o traditore della santa Chiesa, e del Magnifico Comune di Fermo, e che non sia <una fiera> libera per coloro che commettessero azioni illecite o commettessero qualche delitto o misfatto durante questa fiera o in questa fiera, o fuori dalla fiera stessa, nel territorio di Fermo e del contado, o delle Terre raccomandate. Ma il Podestà e il Capitano e altri ufficiali del Comune di Fermo, contro tali delinquenti, abbiano pieno arbitrio di punire e condannare nella persona o nei beni, secondo che a questi ufficiali sembrerà opportuno e piacerà, in modo sommario, senza strepito, senza figura di giudizio <processo>, con piena facoltà di aggiungere o non diminuire tale pena, che in tale delitto si deve imporre; nonostante uno statuto o una delibera che dicesse il contrario.

– 9- Parimenti che si debba assestare e aggiustare il peso della quantità e provvedere che si aggiustino all’apparecchio <dispositivo> di quello tutti gli altri pesi.

– 10- Parimenti che si faccia il bussolo <sorteggio> dei sovraintendenti, i quali abbiano a intendere, esaminare e decidere sommariamente tutte le vertenze che per comperare, e per vendere e per qualunque altro motivo capitassero in questa fiera, e il Capitano e il Collaterale richiesti da loro di intervenire, debbano decidere, secondo ragione, le cose dubbiose e nessun Avvocato o Procuratore possa intervenire in tali cause, sotto la penalità di 25 libre, per ogni volta quando qualcuno trasgredirà.

– 11- Parimenti i Regolatori, che ci saranno nel tempo, affinché i mercanti siano contenti e volentieri stiano e ritornino, provvedano comodamente e a buon prezzo assoldare l’affitto delle botteghe o case necessarie, e similmente provvedano che dal contado arrivino le vettovaglie, come meglio sembrerà a loro, purché ci sia abbondanza, e coloro della Città o del contado che faranno il pane e lo porteranno, o lo venderanno nella Città al tempo della fiera, non siano, per esso, obbligati ad alcun dazio, ovvero gabella.

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Traduzione di Vesprini Albino dal testo scritto in lingua volgare locale. –

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CHI TACE: «E Gesù taceva»

TACENDO DISTRUGGE GLI INGANNI

Lucio Anneo Seneca ispirandosi a Sofocle ha scritto la tragedia dal titolo Edipo ove si legge la frase 527: «Distrugge gli imperi colui che, essendo comandato di parlare, tace». Può essere vera questa frase? Dipende dal fatto se sia meglio discutere. Gesù di fronte al giudice tace per mitezza, per misericordia, per pazienza, per umiltà, ma ha la fede che Dio agisce per far trionfare la verità e di fatto dopo immolato egli risorge a vita immortale. Tacere non è debolezza, è prudenza di fronte alla canea che lo odia mortalmente e allora il discutere non farebbe emergere la verità. Il tacere non è silenzio vuoto: tra gli scogli del voler apparire, come fanno i nemici, il non detto è come un’onda avvertita. Non tace l’onda silenziosa della vita. Anche le piante crescono nel silenzio. Tacere non è fingere. Di fronte ai prepotenti e ai politici non coerenti, chi non parla sta seminando il dubbio. Una bocca chiusa e uno sguardo fisso stimolano a riflettere e a cercare la verità. Urla chi teme che si scopra la verità. Chi richiesto di parlare in tali situazioni decide di tacere fa germogliare i semi della lealtà, semi che distruggono le falsità imperialistiche. “L’arte di tacere non è un semplice invito al silenzio, un manifesto del mutismo, ma un’analisi delle infinite possibilità della continenza verbale e scritta”.

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VANGELO DEL RISORTO CHE VIENE INCONTRO:

«NON TEMETE: ANDARE AD ANNUNCIARE …»

Cenni rapidi sul Dipinto: GESU’ CAMMINA TRA NOI RISORTO CON IL CORPO IMMORTALE GLORIOSO

Nel dipinto firmato d’azzurro da S. Tricarico, Gesù Cristo, in tunica bianca e lungo manto dorato, cinge ai fianchi una fascia di colore sanguigno. Questa opera pittorica come ogni opera d’arte parla alla mente e al cuore di chi la contempla e trasmette la ricerca del senso delle cose che è avvertito con i ricordi d’infanzia uniti alle riflessioni adulte.

Attorno all’immagine del Cristo predomina massicciamente il colore blu che rappresenta la costanza, la fedeltà e la meditazione. Il cielo ceruleo con nuvole azzurre proietta un’impressione di serenità con il senso dell’infinito. In altre parti fa da contrappunto il colore sanguigno che è sublimato dal rosaceo delle colline per chiamare all’attesa di un futuro con le novità che nascono a primavera.

Dal sepolcro aperto del Cristo risorto fuoriesce una luce dorata. Sulla strada e nei riflessi del manto aureo il colore sanguigno fa ricordare l’evento della salvezza: il Cristo Messia si è immolato sulla croce che è dipinta con il lenzuolo della deposizione sul colle del calvario.

Questa pittura può offrire le tracce che avvicinano alla fede che viene solo proposta. Di per sé la fede è un dono divino che non viene mai imposto. Nell’ampio ambiente naturale al centro, il Cristo percorre le strade dei cammini umani con passo agile di pellegrino, e con sul capo l’aureola.

La primavera ha i suoi segni in primo piano nei fiori tipici del biancospino avanti al sepolcro circondato da rocce. Sono questi i fiori con cui la primavera fa fiorire le speranze. E sullo sfondo la terra rosacea della collina ha il sorriso del buon cuore.

E’ importante non immaginare solo Gesù in alto, perché lui cammina fra noi.

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Legislazione a Montefortino 1568

LEGGI VANTAGGIOSE A MONTEFORTINO 1568

Montefortino.Statuto

SONO VANTAGGIOSE LE LEGGI ADATTE AI TEMPI E ALLE CULTURE

   Gli Statuti propri di Montefortino (FM) stampati nel 1568 furino compilati da otto cittadini eletti a Montefortino aalo scopo di meglio guidare le abitudini politiche nell’orientamento verso la pace. Nel proemio al libro primo, si spiegano i vantaggi della propria costituzione giuridica e si elencano le parti degli ordinamenti a cominciare dal culto al divino Creatore, il governo repubblicano <cioè comunale>, le cause civili, i reati penali pubblici e privati, i crimini straordinari.

   Ecco tradotto dal latino il proemio del primo libro.” I precetti della disciplina morale, da cui la vita umana riceve la formazione e l’educazione, meritano in certo modo un rilievo molto splendido, pertanto quelli che riguardano il governo e la salvaguardia delle città vengono raccomandati. Questa disciplina procura, senza dubbio, ogni forma di felicità. Il conquistare la felicità realmente è cosa eccellente per le persone e sarà di maggior gloria per la cittadinanza tutta quanta, sicché ogni castello in seguito a ciò giunga a avere la beatitudine.

    Infatti il bene più ampiamente rivelato, per ispirazione divina, è tanto più apprezzato. Ogni persona consegue la perfezione dalla società civile e dalle sacre leggi, a cui si sottomette vivendo con rettitudine e fruisce dei vantaggi della serenità e della pace, stando lontano dall’impulsività per opera delle dovute correzioni, benché un uomo imbecille sia un animale e non abbia resistenza da sé stesso.

   Meditiamo sul fatto che nulla è più necessario, nulla più vantaggioso, nulla più soddisfacente, nulla c’è di meglio, per vivere bene e felicemente e per rinvigorire l’umana società, quanto il vivere sotto la disciplina delle giuste leggi, giacché si agirebbe a capriccio in tutte le cose, qualora si togliessero le leggi, mentre la natura dei mortali è tanto prona al male.

   Ciò soprattutto nei luoghi montani dove noi viviamo con la sterilità ed i grandi influssi della natura. Senza le amministrazioni pubbliche, senza le cittadinanze, senza i paesi, non si troverebbero né alcuna giustizia né alcuna onestà; soltanto stragi, rapine e nefande scelleratezze di ogni maniera. E ciascuno farebbe quello che pretende con muovere la guerra con le armi e con la forza. In tal modo, l’unione del genere umano non è consistente, ma la sua dissoluzione diverrebbe inevitabile.

   Deriva da tali fatti l’esperienza per cui i popoli e i re hanno pubblicato le leggi per loro stessi: Abramo, Mosè, il Faraone, il Re per i Greci, Licurgo per gli Spartani, Mercurio Trimegisto per gli Egiziani, Solone per gli Ateniesi, Numa Pompilio per i Romani e infine innumerevoli altri re e popoli hanno agito affinché l’umana spericolatezza fosse frenata dal timore e la lealtà fosse tutelata frammezzo ai disonesti e la sconsideratezza, anche la frenesia di fare del male fossero raffrenate per mezzo di spaventevoli supplizi.

   Queste istituzioni degli antichi risultavano essere sorgenti di rettitudine e di salvezza e adatte per vivere bene, e nulla le superava. Tuttavia gli statuti umani sono mutevoli nella varietà dei luoghi e delle abitudini, al punto che le leggi antiche scomparvero quasi per la maggior parte, nell’evolversi dei disusi. Le diverse nazioni si fissarono poi leggi diverse congruenti alle loro culture.

 E questo nostro popolo Fortinate con i poteri che sono dati sia dalla propria autorità giuridica, sia dai sommi Pontefici, fece la sua <precedente> giusta e onorevole costituzione dei diritti <o leggi> municipali.

   Tuttavia <la precedente> è in parte astrusa, in parte difettosa, in parte anche meno congruente ai nostri tempi moderni e <il Consiglio generale Fortinate> ha decretato che si pubblicassero nuove leggi per mezzo delle quali questa repubblica tutta quanta possa essere governata con vantaggi.

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AVVERTIMENTI DIVINI NON MINACCE MA CHIAMATE ALLA CONVERSIONE

SAN PAOLO AI ROMANI 8, 19ss

Pestilenza, guerre, morire. Adoperiamoci a restare uniti a Dio.

TUTTO STA NELL’ACCOGLIERE GLI AVVERTIMENTI DIVINI. (Antimo Lorcassi)

“20 marzo 2022, le menti ed i cuori sono sfidati dalle follie di guerra e dalla pestilenza, mentre la natura e le persone soffrono per le violazioni umane (Rom. 8,19ss). Sono avvertimenti profondissimi. Il Vangelo odierno Lc 13,1-9 racconta che, ai tempi di Gesù Cristo, a Siloe, città a sud di Gerusalemme, crollò una torre per cui morirono diciotto persone. «Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo». Sappiamo che le bombe negli arsenali hanno un potenziale per distruggere almeno un centinaio di volte il nostro globo terrestre e bruciare miliardi di persone viventi. Ci domandiamo se non è preferibile adoperarsi per non partecipare alle morti, neanche in modo involontario né inconsapevole.

