CURIOSITA’ storiche di Fermo e del Fermano edite da Gabriele Nepi nel 1996

parte prima fino a tuto il secolo XIV (altro in seguito)

CURIOSITA’ STORICHE DI FERMO E DEL FERMANO  di Gabriele NEPI. Fermo 1996

<con abbreviazioni>

Anni dell’epoca avanti Cristo anni si calcolano dagli antichi ai recenti

Secolo X a.C. – E SI FORMARONO I PICENI popolo forte e civile

La pagina più genuina della nostra storia del Fermano è stata la venuta dei Piceni. A Monterubbiano si commemora la sagra di Sciò la Pica, che si celebra il giorno di Pentecoste, e viene celebrata con tutta la magnificenza della memoria del passato, con tutto l’entusiasmo di sempre. A Monterubbiano si danno ideale convegno i Piceni che provennero da ogni parte della regione, dell’Italia e dell’Oriente. Tornano con i figuranti a rivedere la culla della loro origine.

Una tradizione dice che vennero gli antichi piceni della Sabina, guidati da un picchio. Attraversarono la faglia di Arquata; sciamarono lungo il Tronto e si diressero a nord e a sud di esso, ponendo ivi le loro dimore. Così nacquero Firmum Picenum, Potentia, Interamnia (Teramo). Atri, Asculum Picenum, e altro. I nuovi venuti adempivano al voto di “Primavera Sacra”. Una pleiade di autori classici, greci e latini, parlano di essa: sono Strabone, Eusebio di Cesarea, Diodoro Siculo, Tito Livio, Silio Italico, Festo Rufo, Paolo Diacono, inoltre Orazio, Giovenale, Marziale e altri. quasi tutti vissuti prima di Cristo. Popolo valoroso e guerriero, tenne testa e più volte, a Roma specialmente durante la Guerra Sociale di oltre 2000 anni fa. La loro civiltà fu splendida: la loro presenza culturale, stupenda; la loro arte, meravigliosa! Mentre scriviamo, non possiamo non pensare ai reperti piceni che fanno conoscere aspetti sconosciuti di tale civiltà.

A Monterubbiano, antico centro piceno, nella sagra garriscono sulle torri i vessilli ed orifiammi, in un tripudio di sole, di colore, di canti, mentre il clangore delle chiarine, gli squilli delle campane, il rullo dei tamburi conferiscono alla celebrazione, mista di sacro e profano, un entusiasmo possente ed eloquente, una esaltazione della nostra stirpe. Le quattro corporazioni (Bifolchi, Mulattieri, Artisti, Zappaterra), sfileranno nei loro variopinti paludamenti, su focosi destrieri, accompagnati da splendide dame e damigelle ..

     “Poiché Iddio potente viene placato con l’omaggio ed il culto dei Santi, e poiché per intercessione della beata Vergine del Soccorso la nostra Monterubbiano continui ad essere assistita dalla fortuna, cresca in dimensione, aumenti in prosperità, stabiliamo che, annualmente, arrivando la festa, i Magnifici priori, insieme al Podestà, provvedano a rendere noto nelle località consuete e con le modalità solite che tutti, sia maschi che femmine, si raccolgano nella piazza di Santa Maria dei Letterati, per poi procedere in solenne processione alla volta di Santa Maria del Soccorso insieme con i magnifici Priori, Podestà, i Salariati, i Sacerdoti, i ‘Chierichi’ e i loro pari grado. E un Monterubbiano d’Argento sia portato da un famiglio ed ognuno porterà le candele accese che verranno date in elemosina a S. Maria del Soccorso”. Così i patrii Statuti!

     Andando a Monterubbiano ad assistere a Sciò la Pica ritorniamo alle sorgenti, alle fonti primigenie della vita, alla georgica contemplazione della Natura. Gli spiriti degli antichi nostri padri, aleggeranno all’intorno, rievocando la loro venuta, guidata dal Picchio che diede il nome alla Regione: Piceno.

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Anno c. 752 a.C.LUCIO TARUZIO DATA il Natale di Roma

      “Sole che sorgi libero e giocondo / sul colle nostro i tuoi cavalli doma / Tu non vedrai nessuna cosa al mondo / maggiore di Roma”.

     Così si cantava un tempo con “nostalgia” di “classicismo”, perché tale inno  è opera del poeta latino Orazio vissuto ventuno secoli fa. Lo ricordiamo o in occasione della ricorrenza del 21 aprile, Natale di Roma.

     Attualmente si usa datare dalla nascita di Cristo; ma nell’antichità il tempo era scandito in vari modi: dalle Olimpiadi, che cadevano ogni 4 anni; c’erano poi gli anni del Consolato; l’era di Diocleziano; l’era della fondazione di Roma; le indizioni e altro.

Nel periodo prima di Cristo, gli storici datavano fatti ed eventi ab Urbe condita, cioè dalla fondazione di Roma, avvenuta nel 753 avanti Cristo. Nel fissare tale data, un nostro “concittadino” fermano, Lucio Taruzio, svolse il ruolo più importante. Già Catone il Vecchio si era interessato di fissare il giorno della nascita di Roma, facendolo risalire al 752 a.C.; Varrone, con l’approvazione di illustri storiografi, quali Plinio il Vecchio, Tacito, Dione ed altri, la fissò al 21 aprile, su indicazione di Lucio Taruzio.

     Ce lo dice Plutarco nella “Vita di Romolo”, scritta in greco, ove si dice anche che il natalis urbis si identificava con la festa delle Palilie. Chi toglie ogni dubbio  è nientemeno che Marco Tullio Cicerone, il quale nel libro 2, cap. XLXVII del De divinatione, dice testualmente: “Pure Lucio Taruzio di Fermo, amico nostro, uomo molto erudito nelle arti d’astrologia, faceva derivare il giorno natalizio della città, dalle feste di Pale. Si narra che Romolo la fondò durante tali feste. Taruzio affermava che Roma venne fondata quando la luna era nella costellazione della Bilancia e non esitava a cantare le imprese del fondatore”.

     Successivamente, con Dionigi il piccolo, si incominciò a datare partendo dalla nascita di Cristo; anche se i calcoli su tale data non sono perfetti, tuttavia è adottata universalmente.

     Particolare curioso: l’era della fondazione di Roma, usata dagli storici, non venne adoperata dai Romani nella datazione di leggi ed atti pubblici, ma soltanto nelle liste e nei fasti consolari. A Fermo, una via dedicata a Lucio Taruzio. ricorda ai posteri colui che fissò al 21 aprile il Natale di Roma, caput mundi.

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Anno 536 a.C. – I FERMANI A SCUOLA DI PITAGORA nella Magna Grecia

     A settembre, nel ricominciare l’anno scolastico; si “torna al lavoro usato”. Ovunque si respira aria di studio e di cultura. Fermo, “città degli studi” e “degli studenti”, ogni mattina è invasa da folle di giovani e si perpetua così una tradizione di apprendimento e di cultura, viva sin dal sec. VI avanti Cristo.

     Lo scrittore greco Diogene Laerzio (III sec. d.C.) nella sua poderosa opera: “Vita e sentenze dei più illustri filosofi e compendio breve delle opinioni di ciascuna setta”, afferma che durante la 60a Olimpiade, cioè 536 anni prima di Cristo, nella Magna Grecia, a Crotone, affluivano cittadini di varie parti d’Italia per imparare da Pitagora (allora trentacinquenne) la filosofia, le lettere greche e la medicina. Fra essi vi erano dei cittadini di Fermo (Vita di Pitagora, libro 8). Ciò è confermato da Giacinto Gimma in “Idee della Storia dell’Italia Letterata” (1723).

     A tali Fermani interessava la conoscenza della filosofia e, ovviamente, della lingua greca, talché poi a Roma si parlavano e scrivevano correttamente sia il greco che il latino. Vos exemplaria graeca nocturna versate manu versate diurna, dirà poi Orazio nell’Arte Poetica: consultate notte e giorno i modelli greci!

     Dell’apprendimento e della conoscenza del greco, sono rimaste tracce nel dialetto del contado fermano, dovute ai traffici commerciali con la Grecia e la Magna Grecia (sud Italia) e per la tradizionale conoscenza bilingue (greca e latina) dei Fermani. Così abbiamo ‘mattara’ (madia) dal greco mattra; ‘gramarò’ (mestolo) dal greco cammaros; cuturnu (stivale) da còtornos; fratte (siepi) da frattei; naulu (noleggio) da naulos; téca (baccello): una téca (de fava oppure di piselli) da teke; fitturu (legno per far buchi nel terreno per piantagioni) da fiteuo, cioè piantare, etc. Ciò per non parlare delle voci dotte di cui è piena la nostra lingua: ritmo: greco: rithmos; prosopopea gr. prosopopia; ittico ( ictùs: pesce) etc.

     Anche nello Studìum Generale di Fermo, fondato nell’anno 825 da Lotario I, era in auge lo studio del greco. Qui si dovevano recare per studiarlo tutti quelli del Ducato di Spoleto, oltre che dalla Marca Fermana. Tale Studìum, potenziato nel 1398 ed elevato al rango di vera e propria università (quando le odierne università di Urbino, di Camerino, Macerata non erano ancora nate) tenne in auge lo studio del greco e ciò fino al 1827. Oggi a Fermo prosperano due licei classici, “A. Caro” e “Paolo VI”, parificato e, nonostante certi ostracismi governativi, in tutta Italia la lingua greca… prospera.

     Gli studenti che si cimentano nelle scuole fermane nell’apprendimento della lingua greca, sappiano che le radici di tale studio risalgono a Pitagora, quello che ci ha fatto tribolare con la Tavola Pitagorica e col Teorema che un mio professore di matematica aveva così formulato: “Per consolarti il cuore la scienza ha la sua musa. / Pitagora ti dice con me con me ripeti / Il quadrato costrutto sopra l’ipotenusa / è somma dei quadrati costruiti sui cateti”.

     Non era certo un’ode o una anacreontica, ma serviva per ricordare…

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Anno c. 220 a. C. – COLLI DI ANTICHE ANFORE frantumete

   In estate i turisti e villeggianti dei campings che costellano la nostra riviera, da Porto Sant’Elpidio a Cupra Marittima. Molti usano recarsi a visitare luoghi antichi, come a vedere la chiesina romanica del Manù a Lapedona. Proprio nella zona del Mirage (Fosso S. Biagio) il sottosuolo è pieno zeppo di anfore romane. Già dal tempo di Augusto (se non prima) esistevano qui delle fornaci. Gli sbancamenti di terra, operati dalle ruspe quando è stata costruita l’autostrada, hanno portato alla luce parte dell’area archeologica. Dal lavoro di livellamento dei mezzi meccanici, affiorarono per largo tratto numerosissime anfore vinarie “scapitozzate” con incise c.lu ply, marchio della “impresa” o famiglia Poli. Intorno, resti di focolari di cottura. Ne furono scavate oltre cento; stavano tutte bene allineate, dalle anse eleganti, piede ad imbuto rovesciato per fissaggio sulle navi da trasporto. Zona archeologica quindi, quella vicina a San Biagio e componente non trascurabile di turismo culturale che si va affermando, perché il villeggiante, oltre al mare, al sole ed al paesaggio, vuole conoscere, vuole imparare. Qui la cultura che spazia verticalmente e orizzontalmente: nel sottosuolo anfore; in alto, i resti della chiesa e del castello di San Biagio; sopra il camping Riva Verde, dove sorgeva la chiesa farfense di Sant’Angelo Vecchio; e nel centro di Altidona, il castello di Garzania, nomi scritti nelle porte di bronzo della Basilica di Montecassino. Ma c’è di più.

     Procedendo verso sud, verso Pedaso, sempre in territorio di Altidona (che sulla costa si estende dal fiume Aso al Fosso di S. Biagio), nell’area dove sorge ora Altidona Marina, fu rinvenuta nel 1900 una statua di Esculapio di fattura greca, risalente al III secolo avanti Cristo, ora “emigrata” in Francia. Poco sopra, in località Villa Montana prospiciente il mare, si ammira tuttora una costruzione romana a seminterrato. Sembra servisse per la conservazione delle derrate alimentari al tempo delle guerre puniche. Tutt’intorno vennero alla luce anfore, suppellettili ed oggetti vari, di epoca romana ed alcune lapidi riportate da Teodoro Mommsen nel volume IX delle sue Inscriptiones stampato a Berlino nel 1883

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Anno 217 a.C. – ANNIBALE SI RIPOSO’ nel litorale Piceno

     Era il 21 giugno del 217 avanti Cristo! Oltre 2200 anni! Tale data ce la indica Ovidio nei Fasti, dove si parla della battaglia e della sconfitta romana al lago Trasimeno.

     Era una mattina nebbiosa; presso il Trasimeno 40.000 Cartaginesi accerchiarono ed annientarono il romano Flaminio ed il suo esercito, avventuratisi sconsideratamente, e contro il parere dei tribuni, in un terreno che era circondato intorno da truppe cartaginesi. I Romani attaccati in testa, di fianco e di spalle, non ebbero modo di difendersi e ne seguiva un’orrenda carneficina. “I caduti romani furono oltre 10.000 e molti prigionieri” racconta Tito Livio. Fra i caduti, lo stesso comandante Flaminio. trafitto dalla lancia di un soldato gallo di nome Ducasio. I Cartaginesi lasciarono sul campo solo 1.600 fra morti e feriti. La vittoria punica era schiacciante!

     Tale battaglia ci interessa per il fatto che Annibale, anziché dirigersi verso Roma, come era da prevedere, venne nel nostro litorale del Piceno: “Annibale si diresse verso il Piceno, dov’era abbondanza ogni bene di ghiotta preda di cui avidamente si impadronirono le sue truppe”. Così Tito Livio (A.U.C. XXII) e Polibio Storie, lib. III, 85). Il viaggio durò 10 giorni, perché i Cartaginesi a stento riuscivano a trasportare il bottino di cui si erano impadroniti. “Giunte le truppe nel litorale Piceno, Annibale le fece riposare: ristorò i soldati con cibi squisiti e con del vino vecchio, di cui tale era l’abbondanza che ci lavò persino le zampe dei cavalli per guarirli dalla scabbia” (Polibio, ivi 88).

     Secondo una consolidata tradizione e secondo le indicazioni di Tito Livio e Polibio, l’area di sosta di Annibale doveva essere tra Cupra e Potentia. Lo ricorda il toponimo “Campo di Annibale” che fa eco alle “Gorghe di Annibale”, toponimo che indica il luogo dello scontro al Trasimeno. I Cartaginese sostarono in una vasta area territoriale che corrisponde alla fascia marittima della attuale Diocesi di Fermo. E dal Piceno Annibale spedì navi a Cartagine per annunciare la vittoria; in quel tempo qui era attrezzato solo il Navale Firmanum. Polibio scrive che “Annibale si mosse a piccole tappe attraverso le terre Pretuziane <Teramane> e la città di Atri. Poi i Marruccini ed i Frentani…”. Il viaggio ebbe inizio dalla nostra zona.

Dopo questo trionfo e quello dell’anno successivo a Canne, Annibale verrà sconfitto dai Romani a Zama (202 a.C.).

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Anno 216 a.C. – MORIRONO DA EROI A CANNE per essere fedeli a Roma

     I corpi dei soldati caduti giacevano inerti, sparsi ovunque sul campo di battaglia ed il sole dardeggiante ne favoriva la celere decomposizione. La località presentava un aspetto apocalittico. I Cartaginesi, vincitori, si aggiravano per il campo cercando di individuare qualche commilitone caduto. Siamo a Canne all’indomani della famosa battaglia. Nella pianura, il 2 agosto 216 a.C. si era svolta la famosa battaglia.

     I Romani, forti di 80.000 fanti e 4.000 cavalieri (alleati compresi), si erano scontrati con il Cartaginesi il cui esercito consisteva in 40.000 fanti e 10.000 cavalieri. Al loro comando, c’era il terribile Annibale. I Romani erano comandati dai consoli Marco Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo. Il genio militare di Annibale rifulse ancora una volta: con una mossa a tenaglia, aveva circondato le truppe romane facendone un’orrenda carneficina. I morti romani ed alleati erano 25.000 (Polibio però parla di 70.000; Tito Livio di 45.000); i prigionieri diecimila. I Cartaginesi ebbero soltanto 6.000 morti.

     Fermo ed il Fermano in tale periodo storico ebbero una parte non certo di secondo piano. Già nella prima guerra punica avevano fornito marinai per la flotta di Caio Duilio ed Attilio Regolo. Ora, nella seconda guerra punica, mentre varie colonie latine si erano rifiutate di inviare contributi in truppe e denaro, Fermo fu tra le diciotto colonie che inviarono sostanziosi aiuti, opponendo a sua volta fiera resistenza ad Annibale sceso nel Piceno. E di ciò fa fede Tito Livio (XXVII, 10). Alla battaglia di Canne erano presenti i soldati Fermani che si batterono a fianco di Roma; oltre a loro altre truppe Picene. Ce lo ricorda Silio Italico, poeta latino, il quale ci descrive una fase della famosa battaglia… “Curione tremendo per le squame e la cresta equina… sprona gli abitanti della terra Picena. Qui vedi i coltivatori dei campi della sassosa Numana e quelli i cui altari fumano nel litorale di Cupra, nonché quelli che difendono le torri sul fiume Tronto. Sta in armi Ancona, celebre come Sidone nel tingere la porpora. Sta in armi Atri, bagnata dal Vomano e lo spietato portabandiera Ascoli… Una volta, come narra la tradizione, la terra era dominata dai Pelasgi sui quali regnava Asi, che lasciò il nome al fiume e da lui i popoli vennero detti Asili”. Chiaro riferimento al fiume Aso e non, come taluno vuole, all’Esino che definiva soltanto il confine nord del Piceno. Dalle varie località del litorale, dove fumavano gli altari per i sacrifici offerti alla dea Cupra, partirono per Canne soldati Piceni a combattere a fianco di Roma e morirono da eroi sul campo per mantenere fede all’alleanza romana. Da allora venne coniato il motto Firmum firma fides Romanorum Colonia: Fermo ferma fedeltà colonia dei Romani.

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Anno 191 a. C. – IL VALORE DEI FERMANI alla battaglia delle Termopili.

     “… E sul col dell’Antela, dove morendo / si sottrasse da morte il santo stuolo / Simonide salìa… Beatissimi voi / che offriste il petto alle nemiche lance / … voi che la Grecia cole e il mondo ammira.”

     Così il nostro Leopardi, celebrando l’eroismo di Leonida e dei 300 Spartani, immolatisi alle Termopili, combattendo contro lo sterminato esercito di Serse.

Nei secoli risuona: “O viandante va’ e annuncia a Sparta, che noi siamo qui morti per obbedire alle sue leggi”.      Tali leggi, infatti, non consentivano al soldato, impegnato nella difesa di una posizione, di ritirarsi per aver salva la vita. Era il 480 avanti Cristo!

      Ma la località  Termopili fu teatro di un successivo scontro, nel quale rifulse il valore dei Fermani, contro l’esercito di Antioco III, Re di Siria. Questi, alla testa di un potente esercito (c’erano anche elefanti e poderose macchine da guerra) attaccò i Romani, inferiori di numero e di mezzi. L’esercito romano che era comandato dal Console Acilio Glabrione, coadiuvato dai tribuni Lucio Valerio Fiacco e Marco Porcio Catone, doveva mandare avanti un “commando” per conquistare un valico strategico. Era impresa altamente rischiosa e difficile. Per riuscire, occorreva un ardito colpo di mano. Conoscendo il valore e l’audacia dei Fermani che militavano nel suo esercito, chiamò a sé un reparto di essi e tentò l’impresa.  Sentiamo cosa lo narra nelle Vite Parallele lo storico greco Plutarco, vissuto al tempo di Traiano: Chiamati a sé i Fermani di cui conosceva la virtù e il valore, disse loro: “Desidero avere vivo un soldato nemico per sapere quanti sono, quale la loro strategia, il loro armamento”. Catone aveva appena detto ciò, che i Fermani si precipitarono nell’accampamento avversario, seminando terrore e mettendo in fuga i nemici.

     Presero un soldato e lo condussero a Catone. Questi fornì utili informazioni sulla consistenza nemica. Grazie al colpo di mano dei Fermani, i Romani vinsero. Antioco fuggì lasciando sul campo numerosi morti e feriti. Moltissimi furono i prigionieri: del suo esercito di oltre 8.000 uomini rimasero solo 500 soldati.

