LE CONFRATERNITE, SAPIENZA STORICA DELLA CHIESA, UNISCONO LAICI E CLERO. Testo derivato dagli scritti di LIBERATI DON GERMANO

LE CONFRATERNITE CRISTIANE

Testo derivato dagli scritti di LIBERATI GERMANO

   = Origine delle consociazioni cristiane

   Le Confraternite come associazioni organizzate o semplicemente come aggregazioni di laici cristiani, con finalità pratiche di testimonianza cristiana, soprattutto di solidarietà e carità, sono attestate in molti luoghi, fin dall’Alto Medioevo. Esse assumono vari nomi come “universitas”, “congregatio”, “fraternitas” (comunità, consociazione, fraternita) e simili. E assumono precise connotazioni nei secoli XIV-XV-XVI quando indicano con precisione la natura, gli scopi e l’organizzazione loro. Tali forme sono la conseguenza delle situazioni storico-sociali dei loro tempi, in quanto le Confraternite vanno ad occupare i ruoli che le istituzioni non coprono o i cui interventi erano sporadici, occasionali e non adeguati. Fenomeni frequenti come carestie, pestilenze, pellegrinaggi, realtà endemiche come le larghe sacche di miseria e povertà, oltre che la necessità di un’ampia marcata presenza religiosa, muovono lo spirito di laici autenticamente cristiani, spesso sotto la spinta degli ordini religiosi mendicanti, coinvolgendo nobili, borghesi e artigiani, poveri e ricchi, ad unirsi per far fronte ai bisogni dei singoli luoghi. Nascono così le vere e proprie Confraternite che, in luoghi e tempi diversi, assumono impegni differenti e varietà di titoli, come Compagnie, Confraternite, Aggregazioni, Pie Unioni, Sodalizi e simili. (1).

   = Natura

   In questo variegato mondo dell’associazionismo cristiano, tutte le aggregazioni hanno però fondamenti e principi ispirativi comuni, in particolare l’aggregazione come una vera e propria ‘societas’, cioè associazione con iscrizione, partecipazione, diritti e doveri comuni. Di solito hanno la finalità religiosa unita a quella caritativa. La prima abbraccia tutti gli aspetti della vita cristiana e del culto, differenziandosi di volta in volta secondo i propri principi ispirativi. Alcuni esempi.

   Le Confraternite del SS. Sacramento si occupano del culto solenne dell’Eucaristia (esposizione di adorazione eucaristica, sante Messe, Viatico ai malati, processioni). E dopo il Concilio di Trento, a riaffermare la verità della presenza reale, tali Confraternite si sono moltiplicate incrementando pure i loro atti di culto.

   Il servizio ecclesiale catechistico e di evangelizzazione è stato particolarmente curato dalle Compagnie della dottrina cristiana nate a Milano nei primi decenni del sec. XVI e diffuse e rafforzate poi da S. Carlo Borromeo.

   Altro esempio, quello delle Compagnie della buona morte e del Suffragio che, tra l’altro sono impegnate a curare l’assistenza spirituale ai moribondi e ai condannati a morte e promuovere il trasporto e i suffragi per i defunti.

   L’attività caritativa era spesso primaria, oppure collaterale: Questa consisteva nell’esercizio delle opere di misericordia corporali e spirituali (curare gli infermi, assistere i pellegrini e i carcerati, procurare le doti nuziali alle fanciulle povere, seppellire i morti e simili) che si esplicano anche nella denuncia e nella lotta contro i vizi e i disordini pubblici.

   = Uso caritativo dei patrimoni.

   Molte Confraternite, che sono state dotate di cospicui patrimoni dai propri soci, hanno fondato opere permanenti di assistenza come ospedali per malati incurabili, ricoveri per donne indifese, ospizi per i pellegrini, dispensari di cibarie per i poveri, orfanotrofi, e simili.

    Le confraternite sono state anche istituzioni di pubblico riconoscimento: natura, scopo, attività, amministrazione patrimoniale, requisiti, forme e modalità di appartenenza sono state regolate da strumenti giuridici che le qualificano con pubblico riconoscimento come aggregazioni laicali. In sintesi sono tre le principali normative.

-Lo Statuto: è l’atto costitutivo della Confraternita in cui si specificano, natura, struttura, organizzazione interna e amministrazione patrimoniale.

-La Bolla di erezione canonica: documento pontificio o vescovile con il quale si riconosce e dichiara l’esistenza della Confraternita e si approva lo statuto. In forza di questa erezione giuridica l’autorità ecclesiastica esercita un’azione di tutela contro le ingerenze estranee, insieme con l’incoraggiamento e la sorveglianza per la coerente pratica di vita.

-Regolamento è la formulazione del complesso di norme pratiche, in base alle quali, si applicano i principi enunciati nello statuto e si “regolano” la vita, le attività, i comportamenti delle Confraternite e dei singoli iscritti. Va pure notato che talora confluiscono in un unico documento il regolamento con lo statuto.

   Da questa schematica descrizione delle Confraternite si può evincere la loro portata storica. Esse infatti hanno rappresentato la forma più diffusa, più consistente e storicamente importante della partecipazione del laicato cattolico nella vita della Chiesa e insieme della società cristiana.

   Merita citare una sintesi di Paolo Brezzi, storico di chiara competenza (2). Egli riferisce che dal sec XII in avanti è dato d’assistere ad una larga fioritura di attività religiose che, evitando di cadere nell’eresia, si differenziano notevolmente dal tipo più diffuso di pratica della pietà cristiana dell’alto Medio Evo. Grande sviluppo hanno avuto le Confraternite, che si occupano dei bisogni dell’anima e si sono impegnate anche per l’assistenza dei malati, per l’aiuto ai carcerati, e per i sussidi ai poveri e altro. I loro ricchi patrimoni hanno consentito pure la costruzione di belle chiese (3). Inoltre le confraternite hanno esercitato la loro influenza creativa nella letteratura, ad esempio con le “laudi” e rappresentazioni drammatiche. Le “sacre rappresentazioni” medievali sono da considerarsi le prime, nuove e autonome espressioni del teatro in lingua italiana (4).

   Soprattutto l’importanza delle confraternite consiste nell’avere affratellato uomini di condizioni sociali diverse ed aver unito i laici alla gerarchia, mentre molte altre forze centrifughe agivano in senso contrario. Anche il lavoro, le attività professionali, la ricchezza sono stati valorizzati nel quadro di una più comprensiva visione della realtà, come beni aventi valore in sé, da sviluppare e godere rispettando le leggi della morale, senza usura e senza frode. Nelle confraternite la ‘città terrena’ è stata messa in primo piano ed il modello vagheggiato di un uomo che confida nelle sue forze, con il gusto dell’avventura, compiacendosi delle cose belle, si completa con la generosità di lasciare larghe donazioni per il bene dell’anima, “pro anima”.

   Non va dimenticato che certamente le Confraternite hanno segnato la storia sociale, religiosa, culturale per molti secoli e hanno significato la più pura ed autentica forma di volontariato, segno di una fede che diventa creativa nella carità. Tutte le forme odierne di volontariato non sono altro che continuazione di esse o loro imitazione. Purtroppo la laicizzazione della recente epoca spesso le ha demotivate, depauperate delle verità evangeliche e spesso le riduce a pura espressione di illuministico umanitarismo.

    = Le confraternite oggi

   L’avvento del Concilio Vaticano II ha segnato nella storia delle Confraternite un momento di aggiornamento non facile e talora inefficace. Per la verità, nei documenti conciliari si parla di operosità dei laici (Apostolicam Actuositatem). A fronte di molte dispersioni e abbandoni, provvidenzialmente vi sono sacerdoti e religiosi attenti, laici che comprendono il valore di tale retaggio e anziché abbandonare tali forme di aggregazione si preoccupano di rinnovarle, rivitalizzarle, infondere in loro uno spirito nuovo, secondo una corretta e valida interpretazione conciliare. Ed oggi molte di esse ritrovano nuova vita e autorevole presenza.

   Anche il nuovo codice di diritto canonico offre spunti di sapienza storica che è patrimonio della vita della Chiesa. Conviene riportare qui tre citazioni significative. L’autonomia delle Confraternite innanzitutto: «Le associazioni pubbliche <cioè riconosciute dall’autorità ecclesiastica> possono intraprendere spontaneamente quelle iniziative che sono confacenti alla loro indole: tali associazioni sono dirette, a norma degli statuti, però sotto la superiore direzione dell’autorità ecclesiastica» (can. 315). Al clero sono riconosciuti la natura e il ruolo specificamente spirituali. «Nelle associazioni non clericali, i laici possono ricoprire l’incarico di moderatore; il cappellano o l’assistente ecclesiastico non siano assunti a tale compito, a meno che negli statuti non sia disposto diversamente» (Can. 317 &3). Sono valorizzati i priori e i governatori. Il loro diritto a vivere nella comunità cristiana. «Un’associazione pubblica non venga soppressa dall’autorità ecclesiastica competente, senza aver prima sentito il suo moderatore e gli altri ufficiali maggiori» (Can. 320, &3).

       Note

1)- Merita annotare come fin da Medio Evo e nelle epoche successive, alla pari delle Confraternite, esistevano altre aggregazioni e pie unioni di diversa origine. Ad esempio i terzi ordini secolari si ispirano alle regole dei fondatori degli ordini religiosi e sono guidati dai religiosi del proprio ordine. Le corporazioni di arti e mestieri sono state aggregazioni di persone che, esercitando la medesima professione, si proponevano primariamente le qualifiche professionali e la difesa dei loro interessi economici e sociali, anche nel campo politico, inoltre avevano a fianco una Confraternita parallela, veneravano un santo protettore, avevano nelle chiese un altare officiato da loro, facevano suffragi per i defunti, operavano nella carità.

2)- P. BREZZI, “La Chiesa nel Medio Evo”, in Enciclopedia del Cristianesimo, vol. I, pag. 205 e segg., Torino 1959.

3)- Le Confraternite han fatto edificare ed abbellire le proprie chiese ed è da considerarsi una delle più importanti committenze artistiche: si pensi agli stupendi oratori, agli edifici per l’assistenza caritativa dei bisognosi, alle creazioni figurative. Si apprezzano meravigliose opere, ove hanno profuso le più splendide espressioni delle varie arti con dotazioni di suppellettili sacre, paramenti, arredi di ogni tipo.