   Don Oreste Benzi, personalità di alta umanità, ha scritto: «Dio ci avverte continuamente. Sappiate guardare in maniera diversa tutto quello che succede nella vita. In ogni avvenimento è presente il Signore e lui ti avverte di qualcosa. In ogni cosa c’è tutta una meraviglia stupenda, anche nel dolore, nella sofferenza, nella malattia. Tu sappi vedere che il Signore continuamente ti avverte, sappi leggere i messaggi di Dio! Ma se sei troppo attaccato a te stesso e continui per quella via, non accogli gli avvertimenti di Dio. … Purificati per non essere al centro del tuo cammino …”è «Io.Sono che ti manda».

(Io.Sono è il nome di Dio)

                                                                                                        Lettera di San Paolo ai Romani, 8, 19-24

«L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati.»

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Il Mulino sul fiume Tenna Belmonte Piceno

VENTI SECOLI DEL MOLINO AL FIUME TENNA A BELMONTE (FM)

Dino Fattoretta

Belmonte Piceno

 Gennaio 2022

GRAZIE a chi ha dato le notizie qui raccolte.

Ogni mulino vuole la sua acqua

Ognuno tira acqua al proprio mulino

Porta acqua al mulino dell’amico

Nell’antico paese

A Belmonte Piceno il mulino sul fiume Tenna esiste da venti secoli e negli ultimi due secoli è stato gestito dai mugnai Valori fino al 1902 poi dai Carnevali.

   In prossimità del fiume Tenna, non lontano dal bivio delle due strade provinciali, una verso il paese e l’altra lungo la riva destra dello stesso fiume, c’è un antico mulino ad acqua che è di proprietà delle famiglie belmontesi di Antonio ed Ettore Carnevali. Nelle carte topografiche e “tavolette” si legge “Molino Valori”. Per un altro molino che era nei pressi del fiume Ete si leggono notizie nel libro di Franco Giampieri che racconta la vita nella vallata dell’Ete. Giampieri scrive che i fiumi, sia piccoli che grandi, sempre sono stati alleati degli uomini ed anche nei momenti di magra hanno speso ogni loro goccia per soddisfare le persone, gli animali e le piante.

   Di fatto vicino ai fiumi sorsero i più grandi insediamenti storici e fin dalle epoche protostoriche risulta che le loro acque furono utilizzate per la forza motoria perché questo sistema energetico è certamente economico, efficiente, poco costoso, molto produttivo in varie applicazioni. Non per nulla, nel secolo XIX con la dinamo, per mezzo delle turbine ad energia idraulica è stata prodotta l’energia elettrica. Il geografo e storico greco Strabone, nel primo secolo avanti Cristo, ebbe a descrivere i molini ad acqua.

   Proprio nei primi decenni dell’era cristiana sorse il primo insediamento del mulino belmontese, in questo luogo della pianura del fiume Tenna, che era nell’ambito del territorio Faleriense (da Falerio colonia romana, oggi Piane di Falerone). Avvenne allora che vennero mandati a riposo dall’imperatore Augusto nel Piceno i veterani degli eserciti romani sia di Cesare che di Pompeo. Ogni luogo abitato in ambiente rurale era chiamato dagli antichi romani con il vocabolo “Villa” dove essi svolgevano pressoché tutte le attività produttive. Presso l’abitazione padronale c’erano diversi edifici e locali, come l’edicola, le officine, le capanne, i magazzeni, le cantine, la grotta, le stalle per allevamenti, il frantoio o pistrino e nei pressi del fiume un molino ad acqua, in modo tale che i lavoratori provvedevano alle comuni necessità.

   Cominciò ad esistere in epoca augustea il primo mulino a Belmonte Piceno presso il fiume Tenna (Tina divinità). In seguito alla decadenza di Roma e dell’impero romano nel quinto secolo, con l’arrivo e l’insediamento di popoli emigrati da fuori dall’Italia, i nuovi abitanti si stabilirono sulle alture, dove ancor oggi vediamo molti paesi. Le attività di macinazione dei semi e delle granaglie prevalentemente si fecero nelle abitazioni, immettendoli in una pietra incavata e sovrapponendo un’altra pietra che veniva girata con ogni metodo possibile di molitura.

   Nei frantoi si usavano le macine (o mole) di pietra che erano girate o con le braccia, o con animali, o con pale sull’acqua corrente. Nel secolo VIII con la venuta dei monaci benedettini in questo territorio, le attività nelle pianure nelle vallate di fiumi ripresero intensamente e i molini si potenziarono. I monaci benedettini Farfensi con il programma di pregare e lavorare, furono i più operosi imprenditori agricoli, anche mugnai, nel Piceno.  Sapevano anche pacificare le popolazioni. A questi subentrarono, con i Longobardi e con Franchi, i signorotti vassalli che ebbero il dominio sullo sfruttamento delle terre e delle acque, continuando l’uso dell’energia idraulica. Gli edifici per i molini erano anticamente costruiti con pietre e con mattoni in un modo staticamente solido, con muri spessi, come si può ancor oggi notare dove gli edifici permangono. Dovevano resistere anche ai pericoli di incursioni nemiche, oltre che all’usura nel tempo.

   Dal XIII secolo alcuni comuni riorganizzarono l’amministrazione e crearono mulini comunali sparsi nel corso di uno stesso fiume dato che l’acqua che scorrendo dava energia in un posto, non perdeva per questo la sua quantità scorrendo verso altro mulino.

   Una vicenda di guerriglia fu causata nei dieci anni dal 1537 al 1547, quando ci fu un nuovo governatorato chiamato Stato Ecclesiastico nell’Agro Piceno con capoluogo Montottone, della famiglia Farnese del papa Paolo III, emarginando Fermo, da secoli capoluogo.  Per la riscossione delle tasse furono causati dissidi. Di fatto, presso il fiume Tenna, gli utenti del pascolo della pianura di ricco pascolo, detta “Boara” frequentata in gran parte dai Montegiorgesi, anche dei comuni circonvicini, si trovarono concitati gli uni contro gli altri causando con rappresaglie, incendi e distruzioni dei rispettivi mulini. Dopo la morte del papa Farnese, con lo scopo di pacificare, la pianura “Boara” fu data (come resta) nel territorio del comune di Fermo.

   Il sito del predetto mulino belmontese presso il Tenna in collegamento dei percorsi stradali, era poco distante dal fiume, per non essere esposto ai pericoli delle esondazioni ed era costruito in modo solido e sicuro. L’acqua per l’energia necessaria a dare movimento alla mola (macina) ruotante era prelevata in un punto un po’ più elevato di ‘colta’ dal fiume, e attraverso il canale di presa (o gora), l’acqua si accumulava nella parata (o roggia) che era come un grande pantano con paratia per l’uscita (“reffota”) e arrivava a far girare le ‘pale’ nel luogo (detto margone). Seguitava a scorrere in altro canale (detto pescaia) per ritornare allo stesso fiume.    Una saracinesca regolabile sulla paratia serviva a accrescere o diminuire la quantità di immissione dell’acqua anche per evitare i danni occasionati dai forti temporali, che immettevano molta melma e frasche secche trasportate dal fiume. Questa struttura aveva necessità di manutenzione assidua in relazione all’impeto dell’immissione. Per macinare erano indispensabili due mole (o macine) di pietra, non una soltanto, in posizione orizzontale, una sovrapposta parallela all’altra, e la distanza tra loro era manovrabile per mezzo di una leva esterna. La mola inferiore era fissa mentre l’altra mola superiore era ruotante.

   Il sito del predetto mulino belmontese presso il Tenna in collegamento dei percorsi stradali, era poco distante dal fiume, per non essere esposto ai pericoli delle esondazioni ed era costruito in modo solido e sicuro. L’acqua per l’energia necessaria a dare movimento alla mola (macina) ruotante era prelevata in un punto un po’ più elevato di ‘colta’ dal fiume, e attraverso il canale di presa (o gora), l’acqua si accumulava nella parata (o roggia) che era come un grande pantano con paratia per l’uscita e arrivava a far girare le ‘pale’ nel luogo (detto margone). Seguitava a scorrere in altro canale (detto pescaia) per ritornare allo stesso fiume.    Una saracinesca regolabile sulla paratia serviva a accrescere o diminuire la quantità di immissione dell’acqua anche per evitare i danni occasionati dai forti temporali, che immettevano molta melma e frasche secche trasportate dal fiume. Questa struttura aveva necessità di manutenzione assidua in relazione all’impeto dell’immissione. Per macinare erano indispensabili due mole (o macine) di pietra, non una soltanto, in posizione orizzontale, una sovrapposta parallela all’altra, e la distanza tra loro era manovrabile per mezzo di una leva esterna. La mola inferiore era fissa mentre l’altra mola superiore era ruotante.   All’esterno dell’edificio si notavano i ricoveri d’alloggio e stalle per gli animali come le pecore, la cavalla o il cavallo, i maiali, i conigli, e il pollaio. Non lontano dal mulino c’era anche il forno per cuocere il pane e le focacce. L’acqua era utilizzabile nelle coltivazioni di ortaggi. La moglie del mugnaio (‘molenara’) preparava e faceva cuocere le pizze e le focacce, fruibili dai familiari e, a richiesta, dai clienti. Nelle vicinanze non mancava il pozzo di acqua potabile.  Ascoltando il racconto dei nonni riceviamo i ricordi di quando andavano al mulino. Arrivati, scaricavano i sacchi e vicino al portone d’ingresso c’era la Stadera per la pesa dei quantitativi. Al momento di venir macinate le granaglie erano immesse nel cassone sopra alle macine, poi si procedeva a molare. Secondo la vicinanza maggiore o minore delle mole il macinato poco affinato per semola e tritello, o più affinato come fiore di farina. Talora il mugnaio (molinaro) accumulava nel pavimento del piano superiore il grano nel magazzeno che da un pertugio (o boccarola) faceva scendere direttamente sul mulino. Preparava la farina da trasportare a vendere. 

   Si chiama tramoggia l’apertura del cassettone svasato costruito sopra le macine, come un imbuto a ricevere il grano da macinare e farlo scendere tra le due macine con un passaggio regolabile per mezzo della leva della macinazione. Nel frattempo che il funzionamento dei meccanismi della molitura ultimasse il servizio al cliente, per curiosità egli andava all’aperto, a guardare il moto rotatorio, come l’acqua muoveva le eliche, sotto il molino: una ruota aveva infisse le pale a forma di cucchiaio poste in linea in modo che il flusso dell’acqua corrente le colpiva e faceva ruotare il perno verticale (ritrecine), poggiato su una base di ferro (ragnola). Il perno che girava, per mezzo di un meccanismo con leva, veniva innestato nella ‘macina’ (mola) ruotante. Il “molenaro” con la leva faceva sollevare o abbassare il perno per muovere più velocemente oppure per rallentare il movimento rotatorio secondo l’immersione più o meno profonda delle pale nell’acqua.    Nella stanza delle mole si vedeva scendere la farina macinata, convogliata in modo da farla cadere in un capiente cassone di legno. Allora si diffondeva nell’aria un intenso profumo di farina che era mossa dall’aria tanto da sbiancare lo spazio circostante, anche le ragnatele. Ne è venuto il proverbio: «Chi va al molino s’imbianca di farina».