Altri eventi bellici ebbero luogo alle Termopili: uno nel 279 a.C. la battaglia fra Greci e i Galli di Brenno; altro nel 1821, durante la guerra per l’indipendenza della Grecia 18.000 Turchi sono sconfitti da soli 2.500 Greci; altro ancora, nel 1941 si combatte fra Tedeschi e Anglo-Greci con la vittoria dei primi. Ma su tutti i fatti d’arme, spicca la memoria dell’eroismo di Leonida ed il valore di quel pugno d’audaci, tutti Fermani, la cui impresa fu determinante per la vittoria romana.

     Da quell’anno 191 a.C. sono trascorsi oltre 20 secoli. Da allora, brilla la gloria dei Fermani. La storia ne ha tramandato la fama attraverso i secoli, fama che – sebbene in misura diversa – “ancor nel mondo dura / e durerà quanto il mondo lontana” (Inferno, II, 60).

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Anno 89 a. C. -CATILINA E CICERON E il 17 novembre dell’89 a. C.

     Era il 17 novembre dell’89 a.C. Gneo Pompeo Strabone, generale romano, si trovava con quattro legioni all’assedio di Ascoli.

     Si stava per compiere l’ultimo “atto” della guerra sociale, iniziata due anni prima. Gli Italici (Vestini, Marsi, Marruccini, Sanniti, Irpini, Frentani, Peligni) ed Ascoli, erano insorti contro Roma. Essi con forza avevano reclamato la cittadinanza romana e la loro “insurrezione” aveva scopi separatistici ed autonomistici. I Pretuzi, cioè i Teramani non vi partecipavano. Ascoli era isolata all’interno della Regione picena, in quanto Fermo era rimasta fedele a Roma; Ancona si disinteressava.

     Roma inviò subito un esercito al comando di Gneo Pompeo Strabone (padre di Pompeo Magno) per reprimere l’insurrezione e dare una lezione ad Ascoli. La si voleva punire perché aveva scatenato la rivolta. Gli Italici ed i Romani arruolarono subito i rispettivi eserciti, forti di circa centomila uomini ciascuno. Ad un primo scontro, avvenuto presso Falerone (e non a Falerno come erroneamente sostiene qualcuno) le truppe romane furono sconfitte dagli insorti comandati da Gaio Vidacilio, Tito Lafrenio, Publio Ventidio. Strabone ed il suo esercito si rifugiarono a Fermo, circondata d’assedio da Lafrenio. Tale assedio, dalla primavera all’autunno del 90 a.C.

Roma mandò rinforzi che presero gli assedianti alle spalle. Strabone allora tentò una sortita e gli Italici, presi tra due fuochi, o meglio tra tre fuochi, per un incendio fatto scoppiare nei loro accampamenti, fuggirono terrorizzati, lasciando sul campo il loro comandante Lafrenio, ferito in combattimento.

     “Nullo militari ordine carpentes iter” dice lo storico Appiano Marcellino (1, 47) cioè fuggirono in disordine, si rifugiarono in Ascoli e da assedianti passano ad essere assediati. I Romani, infatti, iniziarono l’assedio che durerà circa un anno. Gli insorti opposero lunga resistenza. Ad un certo momento per ingannare i Romani, dislocarono sugli spalti delle mura donne e vecchi per dare ad intendere che erano allo stremo e tentarono quindi, ma senza esito, una sortita. Così narra Frontino (III, 17).

Ma alla fine, Ascoli cadde e il 25 dicembre dell’89 a.C. Strabone celebrò il trionfo de Asculaneis Picentibus cioè sugli Ascolani Piceni. Ma questa vicenda è un fatto significativo della guerra sociale.

Nel 1910 si ritrovò la lamina dell’editto di concessione della cittadinanza romana alla turma salluitiana, cioè ai trenta cavalieri spagnoli che militavano nell’esercito romano all’assedio di Ascoli. Oltre alla cittadinanza, Strabone conferiva onorificenze militari a tale turma.

Vennero fuori oltre ai nomi dei cavalieri spagnoli, anche quelli del consilium cioè dello staff del contingente militare romano.

Vi era nominato innanzi tutto il consul Pompeo Strabone, eletto a tale carica il l2 gennaio dell’89 a.C. con 5 legati, un questore; 16 tribuni militum; 33 equites, cioè cavalieri (in gran parte del Piceno) e 4 centurioni primipili; c’è la data del 17 novembre e in castreis (sic!) apud Asculum cioè negli accampamenti presso Ascoli. Una presenza importante: tra gli equites c’è Lucio Sergio Catilina, che aveva appena 19 anni. Egli passerà poi alla storia, a motivo della famosa congiura (63 a.C.). In tale assedio, oltre Catilina, appartenente alla tribù Tromentina, c’erano anche il figlio di Strabone, il futuro Pompeo Magno appena diciasettenne e Cicerone che poi sventò la congiura di Catilina, di cui parla nella Filippica XII.

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Anno 79 a.C. – PRELIBATI I VINI dell’Ager Picenus 

     Novembre… “per le vie del borgo / dal ribollir dei tini / va l’aspro odor dei vini / l’anime a rallegrar / … La notissima poesia carducciana così descrive il periodo in cui si beve il vino nuovo. Il vino è un elemento che accompagna la vita dell’uomo. Se ne parla nella Bibbia per il sollievo del cuore umano, anche in tanti scrittori antichi e moderni.

     Plinio, morto durante l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., parla di vini d’Italia. Nel libro XIV, IV della sua famosa Naturalis Historia accenna a quelli della costa adriatica: ai vini pretuziani (Teramani), a quelli di Ancona ed a quelli Palmensi.

Andrea Bacci, medico di Sisto V e famoso per l’opera De Naturali Vinorum Historia, de vinis Italiae (Roma 1596, Francoforte 1607), descrive l’area del Fermano come la più ricca di vini gustosi e prelibati. Era nativo di Sant’Elpidio a Mare, si era informato per tutta Italia e l’Europa e non ha dubbi nell’indicare l’area fermana come la zona più ricca di vini a cominciare da Ripatransone, Acquaviva, Montegiorgio, Santa Vittoria in Matenano, Montelparo, Montegranaro, Magliano, ma soprattutto Falerone i cui abitanti durante le invasioni barbariche si rifugiarono a Cupra Montana portandovi i loro vitigni. Oggi Falerone è la capitale del vino Falerio!

     Ma c’è di più: l’imperatore Diocleziano, morto nel 313 d.C., emanò un editto che altro non è, se non il calmiere dei prezzi degli alimenti, delle merci di lusso, dei compensi per prestazioni d’opera. Vi sono indicati anche i vini. I più pregiati (d.o.c.) sono il vino rosso piceno (nominato per primo), il Tiburtino, il Sabino, l’Amminneo, il Saitino, il Sorrentino, il Falerno (ne parlano anche Orazio e Varrone). Ebbene dato che l’Ager picenus era a nord del Tesino (Plinio, Naturalis Historia XIII) il vino Piceno era prodotto proprio nella zona del Fermano. Lo stesso Diocleziano (nativo di Spalato) faceva esportare i vini da Civitanova e dintorni per la sua Dalmazia..

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Anno 49 a.C. -GIULIO CESARE VERSO ROMA dal Rubicone al Piceno

     Fiumicino significa torrentello, nome conosciuto nel mondo per il suo aeroporto internazionale: dal 1933 riconosciuto ufficialmente, come l’antico Rubicone. Era la tarda sera dell’undici febbraio del 49 a.C. e Caio Giulio Cesare lo attraversò in armi, ma non ha scritto il nome Rubicone, lo hanno fatto invece altri storici. Ciò significava contravvenire a quanto disposto dal Senato di Roma, che nessuno lo potesse attraversare senza l’espressa sua autorizzazione. Costituiva infatti il confine tra l’Italia propria e la Gallia Cisalpina, confine che in precedenza (II sec. avanti Cristo) – era rappresentato dal fiume marchigiano Esino. Cesare, in dispregio del divieto del Senato, che gli aveva ingiunto di licenziare le truppe, lo attraversò. “Il dado è tratto” echeggia da secoli, anche se Cesare disse: “Il dado sia tratto”. come precisa l’umanista Erasmo da Rotterdam (1466-1536) e lo conferma il testo greco di Plutarco (Vita di Cesare e Pompeo). Un esercito non notevole varcava questo fiume. Erano solo 300 cavalieri e 5.000 fanti. Occupano in successione Pesaro, Fano, Ancona, Osimo e tutto l’Agro Piceno, che gli si sottomette spontaneamente, anzi (come lui narra nel De Bello Civili, I, XV) tutte le “praefecturae” del Piceno lo accolgono con entusiasmo, compreso Cingoli, patria del suo luogotenente Tito Labieno già ricordato.

     Cesare marcia su Fermo, la occupa. Ci narra Cesare stesso che ha preso Fermo ed espulso Lentulo ha ordinato una leva militare e ingrossato ulteriormente l’esercito, cui, nel percorso si erano aggiunti molti volontari, poi si dirigeva su Castro Truentino e quindi in Ascoli. A confermare la presa di Fermo ci dà una mano Marco Tullio Cicerone. Egli nel libro (VIII, 12) delle Lettere ad Attico riporta un passo della lettera di Pompeo al proconsole Domizio: “Hai avuto notizia che Giulio Cesare dopo essere partito da Fermo è venuto a Castro Truentino”.

     In Ascoli, Cesare si trattiene un giorno per fare rifornimento di frumento  (De Bello Civili, 1, XV) e poi prosegue per Corfinio.

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 ||||  Anni dopo la Natività del Cristo |||||

Anno 79 d. C. – PLINIO IL GIOVANE SCRIVE A SABINO: “Sarò avvocato dei Fermani” 

   A Pompei è memorabile il 24 agosto del 79 dopo Cristo, quando un’eruzione seppellì, oltre a Pompei, Ercolano e Stabia. In tale eruzione, morì Plinio il Vecchio, nato a Como nel 23 dopo Cristo ed autore fra l’altro di una poderosa storia naturale (Naturalis Historia), in cui descrive anche il nostro Piceno: Truentum, Cupra, Castellum Firmanorum (oggi Porto San Giorgio) Cluana (Porto Civitanova) Potentia etc. La descrizione di tale morte ce la fece il nipote, Plinio il Giovane che nel suo Epistolario (VI, 16), narra come durante l’eruzione, lo zio Plinio il Vecchio, si trovava nei pressi, in quanto comandante della flotta romana di Miseno e volle rimanere al suo posto per soccorrere i fuggitivi e per osservare da vicino il fenomeno eruttivo. Era un eminente scienziato ed il fenomeno lo interessava altamente. Morì però soffocato dalle ceneri dell’eruzione.

      Ma del Piceno e di Fermo in particolare, si interessò anche il nipote, Plinio il Giovane. Questi era un famoso avvocato ed a lui ricorse Sabino, giureconsulto fermano, pregandolo di difendere Fermo in una causa contro di cittadini di Falerio Picenus, odierno Falerone. Plinio, è lusingato dell’incarico e così scrive, accettando la difesa:

     “Caio Plinio al diletto Sabino, salute! Tu mi preghi di assumere la pubblica difesa di quelli di Fermo: benché oberato da mille occupazioni, lo farò. A dire il vero, desidero rendermi obbligata una illustre colonia col farmi suo avvocato e anche te, rendendoti un servizio che ti sta a cuore. Poiché, se la mia amicizia – come tu dici – ti è di difesa ed onore, niente debbo negarti dato che lo chiedi per la patria. Infatti, che vi è di più onesto che la preghiera di un cittadino? Perciò ai tuoi, anzi più giustamente ormai, ai nostri Fermani, da’ la mia parola d’onore e che questi siano degni delle mie cure e fatiche; me lo impone la loro reputazione e, più ancora, il considerare che devono essere ottimi come lo sei tu. Stammi bene!”.

     Da quanto sopra si evince quanto era famosa Fermo, colonia ornatissima di Roma e importantissima città del Piceno.

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Anno 251 – Santi nella Diocesi Fermana – Molti

Nella solennità di tutti i santi, “scriviamo in sintonia”, mentre si vanno affievolendo o tramontando una serie di valori etici, sociali, civili.

   Ma non possiamo trascurare i santi, che hanno scandito la storia della civiltà, della vita sociale di nazioni e continenti, che hanno salvato la cultura europea. In ogni città, in ogni paese vi è un santo protettore. Fermo e la sua vasta archidiocesi (che è la più grande e popolata delle Marche) annovera molti santi, beati, venerabili, servi e serve di Dio, una sorprendente fùfioritura. La Diocesi venera protettrice principale l’Assunta. Oltre a S. Savino e a S. Claudio, comprotettori della città,  S. Adamo Abate, il cui corpo riposa in cattedrale; S. Alessandro: S. Filippo; il beato Beltramo, venerato a S. Marco alle Paludi: S. Elpidio abate, da cui il nome alla cittadina; S. Fermano, venerato a Montelupone, che fino al 1586 apparteneva alla Diocesi di Fermo; S. Girio. morto a Potenza Picena; S. Gualtiero di Serv igliano; S. Giacomo della Marca, che tanto amò Fermo; il beato Giovanni della Verna, santo fermano che riposa in quel luogo, sacro a S. Francesco; S. Liberato da Loro Piceno; il beato Pellegrino da Falerone: il beato Pietro da Mogliano; S. Marone venerato a Civitanova Marche; S. Serafino da Montegranaro, che riposa in Ascoli; Santa Vissia; Santa Vittoria, che ha dato il nome alla località omonima; S. Nicola da Tolentino, nato a S. Angelo in Pontano, il beato Giovanni da Penna S. Giovanni, e altri.

      Pur di tenerne le reliquie ci furono scontri.  Fermo portò via a S. Elpidio a Mare la Sacra Spina che si conserva ora nella chiesa di S. Agostino. Vi sono altri esempi eclatanti.

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Anno 522- La Regina Amalasunta in cerca di serenità trova rifugio a Fermo

    Tre personaggi famosi nella storia d’Europa e d’Italia, vissuti nel periodo delle invasioni barbariche, hanno caratterizzato quel segmento di storia le cui fasi principali si svolgono a Fermo e nel Fermano. Li presentiamo, cominciando per dovere di cavalleria da una donna: Amalasunta la figlia di Teodorico (454-525) Re degli Ostrogoti; Belisario generale bizantino (505-565); Narsete (478-574) anch’egli generale bizantino.

     Amalasunta aveva sposato il visigoto Eutarico; nel 522 ne rimase vedova e assunse la reggenza del regno in nome e per conto del figlio Atalarico, ancora decenne. Abile e colta, preferiva l’elemento romano a quello goto: per tal motivo i nobili goti le crearono opposizioni e pretesero che il figlio venisse educato alla maniera gotica, anziché romana. Ma Atalarico ben presto morì ed Amalasunta, per garantirsi da ulteriori opposizioni e difficoltà, si associò al trono il cugino Teodato.    

     Questi per sete di potere, dopo poco tempo la fece uccidere in un castello sito presso il lago di Bolsena. Amalasunta, durante la reggenza, aveva stabilito per lungo tempo la sua dimora a Fermo, forse per sottrarsi alle camarille della capitale, forse per godere maggiore serenità. A Fermo fece eseguire molte opere pubbliche, edifici, bagni, e altro.

     Intanto Giustiniano, che da tempo mirava a muovere guerra agli Ostrogoti, prese pretesto dall’uccisione di Amalasunta e, quale imperatore d’Oriente, spedì in Italia Belisario, che dopo aver conquistato varie terre si trovò ad affrontare un formidabile dispositivo difensivo composto dalle fortezze di Perugia, Urbino, Orvieto, Osimo. La flotta venne spostata nei porti dell’Adriatico e i due comandanti Narsete e Belisario unirono le rispettive truppe a Fermo. Ce lo narrano le stupende pagine della “Guerra Gotica” di Procopio da Cesarea, scritte in un limpido greco da cui traduciamo: “Belisario e Narsete con i loro eserciti si riunirono presso la città di Fermo, la quale giace vicina alla costa del Golfo Ionio (Adriatico) ad un giorno di cammino dalla città di Osimo. Colà, insieme a tutti i capi dell’esercito, tennero consiglio sul posto dove meglio convenisse attaccare i nemici…”. Fu deciso di aggirare Osimo e Belisario ordinò che il generale Arasio “doveva restare a Fermo, con un buon nerbo di truppe e qui svernare, badando però che in seguito i barbari. facendo scorrerie a loro piacimento, non molestassero impunemente quei paesi“. L’esercito al comando dei due condottieri Narsete e Belisario, dovette combattere molto, ma alla fine riuscì a conquistare la stessa Ravenna che cadde nel 540. A Fermo e nel Fermano si erano decise le sorti a favore dell’impero romano d’oriente.

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Anno 555 – Invasione di vocaboli con i militari esteri in tempo di guerra

Orazio dichiara che le guerre sono “detestate dalle madri”. Ora, riflettendo, noto che dal tempo di Caino ed Abele ad oggi ci sono state sempre guerre, come attualmente ve ne sono in vari luoghi. Ci sono state guerre durate 30, 100 anni; guerre mondiali con milioni di morti. Una statistica ci fa conoscere che fino al 1860 ci sono stati nel mondo 227 anni di pace contro i 3.357 anni di guerra; in media per 33 secoli: un anno di pace e 13 di guerra. John Carthy e Francis Ebling, ricercatori americani, hanno riscontrato che dal 1820 al 1945 ci sono stati 89 milioni di morti in guerra, di cui 51 nella seconda guerra mondiale. Ecco perché si sospira sempre alla Pace, ecco perché l’annuncio nella grotta di Bethlemme è “Pace”.

     Ma nel corso dei secoli si ebbero scontri armati anche nelle nostre zone. Ci rifacciamo però a quelli avvenuti secoli e secoli orsono. Nel Lido di Fermo, al tempo della guerra gotica narrataci da Procopio, e precisamente nel 538, Narsete e Belisario, generali bizantini, tennero un consiglio di guerra e qui ebbero stanza le truppe bizantine per resistere ai barbari. Da qui a Narsete e Belisario partirono per assediare e conquistare le città della Regione e Rimini stessa, mentre la base militare per le operazioni belliche rimaneva a Fermo. Per dare un’idea delle devastazioni, citiamo un episodio ricordato da Procopio nel De Bello Gothico, che scrisse in greco per narrare le vicende di tale guerra. All’irrompere dei barbari, tutti fuggirono. Ovunque era desolazione e morte. Un bambino rimasto solo in mezzo a tante distruzioni, fu allattato da una capra. Quando, dopo l’uragano dell’invasione, gli abitanti ritornarono alle loro abitazioni, videro dopo mesi e mesi, il bambino vivo e gridarono al miracolo. Lo chiamarono Egisto dal nome greco di capra (aigòs).

     Quello che ci interessa nel periodo di occupazione bizantina (si ricordi che nell’esercito di Narsete v’erano Isaurici, Armeni, Bulgari, Eruli, Traci, Illirici, e altre provenienze.) sono i vocaboli entrati nella nostra lingua e dotta e vernacola. Anzi ci fu un momento che l’assimilazione era tale che tali bizantini scrivevano il latino con caratteri greci.  E le loro parole entrarono nel nostro lessico. Ad esempio parlare da parlacium  luogo dove si parlava e si discuteva. Abbiamo mattara, che nel nostro dialetto è uguale al bizantino Mactra; foglietta che deriva da Fiola; ganascia; brocco, brocca (vaso per acqua e liquidi). ma ciò che più sorprende è il vocabolo ponticana o pentecana per indicare un grosso topo. Deriva da topo del Ponto. Tale vocabolo usato da Montale e che compare anche in elzeviri di quotati quotidiani, è molto usato oltre che nelle Marche, anche nel Veneto, Emilia Romagna e nella Lombardia orientale. Altro vocabolo da non dimenticare e che è tutt’ora vivo nel nostro vernacolo è pantafana. Indica una persona che si presenta od appare spesso. Deriva da bizantino panta= tutto e faino = apparire. E così, le guerre che dividono i popoli, sono spesso amalgama di vocaboli che divengono patrimonio comune di nazioni e continenti.