4)- Non a caso Riz Ortolani nella colonna sonora del film di Zeffirelli su San Francesco, “Fratello sole e sorella luna”, mutua molte melodie da un celebre laudario di Confraternite di Cortona.

                                                                                      Germano Liberati

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Blasi don Mario evangelizza domenica XIII ordinario Matteo 10,37

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FERMO I DOCUMENTI DEL MEDIOEVO E DEL RINASCIMENTO DELLA CITTA’ E DEI CASTELLI FERMANI traduzione dell’elenco di Hubart tradotto da Albino Vesprini

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FERMO ARCIVESCOVO NORBERTO PERINI ANNO 1966 Intervista alla Radio Vaticana =”La mia Diocesi=

Perini arcivescovo Norberto 1941-1977  intervista- LA MIA DIOCESI alla Radio Vaticana 7 dicembre 1966

-D. Ci vuoi dire, Eccellenza, qualche cosa sull’Archidiocesi di Fermo che altri Vescovi ci dissero tanto illustre?

=R. Comincerò col dire che se mai a un Sacerdote dovessi fare l’augurio tremendo dell’Episcopato, ne vorrei almeno mitigare le conseguenze coll‘augurargli di diventare Arcivescovo di Fermo. Se vuol fede, vita cristiana, buone costumanze; se persone equilibrate, caratteri miti, sereni; se gioventù festosa e intelligente e sana; se chiese gremite e sonanti di preghiere e di canti; se piani e colline, mare e monti, casolari sparsi su pendii e cittadine vive e operose: tutto trova colui che si affaccia a questa terra marchigiana così ricca di contenuto.

-D. E’ l’ideale, insomma, della Diocesi?

=R. A ogni uccello (dice il proverbio) suo nido è bello. Ma le basti sapere che, quando l’Arcivescovo di Urbino e io fummo convocati come rappresentanti dell’Episcopato Marchigiano per certe intese, presso la S. Congregazione Concistoriale, dopo che il Presidente ebbe delineato i caratteri di cui, secondo il Concilio Ecumenico Vaticano II ogni Diocesi dovrebbe essere fornita, io chiesi la parola e dissi: « Mi permetta di ringraziarla, Eccellenza, per aver fatto esatta la descrizione della mia Diocesi, se si aggiunge la dignità arcivescovile e metropolitana ».

-D. Ce ne faccia una breve descrizione, citando dati di ampiezza e di popolazione –

=R. Sono quasi 1400 kmq., con una fascia costiera di 45 km. di lunghezza e un entroterra che si sviluppa per 60 km. circa. Cinque ubertose vallate che, lungo ben quattro Statali e molti raccordi provinciali tutti asfaltati, partendo dai monti in compagnia dei fiumi, attraverso le zone collinose scendono dolcemente al mare, dove si ritrovano nella grande statale Adriatica cui corre parallela la linea ferroviaria Milano-Lecce, e presto correrà l’autostrada dei Levante.

Al mare sfociano i fiumi in importanti centri rivieraschi: Pedaso per l’Aso, Porto San Giorgio per l’Ete, Fermo e Porto Sant’Elpidio per il Tenna, Civitanova per il Chienti e Potenza Picena per il Potenza. In questi territori, dove con maggiore dove con minore densi, vivono 250.000 <anno 1966> abitanti in 55 Comuni, parte della Provincia di Ascoli e parte di quella di Macerata: tutti però affratellati da un vincolo religioso che conta secoli e secoli, e che non si spezzerebbe certo senza sanguinare.

-D. L’appartenenza a due Provincie non porta nessun inconveniente alla vita religiosa?

=R. Se rispondessi tout-court di no farei una bugia. Qualche complicazione si avvera per quei movimenti di carattere religioso che hanno o dovuto o voluto adottare la circoscrizione civile, come sono le ACLI, il CIF, l’ACAI. Ma, tirate le somme, credo che la duplice esperienza da farsi nella duplice Provincia: la necessità di più ampie consultazioni e di più controllato approfondimento; Io sforzo, che alle stesse autorità provinciali riesce vantaggioso, per avvicinare punti di vista e metodo: cose queste che conferiscono alla soluzione dei problemi una maggior maturazione.

D’altra parte, la possibilità di contatto con due Prefetti, con due Questori, con due Provveditori agli Studi e alle Opere Pubbliche; e il bisogno di consultarsi e di accordarsi con altri Confratelli, dando e ricevendo lumi e consigli: tutto ciò accresce, insieme con l’esperienza dell’Arcivescovo, la sua autorità, e finisce per essere ampiamente positivo.

-D. Come si svolge il servizio religioso? <anno 1966>

=R. Si può contare sull’attività di 300 Sacerdoti Diocesani e di 112 Religiosi: Francescani, Agostiniani, Passionisti, Sacramentini, Salesiani, Religiosi della Consolata, dell’Amore Misericordioso, Pavoniani, Fratelli delle Scuole Cristiane.

L’opera loro Pastorale cura 170 Parrocchie, un grande Seminario Diocesano, dieci Case di Apostolini, Collegi, Convitti, Oratori, Associazioni e Confraternite, Ospedali, Cliniche e Istituti di Assistenza.

   Il territorio è diviso in 15 Distretti, ciascuno presieduto da un Vicario Foraneo, mentre la Curia Arcivescovile è in piena efficienza, diretta da due Vicari Generali, dei quali uno, Mons. Gaetano Michetti, è anche Vescovo, dato come Ausiliare alla persona dell’Arcivescovo, che ha tanti anni quanti ne può avere chi è nato ne! 1888,

funzionano anche, conforme alla provvida loro vocazione, 14 Monasteri di clausura (il che è un primato) e 880Case religiose femminili, che assistono Ospedali, Scuole Magistrali, Educandati, Asili infantili, istituti di Beneficenza.

-D. Quali sono i problemi più pressanti che la Diocesi deve affrontare?

R. Tutti i problemi della salvezza sono oggi più che mai pressanti, e il mio Clero dà segno non solo di conoscerli, ma di affrontarli con zelo e intelligenza. In particolare preoccupa il fatto che la Diocesi, fino a pochi anni fa esclusivamente agricola, presenta ora il 65% tra industriali, operai e artigiani. Questo fatto ci pone davanti a folle di lavoratori pendolari, e a tutte le difficoltà della migrazione interna: dall’agricoltura alla industria, dai campi ai centri cittadini, dalle zone montane e collinari alle pianure e specialmente, ai paesi rivieraschi. Per i paesi rivieraschi è urgente la necessità e difficile il problema delle Chiese nuove. Negli ultimi cinque anni ne abbiamo costruite: a Porto Potenza Picena, a Porto Civitanova, a Porto Sant’Elpidio, a Marina Palmense <Fermo>, a Villa S. Filippo <Monte San giusto>, a Ortezzano, a S. Maria Apparente <Civitanova>, a Campofilone, due a Porto S. Giorgio per merito delle Suore di S. Gaetano e delle Madri Canossiane; due prefabbricate abbiamo collocate a Fermo per Lido e Fermo e per la zona Tenna. Ora ne sono in cantiere a Fermo-Stadio, a Porto San Giorgio, a Porto Sant’Elpidio – Faleriense, a Montegranaro, a Fermo -Zona industriale. Ma altre ne occorrono a Casette d’Ete, a Porto Civitanova, alle Piane di Montegiorgio, a Colle d’Ete, a Monte Canepino <Potenza Picena>

-D. Questa enumerazione farebbe pensare che ci sia anche un problema turistico.

=R. Certo, se Lei vagheggia le grandi ascensioni alpine o le traversate degli oceani, non penserà al mitissimo ambiente delle Marche. Ma anche da noi ci sono monti, i Sibillini, dei quali cantava Leopardi:

« Quei monti azzurri

« che di qua scopro e che varcare un giorno

« io mi credea, arcani mondi, arcana

« felicità fingendo al vive mio ».

Nelle Marche panorami collinari stupendi, ove l’occhio scorre, pel verde dei campi, più giù fino all’azzurro del mare. E al mare le spiagge, oltre i pregi delle grandi spiagge, hanno il pregio di non essere ancora di moda, benché già affollatissime.

Opere d’arte ne trovi non solo nelle città, ma disseminate nei più modesti villaggi: vuoi una dozzina di tavole dorate dei Crivelli? vuoi quadri del Baciccio, del Solari, dei Pomarancio, affreschi d’antichi secoli, del tre e del quattrocento? vuoi un capolavoro di Lorenzo Lotto? una Natività del Rubens? vuoi vedere Abbazie dai nomi venerandi e dalle purissime linee romantiche o gotiche? come Santa Maria a pié di Chienti, San Claudio al Chienti, S. Ruffino, i SS. Vincenzo e Anastasio, S. Bartolomeo di Campofilone, San Marco alle Paludi?

Vuoi un Santuario tutto poesia, in fondo di valle, le cui fondamenta sono lambite dal torrente Ambro non lontano dalla scaturigine e dove accorrono, nelle Domeniche di primavera e d estate, migliaia di pellegrini?

Tutto ciò crea un problema del turismo: forestieri che, dal giugno a settembre, raddoppiano o triplicano alcuni paesi, invadono alberghi e pensioni, gironzolano dappertutto, e se non trovano una organizzazione religiosa culturale e sportiva adatta, finiscono per occupare il tempo insegnando la modestia alla nostra gioventù, come la insegnavano i soldati dei Manzoni alle ragazze di Lecco.

-D. La Città di Fermo in particolare presenta interessi turistici?

R. Basta salire al « Girfalco » per trovare un complesso interessantissimo di edifici sacri e profani che documentano due millenni di storia civile e religiosa. Mura preromane, resti di opera imperiale, teatro e anfiteatro di epoca augustea; complesso grandioso di piscine epuratorie costituite da 28 massicce sale per il rifornimento idrico della Città.

La facciata del Duomo a linee originalmente asimmetriche e ciò che rimane della Chiesa gotica costruita in pietra d’Istria dai Maestri Comacini nel 1230.

Nei sotterranei dei Duomo: resti di un tempio di Giove, tombe romane, sarcofago e mosaico di epoca pagana, mosaico ravennate del V secolo che basta da solo per attestare che già nel secolo IV Fermo era una Chiesa di primo ordine.