   Il mugnaio inoltre controllava l’altra leva che alzava o abbassava la mola rotatoria in modo da creare una farina più o meno grossa oppure sfinata. I bambini che accompagnavano i genitori al mulino si incantavano a guardare questo complesso di misteriosi meccanismi che accompagnavano il ritmo e il rumore della mola e lo sciabordio dell’acqua. Per soddisfare la propria curiosità facevano domande al mugnaio quando stava fermo davanti al cassone a guardare la fuoruscita del macinato.   Il lavoro del mugnaio era solerte e da esso riceveva il compenso di circa quattro chili di farina per ogni quintale di grano immesso alla molitura. L’impianto del mulino richiedeva un’attenta e laboriosa manutenzione oltre che per ripulire il canale e l’invaso della paratia, anche per rinsaldare o sostituire le pale (eliche) innestate fermamente nella ruota immersa del ritrecine, per regolare le saracinesche di discesa dell’acqua incanalata, per controllare la presa d’acqua dal fiume e il suo ritorno al fiume, soprattutto per ribattere periodicamente la dentatura scolpita nelle macine, lavoro questo che avveniva dopo che erano stati macinati circa tredici quintali di granaglie. Questa dentatura sulla superficie della mola era una scanalatura che faceva accostare la farina macinata ai bordi della mola in modo che poi scendesse.

   Un molino ben attrezzato macinava mediamente tra i due e i tre quintali di grano al giorno, secondo le varie possibilità dell’operatore e dell’immissione dell’acqua. I mulini presso il fiume Tenna avevano a disposizione l’acqua continuativamente in ogni mese dell’anno, grazie alla portata per lo più sufficiente del fiume Tenna, mentre il fiume Ete soffriva sistematicamente la discontinuità per la siccità estiva. La gente di passaggio arrivava dal mugnaio, anche senza portare grano, in qualsiasi giorno, semplicemente per soffermarsi a discorrere sulle recenti notizie, per scambiarsi opinioni sui lavori della gente e, all’occasione, la “vergara”, moglie del “molinaro”, preparava e serviva le focacce.  

   L’industrializzazione del secolo XIX ha recato radicali trasformazioni nel metodo e nei mezzi della molitura con nuovi meccanismi, a cominciare dai comuni del Nord, per arrivare a diffondersi nel Piceno a metà del ventesimo secolo. Allora alla forza motrice idraulica è subentrata quella elettrica. Pertanto moltissimi molini vennero traslocati, sistemandoli nella periferia dei centri urbani collinari delle Marche, mentre pochissimi mulini idraulici rimasero quasi tutti inattivi.

   Chi è attento alle farine sa che sono diverse per grossezza e qualità, come fior di farina, tritello, fecola, crusca. Anche i colori delle farine sono vari: bianco, nero, giallo, secondo la varietà delle granaglie scelte.

   La famiglia di Valori Giuseppe tenne questo molino belmontese sul fiume Tenna sino al 1902, poi è subentrata la famiglia di Eugenio Carnevali (Carassai 1837- Belmonte P. 1918, già mugnaio a Ortezzano). La secnda moglie Re Brigida (Amandola 1855- Belmonte 1945) è ricordata novantenne quando trasportava la farina con un’asina alle famiglie e ai negozi. Erede Antonio (Carassai 1862 – Belmonte 1935) figlio di Eugenio. Il nipote Igino nel 1950 introdusse l’uso dell’energia elettrica per la molitura, poi nel 1956 egli acquistò il molino elettrificato da Brunelli Quinto esistente nella periferia del centro urbano belmontese, dove i figli Antonio ed Ettore hanno continuato a macinare fino al secolo XXI.

                                     Dino Fattoretta

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Tommaso di Canterbury martire 1170 arcivescovo

TOMMASO BECKET ARCIVESCOVO DI CANTERBURY

SANTO MARTIRE PER LA LIBERTA’ DELLA CHIESA

    Nel 1154 Enrico II Plantageneto assume il trono d’Inghilterra, di Normandia e di una parte della Francia. Nel 1164 fissa i rapporti tra Stato e Chiesa, con alcuni obblighi particolari del clero: le chiese e i monasteri diventano feudi reali. I vescovi e gli abati sono soggetti a oneri fiscali. Qui si inserisce la storia del cavaliere lord Thomas Becket, nato a Londra il 21 dicembre 1118 da una famiglia benestante, il padre era commerciante. Avviato alla carriera ecclesiastica, dopo gli studi a Merton e a Parigi, entra al servizio dell’arcivescovo di Canterbury che gli fa studiare Diritto Canonico a Auxerre in Francia e a Bologna, e lo invia in diverse missioni a Roma.

   Nel 1154 Tommaso è nominato arcidiacono di Canterbury e nel 1155 il re Enrico II lo assume come suo personale consigliere e lord cancelliere del Regno di cui egli sostiene l’azione riformatrice. Nel 1161 muore l’arcivescovo di Canterbury e il re Enrico propone il suo cancelliere come successore. Tommaso Becket, nuovo arcivescovo di Canterbury, cambia vita, con nuove abitudini rigorosamente ascetiche monastiche e inizia a prendere le difese delle libertà della Chiesa, dei vescovi e del clero. Pertanto entra in conflitto insanabile con il sovrano. L’indole dell’arcivescovo è caratterizzata da un’espressione vivace e serena. Il re Enrico II, il 30 gennaio 1164 emana le «Costituzioni di Clarendon» che limitano i diritti ecclesiastici; controllando il potere della Chiesa; bloccando le manifestazioni dell’autorità del Papa in Inghilterra. L’arcivescovo di Canterbury si oppone e dice: «Nel nome di Dio onnipotente, non porrò il mio sigillo». Egli non si impegna in alcuna causa, senza fare le riserve dell’onore di Dio e del suo ordine. Al rifiuto seguono contrasti e incomprensioni. Subisce processi e pene pecuniarie. Per ordine di Enrico II e nonostante l’appello del Primate Ranulfo di Broc, sono messi sotto sequestro i beni della Chiesa di Canterbury. Nello scontro contro il re, l’arcivescovo di Canterbury rassegna nelle mani del pontefice Alessandro III la carica pastorale, ma il papa lo conferma sulla sua sede, e dichiara la primazia della Chiesa di Canterbury.

 L’ESILIO A PONTIGNY.  LA PERSECUZIONE DEL RE

   Il primate che è in rottura con le cose pretese dal re contro la sua Chiesa, alla fine del novembre 1166, fugge in esilio in Francia, accolto calorosamente dal re Luigi VII. Per sei anni non potrà tornare in Inghilterra. Non lontano da Auxerre, in un vallone solitario circondato dai boschi si elevava l’Abbazia degli ospitali monaci cistercensi di Pontigny, sotto la guida dell’abate Guichard, futuro vescovo di Lione. Qui, il primate Tommaso è ricevuto su richiesta dal Papa. Egli vi dimora per lo spazio di due anni, per trasferirsi poi a Sens.

   Il primate d’Inghilterra tra i monaci s’applica alla preghiera e continua ad approfondire il diritto canonico. Tuttavia la vendetta del re d’Inghilterra non cessa di perseguitare l’esiliato, persino nel suo lontano isolamento. Nuove pene di esilio e di confiscazioni regie colpiscono non solo la famiglia dell’Arcivescovo, anche il clero che gli è rimasto fedele con le rispettive famiglie. Questi esiliati devono recarsi a Pontigny al fine di far notare al loro arcivescovo lo spettacolo della loro miseria. Impietoso l’esodo di clero e di laici, di donne, fanciulli e vecchi. E’ necessario provvedere alle necessità di questi rifugiati, spogliati di tutto.

   La carità dei monaci, quella del Papa, quella del re e dei Vescovi di Francia, tutto è messo in moto. Bisognerà, anche in seguito, provvedere oltre che ai miseri esiliati, anche per la situazione del clero fedele di Canterbury. Le negoziazioni per la pace tre il re e il primate di Canterbury vengono prolungate nel corso di lunghi anni del loro esilio.

VANI SFORZI DI MEDIAZIONE-

   Dal Natale del 1164 erano già state tentate molte prove di mediazione. La Regina Madre (che portava il titolo di Imperatrice in ragione del primo matrimonio con l’imperatore Enrico V) si preoccupa di ottenere da Enrico II che egli rinunzi ad imporre all’Episcopato l’obbligo di prestare giuramento alle Convezioni di Clarendon e che si contenti di una semplice promessa di voler rispettare le usanze orali, con riserve a favore della libertà della Chiesa, in pieno accordo con l’Imperatrice Matilde, Alessandro III e Luigi VII. Sono personalità di rilievo che cercano di orientare il re d’Inghilterra per il ritorno in pace con l’Arcivescovo di Canterbury.

   Un incontro del re, che era stato fissato per la metà di aprile del 1165 a Pontoise, non ha luogo, essendosi ritirato lo stesso re d’Inghilterra, all’ultimo minuto, all’annunzio della probabile presenza del Papa. Nel giugno successivo, Alessandro III, in virtù dell’appello di Tommaso Becket, annulla la sentenza di Northampton con cui il re agiva in disprezzo delle costituzioni ecclesiastiche, del diritto e delle consuetudini vigenti, dato che il re con un “pronunziato” stava confiscando i beni mobili dell’arcivescovo di Canterbury, che erano beni tutti della Chiesa.

   Nella Pasqua del 1166, Enrico II, in un incontro con Luigi VII, rifiuta di trattare con lui sull’argomento dell’Arcivescovo di Canterbury, e rifiuta di ritornare in pace con il clero della diocesi di Tommaso Becket, se non prestano giuramento di praticare le sue Costituzioni, con disprezzo, così, per la fedeltà che essi devano al loro arcivescovo. La maggior parte del clero fedele preferiva rimanere in esilio, rifiutando di giurare per le Costituzioni regie.

   Dal canto suo, il primate di Inghilterra cerca di portare il re a riflettere sul rispetto che egli, nella sua qualità di principe cristiano, deve dare alla Chiesa, e con questa intenzione gli indirizza, in date successive, tre lettere. Ma nulla è ottenuto per ristabilire la pace della Chiesa con il Regime, non c’è la riconciliazione di Enrico II con Tommaso Becket: tutti i tentativi sono vani. Enrico II allora si indirizza verso la Germania scismatica, e vi cerca appoggio per fare pressione su Alessandro III, sperando di ottenere parecchie concessioni nella lotta contro Tommaso di Canterbury.