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Anno 598 – lettere di Papa Gregorio Magno al Vescovo di Fermo Passivo

   ‘Magno’: leggendo troviamo spesso questo aggettivo. Nelle Università ed in genere in istituti di istruzione abbiamo l’aula magna. C’è la cappa magna, veste solenne di dignitari; c’è la pompa magna, la Magna Grecia; la laus magna nelle votazioni di laurea; il mare magnum; la turba magna. Il tutto, per denotare grandezza o potenza. Con magnitudo, si indicar l’intensità, ad esempio, dei terremoti.

E nella storia, abbiamo personalità di spicco a cui i posteri hanno dato l’appellativo di magno. Così abbiamo Alessandro Magno, vissuto nel III secolo avanti Cristo; Pompeo Magno (I sec. a.C.) che combatté a Fermo insieme a Cicerone durante la guerra sociale; Carlo Magno, celeberrimo imperatore, morto nell’814; Gregorio Magno, Papa dal 590 al 604 rifondatore della liturgia e padre del canto gregoriano. Convertì i Longobardi e diffuse il cristianesimo in Inghilterra e nella Spagna. Celebre la sua esclamazione: “Non Angli sed Angeli”. Figura poliedrica, dotto e saggio, protesse i Romani durante le invasioni barbariche, vindice ed assertore di Roma. Carducci con icastica espressione ce lo scolpisce nella “Chiesa di Polenta”. “Quei che Gregorio invidiava (liberava) a servi / ceppi tonando nel tuo verbo, o Roma”.

Gregorio (onorato santo), ebbe ad interessarsi di Fermo e, pur assillato dalle cure del governo della Chiesa e dalla malferma salute, scrisse sei lettere a Passivo, Vescovo di Fermo. Esse ci danno uno spaccato della storia del tempo, delle invasioni longobarde, del perdurare delle leggi romane dopo una fase della calata dei barbari.

La prima è diretta al Vescovo di Ancona. Gregorio: lo invita a sollecitare dal suo diacono Sereno a fare la restituzione degli oggetti in oro ed argento al Vescovo di Fermo. Tali tesori erano stati affidati temporaneamente a Sereno per sottrarli alle depredazioni dei barbari.

   La seconda è indirizzata a due chierici di Fermo: Demetriano e Valeriano. Gregorio li assicura che non dovranno rimborsare alla Chiesa le somme a suo tempo spese dal Vescovo di Fermo Fabio, per la loro liberazione e per quella del loro genitore Passivo, ora Vescovo di Fermo. Infatti erano stati fatti schiavi dai Longobardi.

Le restanti sono tutte indirizzate al Vescovo di Fermo Passivo.

La terza lo invita a consacrare un oratorio in onore di S. Savino, eretto fuori delle mura di Fermo, e precisamente sul colle Vissiano (oggi: Montagnola) da Valeriano, notaio della chiesa fermana.

La quarta gli chiede di consacrare un oratorio che Anione, Conte Castri Aprutiniensis (= Teramo), ha eretto nel teramano territorio di Fermo (testualmente: fìrmensis) in onore di S. Pietro Apostolo.

La quinta lo prega di consacrare un monastero autonomo fondato da Procolo, diacono della Diocesi di Ascoli Piceno, in onore di S. Savino martire ed ubicato nel fondo Gressiano (fra Ascoli e Teramo).

La sesta chiede di trovare una persona degna, irreprensibile, amante della preghiera, per affidargli, dopo opportuni esami, la Diocesi di Teramo, allora vacante. Anzi, Papa Gregorio indica un nome: Opportuno.

    Esse indicano, oltre al perdurare delle leggi romane nel nostro Piceno, anche la circoscrizione territoriale di Fermo, che comprendeva anche il Teramano (almeno in parte). S. Gregorio scrisse molte altre lettere. Una che è diretta a un Vescovo della Dalmazia lo rimproverava di essere troppo dedito ai piaceri della mensa. Il Vescovo ribatté: “Ma anche il Figlio dell’Uomo (cioè Cristo) mangiava e beveva”. Gregorio di rimando: “Ma tu segui i precetti di Cristo solo quando parla di mensa, ma non quando parla di astinenza”.

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Anno 825 – I Carolingi concessero l’ateneo di Fermo per ampia territorialità

     “In questa tomba riposa il corpo di Carlo, grande imperatore; accrebbe nobilmente il regno dei Franchi e lo governò felicemente per 47 anni. Morì settantenne l’anno del Signore 814, settima indizione, quinto giorno dalle calende di febbraio”.

     Questo l’epitaffio sulla tomba di Carlo Magno ad Aquisgrana.  A Roma riecheggiava l’acclamazione della folla nella basilica di S. Pietro quando, nella notte di Natale dell’anno 800, quando Papa Leone III lo incoronava imperatore: “A Carlo, Augusto, coronato da Dio, grande e pacifico imperatore, vita e vittoria” motto che le volte del tempio echeggiavano. Leggende e tradizioni orali parlerebbero di atti e documenti di Carlo Magno vissuto nella Marca. Tutto falso! Di vero, c’è il fatto narratoci da Anastasio Bibliotecario (817-877 c.) che dopo la sconfitta dei Longobardi per opera di Carlo Magno alle Chiuse (anno 773), quando Carlo scese in Italia in aiuto di Papa Adriano (772-795), gli abitanti del ducato di Fermo, gli Anconetani e i cittadini di Osimo e gli Spoletani, si diedero spontaneamente al Papa, gli giurano fedeltà e per documentare questa sudditanza si tagliarono barba e capelli secondo il costume romano.

     Non risulta che Carlo Magno sia venuto a Fermo, mentre il suo secondogenito, Pipino, proclamato Re d’Italia nel 791, venne in questa città alla testa del suo esercito, accompagnato dal duca di Spoleto Vinigisio e vi soggiornò prima di marciare contro Grimoaldo, duca di Benevento. Pipino a Fermo reclutò molti soldati per il suo esercito. Fermo deve ad uno dei carolingi, cioè all’imperatore Lotario I (795- 855), nipote di Carlo Magno, la fondazione dello studium generale, università degli studi del tempo avvenuta nell’anno 825. In tutta Italia ve n’erano soltanto nove (Torino, Ivrea, Cividale del Friuli, Pavia, Cremona, Vicenza, Verona, Firenze, Fermo). Come si vede, Firenze e Fermo erano i soli bacini di utenza per l’Italia centrale. Nel capitolare di Lotario, emanato a Corte Olona, si specifica tra l’altro che dovevano recarsi a studiare a Fermo tutti quelli del Ducato di Spoleto, ducato vastissimo che comprendeva Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo, spingendosi fino al ducato di Benevento. Nel 1165 Federico Barbarossa farà proclamare santo il nostro Carlo Magno e ciò ad opera dell’antipapa Pasquale II. dato che egli era in rotta col vero Papa. La Chiesa, tuttavia, non riconobbe mai tale canonizzazione, anche se permise il culto locale in qualche Diocesi di Francia e di Germania. Oggi, con decreto della Congregazione dei Riti del 1932, Carlo è venerato soltanto ad Aquisgrana. Il Barbarossa si interessò anche di Fermo e del suo Porto esattamente l’anno precedente cioè nel 1164.

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Anno 886 – Testimonianze storiche dimenticate. il complesso architettonico, di Santa Croce

     E’ trascorso ben più di un millennio da quella data e la basilica è ancora lì, anche se ridotta a misera casa colonica. Serba ancora il suo fascino, invita al raccoglimento e alle “cose di lassù”. È la basilica di Santa Croce al Chienti, consacrata proprio il 14 settembre dell’anno di grazia 886. Sita in territorio di Sant’Elpidio a Mare, alla confluenza del torrente Ete Morto con il fiume Chienti. La costruzione resa disadorna, commemora secoli di vita: undici secoli.  

     Teodicio Vescovo di Fermo si era dato molto da fare per la sua costruzione, e con l’approvazione dell’imperatore Carlo il Grosso era riuscito nell’intento. Il 14 settembre 886 tale basilica alla presenza di 19 Vescovi (tutti del Ducato di Spoleto) e di 27 canonici, venne consacrata al culto. Spiccano nel fasto e nella solennità della consacrazione, l’imperatore Carlo il Grosso, che morirà due anni dopo, il Vescovo di Fermo, Teodicio ed i diciannove vescovi. Vediamoli: sono quello di Ascoli, Giovanni; di Ancona, Enolerico; di Camerino, Celso; di Senigallia, Benvenuto; di Spoleto, Armerico; di Fano, Romano; di Pesaro, Lorenzo; di Numana, Roberto; di Perugia, Teobaldo; di Rieti, Riccardo; di Osimo, Pietro; di Cagli, Adelardo; di Rimini, Niccolò; di Todi, Uberto; di Urbino, Alberto; di Nocera (Umbra), Severino; di Forlì, Bartolomeo; di Teramo, Ruggero. Oltre a Carlo il Grosso sono presenti numerosi principi e gastaldi.

   Chi si trovava nel piazzale antistante la basilica vedeva tutto un rimescolarsi di paludamenti vescovili e di armature guerresche; conti, vescovi, gastaldi, dame, bardature variopinte, cavalieri. Giorno festoso e fastoso! Giorno indimenticabile da iscrivere a chiari caratteri nella storia di Fermo e di Sant’Elpidio a Mare. Nel 1749 l’arcivescovo di Fermo, Alessandro Borgia, fece apporre una lapide a ricordo del fausto avvenimento.

    “Or tutto tace” direbbe Carducca della Basilica malridotta… La sua storia gloriosa giace solo nelle pergamene degli archivi. Dopo il restauro effettuato dall’arcivescovo Borgia nel 1749 è stata miseramente abbandonata. Non si potrebbe costituire un comitato per il suo recupero alla funzione primigenia ed al suo antico splendore? E l’invito, che ci permettiamo rivolgere a chi ama la vita sociale con la storia e i monumenti della bella Regione “che siede tra Romagna e quel di Carlo”.

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Anno 972 – Le prove dell’esistenza della Marca Fermana 

    Scriviamo giornalisticamente ma sempre scrupolosamente ancorata ad atti e documenti, ma “taluno” addirittura ha negato che fosse esistita la Marca Fermana, perché lui non legge bene due opere di Gregorio di Catino, il cronista dell’Abazia di Farfa vissuto nel sec. XI: Chronicon Farfense e Regestum Farfense. La Marca Fermana si estendeva dal Foglia al Pescara, non un semplice toponimo, ma realtà storica documentata perché usata già nell’anno 972… fino al regno Napoleonico, come si legge nei Monumenta Germaniae Historica.

     Nel 1076 Papa Gregorio VII (quello a cui si umiliò a Canossa Enrico IV nella scomunica lanciata contro di lui e contro i Normanni per aver invaso nel 1047 le terre ecclesiastiche) nomina la Marca Fermana e il ducato Spoletano. Tra l’altro, nel 1078, lo stesso Papa scrisse da Roma all’arcivescovo di Ravenna ed a tutti i Vescovi ed abati della Marca Fermana (universis episcopis et abbatibus in Marchia Firmana).

Lo stesso Gregorio VII nell’assolvere Roberto il Guiscardo dalle censure perché invasore “in quanto alle altre terre che tieni ingiustamente occupate, cioè Salerno, Amalfi e parte della Marca Fermana per il momento ti tollero” (lettera del 29 giugno 1080 scritta da Ceprano nei pressi dell’Abazia di Monte Cassino). Marca Fermana è ripetutamente nominata dal Platina (De vita et moribus, Lione 1512), da Flavio Biondo (Italia Illustrata, Venezia 1543), dal Sigonio, ripetutamente, in Storia del Regno d’Italia, libro IX, Venezia 1574.

     Inoltre il nostro interlocutore apra un atlante storico, anche il più elementare e troverà che da allora – sec. X – fino al sec. XVIII la Marca Fermana figura nelle le carte.

     Un’indicazione bibliografica potrebbe essere quella degli atlanti storici editi dalla De Agostini Novara, Zanichelli di Bologna, l’Atlas Historique di Larousse, quello di Georges Duby e ciascuno prima di dire che non trova documenti ci pensi bene e lo legga bene. Ad esempio nella pag. 146 B del “Chronicon” si legge testualmente ad Marchiam Firmanam. Anzi, tra “Chronicon” e “Regestum” tale Marchia è nominata per un totale di 38 (diconsi trentotto) volte; il che dimostra che non è “una espressione geografica” per dirla col Metternich.

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Anno 1003 – Un Papa dimenticato: Giovanni XVII da Rapagnano

     Se c’è una regione che abbia dato alla Chiesa molti Papi, questa è la Regione marchigiana che prima in graduatoria, tolto il Lazio. Bene dieci sono i pontefici marchigiani, mentre alcune regioni non ne hanno nemmeno uno, ad esempio il Piemonte. È vero che essi hanno S. Pio V. Ma quando egli nacque a Boscomarengo, la cittadina apparteneva al Ducato di Milano. E poi …. se è divenuto papa lo deve al fatto che ha studiato a Fermo.

     Chi è questo Papa sconosciuto? Si tratta di Giovanni XVII, Papa Siccone, nato a Rapagnano ed eletto papa il 9 giugno 1003. La cronologia pontificia lo elenca tra i Papi del secolo XI. Il Liber Pontificalis lo dice de Rapaniano, romano. In quel periodo, molti furono i Papi col nome Giovanni. Ci sono: Giovanni XI , romano (+ 935); Giovanni XII , Ottaviano dei Conti di Tuscolo (964): Giovanni XIII, romano (+972); Giovanni XIV  di Pavia (+984); Giovanni XV, romano (+996); Giovanni XVI (+998) cioè Giovanni Filagato di Rossano e quindi il nostro Giovanni XVII, eletto il 9 giugno e morto il 31 ottobre 1003. Ce lo attesta marchigino una lapide rinvenuta nella chiesa collegiata di Rapagnano nel 1750. Essa redatta in latino, così suona in nostra traduzione: “Giovanni figlio di Siccone e di Colomba, nacque a Rapagnano, vicino al fiume Tenna. Ancora adolescente si recò a Roma accolto nella casa del console Petronio. Si dedicò allo studio delle lettere e con l’applauso di tutta Roma, il 9 giugno 1003 fu creato pontefice. Ma lo fu per poco tempo: infatti il 31 ottobre seguente si addormentò in pace, volando a regnare in cielo”.

     Tale lapide in pietra e in gotico minuscolo, riporta lo stemma con il triregno e chiavi decussate ed altro stemma della casa Piccolomini, con una mitra vescovile, che fa pensare al vescovo Fermano, Francesco Todeschini Piccolomini cardinale (1483-1503).

     Alessandro Borgia, Arcivescovo di Fermo, vista l’importanza di tale lapide, la fece conoscere, porre il luogo ben visibile e sotto di essa collocò una iscrizione che recita: “A Dio Ottimo Massimo, questa lapide di Giovanni di Rapagnano Pontefice romano, nascosta per secoli, ora per interessamento di Alessandro Borgia Arcivescovo e Principe di Fermo, il parroco di Santa Maria Franco Grifoni la restituisce alla posterità”.

     Papa Giovanni XVII, a causa del suo breve regno, non ebbe modo di dare rinomanza al suo Pontificato. È l’ultimo della serie di papi eletti dalle famiglie romane in funzione antigermanica. Fu però romano solo di adozione. E qui spiace rilevare come l’Annuario Pontificio lo indichi come romano, senza tenere conto della sua patria: Rapagnano. Ma tale Annuario ha altre “imprecisioni”: ad esempio Papa Marcello II sarebbe di Montepulciano, è nato a Montefano (MC);  Papa Clemente VIII lo dice fiorentino, invece è nato a Fano. Il Capoluogo del Dipartimento del Tronto nel periodo napoleonico per decenni alcuni storici hanno detto che era Ascoli Piceno, mentre lo era Fermo. Come già accennato la recentissima guida di Roma (T.C.I.) non parla di Pericle Fazzini e della sua Resurrezione nella Sala Nervi in Vaticano.

Videant consules

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Anno 1046 – Clemente II a Fermo di passaggio

    Le Marche ebbero a che fare con Papi: Clemente II, Urbano II, Pio II, Giulio II. 30 dicembre 1988 è venuto Giovanni Paolo II. Fermo a sua volta ebbe a che fare con Urbano II, Pio II e Giulio II. Non era e non è facile né semplice essere Papa. Nel 1046 Clemente II, ebbe molto da fare a Roma e nell’Italia meridionale. Passò per le Marche, ma dovette fermarsi a Pesaro a causa una violentissima febbre; e qui morì nel monastero di S. Tommaso in Foglia.

     Ma nonostante tutto, ricordiamo che passo anche a Fermo. Era Vescovo di Bamberga in Sassonia, e anche da Papa mantenne tale vescovado. Incoronò imperatore Enrico III e lo accompagnò a Salerno, Benevento ed in Germania.

     Clemente sebbene morto in terra marchigiana, fu riportato, secondo suo desiderio, a Bamberga ed ivi sepolto.  Nel 1237 gli venne eretto, in quella Cattedrale, un degno monumento sepolcrale. È l’unico Papa sepolto in Germania.

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Anno 1055 – I Normanni e la Marca Fermana

   I Normanni, popolo del nord, nel secolo VIII per mare e per terra invase l’Europa spingendosi fino alla Groenlandia, si stanziò anche in Francia, occupando per ben tre volte Parigi e dando il nome a quella Regione che da loro prese il nome di Normandia. Da qui invasero l’lnghilterra, sconfiggendo gli abitanti nella famosa battaglia di Hasting nel 1066. Si spinsero poi a sud occupando anche tra il 1043 e il 1098 l’Italia meridionale. Sono noti nella storia i nomi di Tancredi d’Altavilla, di Ruggero, di Roberto il Guiscardo, di Boemondo fondatore del principato di Antiochia.

     Inoltre nella storia dei Normanni vi è una “connotazione” fermana, o meglio, della Marca Fermana. Gli abitanti di questa, combatterono a fianco delle truppe papali, allorché Papa Leone IX dichiarò loro guerra per aver occupato terre su cui la Roma papale avanzava diritti. Tremendo fu lo scontro a Civitate in Puglia (18 giugno 1055) e l’esercito pontificio in cui militavano anconetani, fermani, spoletini, venne sconfitto. Tuttavia, si verificò qui quanto affermato da Orazio (Epist. 11,1,56). “La Grecia pur vinta vinse il rude vincitore e insegnò le arti all’agreste Lazio). Infatti, il Papa, pur sconfitto, impose la sua autorità e la sua forza morale, talché i Normanni obbedirono ai suoi desiderata.

     Guglielmo di Puglia narra che “il biondo Roberto dall’alta ed imponente statura, glorioso per tante battaglie, si inginocchiò davanti al Papa e gli baciò il piede. Gregorio (è Gregorio VII) lo fece alzare e lo invitò a sedere accanto a lui”.

    Uno storico coevo (come ci narra il Muratori) dice che il Papa, pur vinto dai Normanni, dettò legge ai vincitori e, con la religione, vinse coloro che non era riuscito a sottomettere con le armi.

     Latino facile di cui il lettore ci perdonerà, ma che abbiamo dovuto citare, perché più splendido apparisse il parallelo con Orazio.

     Vi fu poi un’intesa tra Papa Gregorio VII (il famoso Ildebrando, alleato di Matilde di Canossa) e Roberto il Guiscardo. Gregorio gli conferisce l’investitura di parte dell’Italia meridionale “della terra che ti concessero i miei antecessori di santa memoria, cioè Nicola ed Alessandro, Amalfi e parte della Marca Firmana, per il momento ti tollero, fidando in Dio e nella sua bontà, col patto che tu in seguito debba comportarti verso di me come richiede l’onore di Dio e di S. Pietro”. Si noti quella precisazione di “parte della Marca Fermana”. Ruggero, infatti, col suo esercito l’aveva occupata, tutta cioè dal Musone fino al sud di Vasto. Ma poi aveva restituito al Papa la parte a nord del Tronto, tenendosi per sé quella a sud di tale fiume. Così il nome “Marchia Firmana”, già documentato sia nel “Chronicon Farfense”, sia in diplomi imperiali, brilla ora in un atto giuridico tra Papa e imperatore, dopo essere apparso anche nella bolla di scomunica che il Papa, in precedenza, aveva lanciato contro i Normanni, cioè la Marca Fermana, scrivendo a tutti gli abati e i vescovi nella Marca Fermana.”.