Nel tesoro del Duomo: reliquiari e pastorali donati dai due Papi che furono Vescovi di Fermo, Pio III e Sisto V; il Messale De Firmonibus, che è un capolavoro della miniatura italiana, opera di Ugolino da Milano, e la preziosissima Casula di S. Tommaso Becket, il più antico ricamo di arte araba che si conosca, lavorato in Almeria di Spagna, nel 1116.

Altri edifici sono in Città sacri e profani di gran valore artistico e storico. Ne! palazzo Comunale l’Aquila in bronzo regalata da Cesare Augusto alla fedele Colonia Fermana, e arazzi e quadri e tavole. Accanto al Palazzo Comunale la Biblioteca civica, ricca di 250.000 volumi, con 550 incunaboli e 2660 pergamene, già sede dell’Antica Università.

-Ci fu dunque una Università a Fermo?

=R-  Sì, fondata da Lotario I nell’825 come Studio generale e vissuta con alterne vicende fino al 1826.     

Ma questo accenno a Università mi porta a un altro problema caratteristico per Fermo: il problema degli studenti. Si calcolano 7.000 studenti, dei quali più di 3.000 iscritti a quell’Istituto Industriale che fu il primo, e per molto tempo unico in Italia. Molti di essi vengono da altre Regioni; ragion per cui abbiamo diversi Collegi e Convitti: un Convitto Montani annesso all’Istituto industriale, un Convitto Nazionale, un Collegio Arcivescovile, un Collegio per gli Orfani dei Ferrovieri a Porto San Giorgio e uno per gli Orfani di Pubblica Sicurezza a Fermo, e diversi Pensionati maschili e femminili.

Moralmente e religiosamente questi giovani, che arrivano ai 19 e 20 anni, costituiscono un difficile problema, che è sempre abbordato da diverse iniziative dovute allo zelo di Sacerdoti e a spirito di apostolato di giovani militanti di Azione Cattolica, ma non è mai pienamente risolto.

-D. Tutto questo super-afflusso a scuole pubbliche lascia posto e possibilità di vita a un Seminarlo?

=R. Per ora questo è un problema che non ci preoccupa eccessivamente, perché abbiamo ancora un Seminario di circa 300 alunni, nonostante che in quasi tutti i paesi sia sorta in questi ultimi anni la Media Statale. Forse il bellissimo nuovo edificio che torreggia sulla collina come una statua di Santo sul suo piedistallo contribuisce ad attrarre la gioventù, a sensibilizzare la popolazione e a renderla comprensiva e generosa verso il Seminario.

-D. Quali sono le opere assistenziali di maggior rilievo?

=R. Oltre le tradizionali Conferenze di S. Vincenzo maschile, femminile e giovanile, esiste un Patronato AGLI, come sede distaccata dalla Provincia, che tratta attualmente decine di migliaia di pratiche previdenziali: un servizio di ben nove Assistenti Sociali dipendenti dall’ONARMO e ODA tengono per tutto il periodo estivo tre Case per ferie per le famiglie dei lavoratori. Sono molto attive nel loro campo, l’UNITALSI e la Legio Mariae.

-D. E l’Azione Cattolica?

=R. Ci sono 600 Associazioni con un totale di 12.000 iscritti. Oltre le normali attività, esiste un Centro Studi e una Scuola di Apostato della Gioventù.

Svolgono un’attività molto incisiva i movimenti « -Studenti -Lavoratori -Rurali » della Gioventù maschile e femminile. Sono pure fiorenti i vivaci Scout, Guide e la Gioventù Studentesca.

Nuova abbondante vena di grazie il Signore ci ha aperto nei « piccoli Corsi di cristianità » che abbiamo imparato dalla Spagna, e che si faranno più frequenti ora che si è inaugurata, nel parco del Seminario, la « Villa Nazareth » destinata a tutte le forme di ritiro spirituale per i laici.

-D. In una Diocesi così antica e ricca di vita cristiana non può certo essere mancato il profumo di santità.

=R. Non è mancato davvero.

-D. Ci vuol accennare a qualche nome?

=R. Oltre i due Fondatori della Chiesa Fermana, i Vescovi Alessandro e Filippo martiri nelle persecuzioni di Decio e di Aureliano, e S. Marone primo evangelizzatore della terra picena, nominerò S. Nicola, che si dice da Tolentino perché vi morì, ma è nato e fu Sacerdote a Sant’Angelo in Pontano e Religioso Agostiniano a Fermo; il B. Adamo Abate Benedettino, S. Serafino da Montegranaro laico Cappuccino,  i conventuali S. Giovanni della Verna, S. Pietro da Mogliano, il B. Antonio Grassi, Filippino di nobile famiglia fermana, ancora viva e prosperosa, il B. Antonio da Amandola agostiniano, i conventuali S. Giovanni della Verna, S. Pietro da Mogliano, il B. Pellegrino da Falerone, il B. Giovanni della Penna. E nel primo fiorire dell’Ordine Francescano non scrivevano forse i « Fioretti di S. Francesco » che « la Provincia della Marca di Ancona, a modo che il cielo di stelle, fu adornata di santi ed esemplari frati, i quali hanno illuminato e adornato l’Ordine di S. Francesco e il mondo con esempi e con dottrina »? E si sa che i Fioretti di S. Francesco sono nati da noi. Né sarebbe giusto dimenticare che di Porto Civitanova fu la Madre di S. Gabriele dell’Addolorata, il quale si santificò nel tempo che trascorse, Novizio, nel Ritiro di Morrovalle, dove ancora c’è il Noviziato dei Padri Passionisti.

Ma oltre a questa santità canonizzata, io godo di poter dire a me stesso e agli altri che ancor oggi esiste la santità nell’umile nostra gente ricca di fede, di pazienza, di laboriosità, di spirito di sacrificio; nelle famiglie ricche di figli e di virtù; nelle case sonanti del Rosario serale e delle Litanie, che portano il cuore di ogni Marchigiano al cuore delle Marche, che è Loreto.

-D. A sostenere tanta attività di opere e a nutrire tanta vita cristiana, vi sarà una stampa?

R. Per gli iscritti c’è la stampa dell’A.C. per le famiglie c’è il quotidiano «l’Avvenire d’Italia » e il Settimanale « La Voce delle Marche» che è al suo 73° anno di vita. Per essere sincero, devo però dire che il problema della stampa è troppo poco sentito nella mia Diocesi.

-D. Come è possibile chiudere una relazione così ricca di dati positivi con una nota malinconica?

=R. Malinconica per nulla affatto. Basta pensare che nessuna cosa al mondo è statica. E per essere allietati, o immalinconiti, bisogna chiedersi non solo a che altezza stanno cose e persone, ma anche se sono volte verso l’alto o verso il basso, se tendono a salire o a scendere. Se sono in discesa fanno tristezza, ma se sono in salita fanno letizia. Ebbene in quest’anno di grazia, ora di primavera, ora di Pentecoste, la Diocesi di Fermo, sotto ogni aspetto, sta in salita. Questo dico fidandomi a voi, venerati miei Fratelli nel Sacerdozio e miei cari Fedeli, alla cui cordiale, intelligente e operosa collaborazione non mi sono mai fidato invano.

Così mi attesta una esperienza di 25 anni, quanti sono gli anni in cui ho avuto la grazia di esservi Vescovo e Pastore.

************** Digitazione di Albino Vesprini.

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LA MOSTRA DI RELIQUIARI E DI OSTENSORI DELLA ARCIDIOCESI DI FERMO ORGANIZZATA DA DON GERMANO LIBERATI. Notizie estratte dal catalogo.

Volume di vari autori: “Santi e pellegrini” a cura di Germano Liberati e Alma Monelli. Archidiocesi di Fermo. Fermo 2000. <Testo ristrutturato da uno scritto di Germano Liberati. “La mostra, percorso unico nel suo genere”>

     La mostra dal titolo “Santi e Pellegrini” a Fermo si riferisce alla storia della liturgia cristiana che ha caratterizzato la vita ecclesiale con grandi manifestazioni di fede, come i giubilei e i santuari. In ogni anima beata che ha vissuto sinceramente la volontà divina vengono ricordati e vissuti i misteri della salvezza opera del Cristo che ha vinto la morte e vive glorioso. Nella venerazione alle persone sante che vivono in cielo la Chiesa proclama la lode della Risurrezione del suo Signore che era, che è e che viene. Il significato delle manifestazioni esterne va ricercato nella partecipazione spirituale, non sul versante di moda di divagazione o di curiosità. Le due realtà di santità e di reliquie sono complementari e si spiegano a vicenda nel rinforzarsi reciproco. Le tombe e le reliquie dei santi hanno richiamato alla preghiera le folle e i singoli fedeli intenti a impetrare la loro intercessione, a ringraziare l’Amore infinito ed a venerarli come modelli di virtù. l pellegrinaggio permane con esiti morali di cammino per la santificazione. In ciò ogni cristiano è un pellegrino.

     È avvenuto fin dai primi secoli che al culto della santa Croce di Cristo e degli oggetti pertinenti alla Sua divina passione, sono stati affiancati da atti liturgici sulle tombe degli apostoli, dei martiri, dei taumaturghi, o nei luoghi di apparizioni in cui la pietà dei fedeli, giustamente, ha meditato la particolare presenza della Vergine, testimoniata da miracoli, grazie o eventi comunque difficilmente spiegabili dal punto di vista naturale. Facendo memoria storica delle persone che sono già pienamente unite a Dio, le reliquie loro favoriscono l’intensità delle preghiere individuali, inoltre fanno meditare sulla testimonianza che esse hanno dato di Cristo e così sostengono i fedeli nella fede e li incoraggiano a chiedere il sostegno della loro intercessione per superare le prove nelle sofferenze quotidiane.

   Nella storia dell’umanità, i santi sono esemplari in un processo osmotico: essi stessi sono stati pellegrini. Così la martire santa Lucia da Siracusa andava a Catania per pregare sulla tomba di S. Agata. Troviamo nei grandi santuari gli elenchi e le raffigurazioni di Santi e Beati che vi sono stati pellegrini, hanno pregato e spesso ottenuto la grazia della conversione e quella del dischiudersi della vocazione per realizzare il proprio particolare progetto di Dio, nel loro “itinerario di perfezione”.