ENRICO II E LO SCISMA GERMANICO

   Dopo morto l’antipapa Vittorio IV, Guy di Crema l’aveva sostituito col nome di Pasquale III nell’aprile 1164. Alla dieta di Wurzbourg, gli inviati di Enrico II, Riccardo d’Ilchester arcidiacono di Poitiers e Giovanni d’Oxford, promisero che il re d’Inghilterra con tutto il regno sarebbe stato fedele al “papa” (antipapa) Pasquale III, e lo avrebbero sostenuto. La Chiesa d’Inghilterra però si rifiuta di ratificare tale giuramento; ciò non di meno, Plantagenet fa pressione su Alessandro III con la minaccia che, se non avesse ottenuto soddisfazione nell’affare d Tommaso Becket, si sarebbe riversato verso lo scisma con l’antipapa. Il re vuole la destituzione pura e semplice dell’Arcivescovo Tommaso, ma Alessandro III si mostra duro su questo punto. Allora Enrico II, conferma le sue decisioni di Clarendon sugli ecclesiastici, ma cerca di ottenere alcune concessioni di minore importanza, tali che gli permettano di mantenere un confronto con Tommaso Becket, sotto forme più o meno velate, in modo da prolungare, quasi all’indefinito, l’esilio del primate.

TOMMASO BECKET LEGATO PER L’INGHILTERRA, 24 aprile 1166

   Malgrado le varie ambasciate del re d’Inghilterra, nonostante l’influenza di molti cardinali di parte regia, guadagnati dalle allettanti promesse dello stesso Plantagenet, con l’oro britannico sparso a profusione, il Pontefice romano, con le bolle del 5 e dell’8 aprile 1166, conferma i titoli del primato della Chiesa di Canterbury e, la domenica di Pasqua 24 aprile 1166, investe Tommaso Becket del potere di legato pontificio in Inghilterra, dopo aver rifiutato tale concessione in favore di Ruggero di Pont l’Eveque. Ma desideroso di moderare la suscettibilità di Enrico II conferisce, nel medesimo tempo, all’Arcivescovo di York la legazione della Scozia.

 LE CENSURE DI VEZELAY

   Il cardinale Tommaso Becket aveva già colpito di sospensione il Vescovo di Salisbury, Jocelin, che, seguendo le istanze del re, ed in disprezzo dei diritti dei canonici di Salisbury, esiliati per la loro fedeltà all’Arcivescovo, aveva elevato alla carica del decanato di questa chiesa, Giovanni di Oxford, scomunicato notorio per le sue relazioni con gli scismatici e per il giuramento prestato a Wurzbourg al Re. La domenica di Pentecoste, 12 giugno 1166, il nuovo legato pontificio Tommaso Becket promulga, dalla cattedra di Vezelay, la solenne condanna apportata dal papa contro le regie Costituzioni di Clarendon e denunzia con altre scomuniche Giovanni d’Oxford, decano intruso di Salisbury e fautore del giuramento scismatico, Riccardo d’Ilchester, colpevole del medesimo giuramento, i ministri del Re, autori responsabili delle Costituzioni di Clarendon, Riccardo di Luce e Jocelin di Bailleul; Ranolfo di Broc, Tommaso Fitz-Bernard e Ugo di Saint Clai, ufficiali regi, che su ordine di Enrico II si erano impadroniti delle rendite e dei possedimenti della Chiesa di Canterbury. Globalmente, infine, erano scomunicati tutti coloro che avevano messo le mani sui beni di questa chiesa. Il re, primo responsabile, è risparmiato dall’essere censurato, in ragione di una malattia che sta mettendo in pericoli i suoi giorni. Nel colpire i ministri e gli ufficiali regi, in virtù del suo potere di legato, Tommaso Becket fa uso di un suo valido diritto che peraltro le regie Costituzioni di Clarendon gli negavano.

   TOMMASO BECKET A SANTA COLOMBA DI SENS

   Enrico II tenta allora di proteggere contro le censure se stesso, il regno, i suoi ministri e i vescovi suoi fautori, con un appello alla corte di Roma. Nel frattempo egli cerca anche di colpire direttamente il legato Tommaso con una nuova misura di persecuzione: l’abbate e il capitolo generale dei monaci di Pontigny ricevono l’ingiunzione regia di smettere di concedere l’asilo al primate Tommaso esiliato nella loro abazia, sotto la minaccia dell’espulsione dal proprio regno di tutti i monaci dell’ordine. Tommaso non vuole affatto restare a Pontigny in quelle situazioni, e rifiutando le offerte del re Luigi VII, richiede una semplice stanza all’abate benedettino di S. Colomba de Sens. Egli i troverà a passarvi i quattro ultimi anni del suo esilio, anni ripieni di ardue negoziazioni con i legati a latere incaricati dal Papa al fine di circoscrivere il conflitto tra il re d’Inghilterra e l’Arcivescovo di Canterbury.

   LE NEGOZIAZIONI DEL 1167 – 1168

   Alessandro II evita di urtare il Plantagenet, e rimette Giovanni di Oxford nella carica di Salisbury. Inoltre acconsente ad inviare tre suoi legati speciali nelle terre continentali inglesi: il Cardinale di Saint Pierre aux liens, Guglielmo di Pavia, quello stesso che, nel 1160, aveva accordato la dispensa per il matrimonio dei figli reali, al quale egli aggiunge Odone di S. Nicola in carcere Tulliano, concedendo a questi pieni poteri, “per conoscere, intendere, dare aiuto, terminare canonicamente” il conflitto che poneva in contrasto il re con il primate. Secondo la proposta, il potere dell’Arcivescovo viene momentaneamente sospeso. Ma i poteri straordinari che il papa aveva delegato, su istanza del re d’Inghilterra, sono praticamente ritirati nel l167 a tali messaggeri, a fronte delle lamentele degli esiliati che manifestano vari sospetti. L’anno 1167 viene trascorsa nel timore degli influssi che parteggiao pericolosamente con il re d’Inghilterra.

   Nel frattempo una nuova invasione germanica in Italia ritarda l’incontro dei delegati con Enrico II, preoccupato a guerreggiare in principio nelle provincie meridionali, poi in Britannia. Poi, nel mese di novembre, i delegati possono intrattenersi con il re a Caen, si contrano con il primate Tommaso a Planches, il 18 novembre, e di nuovo, con il re ad Argentan, il 26 novembre. Le trattative si prolungano sino al 29. Ma è fatica sprecata. Tommaso Becket richiesto del suo parere riguardo al conflitto con il Re, pone per condizione, esclusiva per ogni trattativa, la piena restituzione dei beni della sua Chiesa, beni spogliati a dispetto all’appello che aveva lanciato a Northampton.

   Enrico si rifiuta alla minima restituzione e mantiene le disposizioni di Clarendon. L’anno 1168 si passa in vani sforzi d’arbitrato in vista di riconciliare il re Luigi VII con Enrico II e quest’ultimo con Tommaso Becket. La mala fede del re d’Inghilterra nei riguardi dell’Arcivescovo di Canterbury, si manifesta chiaramente quando si diffonde la notizia di un raggiro, nel luglio 1168, quando il re di Francia si vede giuocato da Plantagenet. Alessandro III non dispera frattanto di raggiungere la pace ed alla fine dell’anno delega tre religiosi, i priori di Mont Dieu, di Grandmont e di Va Saint Pierre per tentare, una volta ancora, di riconciliare il re Enrico II e Tommaso Becket. I delegati pontifici presiedono due conferenze a Montmirail, il 6 gennaio 1169. Il re d’Inghilterra pacificandosi con Luigi VII, consente ad accordare la pace all’Arcivescovo però seguitando ad esigere dall’arcivescovo che riconosca valide in modo assoluto le regie Costituzioni di Clarendon. A Saint Leger en Veline, il 7 febbraio seguente, malvolentieri, il re si trova ad ascoltare la lettura di una bolla pontificia che minaccia le sue terre di interdetto per le cose che pretende contro il diritto canonico. Ma egli mira a guadagnare tempo fino al ritorno degli ambasciatori che ha mandato alla Curia, e nelle sue Costituzioni sostituisce il vocabolo “costumanze” con quello di “dignità del regno” e si sforza con suoi mediatori di procurare un incontro. Tommaso Becket rifiuta di prestarsi a questo nuovo pellegrinaggio nel quale egli vede un tentativo di temporeggiamento.

INCONTRO DI ENRICO II CON TOMMASO BECKET

   Già la maggior parte dei suffraganei della Chiesa di Canterbury si sta ravvicinando al loro metropolitano: i vescovi di Exeter e di Worcester si erano riavvicinati a lui dal 1166; la scomunica di Jocelin di Salisbury, l’insuccesso delle ultime negoziazioni di pace e la scomunica di Gilberto Foliot colpevole di tollerare nel suo clero delle colpe gravi e di non averle deferite alla considerazione del suo metropolitano, hanno staccato dalla causa del re inglese, gli altri Vescovi della provincia di Canterbury, compreso Ugo di Durtham, che era suffraganeo di Ruggero di York, ed era rimasto, già a lungo, ostile al primate. Infine un nuovo deciso intervento del Papa lascia sperare nella regolarizzazione del conflitto. Alessandro III sta nominando dei nuovi legati, Graziano, nipote di Eugenio III, suddiacono della Chiesa romana e notaio apostolico, e Viviano arcidiacono di Orvieto, avvocato della Curia. Essi erano incaricati di uno stretto mandato e di una missione di breve durata, incontrano Enrico II in Normandia nella seconda quindicina di agosto, ma si oppongono con fermezza alle volontà del re che reclama, prima della stessa apertura delle negoziazioni, l’assoluzione incondizionata dei prelati che erano stati scomunicati dal primate Tommaso Becket. A più riprese il Plantagenet minaccia di rompere le trattative ed i legati non ottengono garanzia alcuna. I re concede semplicemente di riconoscere che l’arcivescovo di Canterbury non ha alcuna obbligazione verso di lui, per quanto riguarda l’amministrazione della Cancelleria, dando così una formale smentita alle sue affermazioni di Northampton. D’altra parte egli rifiuta di restituire i beni della Chiesa di Canterbury, ed esige ancora una clausola di salvaguardia delle “Dignità del Regno” (già dicitura “costumanze”). Tuttavia, il Plantagenet riesce ad ottenere da Vivien una nuova dilazione, mentre Graziano si incammina verso la Curia, e l’Arcivescovo di Sens legato pontificio per la Francia, compie il suo viaggio “ad limina”, e teme della fragile fermezza a Roma delle persone che egli sapeva da lunga data legate alla causa del primate. Enrico II accetta i buoni uffici di Luigi VII re di Francia, ed in presenza di questo re e di Vivien, acconsente di ricevere Tommaso Becket a Montmartre il 18 novembre 1169. Vengono fissati alcuni termini della riconciliazione, come basi delle negoziazioni. Le cosiddette “costumanze” del regno sono passate sotto silenzio: il re accorda all’arcivescovo la sua grazia, la sicurezza e la pace, gli promette la restituzione dei beni della sua Chiesa nella condizione in cui li avevano tenuti i suoi predecessori, escludendo così che siano considerati alienati. Tommaso Becket si preoccupa che il suo arcivescovado ne mantenga il possesso. Ma il re rifiuta di donargli il bacio della pace. L’incontro di Montmartre non raggiunge alcun successo.