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1080 – Un tributo da versare il giorno di Pasqua

     Nella storia d’Italia, spesso la data della Pasqua serviva per ricordare la consegna di doni, di regalie, di omaggi, di tributi e di censi… “Nel giorno della Pasqua di Resurrezione offra alla chiesa, tot. numero di polli, di uova, tanti agnelli” etc.    

     Prosaicità che adombra lo splendore di vita nuova! E proprio nel giorno della Pasqua di Resurrezione, un condottiero normanno, Roberto il Guiscardo, sin dall’anno 1080 prometteva ad Ildebrando di Soana, o meglio a Papa Gregorio VII, famoso per la vicenda di Enrico IV a Canossa e per la Contessa Matilde, vindice del papato, di versargli un tributo o censo di dodici denari di moneta di Pavia per ogni paio di buoi.

     Tale censo era il corrispettivo per avere il Guiscardo invaso Salerno, Amalfi e parte della Marca fermana. Infatti, in un primo tempo, Roberto il Guiscardo era contro il Papa; poi passò a difenderlo. Era pendente l’occupazione delle due città e della Marca Fermana a sud del Tronto. In un primo tempo l’aveva occupata quasi tutta, ma poi restituì a Gregorio VII la parte a nord del Tronto, tenendo per sé Amalfi, Salerno e la Marca Fermana sud.

     Passato dalla parte del Papa Gregorio VII, Roberto riceve l’investitura di terre pontificie. “Io Gregorio papa, conferisco a Te, duca Roberto, l’investitura della terra che ti concessero i miei predecessori di santa memoria Nicolo’ ed Alessandro (i Papi Nicolo’ II (1061) e Alessandro II (1071) – ndr). In quanto all’altra terra che tieni ingiustamente, cioè Salerno, Amalfi e parte della Marca Fermana, per il momento ti tollero, fidando in Dio e nella sua bontà in modo che tu debba in seguito comportare verso di me come richiede l’onore di Dio e di S. Pietro senza pericolo dell’anima tua e della mia….”.

     Questa investitura ebbe eco “Roberto, per grazia di Dio e di S. Pietro Duca della Puglia, Calabria e Sicilia…” promettendo a Gregorio e successori “a nome proprio, degli eredi o successori l’annuo tributo (di cui sopra) da pagarsi in die Resurrectionis Domini”, nel giorno cioè della Resurrezione del Signore. Roberto fu fedele alla promessa e salvò anche Papa Gregorio dall’assedio posto a Castel Sant’Angelo dallo spergiuro Enrico IV che aveva assolto dalla scomunica.

     Oggi gli abitanti di quella che fu la Marca Fermana dovrebbero elevare un pensiero memore e grato verso Gregorio, figura che giganteggia nella storia, quale vindice dei diritti della Chiesa e della libertà della Marca Fermana.

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Anno 1087 – Un gioiello d’Architettura poco valorizzato l’antichissima chiesina di Madonna Manù

    “Salve chiesetta del mio canto!”, così Carducci nell’ode “La Chiesa di Polenta”; così chi scrive, con  non minore affetto, saluta la chiesina di Madonna Manù. Etimologia ebraica: Manù = cos’è questo?

     Affonda le sue origini all’alto Medioevo. Risalente il secolo X, è detta anche Madonna delle Noci, perché fino a poco tempo fa, dopo la Messa, vi si giocava a castelletti di noci.

     Qualcuno dei “miei venticinque lettori” si domanderà subito dove sorge tale chiesina. Chi imbocca la strada che dall’Adriatica porta a Lapedona (Camping Mirage) a metà strada, in posizione incantevole preceduta da un duplice filare di cipressi, scorge S. Maria de Manù.

     Fu donata da Raimburga, badessa del monastero Leveriano presso il fiume Aso, all’Abbazia di Montecassino. Piccola e sconosciuta la chiesetta; grande e antica la sua storia. Con la chiesa e il castello di S. Biagio in Barbolano, siti in territorio di Altidona (sopra il Camping Mirage) è nominata nelle porte di bronzo della Basilica di Montecassino, fuse al tempo dell’abate Oderisi (1087-1105).

     Recitano nell’originale latino… “Nel Fermano abbiamo il castello di Barbolano con la chiesa di S. Maria e S. Biagio con gli annessi possedimenti”. Le lamine cassinesi che ne parlano, sono la sesta e la settima del battente di destra, straordinariamente indenni nel tremendo bombardamento alleato che distrusse il Cenobio e le altre lamine nel 1944.

Se altre chiese avessero tale privilegio e una documentazione così splendida e bronzea (perennis) lo griderebbero ai quattro venti. Invece, per la nostra chiesetta, si fa poca memoria. D’architettura romanica, come le “sorelle maggiori” quali S. Maria a Pié di Chienti, S. Claudio a Corridonia, Ss. Stefano e Vincenzo a Monterubbiano, S. Quirico e Lapedona, etc. è un vero gioiello d’arte.

     Sorge in territorio di Lapedona , ma la giurisdizione spirituale di essa, è del pievano di Altidona, a cui passarono i beni dell’Abbazia di Montecassino.

     Ogni anno, dai lontani secoli, l’8 settembre vi si recano pievano e fedeli di Altidona; vi si celebra la Messa e poi si gioca a castelletti di noci.

     Semplice e spoglia nelle linee purissime del romanico classico, è stata restaurata nel 1942 per iniziativa del pievano Petroselli di Altidona e riportata alla primigenia bellezza. Fiancheggiata da “ardui cipressi”, campeggia in un’area agreste e campestre di “profondissima quiete”. Fino al 1926 vi si ammirava uno stupendo polittico attribuito in un primo tempo a Pietro da Montepulciano; ora, dopo approfonditi studi, a Cristoforo Cortese (fine secolo XV). Tale polittico spicca ora nell’altare maggiore della parrocchiale di Altidona, alla cui giurisdizione spirituale, come detto, appartiene.

     Se Carducci l’avesse celebrata, come la chiesa di Polenta, sarebbe ora su tutte le Guide ed i Baedeker del mondo. Oggi chi canta a lei, è un povero menestrello: “Vissero molti famosi, prima di Agamennone, ma sono ignorati, perché manca un sacro vate”.

Così canta Orazio! “Salve chiesetta del mio canto!”-.———————————————–

Secolo XI – I doni portati dai castelli

  Dal Liber 1030 di Fermo si ha notizia che sin dal secolo XI i signorotti dei castelli soggetti a Fermo dovevano portare per l’occasione della festività dell’Assunta, le loro offerte ed i loro doni.

     Il signore (meglio: gastaldo) di Corridonia, allora Montolmo, doveva portare un maiale e cento meloni; quello di Monturano, un maiale; quello di Civitanova (Marche), sei polli e cento uova; Campofilone doveva tre soldi e mille denari; il Monastero di S. Donato al Tronto, pure tre soldi e mille denari. Tutte le località soggette a Fermo da Poggio S. Giuliano alle porte di Macerata, alle località della foce del Tronto, contribuivano con prosciutti, maiali, polli, soldi, cera, uova, ecc.

      Fermo partecipava alla novena di preparazione alla Festa della Patrona, l’Assunta, con vistose offerte in denaro ed in natura. Secondo gli accordi per il ‘Palio’ in città cospicue erano le offerte dei macellai, calzolai, osti, albergatori. Gli agricoltori davano tre bolognini a testa per il cero; i bottai ne offrivano due. Osti ed albergatori, oltre al cero, offrivano una ‘taberna’ in miniatura ricolma di doni; ogni famiglia dei castelli soggetti doveva dare al proprio “scindico” 12 denari e ciascun “scindico” con tali somme, doveva approntare un cero maestoso che sfilasse con i rappresentanti di ciascun castello (unum cerum pro quolibet castro).

     A loro volta il Podestà, il capitano e gli altri Officiali, offrivano un cero ciascuno come pure il Gonfaloniere di giustizia, i Priori e le altre autorità cittadine, le famiglie di Fermo, ad eccezione di quelle povere, dovevano offrire un cero alla Cattedrale insieme ai componenti della propria contrada.

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Anno 1149 – Il Palio, espressione della potenza fermana

     Il documento più antico conosciuto delle Cavalcate e del Palio fermano risalirebbe al 1182, anno in cui Monterubbiano, Cuccure e Montotto (da non confondere con Montottone) si impegnavano a portare ogni anno a Fermo il Palio, in occasione della Festa dell’Assunta.

     Da meticolose ricerche nell’Archivio di Stato di Fermo abbiamo rinvenuto un atto del 1449. In tale anno, Fermo lamenta che Monterubbiano non ha portato il palio, cosa che “ha sempre fatto da trecento anni”. Possiamo quindi dedurre che tale usanza risale al 1149, anticipando così di quasi tre lustri ila notizia del documento del 1182.

     La festa dell’Assunta a Fermo ha radici lontane. Risale al 998 un atto con il quale il Vescovo della sede fermana, Uberto, concede un appezzamento di terra sulla strada per Cossignano, in cambio di 400 soldi annui da pagarsi appunto in occasione della festa dell’Assunta. La festa aveva il suo culmine nella Cavalcata, risalente, come detto, al 1149. Essa partiva dalla chiesa di Santa Lucia, passava per Campoleggio, risaliva il colle e faceva sosta nella attuale Piazza del Popolo tra una folla plaudente, lo squillo delle chiarine, lo scampanìo festoso di tutte le campane della città, il rullo dei tamburi, lo sparo dei cannoni della rocca. Le vie e la piazza pavesate a festa, in una gloria di sole e di colori, conferivano alla sfilata una nota di policroma festività. Era la festa in onore dell’Assunta, la Patrona di Fermo, ma era anche la rassegna della potenza e della grandezza dello Stato Fermano. Tutti quelli che partecipavano alla sfilata dovevano essere elegantemente vestiti, sfoggiare i più ricchi e sontuosi paludamenti come si conviene in una rassegna alla quale partecipavano le autorità fermane, quelle dei castelli dipendenti, ambasciatori, giudici, il Podestà, il Capitano di giustizia, il Gran Gonfaloniere, i Priori, i Cancellieri, i Notai.

     Coll’andare del tempo, si apportarono alcune modifiche: alla offerta del tempo (cera, polli, maiali, uova), come già accennato si sostituì l’offerta in denaro; i cittadini di Porto S. Giorgio (allora Porto di Fermo), vestiti di broccato conducevano con sé le loro donne ornate di gioielli e vestite splendidamente; essi potevano introdurre in Cattedrale la tipica loro barca. I mugnai ed i macellai, facevano portare dai loro valletti una guantiera d’argento con una rilevante somma di monete d’oro. Chiudevano il corteo gli “scindici” e vicari dei castelli, in groppa a cavalli riccamente bardati. Alcuni giovani, dopo l’invenzione della armi da fuoc, sparavano colpi a salve durante lo snodarsi del corteo, scandendo così le varie fasi della cerimonia.

     La cavalcata ebbe vita gloriosa fino ai primi del ’600 e, dopo un periodo di decadenza, venne riportata al primitivo splendore da Mons. Amedeo Conti. Tale Cavalcata abolita nel 1808 durante il Regno Napoleonico. Fermo in tale epoca era capoluogo del Dipartimento del Tronto da cui dipendevano le vice prefetture di Ascoli e Camerino, essa tornò in vita dopo il Congresso di Vienna, ma senza il primitivo splendore; condusse poi vita grama fino al 1860, anno in cui cessò.

Tornata a rivivere dopo otto secoli, nel 1982, con la sola edizione del Palio, sta riprendendo il primigenio splendore e l’antica fama.

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Anno 1149 – Il Palio nel secolo XII nei documenti fermani

     Quanti sono i documenti che parlano del Palio?

     Nel 1182, nei patti di pace tra Fermo e Monterubbiano, quest’ultimo promette di “portare ogni anno un bel palio ornato di tutto punto per la festa dell’Assunta”. Dei tre castelli uniti in Monterubbiano, Cuccure e Montotto restano il primo e Montotto sua frazione;  Cuccure infatti è scomparso, lasciando il posto all’odierno giardino di San Rocco a Monterubbiano

È questo il documento ufficiale inequivocabile. Però, la notte prima della Festività dell’Assunta del 1449, i cittadini di Monterubbiano effettuarono una scorreria contro Petritoli, prendendo due prigionieri e rubando quindici buoi.

Fermo per appianare tali “differenze” (così venivano allora chiamate le liti fra paesi) manda un suo delegato impartendogli alcuni ordini. Fra essi c’era il seguente (ovviamente in latino) che recitava:“…in secondo luogo ti lamenterai degli abitanti di Monterubbiano perché quest’anno non ci hanno inviato il palio di seta, cosa che hanno fatto e fanno da trecento anni. Dagli stessi cittadini di Monterubbiano, abbiamo saputo che nella notte precedente la festa dell’Assunta (cioè Ferragosto n.d.r.) il podestà di Monterubbiano e 15 uomini, entrarono nel castello di Petritoli, rubarono quindici buoi… e prelevarono due uomini accusando uno di essi di una colpa già scontata. Comunque noi, per togliere ogni motivo di astio, eravamo contenti di ricevere il palio, vedere liberati i prigionieri e restituiti i buoi, sperando nella mediazione di Ser Andrea, giudice dei malefici…” etc.

     Come si vede, qui si parla di trecento anni… che, presi alla lettera, portano al 1149, che sarebbe la prima data scritta, sinora conosciuta per il palio. Una cosa è certa: si parla del palio già nel secolo XII. Come si vede dal documento di un furto possono scaturire elementi storici di altro interesse. Il Palio ora segue il percorso indicato negli Statuti di Fermo, risalenti al trecento.

     Con tutto il rispetto per il Palio di Siena (più famoso e più conosciuto ma non più antico) il nostro vanta più di otto secoli di vita.

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Anno 1170 – La casula di S. Tommaso Becket, a Fermo reca la benedizione di Allah

     Un mese fa il Prof. Donald King in occasione della presentazione del volume sul piviale di Nicolò IV avvenuta in Ascoli, quando seppe che eravamo di Fermo, ci disse nel suo impeccabile inglese: “You at Fermo have a real treasury” (avete un autentico tesoro). Il professore alludeva alla casula di S. Tommaso Becker Arcivescovo di Canterbury martirizzato nel 1171 sotto Enrico II.

     Tutti ricordano l’opera di T.S. Eliot “Assassinio nella Cattedrale”. Essa narra proprio il martirio di Tommaso Becket. Dopo tale misfatto, i seguaci di Tommaso vennero perseguitati e si dispersero. Tuttavia, cercarono di mettere in salvo le suppellettili preziose della Cattedrale. La casula finì a Fermo, in Italia perché Becket aveva avuto a Bologna come compagno di Università Presbitero, che ebbe a divenire Vescovo di Fermo. Egli donò la casula giunta nelle sue mani alla cattedrale, dove da secoli è conservata.

Opera di eccezionale bellezza, è composta da 40 medaglioni ricamati in seta ed oro, ognuno del diametro di cm. 20. Tema ricorrente, tra le raffigurazioni di pavoni d’oro, grifoni, leoni alati e simili. Ci sono le aquile di chiaro richiamo alle stoffe di Bagdad. Larga m. 5,41, lunga m. 1,60, fu ricamata ad Almeria nell’anno 1116 dell’era cristiana. Il Prof. David Rice dell’università di Londra, la studiò a lungo ed intensamente e non ha esitato di affermare che è il più antico ricamo arabo che si conosca nel mondo.

     Inizialmente di forma rettangolare, costituiva una specie di mantello regale. Sebbene conservata da secoli in Cattedrale sul Girfalco, tuttavia essa costituì quasi una rivelazione allorché fu tolta dall’antica cassa che la conservava ed esposta al pubblico e ciò per suggerimento del Card. Merry del Val nel 1925. Stupenda “nelle bizzarre cadenze del giuoco lineare, nelle contrapposizioni ritmiche, nello sfavillio delle colorazioni quasi illuminate da riflessi magici”, fu ammiratissima nell’esposizione di Roma del 1937; indi in quella di Parigi del 1951; fu esposta nel 1973 a Londra, per iniziativa del giornale Daily Mail nella Exihibition Ideal Home XIX century. L’attuale Regina d’Inghilterra rimase a lungo in estatica ammirazione davanti ad essa.

     Il Prof. Rice, nel 1959 riuscì ad identificare la scritta nel rettangolo al centro. Essa, redatta in caratteri cufici, recita: “In nome di Allah, il misericordioso, il compassionevole. Il regno è di Allah”; segue poi quella che è la benedizione per chi la possiede (Fermo): “Massima benedizione, perfetta salute e felicità al suo possessore. Nell’anno 510 in Maiyya”. Verso noi “infedeli”?

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Anno 1175 – Fermo distrutta dall’esercito guidato dall’arcivescovo Cristiano    

     Nei pressi di Marengo, era accampato l’esercito di Federico Barbarossa. Ha assediato per sei mesi e invano Alessandria, la fiera cittadina simbolo della Lega Lombarda. È il 12 aprile 1175: Sabato Santo. Giosuè Carducci nell’ode Sui campi di Marengo, così descrive la scena: “Stretto è il leon di Svevia entro latini acciari / Ditelo, o fuochi a i monti a i colli a i piani, ai mari….”

    Nell’esercito imperiale, c’è anche l’arcivescovo di Magonza, Cristiano, che sarà funesta “conoscenza” per Fermo. Ecco come lo descrive Carducci: “E dice il magontino Arcivescovo: Accanto / de la mazza ferrata io porto l’olio santo / Ce n’è per tutti. Oh almeno foste de l’Alpe ai varchi / miei poveri muletti d’italo argento carchi /”. Carducci parla anche del Conte del Tirolo, che teme di essere ucciso dai lombardi: “… io cervo sorpreso dai villani / cadrò sgozzato in questi, grigi lombardi piani…”. Non sappiamo se e quanti Non sappiamo quanti muletti carichi “d’italo argento” e d’altre suppellettili Cristiano, arcivescovo di Magonza abbia spedito oltr’Alpe. Tristemente sappiamo che il 21 settembre dell’anno successivo, dalla zona di Campiglione, dove si era accampato, si dirige su Fermo e la mette a ferro e fuoco: “nel 1176 nella festa di S. Matteo (21 settembre) la città di Fermo fu invasa, occupata e distrutta dall’Arcivescovo di Magonza, Cancelliere dell’Impero”. Ingenti furono i danni, specie alla cattedrale; ma, quel che è peggio nell’incendio perirono miseramente atti e documenti storici di altissimo valore.

     L’anno dopo troviamo Cristiano ad Assisi. Da qui, in data 3 gennaio 1177 emana un privilegio con cui “restituisce e conferma la libertà e il godimento di tutti i diritti a Fermo”. Da Sirolo, nel febbraio successivo (forse la coscienza lo rimordeva!), con analogo privilegio, ma più incisivo e decisivo, minaccia severe pene contro chi volesse attentare alla libertà di Fermo e rinnova ai Fermani, ampliandola, l’autonomia amministrativa e politica. Testimoni di questo secondo privilegio sono il Duca di Spoleto Corrado Svevus, Leo de Monumento, Simpliciano, Alberto Coni, Alberto Santo, Viberto, Ruggero ed altre personalità tedesche e latine.

     L’assalto a Fermo ebbe ripercussioni ad alto livello. Se ne interessò anche Papa Alessandro III: da Venezia ordina di restituire a Fermo le suppellettili sacre asportate in occasione del saccheggio, pena la scomunica.