     In questo contesto è inevitabile e necessario che gli strumenti e i modi per la venerazione siano quanto mai significativi, come esemplarità e richiamo per tutto ciò che di meglio l’uomo può offrire a Dio, alla Vergine, ai santi. Questo ci fa render conto del grande apporto che è dato dall’arte cristiana la quale non ha mai trascurato di dar valore alle cose pertinenti alla santità nei luoghi di culto. La mostra che focalizza l’attenzione sui reliquiari, come contenitori ideati e creati per conservare, esporre alla venerazione ed esaltare le reliquie, è utile a che la pietà dei fedeli ne esca edificata e la fede trovi la sua professione esplicita. All’origine di tale scelta vi sono motivazioni diverse che fanno un tutt’uno con le finalità stesse della mostra riferita al significato del culto cristiano dei santi e alla ricerca della santità.

   Gli oggetti di questo tipo, sono stati definiti, con un’etichetta generica e superficiale, “arte minore”. Don Germano Liberati, Direttore dei Beni Ecclesiastici dell’Archidiocesi di Fermo e docente di storia dell’arte sacra, si è ribellato a questa definizione, sia perché tale espressione congloba generi e forme diverse per materia, per arte e per tecnica, sia anche perché non conduce né ad una conoscenza, né ad una comprensione critica dei manufatti stessi, nei quali spesso validissimi artisti o splendidi artigiani di mirabile tecnica hanno fornito autentici capolavori d’arte. In generale i liturgisti apprezzano la solennità delle teche destinate alle reliquie e ai sacramenti e fatte con materiali ed elaborazioni di alto valore artistico al fine di rendere onore al Signore.

     Adornare, e talora enfatizzare, con opere d’arte le teche dei resti mortali di santi (pur in frammenti) sono testimonianze di una sensibilità che solo la religione cristiana ha saputo mettere in evidenza, partendo dal principio fondamentale che questo è vero riconoscimento della dignità umana, non tanto in riferimento a potere, ricchezza, imprese, piuttosto sulla base delle doti più autenticamente umane e delle virtù personali che queste persone onorate hanno professato, ad imitazione dell’uomo perfetto, Gesù Cristo. Le reliquie e i loro preziosi contenitori, i reliquiari, sono innanzitutto la testimonianza di un culto, di una adesione ad un modello cui rifarsi e di un intercessore cui rivolgersi, nello spirito della grande verità della Comunione dei Santi.

     Tutto ciò, visto con gli occhi del nostro tempo, costituisce la memoria dei santi che resta sempre e comunque un richiamo ed un incoraggiamento alla testimonianza di fedeltà a Cristo che è il modello dell’itinerario di perfezione. Permangono, dai secoli cristiani, gli atti devozionali delle pie unioni e delle aggregazioni con i loro riti, con il pellegrinaggio “ad corpora sanctorum” <corpi dei santi>, con le processioni e le feste patronali, con altre forme spirituali praticate da confraternite e da ordini secolari, proprio perché il santo è visto – e non può essere altrimenti – oggi, soprattutto come modello ispiratore del cammino interiore di fede, di carità creativa, di intuizioni profetiche, di attenzione alla spiritualità cristiana. A tutto questo non nuoce l’eccezionalità dell’aspetto taumaturgico, oggi meno cercato.

     E i reliquari ne sono una riprova preziosa, in quell’ambito della cultura materiale artistica che è insostituibile documento di conoscenze per la storiografia. Non sfugge a nessuno, purché sia attento, come la suppellettile sacra in genere sia il segno di una continuità della storia religiosa delle comunità cristiane locali, dell’arricchimento specifico, donatoci nella successione di molti secoli.

     I reliquari offrono varie risposte particolari per gli storiografi intenti a ricostruire il divenire storico. Da questi si possono ricavare aspetti della devozione preferenziale che è rivolta alla Vergine, invocata sotto moltissimi titoli, inoltre a questo o quel santo, proprio perché tutto ciò si era radicato e stratificato in modo preciso nelle proprie e diverse società qualificate dalla singolarità di caratteri, bisogni, aspetti famigliari, economici e sociali.

     Né è da sottovalutare come le tipologie e gli stilemi che caratterizzano queste opere d’arte in modo circostanziale, rappresentano culture diverse, manifestano la circolazione di artigiani e artisti, la diffusione di precisi gusti e di determinate propensioni, e contribuiscono, anche per le parti figurali delle opere, a connotare in modo specifico le singole aree culturali, nella loro varia pluralità. Il loro apporto agli studi può esser ricontrato anche maggiore dell’apporto derivato dagli edifici.

     E’da teer presente il fatto che è stata fatta una scelta tra gli oggetti della mostra vantaggiosa per offrire un ampio ventaglio di opere che si dispiega attraverso sette secoli, a testimonianza di quanto storicamente avvenuto nella pertinenza della grande comunità costituita dall’arcidiocesi di Fermo che è la più ampia Diocesi delle Marche. Le opere sono state esplorate e selezinate nelle oltre trecento chiese e scegliendo tra oltre mille reliquiari inventariati.

   I criteri di scelta individuati dal comitato scientifico sono stati quelli della qualità, quantità e rappresentatività.

     Innanzitutto la qualità. Si è preferito esporre le opere che, preziose per maestria tecnica e materia, possono evidenziare l’attenzione, la sensibilità e il gusto della committenza. Tutti questi elementi sono la logica estrinsecazione della fede e della devozione; né mancano opere dette “di maniera”, la cui tipologia è ricorrente in aree più vaste: in questo caso si è offerto un complesso di apporti che privilegiano l’evoluzione storico-stilistica, in un percorso che va dal Seicento alla fine dell’Ottocento, tra l’altro aggiungendo alla tipologia dei reliquiari, quella ancor più preziosa degli ostensori, che sono valorizzati come strumento del culto eucaristico.

   Insieme con la qualità, l’attenzione è stata rivolta alla quantità. Non basta esporre i non pochi pezzi unici, preziosi per la ricchezza materica e per la tecnica esecutiva; ma, poiché la mostra ha anche il fine di testimoniare la storia, la scelta di oltre cento opere, quantitativamente rilevante, consente di documentare la diffusione, le forme variegate, i riferimenti di molteplici manifestazioni della fede cristiana.

     Infine si valorizza la rappresentatività, in tre coordinate precise: geografica, stilistica, tipologica. La vasta area diocesana di kmq 1300 e più <settima parte della regione Marche> accomuna chiese importanti insieme con le piccole pievi. Non è raro trovare preziose opere, molto originali e interessanti, in piccoli paesi, o in frazioni, dato che, un reliquiario che raccoglieva i resti di un santo, ha determinato storicamente, il culto e i pellegrinaggi in un sito e chiesa. Ecco allora la nuova e affascinante scoperta della mostra: imbattersi in oggetti che mai si sarebbero potuti immaginare nati e conservati i luoghi poco noti come sinora gli oggetti stessi.

      A ciò va aggiunta la rappresentatività stilistica: materia, tecniche, decorazioni e altro sono ampiamente selezionate al fine di poter cogliere le aree di diffusione, la creatività e la sensibilità locali, gli influssi di altre aree anche lontane. Emergono presenze impensate: si va dalla stauroteca della Cattedrale, dono di Pio III, fatto prima del suo pontificato, alle opere uscite dalla bottega degli intagliatori locali, quali i Morelli di Montegiorgio, che hanno coniugato la dignità stilistica con il gusto popolareggiante.

     Né manca la possibilità di riscoprire come il reliquiario sia l’occasione di una creatività libera e innovativa, riconducibile non solo agli stili dominanti dei vari periodi storici, bensì espressione di intuizioni, gusti, inventiva, originalità dettate da committenze colte e realizzate da artisti di grande sensibilità. E’ fuori luogo pensare ad un arredo sacro standardizzato.

     La mostra offre un panorama assai esauriente, con la sua unità tematica, riguardante il reliquiario. Per quanto ci consta, nessuna altra mostra in regione <non sappiamo, ma forse in Italia> l’ha mai proposto. La mostra porta ciascuno a sentirsi “pellegrino” ai “Santi”. E’ un’occasione di itinerari lungo i secoli nella storia religioso-culturale della comunità cristiana della vasta Diocesi. Il corredo di un prezioso catalogo in cui 142 opere tra reliquiari e ostensori fotografati vengono illustrati, unitamente alla presentazione delle tipologie e delle valenze artistico-culturali delle stesse opere presentate, giova alla perspicacia del senso della storia del culto.

   Tali contributi sono stati affidati a studiosi ed esperti affinché la lettura potesse costituire un vero e proprio scavo nella novità della proposta e un superamento della trascuratezza che spesso circonda tali tematiche da non relegare nell’ignoto o nell’indifferenza delle arti minori. Un ampio apparato fotografico documenta le tipologie delle singole opere. Il volume si conclude con un indice di schede-foto di tutte le opere esposte.

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A Fermo la reliquia del cranio di san Savino patrono della città.

A Fermo la memoria liturgica di SAN SABINO PROTETTORE DELLA CITTA’

A Fermo la memoria liturgica di SAN SABINO PROTETTORE DELLA CITTA’

   San Sabino o Savino è un martire morto nel 303 circa a Spoleto ed è considerato anche vescovo. Nella diocesi Fermana è patrono di Fermo e altrove lo è anche di Spoleto, di Assisi e di Siena. Durante l’antichità Sabino fu uno dei santi più venerati. Della sua vita gli studiosi possono ricostruire soltanto poche date. Per la fedeltà e la testimonianza data a Gesù Cristo fu perseguitato e considerato criminale fino all’assassinio, dato che soprattutto sotto gli imperatori Valeriano e Diocleziano la religione cristiana non era lecita, ma considerata un crimine contro lo Stato. L’editto imperale per la libertà al cristianesimo fu emanato nel 313. Il popolo cristiano ha cominciato a venerare Sabino martire subito dopo il suo assassinio, dici anni prima. Alla sua tomba, a Spoleto, affluivano numerosi pellegrini. A lui si è attribuito l’episcopato di questa diocesi in base agli antichi dipinti che lo raffigurano tale. Siamo sicuri che già nel quinto secolo davanti alle mura di Spoleto esisteva una basilica che era stata dedicata a San Sabino e lo troviamo anche raffigurato in un mosaico, a San Apollinare nuovo a Ravenna che è stato edificato attorno al 503.