   MISSIONE DELL’ARCIVESCOVO Dl ROUEN E DEL VESCOVO DI NEVERS

   Dal mese di gennaio 1170, Alessandro III forma una nuova commissione pontificia incaricata di negoziare sulle basi fissate a Montmartre e di ottenere, se possibile, dal Re, il bacio di pace per l’Arcivescovo, e ottenere, infine, serie garanzie di rispetto per l’avvenire della libertà della Chiesa. Tra i nuovi commissari pontifici, uno, Rotrou di Rouen, non desiderava attirarsi la collera del re Enrico II. Un altro commissario, Bernardo di Nevers, manca della fermezza necessaria per il successo della sua missione, per le sue dilazioni e per la lentezza dei suoi spostamenti Nel frattempo si lascia tutta la comodità a Plentagenet di procedere a far incoronare il suo figlio primogenito, Enrico il giovane. Il re, in effetti attraversa il mare il 3 marzo 1170 ed entra nel continente, subito rallegrandosi con Gilberto Foliot, sciolto dalla scomunica, il 5 aprile, su ordine del Papa. Il re Enrico II, di concerto con il Vescovo di Londra e con l’Arcivescovo di York, prepara in segreto la cerimonia, e promulga ulteriori disposizioni necessarie per paralizzare l’azione dei commissari pontifìci, di Tommaso Becket e di Alessandro III.

   ISOLAMENTO DEL REGNO D’INGHILTERRA

   Per ordine regio, dopo l’insuccesso della conferenza a Montmatre, finito l’anno 1169, i ricorsi al Papa o all’Arcivescovo vengono proibiti, sotto pena della prigione e della confisca di beni finanche per chi parteggiasse con il papa. Nessun membro del clero poteva oltrepassare lo stretto senza un salvacondotto del re, o del supremo giudice. Il danaro di San Pietro veniva versato nel tesoro reale per essere dispensato, poi, su ordine del Re. Ogni porgitore delle lettere ecclesiastiche d’interdetto sul regno sarebbe stato deferito in giudizio come traditore.

   Nella primavera dell’anno 1170 il Plantagenet rinforza la vigilanza sulle coste; fa tenere sotto buona sorveglianza, a Caen, Margherita di Francia, sposa del suo figlio primogenito; ed ordina di trattenere a bordo di ogni naviglio, e fino al suo ritorno sul continente, il Vescovo di Nevers, delegato del Papa. Un interdetto simile colpisce il Vescovo di Worcester, incaricato dal primate Tommaso di opporsi alla incoronazione. Enrico II emana l’editto di pena di morte contro chi porti le bolle pontificie in Inghilterra. Il Regno è tagliato fuori da tutte le libere relazioni con il continente. Da parte della volontà del re, le costituzioni di Clarendon riprendono tutto il loro pieno effetto. Tuttavia, l’arcivescovo Tommaso Becket aveva ottenuto dal Papa le bolle che proibivano, particolarmente all’arcivescovo di York, l’incoronazione de principe reale, privilegio della sede primaziale di Canterbury. Questa proibizione pontificia si trovò coartata dalle misure coercitive di Enrico II. Allora, Ruggero di York usurpa impunemente il posto del primate: così l’antica rivalità tra York e Canterbury rinasce con il conflitto tra la Chiesa e lo Stato.

   INCORONAZIONE DI ENRICO IL GIOVANE

   Armato da Cavaliere da suo Padre, Enrico il giovane viene coronato dall’Arcivescovo di York, assistito dai Vescovi di Londra, Salisbury, Rechester, Durham, e forse qualche altro, la domenica del 14 giugno 1170 nella chiesa san Pietro di Westminster nella stessa provincia di Canterbury. Era quella una violazione delle norme canoniche notificate sin dal 1164 dal papa Alessandro III. L’incoronazione attenta contro i diritti della metropoli di Canterbury, madre e capo delle cristianità britanniche. Le conseguenze di tale atto sarebbero state gravi. Nel contrasto tra la Chiesa e lo Stato inglese, questo disprezzo delle prerogative canterburiensi sta per ispirare la possibilità di un assassinio del primate esiliato. Enrico II, nello stesso tempo in cui sa di attirare sopra a lui, sui suoi Stati e sull’Episcopato d’Inghilterra le censure ecclesiastiche, è cosciente della gravità del pericolo e si affretta a proclamare il suo consenso nell’accettare i termini di pace che i vescovi di Rouen e di Nervers erano incaricati di proporgli, e si imbarca in fretta per la Normandia al fine di rinnovare le trattative e di mettere da parte così la proclamazione dell’interdetto che l’Arcivescovo di Canterbury, legato d’Inghilterra, aveva allora in suo possesso.

LA RICONCILIAZIONE DI FRETEVAL, 22 luglio 1170

   Il Vescovo di Nevers e l’Arcivescovo di Rouen ritornano a Sens presso Tommaso Becket esiliato dopo aver ottenuto da Enrico II l’assicurazione che egli avrebbe reso all’Arcivescovo di Canterbury la sua benevolenza e la sua pace conformemente ai termini fissati a Montmartre. Il Re stabilisce l’incontro con i legati al 20 luglio, in prossimità del Castello di Freteval en Dunois (Orleanais), dove con questi mediatori, ai quali si è aggiunto l’Arcivescovo di Sens, Enrico II fissa al 22 luglio la data per incontrarsi con il primate Tommaso Becket. Benché in precedenza il bacio di pace gli fosse stato sempre negato, su cauzione di Guglielmo di Sens che si offre garante della sincerità del Re d’Inghilterra, l’Arcivescovo di Canterbury accetta il compromesso. Nel giorno stabilito, in presenza di una grande moltitudine, il re avanza per primo verso il primate; essi si scambiano molti segni di riconciliazione e di amicizia e cavalcano per qualche tempo in disparte, intrattenendosi a parlare della dignità dalla Chiesa di Canterbury e dei suoi privilegi ultimamente violati dalla recente coronazione. Enrico II promette una degna riparazione, promettendo il rinnovo solenne del rito per opera dell’Arcivescovo di Canterbury nell’incoronazione del giovane Re congiuntamente con la sua sposa Margarita di Francia. Il primate allora si umilia ai piedi del Re, che a sua volta scende da cavallo. Ritornati poi in mezzo alla folla entusiasta, Enrico II rende a Tommaso Becket la sua pace, offre la sicurezza per la Chiesa di Canterbury di fruire dei suoi possedimenti, nello stato il più favorevole in cui lui li aveva tenuti al principio del suo pontificato e gli promette la restituzione dei diritti della sede primaziale. Egli si separa dall’arcivescovo dopo avere domandato ed ottenuto la sua benedizione.

   ROTTURA DELLA PACE DI FRETEVAL

   Di fatto la pace di Freteval non apporta a Tommaso Becket alcuna delle garanzie per quello che egli è in diritto di esigere: né la previa restituzione di qualcuno almeno dei possedimenti della sua Chiesa, né il bacio della pace, sigillo di una riconciliazione sincera e testimonianza di sicurezza. Non è meno grave il fatto che le due parti si mettono in uno stato di diffidenza, mantenendo le loro rispettive posizioni di distanza. Resta aperta la contesa sulle “costumanze” del Regno chiaramente determinate a Clarendon. Il Re resta deciso, se non ad imporle, per lo meno a garantire l’onore per la corona del regno. Il primate è deciso a difendere l’onore di Dio e della sua dignità. In queste condizioni l’esecuzione delle clausole della pace sta per suscitare le più gravi difficoltà.

   Il Re, a Freteval, aveva mostrato qualche segno di benevolenza nei riguardi di Tommaso Becket, poi egli rapidamente è ricaduto sotto l’influenza dei consiglieri più facinorosi attaccati alla lettera alle Costituzioni di Clarendon, soprattutto per le più ostili al primate. Questa influenza si esercita più direttamente ancora sul figlio suo, Enrico il giovane, allora luogotenente generale del Regno d’Inghilterra. Così accade che Erberto di Baham, delegato da Tommaso Becket per riprendere i possedimenti del patrimonio della Chiesa, si scontra contro la evidente cattiva volontà degli ufficiali del Re.

   Le rendite dell’Archidiocesi di Canterbury erano poste sotto sequestro fino alla prossima festa di Natale. L’Arcivescovo di York ed il vescovo di Londra temono le censure del legato al suo ritorno in Inghilterra, non cessano di fare intrighi presso Enrico II affinché imponga a Tommaso, arcivescovo di Canterbury, il rispetto delle costituzioni di Clarendon. Le sanzioni si erano attirate con l’incoronazione del 14 giugno, ed essi cercano di favorire, con le elezioni conformi all’articolo XII delle stesse costituzioni, la promozione delle nomine di vescovi docili al potere del re, per riempire il vuoto che la morte, durante i sei anni d’esilio del presule Tommaso, aveva causato in mezzo ai suoi suffraganei.

   Di fronte a tanti ostacoli accumulati per i raggiri mossi dal re e dal suo clero devoto, l’arcivescovo Tommaso sollecita ed ottiene da Alessandro III altri nuovi poteri molto estesi: la conferma esplicita delle prerogative della sede primaziale di Canterbury, abolendo le usurpazioni fatte dal metropolitano di York; il rinnovo per l’avvenire del mandato in Inghilterra di quanto riconosciutogli e datogli in precedenza; nuovi poteri straordinari di censura dai quali, però,  erano esclusi soltanto il re, la sua consorte e suoi figli. Il Papa gli aveva inviato alcune Bolle che colpivano di sospensione dagli incarichi Ruggero di York e i vescovi colpevoli di aver prestato il loro consenso nella incoronazione di Enrico il giovane e di aver giurato di voler osservare le costumanze del regno per le chiese. Gilberto di Londra e a Jocelin di Salisbury, che erano stati assolti sotto condizione, da una sentenza anteriore di scomunica, sarebbero ricaduti sotto l’anatema.