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Anno 1176 – Barbarossa lo chiamò: Porto S. Giorgio

     Porto S. Giorgio, cittadina a specchio “dell’Adriaco mare”, antico navale di Fermo, patria di Pio Panfili pittore ed architetto; di Tommaso Salvadori, conosciuto più all’estero che in Patria; di Francesco Trevisani e altri illustri personalità come sede ideale per passarvi la “luna di miele”, incantò poeti e scrittori. D’Annunzio nel 1893 vi trascorse appunto la luna di miele, seguito, dopo decenni, da Luigi Bartolini, l’autore fra l’altro di “Ladri di biciclette”, che vi celebrò il suo matrimonio nel 1928 con una pimpante friulana. “Portus Sancti Georgii” lo chiamò Federico Barbarossa, quello affrontato dalla Lega Lombarda nella battaglia di Legnano. Ed anche in documenti di poco posteriori, figura con il toponimo ‘Porto San Giorgio’. Lo troviamo, in una delle tante pergamene del ricchissimo archivio storico Comunale di Fermo. Essa recita che “essendo la città di Fermo tornata di recente all’obbedienza di Federico II, Roberto di Castiglione, Vicario imperiale del Sacro Romano Impero nelle Marche, decretava l’annullamento dei bandi e delle pene per malefici, offese et similia commesse dai cittadini fermani”. Nel documento c’è un passo molto importante che riguarda il Porto della città. Come è noto, in quel periodo Fermo era un’importante potenza marinara. Un docente universitario ebbe a definirla qualche anno fa la “quinta repubblica marinara d’Italia”. Intenso era il suo commercio e basta scorgere una qualsiasi carta nautica del tempo, od i Comuni portolani, per sincerarsene. Aveva soprattutto un intenso commercio con Venezia, verso cui esportava derrate alimentari, vino ed olio, di cui la città lagunare scarseggiava. Fermo poi con il suo porto aveva una funzione antianconetana e favoriva la Repubblica di Venezia. Roberto di Castiglione nel documento in data 7 aprile 1242, stabiliva in virtù dell’autorità imperiale di cui era investito che “tutte le navi ed i natanti da qualsiasi parte provenissero, potevano liberamente attraccare alla riva od al Porto San Giorgio e rimanervi all’ancora per il tempo che volessero”. La stessa cosa per i naviganti: essi potevano rimanere nella zona portuale od in città per il tempo di loro gradimento; potevano commerciare liberamente con i forestieri, Fermo mirava a conservare e potenziare il porto e proteggere coloro che vi sbarcavano. È questa un’altra prova dell’antica dizione: Porto San Giorgio che troviamo indiscriminatamente anche come Porto ‘di Fermo’. Il toponimo, quindi, Porto ‘San Giorgio’ affonda le sue radici ai tempi di Barbarossa e da Roberto di Castiglione vicario imperiale di Federico II (nipote) e del Sacro Romano Impero nella Marca d’Ancona.

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Anno 1176 – Fermo distrutta e poi… riabilitata

     Correva l’anno 1176. Poco prima aveva avuto luogo la battaglia di Legnano con la sconfitta del Barbarossa. Le truppe della Lega Lombarda, il cui “nume” era Papa Alessandro III, avevano vinto nello scontro del 29 maggio. Una parte però dell’esercito imperiale diretta verso sud e comandata dall’arcivescovo (scomunicato) Cristiano di Magonza, si era accampata al di là del fiume Tenna nei pressi della chiesa di Santa Maria di Giacomo, territorio di Monturano.

     Egli mandò dei messi a Fermo, allora di parte guelfa. In qualità di arcicancelliere dell’impero e delegato del Barbarossa, esigeva da Fermo tributi e contribuzioni, e piuttosto inferocito. Tre anni prima aveva posto l’assedio ad Ancona e se ne era dovuto allontanare con le pive nel sacco. Recente era la sconfitta imperiale a Legnano. Le cose non andavano bene né per lui, né per il suo “capo”, il Barbarossa. I Fermani, alle richieste esose di Cristiano, risposero picche e (sembra) malmenarono i messi. Inviperito, Cristiano fa dare fiato alle trombe e dal Tenna con l’esercito, muove contro Fermo. La cinge d’assedio, la espugna e la mette a ferro e fuoco. Era il 21 settembre 1176, giorno della festa di S. Matteo, come riferisce Anton di Nicolo’, storico fermano del secolo XV: una grande tragedia.

     Di tale distruzione parlano vari storici, tra cui il Muratori e l’Ughelli (Italia sacra, vol. II) il quale sottolinea… “e quello che più indigna è che furono distrutti tutti gli atti e documenti della storia di Fermo”.

     Fermo piombò nella desolazione più nera. L’anno dopo, Cristiano, forse perché Papa Alessandro aveva fatto pace col Barbarossa, emanò da Assisi un decreto in data 3 gennaio 1177. In esso “l’arci-cancelliere del Sacro Romano Impero, il Legato in Italia e Luogotenente Generale dell’esercito imperiale ammette di aver recato ingentissimi danni a Fermo” e “restituisce e conferma alla città la libertà, diritti, beni, possessi e privilegi”.

     L’altro decreto è datato a Sirolo nel febbraio 1177. Con esso ribadisce quello emanato da Assisi, precisando che “nessuno, compreso lo stesso arcivescovo. osi edificare a Fermo e nel suo castello senza il permesso della città, pena cento libre di multa”. Ma la città non si ricostruiva con decreti e Fermo soffrì molto, prima di riacquistare parte del primitivo splendore, e preziosissimi atti e documenti sparirono per sempre.

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Anno 1182 – Il drappo dei Castelli a Monterubbiano

     La corsa del Palio riesumata nel 1982. dopo otto secoli dalla data di quello che si reputava il primo documento scritto, ha radici più antiche. L’uso di porre come premio di gare un drappo di stoffa preziosa, chiamato palio, era tradizione in molte città nel Medio Evo. Oggi il Palio più famoso è quello di Siena che ha la più antica notizia al 1282, un secolo meno antico di quello di Fermo.

Il palio di Fermo si svolgeva nelle ore antimeridiane prima del pranzo “ante prandium”. Al vincitore si dava come premio un palio o drappo di seta prezioso, al secondo veniva dato un falco o astore. La gara si svolgeva, come nelle edizioni attuali, “sulla via del mare”, cioè da Porta San Francesco lungo la strada che portava al mare. Gli Statuti comminavano pene severe a chi creava intralci nello svolgimento e a chi favoriva questo o quel cavallo. I contendenti entravano anche in Cattedrale “S. Mariae in Castello”. Aveva poi luogo il gioco dell’anello. Il cavaliere, correndo, doveva infilare con una lancia un anello fisso o mobile.

      Vi era pure la Quintana. Il cavaliere si esercitava contro un bersaglio mobile, costituito da una statua grande con un braccio teso lateralmente. Se il cavaliere non colpiva velocemente o al segno giusto, il braccio della statua, che nel nostro caso si chiamava (e si chiama) Marguttu, colpiva l’incauto cavaliere. Vi era inoltre la Giostra del toro, per molti versi simile alla odierna Corrida spagnola. La corsa al palio, con l’andare dei secoli, decadde e venne sostituita con la corsa degli asini.

     Dal 1982, la corsa al Palio non si svolge più al mattino, ma nel pomeriggio. Quei patti di pace stipulati nel 1182 tra Fermo e Monterubbiano e la inequivocabile documentazione della dotazione da noi scoperta, che riporta ad anni anteriori la corsa del Palio, permeano di profonda consapevolezza la celebrazione. Brilla, nel fulgore del sole agostano, la formula… “e promettiamo di portare ogni anno a Fermo, in occasione della Festa di Santa Maria di Mezz’Agosto, un palio splendido e ben lavorato. Notiamo anche la notizia che, nel 1449, Monterubbiano non ha portato in quell’anno il Palio, cosa sempre fatta ‘da trecento anni’: grave il disappunto dei cittadini di Fermo per la mancata partecipazione, perché la città era orgogliosa di tale palio.

    . Monterubbiano, legata a Fermo da allora, oggi toma con i suoi “militi” sbandieratori della Sagra dei Piceni, “Sciò la pica” a sfilare con Fermo; vi partecipano, inoltre, i componenti del Torneo Cavalleresco di Servigliano, gli sbandieratori di Castel Fiorentino e anche i protagonisti della nota “Contesa del Secchio” di Sant’Elpidio a Mare.

 In una festa di sole e colori, Fermo e il Fermano celebrano la corsa del Palio, e la lontana Offida. sempre legata a Fermo (talché si oppose a far parte della Diocesi di Ascoli preferendo Fermo), conserva ancora nella chiesa Collegiata un palio, vinto dall’offidano Giuseppe Desideri nel 1840, grazie ad una sua velocissima cavalla. Offida tuttora va fiera di tale palio, o meglio, della Madonna del Palio, che è venerata colà con grande devozione e più volte preservò la cittadina da pericoli gravi: ultima la salvezza del paese durante la guerra 1940/’45.

     Oggi le antiche contrade di Fermo sono ridimensionate nella corsa al palio con l’aggiunta di Torre di Palme, Marina Palmense. Capodarco, Molini Girola, Campiglione.

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Anno 1211 – Dal Potenza al Tronto lungo la costa la Marca Fermana

     Siamo al 6 ottobre 1238. Da appena ventisette anni Fermo gode del privilegio dell’imperatore Ottone IV (1182-1218), privilegio rilasciato in data 1 dicembre 1211 da Sant’Angelo di Subterra (Puglia) in virtù del quale, oltre alla concessione della zecca, la città ottiene la giurisdizione sul litorale adriatico dal fiume Potenza al fiume Tronto (a flumine Potentiae usque in flumen Trunti). Nessuno senza il benestare di Fermo può fabbricare edifici e tanto meno fortezze, per la profondità entroterra di un chilometro.

     Ovviamente ciò precludeva ad Ascoli uno sbocco al mare, sbocco praticato per commerci e traffici della città e dell’intera vallata del Tronto. Ma allora, Ascoli non reclamava il diritto al mare; ed infatti, nella seduta del consiglio comunale generale, radunato in solenne tornata, Magliapane di Reggio, giudice ed ambasciatore di Fermo, delegato dal podestà Ugo Roberti, chiede di poter parlare ai consiglieri ascolani. Egli, presa la parola, ammonisce loro e l’intero consiglio di non compiere azioni di qualsiasi genere che potessero essere di danno o pregiudizio alla città, nel tratto fra il Tronto ed il Potenza e ciò perché esso rientra nella giurisdizione fermana. Anzi, precisa Magliapane, il diritto e la giurisdizione di Fermo si estende anche a sud del Tronto (et etiam ultra Truntum) perché appartenente alla Diocesi ed al comitato fermano. Ed a tal proposito, chiede al consiglio comunale di Ascoli di esporre il suo punto di vista, mediante una risposta pubblica. “Detto consiglio (traduciamo) dopo lungo dibattito e matura deliberazione, fece rispondere per bocca di Giacomo Diotisalvi consigliere di Ascoli al rappresentante di Fermo, che non fu mai loro volontà, proposito od ordinamento di fare alcunché contro i diritti di Fermo”. Non vi furono atteggiamenti o prese di posizione da parte di Ascoli contro tale risposta. L’ambasciatore di Fermo allora ringraziò, ribadì che la giurisdizione di Fermo si estendeva anche a sud del Tronto e due notai, uno di nome Altidona e l’altro Gerolamo Pitio, redassero l’atto relativo “consacrando” il fatto alla storia. Sono passati anni e secoli, ma ancor oggi alcune località del Teramano, site a sud del Tronto come Martinsicuro, Colonnella, Sant’Egidio alla Vibrata appartengono alla Diocesi di S. Benedetto-Ripatransone-Montalto, territorio che era in gran parte della Diocesi di Fermo, alla quale fu sottratto nel 1571 e successivamente nel 1586, per l’erezione della Diocesi di Ripatransone e poi di Montalto ora riunite queste e costituenti un tutt’uno con sede vescovile a S. Benedetto del Tronto.

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Anno 1221 –Pellegrino da Falerone e il mal di denti

     Medicina e religione si intrecciano nella festa di S. Biagio, il 3 febbraio, protettore contro le malattie della gola e il 9, S. Apollonia, popolare santa egiziana, protettrice contro il mal di denti. A tale santa, infatti, martirizzata nel 249 d.C., furono spezzati ed estirpati i denti, in odio alla fede cattolica. Il dente?! Guai al suo dolore! È un vocabolo significativo di cui è ricco il lessico di ogni lingua: spuntare i denti; battere i denti per il freddo; “digrignare i denti; a denti stretti; il dente del giudizio (a molti dei nostri governanti, manca?!).

     Reminiscenze scolastiche ci riportano al lupo di Gubbio “dai denti aguzzi”; ma detto lupo richiama S. Francesco il quale, fra l’altro, ebbe a che fare con due marchigiani: Pellegrino da Falerone (poi beato) e Riczerio da Muccia.

     Narrano i Fioretti (cap. 27) che Pellegrino e Riczerio, allora studenti all’Università di Bologna, dopo una predica di S. Francesco “toccati nel cuore da divina ispirazione, vennero a Santo Francesco dicendo che al tutto volevano abbandonare il mondo ed essere dei suoi frati…”.

     S. Francesco li ricevette dicendo loro: “Tu, Pellegrino, tieni nell’ordine l’umiltà e Tu, Riczerio, servi ai frati”… poi, dopo alcune righe, i Fioretti aggiungono: “E finalmente il detto frate Pellegino, pieno di virtù, passò di questa vita a vita beata, con molti miracoli innanzi alla morte e dopo” nel 1233.

     Fra i molti miracoli sono rimaste famose le guarigioni dal mal di denti, verificatesi al contatto con un dente del beato Pellegrino, immesso nella cavità orale, legato ad un’assicella d’argento, in modo da poter toccare i denti cariati o malati. Folle di fedeli usavano pellegrinare alla sua tomba per ottenere guarigioni; molti erano gli ex-voto, per lo più in argento, che adornavano le pareti della cappella dove riposa. Numerosi volumi parlano di tali taumaturgiche guarigioni. Sono: Pietro da Tossignano nel 1586; Orazio Civalli 1594; la Historia di Valerio Cancellotti 1630.

     H. Keber, nell’opera I Patronati dei Santi, elenca ben 21 protettori contro il mal di denti. Fra questi, oltre a S. Apollonia, il nostro Pellegrino da Falerone che è vivo nel cuore e nel culto di quanti soffrono del mal di denti.

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Anno 1229 – Privilegi per Montegiorgio

    Il grande imperatore svevo, Federico II, date le molteplici mansioni della sua carica, non poteva disporre di tempo per tutti gli impegni e problemi del suo vasto impero, perciò, spesso, delegava i suoi fidi rappresentanti, approvando in pieno il loro operato e sanzionando, con la sua imperiale autorità, le loro decisioni. In tale contesto, c’è un privilegio, in virtù del quale, esonerava l’allora castello di Monte Santa Maria in Georgio (attuale Montegiorgio) da taluni obblighi ed adempimenti verso la città di Fermo. Ciò in considerazione della fedeltà a Federico, a suo padre (Enrico VI) ed a suo nonno, cioè al Barbarossa, da parte dei cittadini di Montegiorgio!

     Ma veniamo alla lettura del documento. “Rinaldo per grazia di Dio e dell’imperatore, duca di Spoleto, legato imperiale per la Marca di Ancona su preciso mandato di Federico II concede agli abitanti di Montegiorgio l’esenzione d’ora in avanti di tutti i pesi, servi ed obblighi e doveri verso Fermo”.

     Tale concessione aveva validità perpetua. Rinaldo, non solo concede tale esenzione, ma decide che siano considerati abitanti di Montegiorgio anche gli abitanti delle pertinenze, del castello di Collicillo (ora scomparso), di Magliano di Tenna e i territori di Ripa Cerreto, Atleta, Rapagnano, Monteverde e Monsampietro Morico. Territori con cittadinanza montegiorgese soggetti all’imperatore

     Rinaldo riduce anche i canoni di affitto e dispone che essi non superino le 30 libbre annuali. Stabilisce inoltre che tutti i cittadini di Montegiorgio, come detto sopra, possano avere il libero e pacifico possesso dei loro beni, in qualsiasi parte si trovino e che le autorità di Montegiorgio abbiano la facoltà di richiamare all’osservanza della legge i facinorosi. Rinaldo assicura che quanto da lui concesso, automaticamente viene approvato dall’imperatore Federico II. Inoltre, nel privilegio c’è un altro dato molto importante: la cittadinanza montegiorgesi liberava da impegni e doveri verso la città di Fermo, in particolare nessun impegno per il servizio militare nell’esercito fermano, per la partecipazione al Parlamento e neanche portarvi il Palio il giorno dell’Assunta.

     Questa esenzione è interessante, perché documenta che nel 1229 quando non era trascorso mezzo secolo dalle prime notizie, l’offerta del Palio da parte di Castelli dello Stato Fermano nel giorno dell’Assunta era stata ampiamente consolidata. Anche per questa data il nostro Palio fermano risulta più antico, (benché meno conosciuto) di quelli di Siena, di Ferrara e di altri: trova qui la documentazione incontrovertibile della sua esistenza e della sua vasta diffusione.

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Anno 1240 – La Vallata del Tronto e Federico II.

    Federico II venne nella Vallata del Tronto. Lo narra egli stesso, in una lettera ai cittadini di Cremona, documento che gli storici pongono cronologicamente dopo l’altro emanato negli accampamenti davanti alla città di Fermo a favore di Napoleone Monaldeschi. Federico col suo esercito dopo aver devastato e saccheggiato Ascoli proseguì per Monte Cretaccio, nell’attuale territorio di San Benedetto del Tronto.

    Qui si trattenne per alcuni giorni, dopo di che, si recò con Curia ed esercito a Fermo. Da qui rilasciava un privilegio di conferma a favore di Napoleone Monaldeschi nell’agosto 1240 e da qui sembra abbia scritto la lettera ai suoi sudditi di Cremona. Tale lettera, il cui originale si conserva in Francia, recita testualmente: “È tanto l’amore e la preoccupazione che ci induce a pacificare l’Italia ed è tanta la sollecitudine che ci accompagna e previene le nostre preoccupazioni verso i nostri fedeli per levarli dalla persecuzione dei nemici, che nessun piacere del nostro Regno potrà frenare, dopo aver disbrigato i grandi impegni nel Regno, con costanza ed ansietà … affrettandoci all’uscita del Regno e lasciate da parte le inattività contrarie alla nostra intraprendenza, siamo incappati nei calori estivi e nella polvere degli accampamenti, non risparmiando pericoli alla nostra persona ed ai fedeli, affinché tra i confini paludosi, circondati da una cerchia di monti, si potessero compiere stragi dei nemici e devastazioni. Accadde dunque che tra le occupazioni ed il disbrigo di atti dello Stato, da cui non ci potemmo esimere, la nostra persona, a causa della debolezza fisica e della aria malsana, incorse in una disfunzione umorale” recita l’originale che poi prosegue nella nostra traduzione: “Noi con la forza d’animo l’abbiamo completamente superata, talché restando negli accampamenti con dignità imperiale, passato il giorno critico non v’era altro impedimento che impedisse il glorioso proseguimento e la felice vittoria imperiale”. L’uscita dal territorio del Regno riguarda la Vallata del Tronto. E questa affermazione, a nostro avviso, confermerebbe la cronologia data dagli storici, dopo la sosta a Fermo. Infatti, è documentato dalla stessa lettera che, partito da Fermo, Federico si diresse in Romagna e, nel tragitto, compì devastazioni ed efferatezze da far rabbrividire. Il testo della lettera prosegue: “Pertanto con l’aiuto del Signore, il quale dà la salute ai Re ed ai principi, rimessici in salute come prima, anzi resi più forti, noncuranti dei calori estivi, continuiamo il viaggio dopo aver chiamato a raccolta le nostre forze e le nostre energie, procedendo verso la Romagna pronti a calpestare con la nostra potenza i ribelli, dovunque ci venissero incontro. E affinché singolarmente e collettivamente voi tutti possiate essere maggiormente confortati, tanto per la recuperata salute, quanto per i successi conseguiti, vogliamo comunicarvi ciò, per allontanare da voi ogni dubbio e perché con l’aiuto del Re dei Re che si comporta con misericordia verso il suo principe, seguirà la desiderata salvezza e la vittoria sui nemici”.

    Si evince dalla lettura che la Vallata del Tronto, è indicata come terra di confine tra il regno di Napoli ed i domini papali. Che tale lettera sia di data posteriore all’assedio di Ascoli ed alla sosta di Federico a Monte Cretaccio, attuale territorio di S. Benedetto del Tronto. Ci induce a pensarlo un dato curioso del contesto.