   Nell’iconografia l’immagine più antica del santo martire lo si vede con le mani coperte da un velo su cui c’è una corona. Nella figura di vescovo con mitra e pastorale lo troviamo in un affresco di Andrea di Bologna nella basilica di San Francesco ad Assisi, immagine riferibile al 14º secolo.

   Le notizie per Fermo sono documentate da una lettera di papa Gregorio Magno che nell’anno 598 dispose che il vescovo di Spoleto concedesse al vescovo di Fermo una reliquia di san Savino martire e allora fu concessa ai Fermani la reliquia del cranio di san Sabino, in un bel reliquiario che ancora si conserva nella cattedrale di Fermo.

  

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SANTA ANNA CHIESA A BELMONTE PICENO culto tradizione festa cultura

rettitudine

SANT’ANNA – chiesetta a Belmonte Piceno.FM.

   Giustina Agostini Sbaffoni (1982-1972), donna di preghiera per le tante persone che la frequentavano a Belmonte, nel 1956 cominciò a fare nuova la chiesa di Sant’Anna, la quale è la santa ammirata madre di Maria di Nazaret e nonna di Gesù Cristo, figlio della stessa Maria. Nella devozione cristiana i santi genitori e nonni Giacchino ed Anna vengono venerati con la memoria liturgica il 26 luglio. Sono onorati come modelli di santa laboriosità, come intercessori e come compagni del pellegrinaggio dalla terra al cielo. Secondo le esperienze della loro vita sono patroni di particolari condizioni di vita. Così la madre e nonna Sant’Anna è patrona per le maternità nella gestazione, nel buon andamento del parto e nella condizione di essere puerpera, come pure nella cura dei neonati, bambine e bambini. Nell tradizione cattolica, tra le molte immagini che raffigurano S. Anna con la figlia Maria, una è stata dipinta da Leonardo da Vinci ed è esposta al Louvre a Parigi.

   L’antichità di Belmonte si riflette anche sulle lontane origini di questa chiesina ricostruita varie volte, adiacente al bivio delle strade che da Belmonte scendono verso l’Ete. Attualmente nel frontespizio della chiesina stessa i passanti leggono l’epigrafe su marmo come è stata dettata da Giustina, nella seguente poesia di buon auspicio:

O PASSEGGERO SE

 IL DOLORE TI AFFANNA

LA GRAZIA CHE TU VUOI

CHIEDI A SANT’ANNA

   Presso tutti i popoli, anche tra i marchigiani che sono devoti della santa Casa mariana di Loreto, è facilmente riscontrabile quanto valore si dà alla filiazione. Molte donne si recavano a casa di Giustina nelle fasi della loro maternità e lei, con stabile sicurezza, insieme con ciascuna di loro, pregando, invocava il patrocinio di sant’Anna.

   Nel secolo XI a Belmonte erano presenti i monaci benedettini venuti da Farfa che avevano avuto in donazione molti possedimenti terrieri e dal secolo X officiavano la turrita chiesa di Santa Maria in muris, detta popolarmente di san Simone. Essi davano in enfiteusi le aziende agricole curtensi nel territorio Piceno e sui luoghi costruivano edicole e chiesine per seppellire nelle adiacenze i defunti. Questa è l’origine storica della chiesina. Lo stile edilizio era allora di tipo romanico e nel secolo XIV fu completato con modifiche di stile gotico. Quando dopo il 1860 ci fu la confisca delle proprietà ecclesiastiche, questa chiesa finì abbandonata alle intemperie e nel secolo XX i più vecchi vedevano sul luogo due spezzoni di muri inclinati con le tracce delle fondazioni di forma semicircolare d’abside. Tutto attorno si vedevano rovi e sterpi selvatici che ogni anno crescevano e si allargavano verso le strade adiacenti, tanto da doverli tagliare con le roncole a lungo manico, poi bruciarli e per conseguenza i ruderi dei muracci diventavano molto anneriti e brutti.

   Nel 1953, Giustina venne ad abitare con la famiglia del figlio Nello Sbaffoni, presso questa contrada detta di Sant’Anna. Precedentemente lei abitava con i figli e con i nipoti presso la chiesina di santa Maria in Muris, a Belmonte. Lei ed i devoti erano delusi dalla brutta impressione di quei rovi ed erbacce, e seguitando a fare le preghiere a sant’Anna, accolsero l’idea che vi si costruisse una nuova chiesa per questa santa. Un primo schizzo venne in mente all’ingegnere Mario Andrenacci e nei contatti con la fornace Brancozzi di Grottazzolina, che avrebbe fornito i materiali di edilizia, il figlio Blandino Brancozzi che era un tecnico, delineò un disegno di progetto. Ci furono operai volontari per sterrare e fare i manovali. Nel frattempo Giustina riceveva offerte dalle persone che la frequentavano. Le si affiancarono altri collaboratori, tra i primi il figlio Nello. Blandino Brancozzi era il capomastro. L’edificio crebbe in pochi mesi dalle fondazioni al tetto. Furono messe lastre di marmo ad ornare il portale, si costruì il cornicione a corona dell’edificio, con le grondaie laterali, fu eretto l’altare, come si vede tuttora. In seguito si provvide agli intonaci ed alle tinteggiature. Il mastro falegname Angelelli Dino, che teneva il laboratorio nelle vicinanze, creò il tabernacolo, due comodini e due panche, oggetti questi che verso la fine del secolo XX furono restaurati dal fratello Angelelli Renzo. Di fronte all’altare, il quadro raffigurante sant’Anna era una stampa in bianco e nero che dopo circa trent’anni fu sostituito con l’immagine in policromia raffigurante la figlia Maria seduta a leggere la Bibbia sotto la guida materna.

   Interessandosi il parroco don Giuseppe Biondi, si cominciò a celebrarvi la santa Messa e festeggiare la domenica pomeriggio prossima al 26 luglio. Partecipavano le persone del centro urbano e delle vicine contrade. Dopo la liturgia si sostava per una merenda con affettati e bibite. Il senso religioso della patrona delle partorienti era dominante in questa ricorrenza. Culturalmente era un incontro con attenzione alle nonne ed ai nonni, un apprezzamento per l’opera architettonica innovata, una eco del volontariato laborioso, con nuovi apporti di inferriate artistiche.

Il proverbio che subito affiora nella mente di chi pensa a Sant’Anna è il popolarissimo detto:

“Sant’Anna il vero e giusto rimanda”. Purtroppo si verificano sopraffazioni ed atti di bullismo e si diffondono perché i colpevoli di soprusi sanno di poter vegetare nell’impunibilità. Il proverbio fa capire che sant’Anna vuole riportare le giustizia contro le soperchierie. Occorre consapevolezza. E’ un monito a volere un mondo di atti giusti, nelle piccole scelte per vivere la rettitudine anche a costo di sacrifici. Per evitare le sopraffazioni occorre usare impegno nell’individuare i responsabili delle ingiustizie. E’ vero che la giustizia è di Dio che la fa trionfare eternamente. Emanuele Kant diceva che la vita eterna è necessaria affinché ciascuno abbia per sempre il suo. Dove il popolo usa attenzione si alimenta il dovere della certezza della pena. Nessuno si può tirare fuori; non ci debbono essere indifferenti di fronte alle angherie. Anzi quando si esercita l’attenzione per far ravvedere i prepotenti si prevengono i reati tipici della mafia. E sant’Anna lo fa realizzare.

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RETTITUDINE

SantAnna il giusto e retto rimanda

RETTITUDINE

Il proverbio che subito affiora nella mente di chi pensa a Sant’Anna è il popolarissimo detto:

“Sant’Anna il vero e giusto rimanda”. Purtroppo si verificano sopraffazioni ed atti di bullismo e si diffondono perché i colpevoli di soprusi sanno di poter vegetare nell’impunibilità. Il proverbio fa capire che sant’Anna vuole riportare le giustizia contro le soperchierie. Occorre consapevolezza. E’ un monito a volere un mondo di atti giusti, nelle piccole scelte per vivere la rettitudine anche a costo di sacrifici. Per evitare le sopraffazioni occorre usare impegno nell’individuare i responsabili delle ingiustizie. E’ vero che la giustizia è di Dio che la fa trionfare eternamente. Emanuele Kant diceva che la vita eterna è necessaria affinché ciascuno abbia per sempre il suo. Dove il popolo usa attenzione si alimenta il dovere della certezza della pena. Nessuno si può tirare fuori; non ci debbono essere indifferenti di fronte alle angherie. Anzi quando si esercita l’attenzione per far ravvedere i prepotenti si prevengono i reati tipici della mafia. E sant’Anna lo fa realizzare.

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A BELMONTE PICENO IL MOLINO PRESSO IL FIUME TENNA SIN DALL’EPOCA ROMANA

A Belmonte Piceno il mulino sul fiume Tenna  esiste da venti secoli. negli ultimo due secoli gestito dai mugnai VALORI fino al 1902 poi dai CARNEVALI

   In prossimità del fiume Tenna, non lontano dal bivio delle due strade provinciali, una verso il paese e l’altra lungo la riva destra dello stesso fiume, c’è un antico mulino ad acqua che è di proprietà delle famiglie belmontesi di Antonio ed Ettore Carnevali. Nelle carte topografiche e “tavolette” si legge “Molino Valori”. Per un altro molino che era nei pressi del fiume Ete si leggono notizie nel libro di Franco Giampieri che racconta la vita nella vallata dell’Ete. Giampieri scrive che i fiumi, sia piccoli che grandi, sempre sono stati alleati degli uomini ed anche nei momenti di magra hanno speso ogni loro goccia per soddisfare le persone, gli animali e le piante.

   Di fatto vicino ai fiumi sorsero i più grandi insediamenti storici e fin dalle epoche protostoriche risulta che le loro acque furono utilizzate per la forza motoria perché questo sistema energetico è certamente economico, efficiente, poco costoso, molto produttivo in varie applicazioni. Non per nulla, nel secolo XIX con la dinamo, per mezzo delle turbine ad energia idraulica è stata prodotta l’energia elettrica. Il geografo e storico greco Strabone, nel primo secolo avanti Cristo, ebbe a descrivere i molini ad acqua.