   Tuttavia, il prelato, pur sapendo che le vigenti nuove misure del re colpiscono tutti coloro che portassero lettere del pontefice, non vuol ritornare in Inghilterra, lasciando senza pubblicazione le bolle pontificie di cui era munito. Doveva renderle pubbliche. Alla vigilia del suo imbarco, egli quindi promulga le sentenze del Papa. La pace fatta a Freterval era viziata sin dal principio dalla simulazione del re per cui le restituzioni dei beni ecclesiastici avrebbero avuto un rinvio senza scadenze. La promulgazione delle censure del pontefice, senza che alcuno si illudesse, era necessaria.

    IL RITORNO DEL PRIMATE IN INGHILTERRA

   Il ritorno del primate Tommaso Becket esiliato diviene una marcia trionfale in mezzo alla folla che l’acclama dovunque al suo passaggio. Da parte loro, il re e i suoi “consigli” manifestano una successione di affronti: inviano Giovanni di Oxford per fargli scorta da Rouen a Sandwich, riempiono la riva dove egli si avvicinava di guardie armate pronte alla violenza; pubblicano l’appello di certi vescovi al pontefice di Roma contro le medesime censure apostoliche; fanno ingiunzione ai Curiali del regno di dover liberare i vescovi dalla scomunica; formulano il rifiuto degli scomunicati di prestare il giuramento usuale già proibito dall’articolo V di Clarendon; proibiscono di accedere a Winchester dove risiedeva Enrico il giovane già coronato; ordinano di confinare il primate nei limiti della propria diocesi, inoltre le vessazioni contro la persona del presule continuano persino nella sua città arcivescovile.

   Mentre il primate d’Inghilterra sopporta tutti questi affronti, i prelati scomunicati e sospesi si affrettano a raggiungere Enrico III in Normandia. Il re, furioso delle censure pontificie che colpivano i vescovi, spinto dal rancore e dal desiderio di vendetta che essi manifestano, per sfogo, arriva a pronunciare certe parole di collera e di odio che armano le braccia degli assassini, persone a lui vicine. L’esclamazione del re è: “Non ci sarà dunque una persona, per sbarazzarmi di questo chierico tracotante?”

   L’ASSASSINIO DI TOMMASO BECKET, 29 dicembre 1170

   Martedì del 29 dicembre, quattro cavalieri, partiti dal contorno del re, arrivano a Canterbury, aiutati da Arnolfo di Broc, che ha messo a loro disposizione una piccola truppa di uomini armati, assieme con il clero di parte regia, pronti al compimento di odiose imprese. Essi penetrano nel palazzo arcivescovile aperto agli ospiti di passaggio ed ai poveri. Dopo aver raggiunta la sala, dove il primate si intratteneva con il clero, essi lo citano in giudizio per avere osato scomunicare i familiari del re, in disprezzo della maestà del re, alla quale egli avrebbe dovuto deferire il giudizio.

   Ne segue una lunga discussione. Infine, spinto dai suoi ministri, l’arcivescovo Tommaso Beckett acconsente a raggiungere la cattedrale, dove i monaci si erano già riuniti per l’ora di vespro. Il presule proibisce che si sbarrino le porte. Così gli aggressori penetrano nel santuario e si sforzano, senza successo, di cacciare fuori l’Arcivescovo che si mantiene fermo, e cade infine sotto i colpi delle loro spade. La scena si è svolta al chiarore delle torce, nel lato nord del transetto della cattedrale, a qualche passo dall’altare dedicato a San Benedetto, senza che possano intervenire i monaci spaventati. Gli assassini, dopo perpetrato il crimine, trovano libero scampo, essendo le porte aperte. Essi, dopo essersi dati al saccheggio in tutti i modi, rapinano le ricchezze del palazzo arcivescovile, e fuggono nella tarda notte. Quando tutto è rientrato nel silenzio, i monaci della Chiesa di Cristo e il clero seppelliscono il corpo del primate Tommaso Beckett in un sarcofago di marmo nella cripta della cattedrale. Tuttavia prima hanno piamente raccolto il prezioso sangue di colui che già considerano come il martire della libertà della Chiesa in Inghilterra e il cui culto non tarda ad espandersi in tutta la Chiesa occidentale.

INTERDETTO SUL DOMINIO CONTINENTALE DEL RE E SULLA SUA PERSONA

   La fine tragica del primate ha commosso il re d’Inghilterra, cosciente di aver suscitato, con le sue parole imprudenti, l’assassinio del 29 dicembre. Soffre per il timore delle censure che egli non può evitare. Alla notizia del martirio dell’arcivescovo di Canterbury, i dignitari del regno di Francia, il re Luigi VII, profondamente indignati, scrivono al Papa per indurlo a punire i colpevoli; e indicano in particolare il re di Inghilterra, l’arcivescovo di York e il vescovo di Londra. L’opinione pubblica carica la coscienza del Plantageneto della più abominevole responsabilità poiché il martire è stato ucciso da persone di fiducia del re. L’assassinio del cardinale inflessibile ha risvolti religiosi e politici in tutta Europa.

   l’arcivescovo di Sens, in virtù del potere ricevuto di legato della sede Apostolica, promulga il 25 gennaio del 1171, l’interdetto sulla terra continentale di dominio di Enrico II, nonostante un intervento dei vescovi di Lisieux e di Evreux con altri di parte regia che, dopo la costernazione dei primi giorni, si sforzano di allontanare le sanzioni spirituali. Contro la promulgazione dell’interdetto, essi interpongono l’appello al Papa al fine di patrocinare la causa del re e quella dei prelati colpiti di scomunica e di sospensione dagli uffici sacerdotali.

   Per l’assassinio del cardinale arcivescovo Tommaso Becket, il 25 marzo, giovedì santo, Alessandro III pronuncia la scomunica generale sugli assassini e su tutti coloro che hanno prestato l’assistenza, il consiglio o dato il consenso al reato. Conferma l’interdetto lanciato da Guglielmo di Sens, e la scomunica del vescovo di Londra e di quello di Salisburgo; la sospensione dell’arcivescovo di York, già promulgate dal primate martirizzato. Il Papa infine colpisce Enrico II, re d’Inghilterra, di interdetto per non entrare nelle chiese.

   La canonizzazione di san Tommaso Becket è celebrata da Alessandro III il 21 febbraio 1173 dichiarandolo “martire del diritto canonico e della Chiesa”. La frequenza dei pellegrinaggi al sepolcro nella cattedrale di Canterbury diviene tale da eguagliare quella al ben noto Santiago de Compostella.

   Il martire san Tommaso Becket rimane una delle figure più rilevanti della Chiesa medievale. Una prestigiosa reliquia si conserva in Italia nella cattedrale di Fermo (FM). Molte le chiese a lui dedicate. La sua iconografia è diffusissima in Inghilterra ed in Europa, con i segni della palma da martire, della spada, del modellino di chiesa, del libro, del razionale e del pastorale.

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BELMONTE PICENO ha la chiesa ricostruita dal 1957 dedicata a sant’Anna invocata per maternità e parti. Apporto di Giustina Agostini Sbaffoni.

SANT’ANNA – chiesetta a Belmonte Piceno.FM.

   Giustina Agostini Sbaffoni (1982-1972), donna di preghiera per le tante persone che la frequentavano a Belmonte, nel 1956 cominciò a fare nuova la chiesa di Sant’Anna, la quale è la santa ammirata madre di Maria di Nazaret e nonna di Gesù Cristo, figlio della stessa Maria. Nella devozione cristiana i santi genitori Giacchino ed Anna vengono venerati con la memoria liturgica il 26 luglio. Sono onorati come modelli di santa laboriosità, come intercessori e come compagni del pellegrinaggio dalla terra al cielo. Secondo le esperienze della loro vita sono patroni di particolari condizioni di vita. Così la madre e nonna Sant’Anna è patrona per le maternità nella gestazione, nel buon andamento del parto e nella condizione di essere puerpera, come pure nella cura dei neonati, bambine e bambini. Nell tradizione cattolica, tra le molte immagini che raffigurano S. Anna con la figlia Maria, una è stata dipinta da Leonardo da Vinci ed è esposta al Louvre a Parigi.

   L’antichità di Belmonte si riflette anche sulle lontane origini di questa chiesina ricostruita varie volte, adiacente al bivio delle strade che da Belmonte scendono verso l’Ete. Attualmente nel frontespizio della chiesina stessa i passanti leggono l’epigrafe su marmo come è stata dettata da Giustina, nella seguente poesia di buon auspicio:

O PASSEGGERO SE

 IL DOLORE TI AFFANNA

LA GRAZIA CHE TU VUOI

CHIEDI A SANT’ANNA

   Presso tutti i popoli, anche tra i marchigiani che sono devoti della santa Casa mariana di Loreto, è facilmente riscontrabile quanto valore si dà alla filiazione. Molte donne si recavano a casa di Giustina nelle fasi della loro maternità e lei, con stabile sicurezza, insieme con ciascuna di loro, pregando, invocava il patrocinio di sant’Anna.

   Nel secolo XI a Belmonte erano presenti i monaci benedettini venuti da Farfa che avevano avuto in donazione molti possedimenti terrieri e dal secolo X officiavano la turrita chiesa di Santa Maria in muris, detta popolarmente di san Simone. Essi davano in enfiteusi le aziende agricole curtensi nel territorio Piceno e sui luoghi costruivano edicole e chiesine per seppellire nelle adiacenze i defunti. Questa è l’origine storica della chiesina. Lo stile edilizio era allora di tipo romanico e nel secolo XIV fu completato con modifiche di stile gotico. Quando dopo il 1860 ci fu la confisca delle proprietà ecclesiastiche, questa chiesa finì abbandonata alle intemperie e nel secolo XX i più vecchi vedevano sul luogo due spezzoni di muri inclinati con le tracce delle fondazioni di forma semicircolare d’abside. Tutto attorno si vedevano rovi e sterpi selvatici che ogni anno crescevano e si allargavano verso le strade adiacenti, tanto da doverli tagliare con le roncole a lungo manico, poi bruciarli e per conseguenza i ruderi dei muracci diventavano molto anneriti e tanto brutti che passando vicino di notte, davano un’impressione spettrale.