     L’abate di Montecassino, che si trovava come testimone nell’atto emanato da Federico a Monte Cretaccio, col quale prese sotto la protezione imperiale, la città di Alessandria (che aveva dato tanto filo da torcere a suo nonno, Federico Barbarossa), non è più presente quale testimonio nella lettera ai Cremonesi. “Stefano, abate di Monte Cassino – ci narra Riccardo da S. Germano – con il permesso di Federico, dato che era malato, si portò alla sua chiesa di S. Liberatore e vi rimase fino a che guarì”. Facilmente era affetto della stessa malattia di Federico: la discrasia è l’alterazione dell’equilibrio tra i componenti del sangue ed i liquidi organici,

     Inoltre, è chiara la frase di Federico quando afferma che dopo aver ricuperato le forze, muove verso la Romagna. E’ una nuova luce non solo sulla storiografia di Federico II, ma anche sulla località di compilazione dell’atto che, a nostro avviso, e per le chiare parole di Federico: “ci dirigiamo verso la Romagna” e per l’assenza per malattia dell’abate di Montecassino, fu quasi sicuramente scritto ante civitatem Firmanam, cioè davanti alla città di Fermo che nell’estate 1240 era accampato a Fermo.

Nella Curia imperiale, nella quale spiccava Pier delle Vigne (che sarebbe stato poi eternato da Dante nella Commedia). Vi erano anche Taddeo da Suessa, giudice della Gran Curia, l’Arcivescovo di Palermo, Bernardo, il figlio del Re di Castiglia ecc.

     Era la fine di agosto 1240 e Federico II, a Fermo, emanò una bolla a favore di Napoleone Monaldeschi, cittadino fermano, confermandogli privilegio concessogli in precedenza; ora glielo conferma in veste di imperatore. Se pensiamo che la conferma al Monaldeschi venne fatta in un periodo di preparazione bellica da parte di Federico e del suo esercito, la cosa appare di alta importanza e di alta considerazione per Fermo ed il suo cittadino. L’imperatore tiene molto a questa conferma e nel privilegio ordina:… “nessuno, sia esso delegato, duca, conte, marchese, podestà, rettore, console, nessuna altra autorità, alta o piccola, osi contraddire a tale nostro decreto”. E, come se ciò non bastasse, incalza: “nessuna personalità civile o religiosa osi opporsi a quanto abbiamo stabilito” e chi lo facesse “sarà multato con 60 libbre di oro e sappia di essere incorso nell’indignazione imperiale”. Il sigillo della maestà imperiale chiude la bolla, dando piena autorevolezza al documento.

     Tutto ciò è datato nel mese di agosto (i diplomi imperiali non mettono quasi mai il giorno) “regnando Federico imperatore per grazia di Dio Re di Gerusalemme e di Sicilia, nell’anno quindicesimo del regno di Gerusalemme, alla presenza di molti testimoni, (tra cui il nominato Pier delle Vigne) negli accampamenti davanti alla città di Fermo. Felicemente, così sia”.

     Come accennato, Federico, dopo la conferma, si trattenne ancora un po’ di tempo a Fermo e quindi si diresse alla volta della Romagna. Nel tragitto, “commise tali e tante devastazioni ed efferatezze, che al paragone impallidivano le atrocità perpetrate dai barbari nella loro calata in Italia”. Così si esprime Flavio Biondo (1392-1463) insigne umanista e storico di Forlì, nella sua poderosa Historia ab inclinatione Romanorum (Storia della caduta dell’impero romano). Come si vede, la sosta a Fermo durata fino ai primi di settembre di quel lontano 1240 costituì una pausa di pace, prima che “il foco ed il furor d’Odino” s’avventassero, distruttori, sulla “Romagna solatìa” (come la dice G. Pascoli).

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Anno 1240 – Federico II e Sant’Elpidio – In due diplomi l’imperatore concesse privilegi.

     Nel guardare lo scenario della storia medievale italiana ed europea, molti imperatori ci sembrano quasi “divinizzati”, lontani dalla nostra vita, dalle nostre località, tanto più che molti di loro sono stati già immortalati.

     E Federico II  ebbe a che fare con le Marche meridionali, benché questo dato non sia posto in adeguato rilievo dagli storiografi passati ed attuali.

     Sappiamo che l’imperatore ebbe a che vedersela con Papi, tra cui Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, buscandosi diverse scomuniche, arrivando a far assalire in mare i Cardinali che si recavano al Concilio a Roma.

     Ci è noto anche che ebbe a che fare con i Comuni della seconda Lega Lombarda; risulta che si sposò due volte e le due mogli sono entrambe sepolte nella Cattedrale di Andria.

    Lo conosciamo come fondatore della Scuola Siciliana, autore di un manuale sulla caccia degli uccelli, fondatore della città de L’Aquila, dell’Università di Napoli, è il padre di Manfredi ed “l’accecatore” di Pier delle Vigne.

Ma pochi, come detto, mettono in risalto i suoi legami con il Piceno (peraltro si narra che Federico II era nato nelle Marche, a Jesi, la notte tra Natale e santo Stefano del 1194).

     L’imperatore ebbe a che fare con Ascoli che assediò nel luglio del 1240 (non 1242 come tanti storici affermano); si recò in territorio di San Benedetto del Tronto, cioè a Monte Cretaccio, dove ricevette sotto la sua protezione la città piemontese di Alessandria, fiera nemica dei suoi avi, e fu anche a Fermo fra l’agosto e il settembre 1240.

      Ma Federico II, lo stupor mundi si interessò anche di Sant’Elpidio a Mare. Prese infatti sotto l’imperiale benevola protezione l’abazia di Santa Croce al Chienti (monasterium S. Crucis in Clente) e l’abate di quel tempo di nome Corrado. A tale abazia donò molti beni tra cui la Silva Plana, ampi terreni, al di qua e al di là del Chienti, concedendo ai frati di utilizzare a loro piacimento l’acqua di tale fiume. Questo avvenne il 12 dicembre del 1219, e la bolla fu emessa da Capua, luogo natale del fido segretario Pier delle Vigne.

     Federico II emanò un altro documento sempre relativo a Sant’Elpidio a Mare, stavolta da Venosa, nell’ottobre del 1250. Ne diamo la nostra traduzione dal latino: “Federico per grazia di Dio Imperatore sempre augusto, Re della Sicilia e di Gerusalemme. Attraverso questo privilegio rendiamo noto a tutti i nostri fedeli sudditi, presenti e futuri che il Comune del nostro fedele castello di Sant’Elpidio aveva rivolto istanza alla Nostra Maestà, per la conferma di alcuni patti e convenzioni che, a suo tempo, gli aveva fatto il nostro Vicario Generale nella Marca di Ancona Gualtiero di Palearia conte di Manoppello. Tali patti, scritti dal predetto conte Gualtiero portano la sua firma ed il suo sigillo. Noi, in considerazione della grande fedeltà e sincera devozione che nutre verso di Noi il Comune di Sant’Elpidio, e poiché sia detto Comune che i singoli suoi cittadini hanno finora reso graditi servizi sia a Noi sia all’Impero, ed altrettanto potranno fare in futuro, li confermiamo per nostra grazia”.

     Dopo alcune forme giuridiche proprie dei privilegi imperiali, continua: “Noi conserveremo e difenderemo il castello di Sant’Elpidio con i suoi beni, i possessi e le tenute che ha, nelle persone e nelle cose sia dentro che fuori le mura, come accadde ai tempi dei nostri predecessori. Noi difenderemo sia i laici che i chierici di tale castello e distretto, e ciò finché rimarranno a noi fedeli

Federico effettua altre concessioni tutte relative al bene, alla prosperità ed alla crescita del castello di Sant’Elpidio. Infine, chiude minacciando pene severe a chi osasse opporsi a tali concessioni: “di nostra autorità disponiamo che nessuno osi impedire quanto da noi deciso. Chi lo facesse, sappia che incorrerà nel nostro sdegno”.

     Per dare maggior prestigio di stabilità e di autorevole validità al privilegio, lo fa redigere dal suo fedele notaio Rodolfo di Podio Bonici e munire del sigillo di maestà imperiale: maiestatis nostre sigillo iussimus communiri.

     Federico II  cheDante nella Commedia lo immaginerà collocato nel cerchio degli eretici), morì due mesi dopo, il 13 dicembre 1250, colto da febbri intestinali. Riposa nella Cattedrale di Palermo.

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Anno 1242 – Epilogo di una Lega più di sette secoli fa.

    Nelle sfide elettorali compaiono leghe che spuntarono in vari luoghi dopo l’esempio della Lega Lombarda, creata dai Comuni Lombardi, che diedero filo da torcere a Federico Barbarossa e avevano scelto per capo carismatico Papa Alessandro III. I Comuni lombardi fondarono allora quella città che doveva resistere a Barbarossa per ben sei mesi, città che in onore del Papa era chiamata Alessandria. Mentre i sostenitori del Barbarossa nel farvi un  assedio nel 1175 ridevano chiamandola “Alessandria dai tetti di paglia”, ma essa resistette vittoriosa e il Barbarossa ritornò a casa con le pive nel sacco. Oggi non parliamo tanto di Federico I, quanto del suo nipote Federico II, il quale ebbe a che fare con le Marche, dove si narra fosse nato (a Jesi il 25 dicembre 1194), e venne a combattere assediando Ascoli nel luglio 1240 (non nel 1242 come asserisce qualche storico); poi occupava Fermo ed altre città.

     C’è un fatto importante che gli scrittori di storia nazionale non pongono nel dovuto risalto. Proprio nel territorio dell’antico Stato di Fermo e precisamente a Monte Cretaccio, Federico II dopo decenni di avversione, riceve la sottomissione della fiera città di Alessandria, la roccaforte della lega che ora, a seguito di varie vicende storiche (fra l’altro non voleva sottostare al Monferrato ed era in preda alle lotte tra Guelfi e Ghibellini) chiedeva protezione al nipote del feroce Barbarossa.

Federico II, lo stupor mundi, attorniato dalla sua corte imperiale, dopo l’assedio di Ascoli, aveva posto gli accampamenti a Monte Cretaccio, nel mese di luglio 1240. Sono con lui Pier Delle Vigne, Taddeo da Sessa, l’arcivescovo di Palermo, i Vescovi di Torino e quelli della Marsica, l’abate di Montecassino e molti altri. Scrive un atto : “Noi, Federico per grazia di Dio, imperatore dei Romani, Re di Sicilia e di Gerusalemme rendiamo noto a tutto l’Impero, che la città di Alessandria ha abbandonato la società degli infedeli (i fautori del Papa) ed è passata alla parte imperiale, chiedendo la nostra protezione. Noi guardiamo con occhio benevolo a tal decisione… e la riceviamo nella nostra grazia e nel nostro onore, perdonando le offese passate” (…) “A conferma di questa protezione e di questo atto, ordiniamo di redigere questo privilegio, munendolo della bolla d’oro… Dato negli accampamenti di Monte Cretaccio, dopo la devastazione di Ascoli, luglio 1240”.

     Tale documento (che la città di Alessandria conosceva da una copia, redatta in francese, del 1839 ma ignorava il testo originale) è stato da noi rinvenuto in Francia, precisamente a Marsiglia, e fa conoscere come in territorio dell’antico Stato di Fermo ebbe luogo l’emanazione di un atto di grande valore storico, che vedeva l’indomita Alessandria passare all’obbedienza imperiale dopo 65 anni dal fiero assedio postole da Barbarossa.

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Anno 1242 – Il panno di Federico: rivela lo stretto legame con i Fermani.

    Jesi, orgogliosa, sentendosi la patria dove è nato Federico, non ha ricevuto molti documenti federiciani. Chi può dare tessere di storia per il mosaico ancora incompiuto della vita di Federico, senza campanilismi, è Fermo che ebbe relazioni non trascurabili con Federico, sia nel bene sia nel male. In ogni caso questa città è uno dei “settori” principali della vita e delle opere di Federico.

    Nonostante si voglia misconoscere l’importanza dei referenti culturali, la storia deve studiare i documenti. Stiamo consultando anche archivi esteri e relative pubblicazioni. Nell’anno 1242 e dintorni, Federico scrive a Fermo (dove era stato due anni prima insieme alla Curia e il segretario Pier della Vigne), per ringraziarla dei doni che i Fermani gli avevano inviato con apposita ambasceria (nuncii legationis dice il testo)-

     Egli li aveva graditi immensamente, e lo afferma nella lettera di ringraziamento, che arieggia passi latini nel Vangelo dove si narra dei re Magi che porsero doni al Bambino Gesù. Federico sottolinea che li ha graditi perché non richiesti, ma dati spontaneamente quale pegno di sincero affezione da parte dei suddetti Fermani. “I doni placano gli uomini e gli dei” affermava l’antica saggezza ed i Fermani, a quanto pare, ne erano consapevoli.

   E Federico porge espressioni grate. Egli per ringraziare concretamente, invia a mezzo degli stessi membri della delegazione fermana che gli avevano portato i doni, un panno con componenti d’oro “per ornare l’altare maggiore della vostra chiesa madre”. Così recita il documento: Federico faccio volentieri e con gioia (hylariter) invitando i Fermani a proseguire nella fedeltà e solerzia verso l’Impero, in modo che possiate sempre bene meritare della nostra maestà imperiale”. Il documento è ha parti illeggibili come ala riga dove Federico è mandato il panno “ad honorem beati …”  potrebbe indurre a pensare: beati(ssimae Virginis).

   Benché non siano stati fatti approfondimenti con nuovi mezzi tecnici per una lettura completa, sarebbe molto suggestivo pensare ad uno dei tanti palii dell’Assunta.

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Anno 1245 – LA MARCA FERMANA invasa nominata nel Concilio di Lione

     Censura, interdetto, anatema, scomunica… vocaboli che denotano pene ecclesiastiche verso chi si è macchiato di colpe molto gravi. Già al tempo dei Greci si aveva qualcosa di simile, quando si praticava l’ostracismo, ossia l’esilio di dieci anni contro gli Ateniesi che, talora per la loro popolarità, destavano sospetti di intrighi politici. Nel periodo romano imperiale, quando le supreme cariche politiche e religiose erano incentrate nell’imperatore che era anche pontefice massimo, si punivano il cittadino condannato con l’interdire con l’acqua (lustrale) e il fuoco (sacro del focolare): interdicere aqua et igni, così lo si bandiva dalla società civile e religiosa.

Alla caduta dell’Impero Romano e con raffermarsi del Cristianesimo, i vari Concili codificarono vari tipi di pene da irrogare, a seconda della gravità dei reati e così si ebbero l’ammonizione, la censura, (che è biasimo e severa critica dell’operato di qualcuno), la sospensione (ricordiamo quella a divinis, sacramenti), l’interdetto (con cui in un dato luogo si privano i fedeli dell’uso di alcuni Sacramenti o del godimento di determinati diritti spirituali). La scomunica è l’esclusione dalla comunità della Chiesa cattolica di un colpevole, cui è anche vietato di accostarsi ai riti sacri sacramentali. L’estromissione dalla comunità dei fedeli non si verifica con l’interdetto. Vi è anche l’anatema, cioè l’esclusione dalla comunità dei fedeli, rivolta, soprattutto ad eretici, o comunità sistematiche.

     La storia ci parla di scomuniche pontificie famose come le due scagliate contro Enrico IV (si umiliò poi a Canossa); quella contro Federico Barbarossa da parte del Papa Alessandro III nel 1161 e 1164; quelle inflitte a Ottone IV nel 1210 e 1211; quella fulminata dal Leone X contro Lutero; quella di Pio VII contro Napoleone, che da allora in poi cominciò a collezionare sfortune fino a Waterloo (18 giugno 1815).

     Ma a quanto ci consta nessuno collezionò ben tre scomuniche, come Federico II, lo stupor mundi che venne scomunicato una prima volta nel 1227, la seconda volta nel 1239; entrambe le scomuniche gli furono lanciate da Gregorio IX. La terza gli venne fulminata da Innocenzo IV, nel Concilio di Lione, il 27 luglio 1245.  Ho riletto quest’ultima nel suo curiale, ma eloquente latino: è una inquisitoria analitica. Federico è accusato di imprigionare Vescovi e Prelati: di perseguitare la Chiesa cattolica in Sicilia; di avere imposto tasse gravosissime; rubato suppellettili sacre. E spergiuro, eretico, ha ucciso il duca di Baviera; stipulato alleanze con i saraceni, e non paga le tasse dovute alla curia romana. Ma all’inizio della bolla di scomunica c’è una prima motivazione: Federico è scomunicato anzitutto per aver invaso il dominio della Santa Sede, esattamente si legge nell’atto: la Marca Fermana e il Ducato Beneventano, ha distrutto città e fortezze e si tiene impunemente occupati la Marca Fermana e detto Ducato di Benevento.

E così anche al Concilio di Lione, alla presenza di Papa Innocenzo IV e dei rappresentanti di Federico II, tra cui Taddeo la Sessa e di oltre 150 prelati si parlò della Marca Fermana che era uno dei motivi di questa terza scomunica contro Federico II, la cui potenza da allora cominciò a declinare fino alla morte avvenuta nel 1250.

Anno1253 – Ranier Zen, podestà di Fermo eletto doge, parte per Venezia

     Si era in pieno carnevale quando, partiva dal Porto di Fermo (odierna Porto San Giorgio) il podestà di Fermo, Ranieri Zeno, neo eletto doge, chiamato a raggiungere Venezia. Egli si trovava podestà a Fermo, dopo essere stato in precedenza podestà di Treviso, di Piacenza, di Bologna (1239), di Verona, ambasciatore della Serenissima al Concilio di Lione (dove uscì scomunicato Federico II) e comandante di una spedizione militare contro Zara, ribellatasi a Venezia.

     Zeno, era stato eletto doge il 25 gennaio 1253; allora quattro galee (non quaranta) partirono da Venezia con a bordo 12 patrizi in qualità di ambasciatori con capo Marco Ziano antagonista nell’elezione che aveva prescelto il Ranieri il quale non era presente per assumere subito la carica Stava a Fermo e dovette provvedere a sbrigare le pratiche inerenti il trapasso dei poteri, aspettando la piccola flotta che da Venezia veniva a prelevarlo.

    Dopo qualche giorno di navigazione le quattro galee giunsero al Porto di Fermo; prelevarono il neoeletto, e, fatti i saluti, ripartirono alla volta di Venezia. Grandiosi i festeggiamenti della Serenissima in onore del nuovo doge e fantasmagoriche le luminarie e le giostre che ebbero carattere internazionale in quanto vi parteciparono cavalieri veneziani, tedeschi, friulani, istriani, lombardi, trevigiani. Direttore e giudice dei tornei, era Lorenzo Tiepolo, figlio del doge Jacopo.

Una leggenda narra che addirittura Sant’Antonio da Padova avesse predetto in sogno a Ranieri la sua elezione. Uno dei primi atti del nuovo capo della Serenissima, fu la partecipazione, con il Senato, alla processione in onore di tale santo.

   Lo Zeno fece contratti di interdipendenza con i castelli dell’entroterra Fermana con impegni di cittadinanza fermana, che sono trasmessi negli Statuti dei Fermani, cioè con gli altri Comuni Fermani: Statuta Firmanorum 1589. In pratica quello che l’imperatore esigeva dai castelli sottomessi, i dogi veneti lo ottengono per Fermo, contrattando accordi con i Comuni dell’entroterra.

   Il dogato del Ranieri proseguì la guerra contro Genova da cui uscì vittoriosa Venezia. La battaglia davanti a San Giovanni d’Acri (in Terrasanta) costò ai Genovesi la perdita di 24 galee e 1700 uomini; inoltre, ci fu la lotta contro i fratelli Ezzelino e Alberico da Romano, etc.

LORENZO TIEPOLO

   Abbiamo accennato a Lorenzo Tiepolo. Anch’egli fu podestà di Fermo e, per sua iniziativa, fu eretta la Rocca di Porto San Giorgio (detta Rocca Tiepolo) con una lapide che lo ricorda ai posteri. Anch’egli fu doge di Venezia; e, fu l’immediato successore di Ranieri Zeno il quale governò da 45° doge dal 1253 al 1268; e Lorenzo Tiepolo dal 1268 al 1275 fu il 46°!

     In quel periodo era tutto un fiorire di “podestà-dogi” sbocciati a Fermo. Anzi, vi fu in seguito un altro podestà nipote di Ranieri: Andrea Zeno. Nell’Archivio di Stato di Fermo vi sono molte lettere dei dogi che sono state pubblicate da Hagemann e da Avarucci; in uno di queste Ranieri Zeno ringrazia i Fermani per aver eletto suo nipote. Nel 1260, per opera di Ranieri, vengono stipulati patti e convenzioni marittime tra Venezia e Fermo. Nel 1252, Ranieri acquista per conto del Comune di Fermo il girone ed il Castello di Torre di Palme per 320 lire ravennate-anconitane; non ci fu “tangentopoli”, sia perché Ranieri Zeno era onesto, sia perché era anche ricco. Il suo patrimonio, rapportato al valore odierno, sarebbe di circa 5 miliardi di lire.