   Proprio nei primi decenni dell’era cristiana sorse il primo insediamento del mulino belmontese, in questo luogo della pianura del fiume Tenna, che era nell’ambito del territorio Faleriense. Avvenne allora che vennero mandati a riposo dall’imperatore Augusto nel Piceno i veterani degli eserciti romani sia di Cesare che di Pompeo. Ogni luogo abitato in ambiente rurale era chiamato dagli antichi romani con il vocabolo “Villa” dove essi svolgevano pressoché tutte le attività produttive. Presso l’abitazione padronale c’erano diversi edifici e locali, come l’edicola, le officine, le capanne, i magazzeni, le cantine, la grotta, le stalle per allevamenti, il frantoio o pistrino e nei pressi del fiume un molino ad acqua, in modo tale che i lavoratori provvedevano alle comuni necessità.

   Cominciò ad esistere in epoca augustea il primo mulino a Belmonte <Piceno> presso il fiume Tenna (Tina divinità). In seguito alla decadenza di Roma e dell’impero romano nel quinto secolo, con l’arrivo e l’insediamento di popoli emigrati da fuori dall’Italia, i nuovi abitanti si stabilirono sulle alture, dove ancor oggi vediamo molti paesi. Le attività di macinazione dei semi e delle granaglie prevalentemente si fecero nelle abitazioni, immettendoli in una pietra incavata e sovrapponendo un’altra pietra che veniva girata con ogni metodo possibile di molitura.

   Nei frantoi si usavano le macine (o mole) di pietra che erano girate o con le braccia, o con animali, o con pale sull’acqua corrente. Nel secolo VIII con la venuta dei monaci benedettini in questo territorio, le attività nelle pianure nelle vallate di fiumi ripresero intensamente e i molini si potenziarono. I monaci benedettini Farfensi con il programma di pregare e lavorare, furono i più operosi imprenditori agricoli, anche mugnai, nel Piceno. Sapevano anche pacificare le popolazioni. A questi subentrarono, con i Longobardi e con Franchi, i signorotti vassalli che ebbero il dominio sullo sfruttamento delle terre e delle acque, continuando l’uso dell’energia idraulica. Gli edifici per i molini erano anticamente costruiti con pietre e con mattoni in un modo staticamente solido, con muri spessi, come si può ancor oggi notare dove gli edifici permangono. Dovevano resistere anche ai pericoli di incursioni nemiche, oltre che all’usura nel tempo.

   Dal XIII secolo alcuni comuni riorganizzarono l’amministrazione e crearono mulini comunali sparsi nel corso di uno stesso fiume dato che l’acqua che scorrendo dava energia in un posto, non perdeva per questo la sua quantità scorrendo verso altro mulino.

   Una vicenda di guerriglia fu causata nei dieci anni dal 1537 al 1547, quando ci fu un nuovo governatorato chiamato Stato Ecclesiastico nell’Agro Piceno con capoluogo Montottone, della famiglia Farnese del papa Paolo III, emarginando Fermo, da secoli capoluogo. Per la riscossione delle tasse furono causati dissidi. Di fatto, presso il fiume Tenna, gli utenti del pascolo della pianura di ricco pascolo, detta “Boara” frequentata in gran parte dai Montegiorgesi, anche dei comuni circonvicini , si trovarono concitati gli uni contro gli altri causando con rappresaglie, incendi e distruzioni dei rispettivi mulini. Dopo la morte del papa Farnese, con lo scopo di pacificare, la pianura “Boara” fu data (come resta) nel territorio del comune di Fermo.

   Il sito del predetto mulino belmontese presso il Tenna in collegamento dei percorsi stradali, era poco distante dal fiume, per non essere esposto ai pericoli delle esondazioni ed era costruito in modo solido e sicuro. L’acqua per l’energia necessaria a dare movimento alla mola (macina) ruotante era prelevata in un punto un po’ più elevato di ‘colta’ dal fiume, e attraverso il canale di presa (o gora), l’acqua si accumulava nella parata (o roggia) che era come un grande pantano con paratia per l’uscita (detta “reffota”) e arrivava a far girare le ‘pale’ nel luogo (detto margone). Seguitava a scorrere in altro canale (detto pescaia) per ritornare allo stesso fiume.    Una saracinesca regolabile sulla paratia serviva a accrescere o diminuire la quantità di immissione dell’acqua anche per evitare i danni occasionati dai forti temporali, che immettevano molta melma e frasche secche trasportate dal fiume. Questa struttura aveva necessità di manutenzione assidua in relazione all’impeto dell’immissione. Per macinare erano indispensabili due mole (o macine) di pietra, non una soltanto, in posizione orizzontale, una sovrapposta parallela all’altra, e la distanza tra loro era manovrabile per mezzo di una leva esterna. La mola inferiore era fissa mentre l’altra mola superiore era ruotante.   

   Il sito del predetto mulino belmontese presso il Tenna in collegamento dei percorsi stradali, era poco distante dal fiume, per non essere esposto ai pericoli delle esondazioni ed era costruito in modo solido e sicuro. L’acqua per l’energia necessaria a dare movimento alla mola (macina) ruotante era prelevata in un punto un po’ più elevato di ‘colta’ dal fiume, e attraverso il canale di presa (o gora), l’acqua si accumulava nella parata (o roggia) che era come un grande pantano con paratia per l’uscita (detta “reffota”) e arrivava a far girare le ‘pale’ nel luogo (detto margone). Seguitava a scorrere in altro canale (detto pescaia) per ritornare allo stesso fiume.    Una saracinesca regolabile sulla paratia serviva a accrescere o diminuire la quantità di immissione dell’acqua anche per evitare i danni occasionati dai forti temporali, che immettevano molta melma e frasche secche trasportate dal fiume. Questa struttura aveva necessità di manutenzione assidua in relazione all’impeto dell’immissione. Per macinare erano indispensabili due mole (o macine) di pietra, non una soltanto, in posizione orizzontale, una sovrapposta parallela all’altra, e la distanza tra loro era manovrabile per mezzo di una leva esterna. La mola inferiore era fissa mentre l’altra mola superiore era ruotante.   All’esterno dell’edificio si notavano i ricoveri d’alloggio e stalle per gli animali come le pecore, la cavalla o il cavallo, i maiali, i conigli, e il pollaio. Non lontano dal mulino c’era anche il forno per cuocere il pane e le focacce. L’acqua era utilizzabile nelle coltivazioni di ortaggi. La moglie del mugnaio (‘molenara’) preparava e faceva cuocere le pizze e le focacce, fruibili dai familiari e, a richiesta, dai clienti. Nelle vicinanze non mancava il pozzo di acqua potabile.  Ascoltando il racconto dei nonni riceviamo i ricordi di quando andavano al mulino. Arrivati, scaricavano i sacchi e vicino al portone d’ingresso c’era la Stadera per la pesa dei quantitativi. Al momento di venir macinate le granaglie erano immesse nel cassone sopra alle macine, poi si procedeva a molare. Secondo la vicinanza maggiore o minore delle mole il macinato poco affinato per semola e tritello, o più affinato come fiore di farina. Talora il mugnaio (molinaro) accumulava nel pavimento del piano superiore il grano nel magazzeno che da un pertugio (o boccarola) faceva scendere direttamente sul mulino. Preparava la farina da trasportare a vendere a clienti e a negozianti.

   Si chiama tramoggia l’apertura del cassettone svasato costruito sopra le macine, come un imbuto a ricevere il grano da macinare e farlo scendere tra le due macine con un passaggio regolabile per mezzo della leva della macinazione. Nel frattempo che il funzionamento dei meccanismi della molitura ultimasse il servizio al cliente, per curiosità egli andava all’aperto, a guardare il moto rotatorio, come l’acqua muoveva le eliche, sotto il molino: una ruota aveva infisse le pale a forma di cucchiaio poste in linea in modo che il flusso dell’acqua corrente le colpiva e faceva ruotare il perno verticale (ritrecine), poggiato su una base di ferro (ragnola). Il perno che girava, per mezzo di un meccanismo con leva, veniva innestato nella macina ruotante. Il “molenaro” con la leva faceva sollevare o abbassare il perno per muovere più velocemente oppure per rallentare il movimento rotatorio secondo l’immersione più o meno profonda delle pale nell’acqua.    Nella stanza delle mole si vedeva scendere la farina macinata, convogliata in modo da farla cadere in un capiente cassone di legno. Allora si diffondeva nell’aria un intenso profumo di farina che era mossa dall’aria tanto da sbiancare lo spazio circostante, anche le ragnatele. Ne è venuto il proverbio: «Chi va al molino s’imbianca di farina».

   Il mugnaio inoltre controllava l’altra leva che alzava o abbassava la mola rotatoria in modo da creare una farina più o meno grossa oppure sfinata. I bambini che accompagnavano i genitori al mulino si incantavano a guardare questo complesso di misteriosi meccanismi che accompagnavano il ritmo e il rumore della mola e lo sciabordio dell’acqua. Per soddisfare la propria curiosità facevano domande al mugnaio quando stava fermo davanti al cassone a guardare la fuoruscita del macinato.   Il lavoro del mugnaio era solerte e da esso riceveva il compenso di circa quattro chili di farina per ogni quintale di grano immesso alla molitura. L’impianto del mulino richiedeva un’attenta e laboriosa manutenzione oltre che per ripulire il canale e l’invaso della paratia, anche per rinsaldare o sostituire le pale (eliche) innestate fermamente nella ruota immersa del ritrecine, per regolare le saracinesche di discesa dell’acqua incanalata, per controllare la presa d’acqua dal fiume e il suo ritorno al fiume, soprattutto per ribattere periodicamente la dentatura scolpita nelle macine, lavoro questo che avveniva dopo che erano stati macinati circa tredici quintali di granaglie. Questa dentatura sulla superficie della mola era una scanalatura che faceva accostare la farina macinata ai bordi della mola in modo che poi scendesse.

   Un molino ben attrezzato macinava mediamente tra i due e i tre quintali di grano al giorno, secondo le varie possibilità dell’operatore e dell’immissione dell’acqua. I mulini presso il fiume Tenna avevano a disposizione l’acqua continuativamente in ogni mese dell’anno, grazie alla portata per lo più sufficiente del fiume Tenna, mentre il fiume Ete soffriva sistematicamente la discontinuità per la siccità estiva. La gente di passaggio arrivava dal mugnaio, anche senza portare grano, in qualsiasi giorno, semplicemente per soffermarsi a discorrere sulle recenti notizie, per scambiarsi opinioni sui lavori della gente e, all’occasione, la “vergara”, moglie del “molinaro”, preparava e serviva le focacce.