   Nel 1953, Giustina venne ad abitare con la famiglia del figlio Nello Sbaffoni, presso questa contrada detta di Sant’Anna. Precedentemente lei abitava con i figli e con i nipoti presso la chiesina di santa Maria in Muris, a Belmonte. Lei ed i devoti erano delusi dalla brutta impressione di quei rovi ed erbacce, e seguitando a fare le preghiere a sant’Anna, accolsero l’idea che vi si costruisse una nuova chiesa per questa santa. Un primo schizzo venne in mente all’ingegnere Mario Andrenacci e nei contatti con il muratore Brancozzi Blandino di Grottazzolina, che avrebbe procurato i materiali di edilizia, il figlio Vitaliano che era il tecnico geometra, delineò un disegno di progetto. Ci furono operai volontari per sterrare e fare i manovali. Nel frattempo Giustina riceveva offerte dalle persone che la frequentavano. Le si affiancarono altri collaboratori, tra i primi il figlio Nello. Blandino Brancozzi era il capomastro. L’edificio crebbe in pochi mesi dalle fondazioni al tetto. Furono messe lastre di marmo ad ornare il portale, si costruì il cornicione a corona dell’edificio, con le grondaie laterali, fu eretto l’altare, come si vede tuttora. In seguito si provvide agli intonaci ed alle tinteggiature. Il mastro falegname Angelelli Dino, che teneva il laboratorio nelle vicinanze, creò il tabernacolo, due comodini e due panche, oggetti questi che verso la fine del secolo XX furono restaurati dal fratello Angelelli Renzo. Di fronte all’altare, il quadro raffigurante sant’Anna era una stampa in bianco e nero che dopo circa trent’anni fu sostituito con l’immagine in policromia raffigurante la figlia Maria seduta a leggere la Bibbia sotto la guida materna.

   Interessandosi il parroco don Giuseppe Biondi, si cominciò a celebrarvi la santa Messa e festeggiare la domenica pomeriggio prossima al 26 luglio. Partecipavano le persone del centro urbano e delle vicine contrade. Dopo la liturgia si sostava per una merenda con affettati e bibite. Il senso religioso della patrona delle partorienti era dominante in questa ricorrenza. Culturalmente era un incontro con attenzione alle nonne ed ai nonni, un apprezzamento per l’opera architettonica innovata, una eco del volontariato laborioso, con nuovi apporti di inferriate artistiche.

Il proverbio che subito affiora nella mente di chi pensa a Sant’Anna è il popolarissimo detto:

“Sant’Anna il vero e giusto rimanda”. Purtroppo si verificano sopraffazioni ed atti di bullismo e si diffondono perché i colpevoli di soprusi sanno di poter vegetare nell’impunibilità. Il proverbio fa capire che sant’Anna vuole riportare le giustizia contro le soperchierie. Occorre consapevolezza. E’ un monito a volere un mondo di atti giusti, nelle piccole scelte per vivere la rettitudine anche a costo di sacrifici. Per evitare le sopraffazioni occorre usare impegno nell’individuare i responsabili delle ingiustizie. E’ vero che la giustizia è di Dio che la fa trionfare eternamente. Emanuele Kant diceva che la vita eterna è necessaria affinché ciascuno abbia per sempre il suo. Quando il popolo usa attenzione, alimenta il dovere della certezza della pena. Nessuno si può tirare fuori; non ci debbono essere indifferenti di fronte alle angherie. Anzi quando si esercita l’attenzione per far ravvedere i prepotenti si prevengono i reati tipici della mafia. E sant’Anna lo fa realizzare.

SANT’ ANNA           (testo dialettale)

   Una donna partoriente,

ch’era prorbio miscredente

era impaurita de penà.

   Arrivata l’ora sua,

   con sudori da morire

   lamentava di soffrire.

La mammana la soccorre

perché la febbre è gagliarda

e gli dice: “Iddio te guarda

   che te dia coraggio e calma!

   Qui ce vuole un dottore,

   meglio pure se professore”

Il marito un po’ smarrito

sentenno queste parole,

a Sant’Anna de buon cuore

   se vole raccommannà.

   la grazia se mette a ddomannà:

   “Tu judeme sant’ Anna mia.

Tu sci la mia vera avvocata,

contro la morte scellerata

che non voglio mai ricordà.

   La pora cara mia moglie,

   è straziata da le doglie,

   sarvatela dal pericolo;

sennò perdo matre e figlio.

Prega Dio che la difenne

e per sua grazia risplenne!”

   Dopo che ha fatto ‘sta preghiera

   Sant’Anna buona si ferma,

   ad aiutare quell’inferma.

Il parto riesce molto bene,

e dopo dal letto alzata,

a sant’Anna sua avvocata

   la puerpera va a ringrazià.

co’ le preghiere de Justina.

Preghiera  ai santi Anna e Gioacchino

O santi Anna e Gioacchino, che accoglieste in umiltà e totale disponibilità la chiamata di Dio Padre a generare e allevare la Madre del Salvatore, ottenete anche a noi la grazia della fedeltà alla chiamata divina, per essere strumento dei suoi provvidenziali disegni.
   La vostra protezione sostenga il nostro cammino, ci aiuti a vivere la comunione con la Trinità e a realizzare la missione che il Padre ci ha affidato, proclamando a tutte le genti le meraviglie del suo amore che salva.
Amen.

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A SANT’ANGELO IN PONTANO (MC) cultoi e festeggiamenti per San Nicola nativo da questo comune e detto da Polentino dove visse agostianiano.

SAN NICOLA DA TOLENTINO NATO A SANT’ANGELO IN PONTANO DETTO DA TOLOENTINO, FESTEGGIATO PATRONO DEL PAESE NATALE

Testo derivato da uno scritto di Francesco Capponi

   Un cartello stradale nei pressi del centro storico di Sant’Angelo in Pontano dichiara che san Nicola detto da Tolentino è qui nato. Di fatto l’agostiniano san Nicola è santangiolese per le origini sue e della sua famiglia ma è vissuto a lungo nel convento degli Agostiniani Eremitani a Tolentino dove si trova la sua tomba in una splendida chiesa frequentata da molti fedeli devoti. Scrive Francesco Capponi, anch’egli di origine santangiolese che i suoi concittadini hanno sempre professato un culto particolare per il loro Santo patrono e concittadino, di cui sono devotissimi. La festa patronale santangiolese è una tradizione storica derivata dal secolo XV con il processo canonico della beatificazione risalente al 1325. Di fatto da più luoghi venivano i fedeli ad impetrare grazie a Tolentino sulla tomba di questo venerato frate. Dal comune di Sant’Angelo in Pontano partivano pellegrinaggi con protagonisti principali la confraternita del santissimo Sacramento, impegnata nel culto di Gesù Eucaristia e la Compagnia della Buona Morte a servizio dei funerali.

 La festa liturgica del santo ricorre il 10 settembre. Nel 1672 i santangiolesi fecero un pellegrinaggio speciale per impetrare la cessazione della pestilenza che infieriva nel suo paese e che ebbe a cessare. Sorse poi la confraternita di San Nicola. Un altro fatto di tradizione popolare è lo scaturire prodigioso dell’acqua delle Fontanelle, quando Fra’ Nicola che si recava presso il fosso sotto Collechiarino e vi restava a meditare, sentendosi assetato cercò l’acqua e se la vide scaturire in quel punto. Dagli studi del Capponi risulta che presso questa sorgente nel fossato fu costruita nell’anno 1701 un’edicola con l’immagine di san Nicola santangiolese. Nella seconda metà del secolo XX l’edicola è stata rinnovata con un bel sentiero per l’accesso, ad opera del Comitato Permanente Promotore dei Festeggiamenti in onore del Patrono e Concittadino S. Nicola a Sant’Angelo in Pontano. A Sant’Angelo esiste ancora l’edificio che fu costruito come convento dei religiosi Agostiniani con adiacente la chiesa dedicata al loro santo. Quando i re Savoia nel 1866 hanno soppresso i conventi e predato le loro proprietà questi edifici sono diventati di proprietà statale e passati all’uso del Comune che vi fece poi un ricovero per vecchi bisognosi. Il ritorno degli Agostiniani fu instabile.

   Per festeggiare il santo patrono anticamente si facevano due feste, una a maggio, l’altra nel giorno 10 di settembre, data liturgica delle cerimonie religiose. Il Capponi annota che nel 1629 l’arcivescovo fermano Giambattista Rinuccini riscontrò che i ‘festaroli’ santangiolesi spendevano i soldi raccolti tra i concittadini per godersi un loro lauto pranzo.  Nel 1670 il Comune dava 19 scudi <moneta romana> a maggio e altri 50 a settembre. Nel 1878 gli amministratori fecero fare un nuovo reliquiario per la reliquia del santo patrono. Comunque per evitare gli sprechi delle somme accattate dalle famiglie santangiolesi in tali feste dal 1895 si decise di festeggiare ogni tre anni, con il consueto sparo di tonanti. Negli atti scritti risulta che dopo il passaggio delle truppe tedesche nel giugno 1944 nel settembre successivo si fecero pubblici ringraziamenti al celeste protettore e nella ricorrenza del VII centenario della nascita di San Nicola nel 1945 si restaurò la chiesa a lui dedicata e da Tolentino fu portato a Sant’Angelo il corpo del santo con solenni festeggiamenti.

Un’altra tradizione di tipo folclorico, vigente nel secolo XX, fu la festa dei carri che dalla campagna portavano a fine luglio i carichi di covoni di grano da trebbiare per le spese dei festeggiamenti. Allora, come ricorda il Capponi, la banda cittadina e numerosi suonatori d’organetto e di cembalo rallegravano la festa. Dopo il saluto delle Autorità e la benedizione del tolentinate Priore agostiniano di S. Nicola, la festa continuava con i canti a ‘batòcchi e lu sardaréllu’. Decaduta questa usanza si cominciò a raccogliere il grano già trebbiato e confezionato in sacchetti di carta, portanti a stampa la scritta Comitato S. Nicola. Usanza anche questa decaduta nel secolo XX. Resta il Comitato. Il corpo del santo di origine santangiolese fu portato da Tolentino al paese nativo dopo il 1932, nel 1945 e di nuovo nel 1976, nel1986, nel 1995 (partecipe il cardinal Tonini), nel 2000 e nel 2015.

                                                          NOTE per ulteriori consultazioni

 CAPPONI Francesco, “Notizie storiche sulle manifestazioni del culto di San Nicola e sulle feste patronali a Sant’Angerlo in Pontano”, in «Quaderni dell’archivio storico arcivescovile di Fermo» n. 22 anno 1996, pp 81ss

CAPPONI, F. “Gli Agostiniani a Sant’Angelo in Pontano e fra’ Nicola Giovannetti Priore Generale “. Falerone 1996 – libro

Archivio Parrocchiale di Sant’Angelo in Pontano. Registri della Compagnia della Morte.

Archivio di Stato di Roma, Congregazione del Buon Governo, Serie II, Atti per luoghi, S. Angelo di Fermo – anni 1633-1770, vol. 4103, 4105, 4106 e, Serie II, Visite e relazioni sullo stato delle comunità, vol. 919, c. 120.

Archivio Comunale di Sant’ Angelo in Pontano, Delibere del Consiglio Comunale: anno 1895 e altri

La Torre – Bollettino Parrocchiale – S. Angelo in Pontano, a Macerata.