    A Montegranaro vi sono tutt’oggi discendenti del podestà e doge Ranieri Zeno; sono i Marchesi Luciani Ranier.

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Anno 1259 – I privilegi di Federico II a favore di Torre di Palme, località fermana.

      Federico II imperatore (che Sisto V definirà recolendae memoriae (= memoria da ricordare) si occupa di Grottammare esattamente due mesi prima di morire. Si occupa anche di Torre di Palme, allora molto importante, nel settembre 1250. Federico si trova a Lago Pesole nei pressi di Acerenza, in Basilicata; e da qui emana un privilegio, attualmente conservato nell’archivio storico del Comune di Fermo in deposito presso l’Archivio di Stato della città. Con esso, conferma a Fermo patti e convenzioni precedentemente stipulati tra la città e Gualtiero di Palearia, conte di Manoppello, suo Vicario Generale del Sacro Romano Impero nella Marca. Nel privilegium, si legge che i castelli di Torre di Palme e Grottammare, sono confermati in sottomissione a Fermo; gli abitanti di Fermo che si trovano in questi castelli debbano rientrare in città, ma se non volessero farlo, devono prestare a Fermo servizi ed ossequi stabiliti. Nella conferma, Federico si mostra sagace e perspicace politico: lascia alla città una certa autonomia; non impone leve di soldati per l’esercito imperiale, né manda soldati di guarnigione; non effettua ostracismi di cittadini fermani, a meno che non siano traditori o rei di lesa maestà. Ogni eventuale decisione relativa a Fermo e territorio sarà concordata ed effettuata d’intesa con il Comune e cittadini di Fermo. Più tardi, nel 1258, Manfredi conferma l’appartenenza di Grottammare e Torre di Palme alla città di Fermo. È questa un’altra tessera del policromo mosaico documentale delle relazioni tra Fermo e Federico. Oltre alle numerose pergamene originali, conservate nell’Archivio di Stato fermano, ve ne sono altre imperiali conservate a Sant’Elpidio a Mare e a Montegiorgio. Nel conteggiare i privilegi di parte imperiale di Federico, più quelli del figlio Manfredi e quelli dei Vicari suoi nella Marca, il numero aumenta di molto. E possiamo affermare che Fermo e il Fermano non sono secondi a nessuna città marchigiana per numero e preziosità di originali imperiali del tempo di Federico I, Enrico VI e Federico II. Senza ombra di smentita.

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Anno 1266 – Moresco nel contesto imperiale, papale e veneto con il Doge Tiepolo

     Moresco, piccolo grazioso Comune vicino a Fermo, delizioso castello dalla struttura medievale quasi intatta, dominato e protetto dalla possente torre eptagonale, nell’interno, nell’area di quella che era una chiesa, l’ampia piazza (dove fino a qualche anno fa si svolgeva la manifestazione canora “Il merlo di Moresco”) è accogliente e ammirata nel bel porticato. Qui sono riemersi affreschi, tra cui una Madonna con Bambino, opera del secolo XVI di Vincenzo Pagani.

   Il nome ha fatto pensare che Moresco sia stato fondato dai Mori che infestavano le nostre coste; ma una diversa tradizione lo dice fondato nel sec. V contro le invasioni di essi. Moltissime pergamene dell’Archivio di Stato di Fermo ne parlano e ben sette, tra imperatori, Papi e Cardinali, si occuparono dei problemi di questo comune. Sette grandi personaggi si sono dati da fare per risolvere problemi regionali di cui più volte chiave della bilancia politica, fu proprio il piccolo Moresco.

     Nel 1248 il Card. Ranieri vicegerente del Papa per le Marche, restituisce Moresco a Fermo a cui era stato tolto dall’imperatore Federico II. Manfredi figlio naturale di Federico II, nel 1266 lo riconferma a Fermo; Papa Gregorio X nel 1272 da Lione scrive al castellano papale che lo riconsegni a Fermo; quattro anni più tardi, Innocenzo V ne conferma il possesso alla città Fermana, mentre nel 1278 Niccolò III ne sancisce l’appartenenza a Fermo. Sisto V lo stacca da tale città e lo aggrega al Presidato di Montalto.

Federico II, Manfredi, Gregorio X, Innocenzo V, Niccolò III, Sisto V… Siamo a quota sei, e il settimo? È un doge di Venezia: per l’esattezza Lorenzo Tiepolo, figlio a sua volta del doge Jacopo. Lorenzo è ricordato, fra l’altro, perché ha fatto costruire la rocca di Porto San Giorgio, quando era Podestà di Fermo. Correva l’anno 1266 ed era venerdì 11 giugno. I proprietari del castello di Moresco, tali Giorgio di Bordone e Felice Crescenzi di Santandrea, dopo vari approcci, vendettero Moresco al Comune di Fermo rappresentato appunto dal futuro Doge per la somma di lire 500 (cinquecento) lire volterrane dell’epoca.

   Interessantissima la pergamena relativa. Vi compaiono testimoni, notai, cittadini di città extra Regione. “…Vendettero, consegnarono all’esimio Lorenzo Tiepolo, figlio della buona memoria di Giacomo Tiepolo podestà di Fermo, il girone, il castello e la fortezza di Moresco con tutti i diritti reali e personali riguardanti castello e rocche, i fossati e tutto ciò che è annesso al castello medesimo...”.

     Oggi, ancora fiero nella possente mole del suo torrione, Moresco vigila sulla sponda sinistra dell’Aso. E’ stata restaurata la torre che ospita mostre e manifestazioni culturali, mentre nella parrocchiale, nume tutelare, dorme il sonno eterno il Card. Luigi Capotosti (+1937) suo illustre figlio, ultimo anello della catena di imperatori, Papi e Cardinali che si sono interessati di questo gioiello medievale ed …attuale!

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Anno 1267 – La Rocca di Tiepolo a Porto S. Giorgio

     Maestosa e poderosa, a ridosso di Porto San Giorgio, si erge la rocca di Lorenzo Tiepolo, podestà di Fermo e poi Doge di Venezia. Ancora salda e possente, nonostante le ingiurie del tempo e l’incuria degli uomini, ricorda al visitatore la sua data di nascita in una lapide posta all’ingresso: “Quando currebat Domini millesimus annus, et bis centenus cum septem sex deciesque…” (quando correva l’anno millesimo due volte centesim e diciasettesimo (1000 +100+100 +10 +7 = 1267).

Di quante vicende storiche è stata testimone durante tanti secoli! Vide le flotte degli Stati cattolici veleggiare contro la minaccia turca; mirò i gonfalonieri dei Castelli fermani, salire a Fermo a giurarvi fedeltà nel 1355; fremé di sdegno quando il 15 agosto 1490, duecento Fermani scesero a saccheggiare il palazzo municipale di Porto San Giorgio; vide Sisto V vescovo amministratore di Fermo, partire da qui ed assurgere ai fastigi del Pontificato romano; soffrì nella battaglia fra napoletani e francesi nel 1798, avvenuta nella pianura di Torre di Palme; e vide nel 1815 le truppe della sfortunata impresa del Murat alla Rancia; contemplò nel 1837 la Regina Anna Maria col suo corteo di diecimila persone, in viaggio con lo sposo Ferdinando d’Austria;  Garibaldi passò sotto i suoi bastioni nel 1849 e nel 1857 vi giunse anche Pio IX, in visita al suo Stato; gioì nel vedere nell’ottobre 1860 Vittorio Emanuele II galoppare alla testa del suo esercito di trentamila uomini per recarsi a sostare a Grottammare per cinque giorni e proseguire quindi alla volta di Teano.

     Pianse l’onta di Lissa (è quasi sullo stesso parallelo geografico) nel 1866: e come dové gemere nel vedere natanti sangiorgesi e marchigiani inghiottiti dai fortunali durante le tempeste dell’Adriatico; e le trepide carezze allietare la luna di miele di Gabriele d’Annunzio e della Duchessa di Gallese, Maria Hardouin, ospiti a San Giorgio nel 1883… Sono passati … secoli!

   Non c’è più oggi il Castellano, che Fermo vi rinnovava ogni sei mesi. Non si ha più memoria dei due anconetani, Giovanni Benincasa e Andrea Buscaretti, qui impiccati e seppelliti nel 1534 per ordine del Legato della Marca. Non marciano più a passo ritmato, le varie truppe di spagnoli, di tedeschi e di napoletani, anche quelle che Fermo mandava a San Benedetto del Tronto o arruolava dai suoi ottanta Castelli per la lotta contro gli ostili.

   Non si usano più, oggi,  il piombo, le vettovaglie e soprattutto i soldati, di cui la città doveva essere munita per fronteggiare ogni evenienza nella rocca sangiorgese. Nessuno più dei vari castellani ivi succedutisi, che avevano onori ed anche oneri, non ottemperando ai quali, rischiavano pene da mille fiorini d’oro, perfino il taglio della testa.

E chi ricorda la bella castellana? Sì, perché la Rocca ha una sua leggenda, di tradizione (o leggenda) popolare, dal tempo delle incursioni dei Turchi.

     Si racconta che sul finire del secolo XIII i Turchi sbarcarono lungo la costa di Porto San Giorgio. Contro di essi accorsero unanimi molti volontari sangiorgesi, con in testa il giovane castellano Pierfrancesco. Si combatté ferocemente da ambo le parti, con alterna vicenda. Nella parte meridionale del Castello, i difensori, dopo accanita resistenza, furono sopraffatti. Con urla selvagge, roteando le loro scimitarre, i Turchi irrompono nell’entrata delle mura del paese, mentre dall’alto flutti di olio ardente e lancio di pietre e sassi, sopra la porta, segnano l’ultima disperata resistenza dei sangiorgesi.

    Nel frattempo, molti vecchi, donne e bambini, si erano rifugiati entro la rocca, e sulla torre più alta la bella Rossana, la giovane sposa di Pierfrancesco, segue in ansia le fasi della lotta. Ad un tratto un manipolo di Turchi riesce a forzare le resistenze interne e salire sulla torre più alta.

La castellana si vede perduta.

Che fare? Le urla degli invasori salgono al cielo. Ma ecco un urlo più acuto, quasi selvaggio, un tonfo e poi silenzio … Che succede? Rossana, la bella castellana, prima che i Turchi si impadronissero di lei. si è gettata nel vuoto ed ora giace sfracellata. Pierfrancesco, informato che i Turchi stavano dentro la rocca, ansante, trafelato accorre a salvare il suo amore; ma ahimè! troppo tardi! Vede la sua Rossana esanime, ai piedi della torre, e lancia un grido disperato, ammazza quanti Turchi si avvicinano, poi afferrato il pugnale se lo immerge nel petto e muore… Tale è la leggenda. Ora tutto tace…

Del Castello rimane solo la Rocca salda e poderosa, pronta ad accogliere nella prossima estate i turisti e gli spettacoli. Il Comune e l’Azienda di Soggiorno si stanno adoperando per ril suo decoro in modo da darle degna e comoda accoglienza, dalla parte della piazza della Chiesa.

Agli ospiti ed ai turisti della Rocca testimonia la sua vicenda e ripeterà sommessamente i suoi splendidi distici che suonano, tradotti in italiano: “O città di Fermo io ti conservo salvi i lidi, fatta opera di chiusura del Porto e protezione delle navi. Dal martire San Giorgio prendo il nome che dà buon augurio. Quest’opera è stata fatta a guardia del Castello e della palizzata del porto, nell’anno del Signore 1267, al tempo in cui il veneto Lorenzo Tiepolo, progenie del Doge Iacopo, resse la città di Fermo, attraverso prosperi eventi”.

    Ora, o plurisecolare, storica Rocca, in alto protendi verso l’azzurro i bastioni e le torri! Son diventate anacronistiche le armi della tua fanciullezza, l’olio bollente, il piombo, la polvere da sparo, nell’epoca delle armi nucleari! Come è incredibile l’antica lenta marcia delle truppe che vanno a difesa del litorale, con la velocità supersonica degli aviogetti moderni, dei droni! Quando sei nata non erano ancora conosciuti ed esplorati tutti i continenti, ed ora questi non solo si conoscono, ma ci cimentiamo nei voli astrali ed alla conquista della luna e all’aggressione militaresca di armi.

Eppure, qui la pace si gode dentro lo spazio di questa primavera, a pochi passi dall’Adriatico, fiorito di vele, mentre le macchine sfrecciano veloci nell’asfalto sottostante! Quale alone di poesia emana dalla leggenda della castellana!

Nella tua calma riposante, tra il frenetico esagitarsi della vita moderna, è dolce bearsi di calma nell’epoca dei svecchianti e rinnovanti tecnicismi. Buon compleanno o rocca Sangiorgese!

Anno 1268- Una complicata riforma elettorale

Nel lontano 1268 si era verificata una riforma elettorale per l’elezione del doge ed il primo ad essere eletto col nuovo sistema fu un podestà di Fermo: Lorenzo Tiepolo, assunto alla suprema carica della Serenissima, mentre era ancora alle prese con le mansioni podestarili di Fermo e del suo vasto territorio. Allora i podestà duravano in carica solo un anno. Potevano però essere rieletti, come avvenne per Ranieri Zeno, che fu due volte podestà di Fermo e poi fu doge di Venezia prima di Tiepolo. Morto Ranieri Zeno (1268), venne varata la riforma elettorale che durò fino alla caduta della Repubblica di Venezia (1797).

     Consisteva in una complicata votazione. Il consigliere più giovane scendeva nella Basilica di San Marco e prendeva un bambino detto “ballottino” per estrarre le “ballotte” (pallottole) per le votazioni. Queste erano tante quanti erano i membri del Maggior Consiglio, ma solo trenta di esse contenevano il famoso bigliettino con la scritta “elector”. Il ballottino, bendato, estraeva le ‘ballotte’. I “trenta” estratti dovevano appartenere a famiglie diverse, senza legami di parentela. I non estratti, abbandonavano l’aula. Una volta rimasti in trenta, c’era un’altra votazione con lo stesso sistema del ballottaggio fino a rimanere in “nove”; questi avevano l’incarico di votare i “Quaranta” membri del Maggior Consiglio. I primi quattro sceglievano cinque nomi ciascuno. Per essere eletti occorrevano 7 voti. Con i quaranta si tornava ancora all’estrazione per eleggerne “Venticinque” che, sempre sorteggiati, erano ridotti poi a “Nove”, incaricati a loro volta per altre complicate operazioni. Il neoeletto era doge con l’aver raggiunto non meno di 25 voti. Complicatissima procedura, come si vede, che mirava a eliminare “partitocrazia” e “clientelismo” con burocrazia.

     Una volta eletto, Lorenzo Tiepolo, che aveva nostalgia di Fermo (tra l’altro aveva fatto costruire la famosa Rocca a Porto S. Giorgio detta appunto Rocca Tiepolo) scrive ai Fermani dando notizia della sua elezione. Leggiamo: “Lorenzo Tiepolo, per grazia di Dio, Doge di Venezia, della Dalmazia, della Croazia, Signore della quarta parte e mezzo dell’Impero Romano d’Oriente, al podestà, Comune e Consiglio di Fermo, suoi diletti amici, salute ed affetto”. Spiega che, sebbene senza suo merito, ma per volontà del Creatore da cui tutto dipende. era stato eletto Doge a seguito di una elezione condotta con il nuovo sistema. Dopo comunicata tale notizia al popolo, questo esultante, con grida di giubilo e mani levate verso il cielo, ringraziò Dio, entusiasta dell’elezione.

     La lettera prosegue dicendo che ebbe un momento di esitazione nell’accettare, ma poi confidando nella protezione del protettore di Venezia, San Marco evangelista, la carica fu da lui accettata. Tiepolo si rivolge con lettera ai Fermani suoi ex-amministrati, sia per chiedere preghiere perché insieme si goda, si ringrazi Iddio e si implori di governare la Repubblica di Venezia in tranquillità e pace. La lettera spedita dopo 14 giorni dall’elezione, per un ritardo non dovuto al servizio del servizio ‘postale’, ma al fatto che non era pronto il proprio sigillo di piombo ma mettere nella bolla.

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Anno 1272 – Un privilegio ai mercanti fermani

     Chi non ricorda un passo dantesco (Purgatorio III)? “Biondo era e bello e di gentile aspetto / ma l’un dei cigli un colpo avea diviso / quand’io mi fui umilmente disdetto / d’averlo visto mai mi disse; “or vedi” / e mostrommi una piaga al sommo il petto / poi sorridendo disse: “Io son Manfredi!”

     Manfredi (1232-1266) figlio naturale di Federico II, come già suo padre, si interessò di Fermo e del Fermano. Nel 1258 confermò alla città di Fermo la giurisdizione sui castelli di Marano (odierna Cupra Marittima), Boccabianca, Torre di Palme, Monturano, Moresco, Massignano, Lafreno, Torre S. Patrizio, Grottammare, Castel Monte San Giovanni, Monte San Pietro, Monte San Martino, Petritoli, Montefalcone, Monterubbiano.

     In quel periodo, il Vescovo di Fermo, Gerardo, che occupò la cattedra vescovile dal 1250 al 1272 fu dapprima fervido assertore dei diritti del Pontefice contro Manfredi, ma in un secondo tempo, si allontanò dal Pontefice, passando dalla parte di Manfredi, che “favorì grandemente o, almeno, sembrò farlo, come dice un cronista.

In seguito il Vescovo Gerardo si pentì e fu riammesso.

   L’interessamento di Manfredi non si limitò solo a ciò. Nel 1263, con altro privilegio datato 6 marzo ed emanato da Foggia, si interessò di Rinaldo da Brunforte e Rinaldo da Falerone. Pure da Foggia, nello stesso anno spedì una ratifica e conferma a Sant’Elpidio a Mare della concessione o “speciale grazia” fatta a tale castello dal padre Federico II.

     Nel novembre 1264, da Lucera, spedì un privilegio a favore di Fermo; con esso concedeva ai mercanti (mercatores) di tale città di potersi recare liberamente nel Regno di Napoli con le loro mercanzie; effettuare ivi i commerci e tornare poi a Fermo senza che nessuno potesse esigere da loro diritti di pedaggio, dogana né dazi.

     Come si vede, Manfredi aveva precorso l’abbattimento delle frontiere doganali di cui ancora parla.

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Anno 1279 – Monte Urano ricorre al Papa

    Non è da tutti scomodare un Papa e per giunta Papa Gregorio XIII (famoso tra l’altro per la riforma del calendario) per una questione di confini, ma ‘Monturano’, paese della Diocesi fermana, ci riuscì eccome!

     Stanchi ed esasperati dal fatto che i paletti (termini) che delimitavano i confini del loro territorio venivano di continuo rimossi, i Monturanesi decisero di rivolgersi direttamente a sua Santità Gregorio XIII. Il Papa, pur tra le occupazioni e cure del suo pontificato, si interessò della faccenda. Anzi la prese così a cuore che addirittura il giorno 13 aprile del 1579, inviò al Vescovo di Fermo una bolla in pergamena con sigillo in piombo, raccomandandogli di interessarsi personalmente della cosa.

     Molto probabilmente i cittadini di Monturano avevano inviato, a chi di dovere d’ufficio, i ricorsi e doglianze in proposito ma, a quanto sembra, senza alcun esito, tanto è vero che scavalcando la “via gerarchica” si rivolgono al Papa in persona.

     Gregorio investe della faccenda il Vescovo di Fermo scrivendogli: “Gregorio Vescovo, servo dei servi di Dio, al venerabile fratello e diletto figlio il Vescovo di Fermo od al suo vicario generale per gli affari spirituali salute ed apostolica benedizione. Ci è stato fatto presente dai diletti figli, sindaci ed officiali del castello di Monte Urano della Diocesi fermana che vi sono dei figli di iniquità di entrambi i sessi, che svellono i termini che indicano i confini portandoli di luogo in luogo, creando confusione e gravi danni al Comune di Monturano, causando altresì un pericolo per le loro anime e grande detrimento a detto castello. Essi hanno invocato aiuto a questa Sede Apostolica. Per la quale cosa ti scriviamo invitandoti ad intervenire nella faccenda ordinando di ammonire dal pulpito, in presenza del popolo, i trasgressori a riparare il male fatto e stabilire un congruo lasso di tempo, trascorso il quale quelli che hanno usurpato beni e possessi o li detengano fraudolentemente pongano riparo. Se non lo faranno tu devi scomunicarli“.