    L’industrializzazione del secolo XIX ha recato radicali trasformazioni nel metodo e nei mezzi della molitura con nuovi meccanismi, a cominciare dai comuni del Nord, per arrivare a diffondersi nel Piceno a metà del ventesimo secolo. Allora alla forza motrice idraulica è subentrata quella elettrica. Pertanto moltissimi molini vennero traslocati, sistemandoli nella periferia dei centri urbani collinari delle Marche, mentre pochissimi mulini idraulici rimasero quasi tutti inattivi.   Chi è attento alle farine sa che sono diverse per grossezza e qualità, come fior di farina, tritello, fecola, cruschetto. Anche i colori delle farine sono vari: bianco, nero, giallo, secondo la varietà delle granaglie scelte.

La famiglia di Valori Giuseppe tenne questo molino belmontese sul fiume Tenna sino al 1902, poi è subentrata la famiglia di Eugenio Carnevali (Carassai 1837- Belmonte P. 1918, già mugnaio a Ortezzano). La moglie Re Brigida (Amandola 1855- Belmonte 1935) è ricordata novantenne quando trasportava la farina con un’asina alle famiglie e ai negozi. Il figlio Antonio (Carassai 1862- Belmonte 1935). Da Antonio il figlio Igino nel 1950 introdusse l’uso dell’energia elettrica per la molitura, poi nel 1956 acquistò il molino elettrificato da Brunelli Quinto esistente nella periferia del centro urbano belmontese, dove i figli Antonio ed Ettore hanno continuato a macinare fino al secolo XXI.

Dino Fattoretta

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Il «Cantico dei cantici» tema della RICERCA nell’amore.

Dio viene a cercare il suo popolo

14. CANTICO DEI CANTICI, SÍR HASSÍRÍM

“CERCARE” NELLA SCRITTURA <l’amore di Dio per il suo popolo>

   Bisogna cercare sempre, notte e giorno, senza sosta. Qui si innesta un nuovo tema: cercare il volto di Dio, che è la sua presenza, la sua misericordia, il suo perdono. Il volto è l’aspetto esterno di una persona, rivela i suoi pensieri, desideri, atteggiamenti, soprattutto quando è in rapporto con gli altri. Dal nostro viso le persone vedono come stiamo: se bene o male, se contenti o meno, se dispettosi o ben disposti. Anche di Dio potremmo dire che ha un volto “iroso” ed uno “splendente, misericordioso”.

   Nel Cantico dei Cantici il tema della “ricerca” è sottinteso nel cap. 1 ove ai vv. 7ss. si dice: “Dimmi, o amore dell’anima mia, dove vai a pascolare il gregge, dove lo fai riposare al meriggio, perché io non sia vagabonda dietro ai greggi dei tuoi compagni”. La Bibbia di Gerusalemme alla nota del v. 7 dice: “Il tema della separazione e della ricerca è in tutta la letteratura amorosa altrettanto o forse più frequente di quello della presenza e del possesso”. Quando si canta l’amore si parla piuttosto della separazione, della ricerca, più che del possesso e della presenza. Questo tema è comune alla letteratura di tutti i popoli: l’uomo o la donna sono colpiti dal fatto che l’altro non c’è e quest’assenza fa sgorgare il canto o il lamento o la ricerca.

   Quando si canta, perciò, si dice che l’amato è lontano, perché quando lui è presente si gioisce. Nei capitoli 3, 1-4; 5, 2-8; 6, 1 del Cantico, il paesaggio è quello di un idillio pastorale, che è una scena campestre di serenità e di pace, un ambiente di respiro, dove non si è costretti da niente, ma c’è libertà. Sono realtà simboliche, che indicano una situazione dello spirito. Al cap. 5, 2 la nota dice “ritorna il tema della ricerca (già iniziato nel cap. l, 7)”. La scena è la stessa del cap. 3, ove i versetti 1-4 formano un tutt’uno col v. 5, il ritornello identico al v. 7 del cap. 2 e al v. 4 del cap. 8. Nel cap. 5 che tratta lo stesso tema degli altri citati, l’ambiente è costituito dalla città e la scena si svolge nella notte. Una ragazza corre nella notte, decisa a trovare il suo amato per portarlo a casa della madre, cosa assai contraria alle abitudini e ai costumi ebraici, tanto da far pensare ad un sogno: gli innamorati si dilettano ad immaginare situazioni irreali, come i nostri sogni.

   Qui l’audacia della ricerca e la volontà di non voler lasciar partire l’amato sono le prove di un amore appassionato. Sempre la stessa nota al v. 2 dice: “Ci sono la notte, la corsa attraverso la città, le guardie, ma il movimento è differente: l’amato sta dietro la porta e vuole entrare, la amata lo stuzzica e oppone pretesti futili, che sono smentiti dalla sua sollecitudine ad andare ad aprire; ma egli è sparito, ella non lo trova”. Cercheremo di capire ora, attraverso la Scrittura, cosa vuol dire tutto questo in rapporto al tema della “ricerca”. Abbiamo già detto che la chiave di lettura di tutto il Cantico è l’amore di Dio verso il suo popolo. Nello sposo è rappresentato Dio, nell’amata il popolo, ognuno di noi il nostro spirito, l’anima, come diceva Origene.

   Per capire il Cantico però, come si diceva che descrive l’arte dell’amore, tutto il nostro cammino verso Dio, in realtà dobbiamo considerare la parola della Scrittura. Il popolo d’Israele concepisce il Cantico dei Cantici sulla base della sua esperienza passata, presente e futura. Il Cantico infatti è anche un libro escatologico, perché proietta verso il futuro, non parla solo del passato: sulla base di ciò che è avvenuto nel rapporto tra Dio e il suo popolo, concepisce tale rapporto col Signore sempre. E’ necessario, allora, lasciarci trasportare dalla parola biblica, per capire il nostro rapporto con Dio e per imparare l’arte dell’amore, cioè, come amare il Signore e come sentirsi amati da Lui. Al v. l del cap. 6 si dice: “Dov’è andato il tuo diletto, o bella fra le donne? Dove si è recato il tuo diletto, perché noi lo possiamo cercare con te?” .

    Un altro aspetto: le donzelle, amiche della sposa, dicono che vogliono cercare anche loro lo sposo; è come se dicessero: se interessa tanto a te, interessa anche a noi. Dice qui la nota: “Altro intervento del coro che prepara la conclusione dei vv. 2 e 3”. Ma dove è andato l’amato? E’ sceso nel suo giardino: il luogo dove si farà trovare. Ma cosa è questo giardino? La nota dice: “Non bisogna ricercare l’amato, egli è presente nel cuore della sposa, che è il suo giardino”. Allora non bisogna più cercare? Qui è il problema: non serve cercare perché è nel cuore dell’amata, nel suo giardino, però non si è ancora trovato.

   La sicurezza dell’amore reciproco è espressa nel v. 3 “Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me”; simile al v.16 del cap. 2 che si esprime in termini più concreti: “Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me, egli pascola il gregge tra i gigli”. C’è un luogo dove è l’amato, ma bisogna cercarlo, è molto vicino, ma la sposa non vi è ancora. Prendiamo ora alcuni testi della scrittura che ci possono aiutare. Questo tema della ricerca di Dio, è uno dei punti fondamentali della religiosità dell’A.T., perché esprime l’essenza stessa della religione in senso biblico; non più noi andiamo verso Dio, ma Lui si avvicina a noi e ci dà la fede che immette in noi un tale desiderio di Lui che si è fatto conoscere, da indurci a cercarLo.

   La religiosità in tutti i popoli è una ricerca di Dio attraverso i suoi segni: anche il creato manifesta Dio. Ma nella religiosità l’uomo si sente come in dovere di fare delle cose, per accattivarsi Dio, qui invece, siamo in un altro contesto, è un altro aspetto della religiosità; Dio attraverso i suoi interventi provoca in noi la fede, allora la ricerca diventa un entrare nella sottomissione a Lui, diventa disponibilità totale dell’uomo nei confronti del Signore. Questo sarà un ‘atteggiamento del credente anche nel N.T. La ricerca di Dio, allora, è legata strettamente a questa sottomissione totale di se stessi a Lui. Allora è chiaro che comprende la piena rottura con ciò che non permette una tale ricerca.

   Per questo essa è spesso un ritorno a Dio dalle varie situazioni di peccato, di lontananza. In Es. 33, 7, il verbo ricercare è nascosto sotto il termine consultare, che vuol dire “cercare la sua volontà”. Mosè, ad ogni tappa, prendeva la tenda della riunione e la piantava fuori del l’accampamento. Ad essa si recava chiunque voleva consultare il Signore. La tenda era come un padiglione, un luogo di convegno, e vi erano i segni della presenza di Dio: chiunque voleva cercarLo, doveva uscire e dirigersi verso la tenda, il verbo qui usato è ‘daras’.

   Oggi noi sappiamo che Dio “ha posto la sua tenda in mezzo a noi”. Dice la Parola: “Dio, nessuno l’ha mai visto, ma il Figlio unigenito, rivolto verso il Padre, Lui ce lo ha fatto conoscerete, lo ha rivelato”. L’umanità di Gesù, la sua parola che sono i suoi segni, i suoi miracoli la sua umanità risorta, sono il luogo della presenza di Dio, la sua Shekinà, la sua presenza in mezzo a noi, la sua parola fatta carne. I giudei questo non potevano capirlo, per loro c’era un luogo dove era presente Dio. Noi però sappiamo che il Signore è presente in Gesù, sua Parola, nella Scrittura, nei sacramenti, in Cristo risorto ed asceso al cielo. Questo per noi fonda tutta la realtà dei sacramenti e del Corpo Mistico che è la Chiesa.

   Per gli ebrei andare verso la tenda per studiare Dio significava studiare la Scrittura, perché c’è una presenza di Dio nella Bibbia. Infatti dicono così in Palestina: “Se vuoi vedere la faccia della Shekina in questo mondo, studia la toràh” E i rabbini dicono che Dio è più vicino in ognuno. C’è un testo rabbinico che dice: “Nel luogo che il mio cuore ama, i miei passi mi conducono; se tu vieni nella mia casa, io verrò nella tua”, siccome è detto “in ogni luogo dove io commemorerò il mio nome verrà verso di te e ti benedirò. Dove farò memoria del mio nome io sono là, dove sta il nome di Dio io sono là”.