Bollettino del santuario di S. Nicola di Tolentino, 1945, pp. 22-27.

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LE CONFRATERNITE, SAPIENZA STORICA DELLA CHIESA, UNISCONO LAICI E CLERO. Testo derivato dagli scritti di LIBERATI DON GERMANO

LE CONFRATERNITE CRISTIANE

Testo derivato dagli scritti di LIBERATI GERMANO

   = Origine delle consociazioni cristiane

   Le Confraternite come associazioni organizzate o semplicemente come aggregazioni di laici cristiani, con finalità pratiche di testimonianza cristiana, soprattutto di solidarietà e carità, sono attestate in molti luoghi, fin dall’Alto Medioevo. Esse assumono vari nomi come “universitas”, “congregatio”, “fraternitas” (comunità, consociazione, fraternita) e simili. E assumono precise connotazioni nei secoli XIV-XV-XVI quando indicano con precisione la natura, gli scopi e l’organizzazione loro. Tali forme sono la conseguenza delle situazioni storico-sociali dei loro tempi, in quanto le Confraternite vanno ad occupare i ruoli che le istituzioni non coprono o i cui interventi erano sporadici, occasionali e non adeguati. Fenomeni frequenti come carestie, pestilenze, pellegrinaggi, realtà endemiche come le larghe sacche di miseria e povertà, oltre che la necessità di un’ampia marcata presenza religiosa, muovono lo spirito di laici autenticamente cristiani, spesso sotto la spinta degli ordini religiosi mendicanti, coinvolgendo nobili, borghesi e artigiani, poveri e ricchi, ad unirsi per far fronte ai bisogni dei singoli luoghi. Nascono così le vere e proprie Confraternite che, in luoghi e tempi diversi, assumono impegni differenti e varietà di titoli, come Compagnie, Confraternite, Aggregazioni, Pie Unioni, Sodalizi e simili. (1).

   = Natura

   In questo variegato mondo dell’associazionismo cristiano, tutte le aggregazioni hanno però fondamenti e principi ispirativi comuni, in particolare l’aggregazione come una vera e propria ‘societas’, cioè associazione con iscrizione, partecipazione, diritti e doveri comuni. Di solito hanno la finalità religiosa unita a quella caritativa. La prima abbraccia tutti gli aspetti della vita cristiana e del culto, differenziandosi di volta in volta secondo i propri principi ispirativi. Alcuni esempi.

   Le Confraternite del SS. Sacramento si occupano del culto solenne dell’Eucaristia (esposizione di adorazione eucaristica, sante Messe, Viatico ai malati, processioni). E dopo il Concilio di Trento, a riaffermare la verità della presenza reale, tali Confraternite si sono moltiplicate incrementando pure i loro atti di culto.

   Il servizio ecclesiale catechistico e di evangelizzazione è stato particolarmente curato dalle Compagnie della dottrina cristiana nate a Milano nei primi decenni del sec. XVI e diffuse e rafforzate poi da S. Carlo Borromeo.

   Altro esempio, quello delle Compagnie della buona morte e del Suffragio che, tra l’altro sono impegnate a curare l’assistenza spirituale ai moribondi e ai condannati a morte e promuovere il trasporto e i suffragi per i defunti.

   L’attività caritativa era spesso primaria, oppure collaterale: Questa consisteva nell’esercizio delle opere di misericordia corporali e spirituali (curare gli infermi, assistere i pellegrini e i carcerati, procurare le doti nuziali alle fanciulle povere, seppellire i morti e simili) che si esplicano anche nella denuncia e nella lotta contro i vizi e i disordini pubblici.

   = Uso caritativo dei patrimoni.

   Molte Confraternite, che sono state dotate di cospicui patrimoni dai propri soci, hanno fondato opere permanenti di assistenza come ospedali per malati incurabili, ricoveri per donne indifese, ospizi per i pellegrini, dispensari di cibarie per i poveri, orfanotrofi, e simili.

    Le confraternite sono state anche istituzioni di pubblico riconoscimento: natura, scopo, attività, amministrazione patrimoniale, requisiti, forme e modalità di appartenenza sono state regolate da strumenti giuridici che le qualificano con pubblico riconoscimento come aggregazioni laicali. In sintesi sono tre le principali normative.

-Lo Statuto: è l’atto costitutivo della Confraternita in cui si specificano, natura, struttura, organizzazione interna e amministrazione patrimoniale.

-La Bolla di erezione canonica: documento pontificio o vescovile con il quale si riconosce e dichiara l’esistenza della Confraternita e si approva lo statuto. In forza di questa erezione giuridica l’autorità ecclesiastica esercita un’azione di tutela contro le ingerenze estranee, insieme con l’incoraggiamento e la sorveglianza per la coerente pratica di vita.

-Regolamento è la formulazione del complesso di norme pratiche, in base alle quali, si applicano i principi enunciati nello statuto e si “regolano” la vita, le attività, i comportamenti delle Confraternite e dei singoli iscritti. Va pure notato che talora confluiscono in un unico documento il regolamento con lo statuto.

   Da questa schematica descrizione delle Confraternite si può evincere la loro portata storica. Esse infatti hanno rappresentato la forma più diffusa, più consistente e storicamente importante della partecipazione del laicato cattolico nella vita della Chiesa e insieme della società cristiana.

   Merita citare una sintesi di Paolo Brezzi, storico di chiara competenza (2). Egli riferisce che dal sec XII in avanti è dato d’assistere ad una larga fioritura di attività religiose che, evitando di cadere nell’eresia, si differenziano notevolmente dal tipo più diffuso di pratica della pietà cristiana dell’alto Medio Evo. Grande sviluppo hanno avuto le Confraternite, che si occupano dei bisogni dell’anima e si sono impegnate anche per l’assistenza dei malati, per l’aiuto ai carcerati, e per i sussidi ai poveri e altro. I loro ricchi patrimoni hanno consentito pure la costruzione di belle chiese (3). Inoltre le confraternite hanno esercitato la loro influenza creativa nella letteratura, ad esempio con le “laudi” e rappresentazioni drammatiche. Le “sacre rappresentazioni” medievali sono da considerarsi le prime, nuove e autonome espressioni del teatro in lingua italiana (4).

   Soprattutto l’importanza delle confraternite consiste nell’avere affratellato uomini di condizioni sociali diverse ed aver unito i laici alla gerarchia, mentre molte altre forze centrifughe agivano in senso contrario. Anche il lavoro, le attività professionali, la ricchezza sono stati valorizzati nel quadro di una più comprensiva visione della realtà, come beni aventi valore in sé, da sviluppare e godere rispettando le leggi della morale, senza usura e senza frode. Nelle confraternite la ‘città terrena’ è stata messa in primo piano ed il modello vagheggiato di un uomo che confida nelle sue forze, con il gusto dell’avventura, compiacendosi delle cose belle, si completa con la generosità di lasciare larghe donazioni per il bene dell’anima, “pro anima”.

   Non va dimenticato che certamente le Confraternite hanno segnato la storia sociale, religiosa, culturale per molti secoli e hanno significato la più pura ed autentica forma di volontariato, segno di una fede che diventa creativa nella carità. Tutte le forme odierne di volontariato non sono altro che continuazione di esse o loro imitazione. Purtroppo la laicizzazione della recente epoca spesso le ha demotivate, depauperate delle verità evangeliche e spesso le riduce a pura espressione di illuministico umanitarismo.

    = Le confraternite oggi

   L’avvento del Concilio Vaticano II ha segnato nella storia delle Confraternite un momento di aggiornamento non facile e talora inefficace. Per la verità, nei documenti conciliari si parla di operosità dei laici (Apostolicam Actuositatem). A fronte di molte dispersioni e abbandoni, provvidenzialmente vi sono sacerdoti e religiosi attenti, laici che comprendono il valore di tale retaggio e anziché abbandonare tali forme di aggregazione si preoccupano di rinnovarle, rivitalizzarle, infondere in loro uno spirito nuovo, secondo una corretta e valida interpretazione conciliare. Ed oggi molte di esse ritrovano nuova vita e autorevole presenza.

   Anche il nuovo codice di diritto canonico offre spunti di sapienza storica che è patrimonio della vita della Chiesa. Conviene riportare qui tre citazioni significative. L’autonomia delle Confraternite innanzitutto: «Le associazioni pubbliche <cioè riconosciute dall’autorità ecclesiastica> possono intraprendere spontaneamente quelle iniziative che sono confacenti alla loro indole: tali associazioni sono dirette, a norma degli statuti, però sotto la superiore direzione dell’autorità ecclesiastica» (can. 315). Al clero sono riconosciuti la natura e il ruolo specificamente spirituali. «Nelle associazioni non clericali, i laici possono ricoprire l’incarico di moderatore; il cappellano o l’assistente ecclesiastico non siano assunti a tale compito, a meno che negli statuti non sia disposto diversamente» (Can. 317 &3). Sono valorizzati i priori e i governatori. Il loro diritto a vivere nella comunità cristiana. «Un’associazione pubblica non venga soppressa dall’autorità ecclesiastica competente, senza aver prima sentito il suo moderatore e gli altri ufficiali maggiori» (Can. 320, &3).

       Note

1)- Merita annotare come fin da Medio Evo e nelle epoche successive, alla pari delle Confraternite, esistevano altre aggregazioni e pie unioni di diversa origine. Ad esempio i terzi ordini secolari si ispirano alle regole dei fondatori degli ordini religiosi e sono guidati dai religiosi del proprio ordine. Le corporazioni di arti e mestieri sono state aggregazioni di persone che, esercitando la medesima professione, si proponevano primariamente le qualifiche professionali e la difesa dei loro interessi economici e sociali, anche nel campo politico, inoltre avevano a fianco una Confraternita parallela, veneravano un santo protettore, avevano nelle chiese un altare officiato da loro, facevano suffragi per i defunti, operavano nella carità.

2)- P. BREZZI, “La Chiesa nel Medio Evo”, in Enciclopedia del Cristianesimo, vol. I, pag. 205 e segg., Torino 1959.

3)- Le Confraternite han fatto edificare ed abbellire le proprie chiese ed è da considerarsi una delle più importanti committenze artistiche: si pensi agli stupendi oratori, agli edifici per l’assistenza caritativa dei bisognosi, alle creazioni figurative. Si apprezzano meravigliose opere, ove hanno profuso le più splendide espressioni delle varie arti con dotazioni di suppellettili sacre, paramenti, arredi di ogni tipo.

4)- Non a caso Riz Ortolani nella colonna sonora del film di Zeffirelli su San Francesco, “Fratello sole e sorella luna”, mutua molte melodie da un celebre laudario di Confraternite di Cortona.

                                                                                      Germano Liberati

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