   E’ il tema della abitazione trattato da Giovanni. I discepoli chiesero a Gesù dove abitava e Lui rispose: “Venite e vedete” e precisa l’evangelista: “quella sera rimasero con Lui”. Dice ancora la parola del Vangelo: “Dove sono due o tre, riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Ecco il luogo della sua presenza. Vedete che ci sono vari sensi del tema “cercare”, tutti molto interessanti e che ci abituano a risvegliare in noi il desiderio. Pensiamo anche a quello che dice la Regola di San Benedetto per chi entra in Monastero. Si richiede il discernimento da parte dell’abate, per vedere se colui che vuole entrare cerca veramente Dio. San Benedetto dice questo anche in rapporto alla vita monastica del suo tempo, perché vedeva che c’erano anche coloro che volevano entrare in monastero non per cercare Dio, ma per altri motivi, per questo non permetteva loro di entrare.

   Sia l’A.T. che il N.T. ripropongono il tema: “cercare il regno di Dio, tutto il resto verrà dopo”. Se uno non ha una ricerca sincera fin dall’inizio, se non sa cosa veramente cerca e vuole, non è adatto per la vita monastica, il suo non è un atteggiamento corretto. San Benedetto risente molto dei Padri attraverso i quali ha amato anche la Scrittura leggendola, sia amando e studiando la tradizione. Per lui la Parola biblica ha il significato che la tradizione gli ha conferito e riconosciuto. Questo mi sembra vero e giusto.

   Un testo del Turbessi parlando della ricerca di Dio nei primi secoli propone un excursus molto ampio. Nella Bibbia, particolarmente nell’Antico Testamento, l’espressione frequentissima “cercare Dio” non designa il movimento della ragione verso la conoscenza della esistenza di Dio, ma piuttosto la adesione cordiale del cuore, della volontà umana a quella dell’Onnipotente, adesione che si traduce in pratiche di vario tipo, di molteplici significati religiosi: la preghiera, la legge, la volontà di Dio. I Padri dicono che la preghiera è la concretizzazione della ricerca di Dio, perché prepara alla recezione dello spirito, che scende nell’anima.

   Sant’Agostino è l’autore che ha più approfondito questo tema; quando spiega il versetto del Salmo “cercate sempre il Suo volto” dice che quando Lo vedremo “faccia a faccia”, tale quale è, ci occorrerà ancora di cercarLo senza fine, perché Dio deve essere amato senza fine. In fondo il tema della ricerca è l’amore. Se diciamo ad una persona di non cercarla, equivale a dirle “non ti amo” perché quando si ama, si cerca anche colui che è presente affinché non si allontani. Quando si ama qualcuno, persino quando lo si vede, si vuole che resti presente sempre, si cerca cioè che non se ne vada. Questo, indubbiamente, significa “cercare sempre il suo volto”. Il fatto di trovare non costituisce la fine della ricerca, che caratterizza l’amore, ma col crescere di questo, aumenta la ricerca del diletto trovato.

   C’è un testo bellissimo delle Confessioni, di cui leggiamo solo una piccola parte tratta dal cap. X: “… Ciò che sento in modo non dubbio, anzi certo, Signore, è che ti amo. Folgorato al cuore da te mediante la tua parola, ti amai, e anche il cielo, e la terra e tutte le cose in essi contenute, ecco, da ogni parte, mi dicono di amarti, come lo dicono senza posa a tutti gli uomini, affinché non abbiano scuse. Più profonda misericordia avrai di colui, del quale avesti misericordia, userai misericordia a colui, verso il quale fosti misericordioso. Altrimenti cielo e terra ripeterebbero le tue lodi a sordi. Ma che amo, quando amo te? Non una bellezza corporea, né una grazia temporale; non lo splendore della luce, così caro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene d’ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra accette agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio Dio: la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, ove olezza un profumo non disperso dal vento, ove è colto un sapore non  attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Tutto questo io amo, quando amo il mio Dio. E che cos’è? L’ho chiesto alla terra, ed essa mi ha risposto: “Non sono io”; ed ogni cosa che si trova su di essa ha ripetuto la medesima confessione. L’ho chiesto al mare, agli abissi e ai rettili con anime viventi e mi hanno risposto: “Noi non siamo il tuo Dio; cerca al di sopra di noi”. L’ho chiesto ai venti che soffiano, e tutta l’atmosfera con i suoi abitanti mi ha risposto: “Anassimene s’inganna: io non sono Dio”. L’ho chiesto al cielo, al sole, alla luna e alle stelle: “neanche noi siamo il Dio che tu cerchi”, rispondono. L’ho chiesto a tutti questi esseri che stanno intorno al mio corpo: “Parlatemi del mio Dio; poiché voi non lo siete, ditemi qualche cosa di lui”. Ed essi esclamarono a gran voce: “è lui che ha fatto noi”. La mia richiesta era la mia riflessione, la loro risposta era la loro bellezza. Mi rivolsi poi a me stesso e mi chiesi: “Tu chi sei?”. E mi risposi: “Un uomo”. Ed ecco che ho a disposizione un corpo e un’anima: esteriore l’uno, interiore l’altra; a quale dei due dovrei chiedere del mio Dio? Con il corpo lo avevo già cercato in terra e in cielo, dovunque potei inviare come messaggeri i miei occhi. Meglio, dunque, con l’anima. A lei come a chi presiede e giudica riferivano tutti i messaggeri del corpo le risposte del cielo, della terra e di tutto ciò che è in essi: “Non siamo Dio”, e “E’ lui che ci ha fatti”… Come devo dunque cercarti Signore? Quando cerco te o mio Dio, io cerco la felicità della vita. Ti cercherò affinché viva l’anima mia. Quanto ho spaziato nella mia memoria per cercarti, o Signore; non ti ho trovato fuori di essa. Infatti non ho trovato nulla di te che non mi ricordassi, da quando ti ho conosciuto; poiché da quando ti ho conosciuto non ti ho più dimenticato”. Ti cerco perché c’è una memoria che mi porta a ricordarmi di te: le cose che hai fatto mi spingono a cercarti ancora. La facoltà dell’anima con cui si può cercare Dio è la memoria che non ha niente a che fare con quella con cui ricordiamo le date, le cose, e altro.”

   La memoria per Sant’ Agostino vuol dire che noi sappiamo che Dio ha agito e ne conosciamo i fatti che niente ci fa dimenticare. “Dove ho trovato la verità, lì ho trovato il mio Dio, la Verità stessa, di cui non mi sono dimenticato dal giorno in cui l’ho conosciuta. Da allora tu dimori nella mia memoria, e lì io ti trovo quando ti ricordo e gioisco in te. Questa è la santa gioia che tu mi hai misericordiosamente donato volgendo il tuo sguardo alla mia povertà…. Ma dove ti ho trovato, per poterti conoscere? Tu non eri nella mia memoria già prima che ti conoscessi; e allora, dove ti ho trovato per conoscerti, se non in te, al di sopra di me? Tu non hai un luogo: ci allontaniamo, torniamo, e non hai un luogo. Tu, Verità, siedi alto su tutti coloro che ti consultano, e rispondi contemporaneamente a tutti, anche se le domande sono diverse. Tu rispondi chiaramente, ma non tutti capiscono chiaramente. Ognuno ti consulta su ciò che vuole, ma non sempre si sente rispondere come vorrebbe. Servo fedele non è tanto chi bada a sentirsi dire da te ciò che vorrebbe, ma piuttosto chi si sforza di volere quello che da te si è sentito dire. Tardi ti ho amato, Bellezza tanto antica e tanto nuova; tardi ti ho amato! Tu eri dentro di me, e io stavo fuori, ti cercavo qui, gettandomi, deforme, sulle belle forme delle tue creature. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi tenevano lontano da te le creature che, se non esistessero in te, non esisterebbero per niente. Tu mi hai chiamato, il tuo grido ha vinto la mia sordità; hai brillato, e la tua luce ha vinto la mia cecità; hai diffuso il tuo profumo, e io l’ho respirato, ed ora anelo a te; mi hai toccato, e ora ardo dal desiderio della tua pace”.

   Commentando poi il salmo 41: “Come la cerva anela”. sant’Agostino chiarisce molto bene cosa vuol dire anelare a Dio, desiderarlo. Spiegando il versetto 4b: “Dov’è il tuo Dio?”. Sant’Agostino afferma: “se mi dice ogni giorno dov’è il tuo Dio e il pagano mi rivolge questa domanda, posso anch’io dirgli: “dov’è il tuo Dio?” Egli infatti mi mostra con il suo dito il suo Dio (la statua), tende il dito verso una qualche pietra e dice: “ecco il mio Dio”. Poiché ho udito le parole “Dov’è il tuo Dio?”, ho cercato il mio Dio per potere non solo credergli, ma anche un po’ vederlo…”. L’anima cerca di comprendere ciò che è Dio in modo da non essere insultata da coloro che dicono: “Dov’è il tuo Dio?”. Cerca la verità immutabile, la sostanza che non viene mai meno, l’anima non è così, perché viene meno e progredisce, sa e ignora, si ricorda e dimentica, ora vuole ora non vuole. Questa mutevolezza non si trova in Dio, se dicessi che Dio è mutevole mi insulterebbero coloro che mi dicono dov’è il tuo Dio?” Io cerco il mio Dio in ogni essere corporeo, ho meditato tuttavia sulla ricerca di Dio desiderando intravedere gli attributi invisibili del mio Dio con l’intelletto, attraverso le cose create, effondo sopra di me l’anima mia e più non mi resta che conoscere se non Dio stesso, perché ivi è la dimora del mio Dio, al di sopra dell’anima mia, lì egli abita, di lì egli mi guarda, di lì mi ha creato, di lì mi governa, di lì mi consiglia, di lì mi trascina”.

   Dio, per Sant’Agostino, che è un maestro in questo, sta nell’interiorità. La ricerca è interminabile, ciò è interessante perché costituisce il fondamento del cammino monastico-cristiano. Voi quindi siete i veri teologi, si perché la teologia è la “ricerca di Dio” è la “fides” è la “fede” che cerca la sua comprensione”.

                Don Raffaele Canali (†)

Digitazione A. Vesprini

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