     Senza che sia stato scritto come andò a finire la faccenda, dobbiamo tuttavia notare che i cittadini di Monte Urano erano intraprendenti anche allora, se non nel commercio calzaturiero, nel ricorrere personalmente al Papa e riuscevano ad ottenerne il personale interessamento per una questione di confini.

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Anno 1280 – Fermo compera una parte del Castello di SAN Benedetto

    San Benedetto del Tronto oggi è un vivace centro marittimo, conta oltre 45.000 abitanti; è pulsante di attività industriali ed agricole.

Nel suo territorio anticamente si erano insediati i Siculi. Plinio scrive che fu questo1’ultimo insediamento dei Liburni in Italia. Nel 49 avanti Cristo vi si fermò Giulio Cesare, dopo il passaggio del Rubicone. Fu sede di Diocesi Truentina nel secolo V. Molti i documenti del Medio Evo: donazioni, prestane, precarie, permute, prima con l’Abbazia benedettina di Farfa (Provincia di Rieti) che aveva beni e possessi nelle Marche, inoltre con i vescovi di Fermo. Fu appunto uno di questi, Liberto, che nel 1145 concedeva ad Attone e Berardo la terra necessaria per la costruzione di un castello, con orti annessi, case per i coloni e quant’altro necessario per la loro vita.

     Sorse così il castello di S. Benedetto, variamente denominato nel corso dei secoli; dapprima si chiamò San Benedetto in Albula, dal nome del torrente che vi scorre; poi San Benedetto della Marca; San Benedetto presso il mare; San Benedetto di Fermo.

     La denominazione ‘San Benedetto del Tronto’, data nel 1862, dopo l’unità d’Italia lo distingue da località omonime come San Benedetto Val di Sambro, San Benedetto Po, e altre.

L’attuale denominazione arieggia il toponimo di una chiesa ‘San Benedetto al Tronto’ esistente, in territorio di Monsampolo, che era così importante da figurare nelle porte di bronzo della celebre Abbazia di Montecassino, dove stanno elencati beni e possessi che nel 1090 essa aveva nelle nostre zone, come Fermo, San Biagio di Altidona, e altrove.

     Abbiamo accennato sopra a donazioni, permute, anche acquisti e vendite. Una, esattamente, avvenne il 16 febbraio del 1281. Il nobil uomo, Gualtiero di Acquaviva e sua moglie donna Isabella, vendono a Fermo l’ottava parte del castello di San Benedetto in Albula, della Marca d’Ancona, Diocesi e Distretto di Fermo. Tale vendita fu fatta per l’ottava parte di loro proprietà, al sindaco di Fermo per la somma di lire 1000 (mille) ravennate o volterrane-anconitane.

L’atto di vendita è molto interessante, perché già da allora è menzionato il porto, di giuspatronato sulla chiesa di S. Benedetto ed si hanno altre utili notizie storiche: “Vendiamo cediamo con i diritti, il porto, i vassalli, i redditi, i servizi reali e personali, gli affitti, le tenute, le terre coltivate e quelle incolte, le selve, i boschi, gli onori e giurisdizioni.” Fermo godeva dell’esercizio del mero e misto impero, cioè poteva giudicare nelle cause penali e civili e addirittura sentenziare la pena di morte.

    San Benedetto del Tronto rimase sotto la giurisdizione di Fermo fino al 1827. quando vi fu uno “scambio” tra il Distretto di Montalto e la Delegazione di Fermo. Oggi questo importante centro marittimo prospetta un futuro luminoso.

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Anno 1281 – Santa Maria a Mare

   Alla foce del torrente Ete vivo, in territorio di Fermo, vi è una chiesa denominata Santa Maria a Mare. Di per sé sembrerebbe una località di modesta importanza, ma è famosa dal punto di vista storico. E’ infatti l’erede dell’antico Navale Fermano,anche Castellum navale (dei Fermani) di cui parlano Strabone, Plinio il Vecchio, Pomponio Mela, la Tabula Peutingeriana, l’Itinerario dell’Imperatore Antonino: tutti autori ed opere, di poco posteriori alla nascita di Cristo. Santa Maria a Mare è il toponimo di un nodo stradale importantissimo, posto alla confluenza tra la strada Castiglionese, la statale 16 e l’autostrada A14.

  Nel corso dei secoli se ne interessò Federico Barbarossa imperatore del XII secolo; vi si accamparono Alfonso d’Aragona e il conte Francesco Sforza nel sec. XV. Durante le guerre di successione, di metà secolo XVIII, vi stazionarono per alcuni giorni 38 mila austriaci, al comando del generale Lobkowitz. Nei pressi, il 28 novembre 1798, si combatté una sanguinosa battaglia tra l’armata dei Francesi di Napoleone e i combattenti Napoletani. Più recentemente, nella seconda guerra mondiale, fu oggetto di reiterati bombardamenti alleati, miranti a colpire i due ponti: quello della ferrovia e quello stradale. Non vi furono vittime umane e la popolazione della zona lo attribuì, e lo attribuisce tuttora, alla protezione di Santa Maria a Mare, la cui effigie campeggia da molti secoli nell’omonimo santuario a Fermo. Questo è ora officiato dai Padri missionari della Consolata di Torino. Uno di essi, docente all’Università Cattolica di Milano, è un latinista di fama internazionale, il Prof. Olindo Pasqualetti “eminenza” nel mondo del latino.

     Il santuario ha un rettore, come lo aveva nel 1281. Per tale anno, ci siamo imbattuti in un documento inedito che parla dell’elezione del Rettore. Il predecessore, Roberto, aveva rinunciato e si doveva procedere alla nomina del successore. L’atto, conservato nell’archivio di Stato di Fermo, descrive le urne elettorali (bussole) con sigilli e i ballottaggi, con gli interessi del Comune di Fermo e quelli del vescovo. La Chiesa, infatti, era giuspatronato del Comune, ma la nomina del rettore doveva essere approvata dal vescovo. Si era attenti a possibili elezioni fatte con irregolarità vere o presunte. L’ atto notarile era rogato da Bartolomeo di Guarcino. Tra l’altro nel documento si dice che Fermo doma i suoi nemici e rende agevoli le cose difficili (hostes firmanos, urbs domat; facit aspera plana). Nelle vertenze il Comune non uscì vincitore. Infatti, era stato eletto il pupillo dell’Amministrazione comunale, ma il Vescovo di Fermo (era Filippo III che governò la Diocesi dal 1272 al 1297) non approvò tale nomina. Possiamo immaginare che interessi, gelosie, procedure elettorali viziate, anche allora, potevano inficiare le elezioni.

     Oggi, il santuario ha vicino un porto turistico, la zona è ancora importante nodo stradale e nei pressi vi è un’area di stoccaggio di prodotti petroliferi. La chiesa di Santa Maria a Mare ha tuttora un rettore che anima la pastorale parrocchiale anche guidando a Roma un folto gruppo di fedeli. I Padri missionari della Consolata che officiano il Santuario recentemente hanno avuto la beatificazione del missionario loro fondatore.

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Anno 1288 – Papi marchigiani, ben dieci

     È di attualità parlare del Papa e dei Cardinali per cui, pensiamo, sarà gradito avere qualche notizia sui Papi e la nostra Regione e sui Papi della nostra Regione.

Le Marche, primeggiano tra le Regioni italiane, per aver dato alla Chiesa universale (senza calcolare Roma) un buon numero di sommi Pontefici. Alcune nazioni ne hanno avuto uno solo, come l’Inghilterra con Adriano IV (1153-1159). E qualche Regione italiana, come il Piemonte, non ha avuto nemmeno un Papa (Pio V è nato sì a Bosco, ma allora, questa località apparteneva al Ducato di Milano).

   Le Marche hanno avuto ben dieci Papi, fra cui risaltano storicamente le opere di Sisto V e di Pio IX. Un particolare storico curiosoè che sia Urbano V che Gregorio XI quando fecero ritorno da Avignone, vollero essere trasportati su “galee frabbricate (sic) in Ancona”. Ricorderemo pure che Gregorio XII, (Gabriele Condulmer, veneziano) Morì a Recanati 18 ottobre 1417 dopo lo scisma placato dal Concilio di Costanza, e qui resta sepolto. Rammentiamo pure che il celebre Pio II spirò ad Ancona, il 15 agosto 1464, dove si era recato per assistere alla partenza della flotta cristiana nella crociata contro i Turchi. Il Cardinal Todeschini Piccolomini fu amministratore apostolico della Diocesi Fermana dal 1483 al 1503 e fu papa Pio III. Anche Papa Benedetto XIV, Prospero Lambertini, morto nel 1758, prima di accedere al soglio pontificio era stato vescovo di Ancona.

Nei secoli precedenti,  il pontificato di Papa Giovanni XVII da Rapagnano, eletto nel 1003, durò dal giugno al dicembre dello stesso anno. Niccolò IV (1288-1292) era nato a Lisciano di Ascoli Piceno, di lui daremo altre notizie, e resta celebre per la sua attività missionaria.

Marcello II di Montefano (MC), fu papa per soli 22 giorni nel 1555. Sisto V di Grottammare, la cui fama è molto nota, portò a termine la cupola di San Pietro, eresse in palazzo Lateranense, il Quirinale, innalzò l’obelisco in piazza S. Pietro, costruì palazzi, acquedotti, stroncò il banditismo, e altre istituzioni.

Clemente VIII di Fano (+1605), ebbe da incoronare in Campidoglio Torquato Tasso; Clemente XI di Urbino (1700-1721) fu grande mecenate.

Clemente XIV nato da genitori di Sant’Angelo in Vado (Ps), rifondò Servigliano nuova in Castel Clementino (+1774).

Leone XII nato a Genga di Fabriano, pontificò dal 1823 al 1829, a cui è subentrato un altro marchigiano: Pio VIII, Francesco Saverio Castiglioni nato a Cingoli, e durante il suo pontificato venne restituita ai cattolici inglesi la libertà di culto.

Pio IX di Senigallia è troppo famoso per poter parlare adeguatamente di lui. Il suo pontificato è connesso con la storia d’Italia: l’uccisione del suo ministro Pellegrino Rossi, la presa di Roma, la fine del potere temporale, la proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione, il Concilio Vaticani I. Questo papa beatificato pontificò per 32 anni più a lungo di tutti i Papi, superando i 25 anni dell’apostolo S. Pietro.

Leone XIII volle per segretario di Stato il marchigiano di Recanati: Cardinal Lorenzo Nina. Benedetto XV volle per segretario di Stato il Cardinal Pietro Gasparri di Ussita (MC) che fu uno degli artefici della Conciliazione tra Stato e Chiesa nel 1929. Nel conclave del1922 il card. Gasparri volle far convergere i suoi voti a favore del card. Ratti, Pio XI. Pio XII (1939-1958) era di famiglia oriunda da Sant’Angelo in Vado.

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Anno 1288 – PAPA Nicolò IV da LASCIANO

   Nicolò IV il primo Francescano divenuto papa fondò le università a Macerata, a Montpellier, a Montepulciano. Senatore di Roma a vita, abbellì a Roma Santa Maria Maggiore. Ebbe buon esito nelle missioni ai Mongoli. E’ sepolto nella basilica di Santa Maria Maggiore che egli aveva abbellito ed adornato di meravigliosi affreschi.

Nicolò IV Papa dal 1288 al1292, a differenza dei suoi predecessori, non è nominato affatto da Dante nella Divina Commedia; forse perché lo stesso Dante fruì delle scuole francescane che questo papa volle creare a Firenze. Si interessò per Ascoli, anche riducendo una pena pecuniaria inflitta da Tommaso di Foligno, giudice generale della Marca nel 1280. Accenniamo alla vicenda.

Un decreto dell’Imperatore Ottone IV del 1211, concedeva a Fermo il dominio e la difesa sulla spiaggia adriatica dal fiume Tronto al Potenza; da qui, le lotte secolari tra Ascoli e Fermo. Nel 1280 Ascoli si alleò con Ripatransone e con Riccardo d’Acquaviva; assaltarono e distrussero i castelli di Mercato e di Bompaduro di giurisdizione fermana, siti nella parte costiera adriatica, non lontano da Acquaviva e attaccarono San Benedetto del Tronto, senza però riuscire ad espugnarlo perché, sopraggiunte le milizie fermane, gli assediatori se l’erano data a gambe. Ma già avevano commesso enormi misfatti.

    A Mercato e Bompaduro avevano ucciso donne, fanciulli e passati a fil di spada anche chierici, bruciando tutto, per cui vennero condannati al pagamento di 40 mila marche d’argento sia Ripatransone che Riccardo di Acquaviva. Nicolò IV ebbe un dissidio pure con il Re di Sicilia Carlo II. Questi pretendeva che il castello di Monte Calvo fosse suo, dicendo che era compreso nel territorio abruzzese. Il papa rivendicò l’appartenenza di esso alle Marche, nel comprensorio di Ascoli e con due specifiche, distinte bolle, una emessa a Rieti nel 1289 e l’altra a Roma presso Santa Maria Maggiore, ribadiva, l’appartenenza di Monte Calvo alla Diocesi Ascolana. Donò ad Ascoli uno stupendo piviale squisitamente ricamato e colorito tra il 1265 e il 1268. Fu trafugato, e poi riottenuto, oggi costituisce il vivo, visibile ricordo di un Papa che abbonò pene pecuniarie, fece vendere proprietà farfensi acquistandole per interposta persona e cedendole a favore di Ascoli.

Godendo tuttora dell’arte del manto del famoso piviale di sciamito di seta, Ascoli potrebbe erigergli il progettato monumento!

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Anno 1289 – Il piceno Nicolò IV

      Mons Pessulanus è la città, Montpellier, importante centro agricolo marittimo e culturale della Francia meridionale. Vi prospera una celebre università, fondata il 26 ottobre 1289 da un nostro comprovinciale, Papa Nicolò IV nativo di Lisciano di Ascoli. Egli fondò anche l’Università di Macerata nel 1290.

Nella bolla di fondazione, definiva Montpellier “luogo straordinariamente adatto allo studio” e questa università non ha conosciuto momenti di stasi. Attorno al 1320 ebbe come studente Francesco Petrarca; nel 1520 vi si immatricolò Francesco Rabelais e vi conseguì la laurea in medicina, poi divenuto famoso scrittore di Gargantua e Pantagruel.

Montpellier, nel corso dei secoli fu frequentata da catalani, italiani, tedeschi, francesi, e di altre provenienze, costituendo una università internazionale ante litteram. Sin dal suo sorgere, prese a modello gli statuti dell’Università di Bologna, ed assunse subito la caratteristica di università “più di studenti che di professori”. Fu influenzata da quella, pure di medicina, di Salerno, già famosa sin dal secolo IX, come famosissimi ed attuali sono anche oggi i Precetti che sin da allora raccomandavano il moto, l’esercizio fisico, una parca mensa e di non prendersela troppo se mancassero i medici, perché giovano molto mens laeta, requies, moderata dieta, mente lieta, riposo e dieta moderata.

Tornando al nostro Niccolò diremo che oltre alla fondazione delle università di Montpellier e Macerata, pose la prima pietra del Duomo di Orvieto, mandò missionari in Cina, promosse la crociata, coronò, a Rieti, Carlo II d’Angiò. E’ stato il successore di S. Bonaventura nel generalato dei francescani e fu il primo Papa francescano della storia (gli altri Papi francescani sono quasi tutti marchigiani). È sepolto a Santa Maria Maggiore a Roma, in un monumento erettogli dal comprovinciale Sisto V.

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Anno 1292 – La Verna “crudo sasso” reso famoso dal fermano Beato Giovanni

Quel “crudo sasso infra Tevero ed Arno” (Dante 3, XI) sito in Provincia di Arezzo, cioè il Monte della Verna, alto metri 1283 ha l’aroma dei prati che si mescola alla pace silente dei boschi; qui è dolce davvero sognare, lontani dal frastuono delle città e delle spiagge affollate, con la mente vicina al Creatore. Ma nel 1292 anziché sognarlo, Giovanni Elisei da Fermo vi si recò realmente, per darsi alla vita contemplativa, alla penitenza, alla mortificazione.

     La Verna aveva già una “connotazione” marchigiana in quanto donata a S. Francesco nel 1213 dal Conte Orlando Catani, a S. Leo, cittadina in Provincia di Pesaro, famosa per il “forte” e successivamente, per Cagliostro. San Francesco vi mandò due frati per una specie di ricognizione. Essi trovarono il luogo adattissimo alla vita religiosa e S. Francesco accettò il dono. Dal 1214 al 1244 vi si recò sei volte ed egli che aveva “folgorato” il conte Catani (il quale stupito dalle virtù del Santo gli aveva donato il monte), fu in quel monte “folgorato” da Cristo e ricevé le stimmate. Dante, in sordina, ricorda… “Di Cristo prese l’ultimo sigillo / Che le sue membra due anni portarno”…

     Ma mezzo secolo dopo, nella Verna, si ha la “connotazione” fermana. Infatti, vi si reca “Frate Joanni da Fermo dicto de la Verna” e vi rimane per oltre un trentennio, diventando famoso e rendendo così famoso il luogo, che ormai tutti lo conoscono come Beato Giovanni della Verna. Fu amico di Jacopone da Todi, che lo volle vicino in punto di morte e solo da lui volle ricevere gli ultimi sacramenti. Era la notte di Natale del 1306! Giovanni che era distante, quasi miracolosamente, giunse in tempo per raccoglierne l’ultimo respiro. Di “Giovanni de Firmo dicto de la Verna” parlano spesso, i Fioretti di S. Francesco di cui è autore Fra Ugolino da Montegiorgio. Gli apparve Cristo mentre Giovanni pregava nel bosco. “.. di che frate Giovanni ancora con maggiore fervore e desiderio seguita Cristo e giunto ch’ei fu a lui, Cristo benedetto si rivolge verso di lui e riguarda col viso allegro e grazioso e aprendo le sue santissime braccia l’abbraccia dolcissimamente”.

     Chi si reca alla Verna può vedere nella chiesa il corpo del Beato Giovanni. Egli morì il giorno 9 agosto 1322; il 24 giugno 1880 Leone XIII ne approvò il culto. Domenica sono ricorsi 670 anni esatti dalla sua scomparsa!

1292 – Due condottieri tutt’altro che gentili Gentile da Mogliano del sec. XIII e

         Gentile da Mogliano del sec. XIV

         Un detto latino recita che “spesso i nomi sono appropriati a chi li porta” (Conveniunt rebus nomina saepe suis). Ma non sempre è così! La prova l’abbiamo in due condottieri: stesso, identico nome e identica provenienza, e vissuti in secoli diversi, nipote e zio. L’uno nel sec. XIII; l’altro nel XIV. Intendiamo parlare dei due: Gentile da Mogliano, entrambi condottieri dell’esercito fermano: l’uno distruttore del Porto di Civitanova; l’altro di quello di Ascoli. Quindi la gentilezza va a farsi benedire. Quest’ultimo era nipote del precedente.

Nel 1292 Civitanova, e nel 1348 Ascoli, a dispetto di Fermo, costruirono attrezzature portuali, difese da fortezze. Fermo, che vedeva lesi nei suoi diritti pe concessione imperiale del 1211, ricorse alle armi. Si alleò, nella prima fase, con Ancona e Recanati ai quali il porto di Civitanova dava fastidio ed insieme spedirono contro Civitanova un esercito che assediò e distrusse il porto, saccheggiando per otto giorni la cittadina. Tale esercito desolatore era comandato da Gentile da Mogliano.

     Dopo oltre mezzo secolo anche Ascoli, a dispetto di Fermo, costruì un porto (Porto d’Ascoli) munendolo di torri e di mura merlate. Una vera fortezza! Fermo constatò e nel mese di marzo 1348, inviò un esercito per espugnare la fortezza eretta dagli Ascolani. L’assedio durò quaranta giorni. Il 28 aprile 1348 espugnarono la fortezza impiccando ai merli i difensori superstiti, capitano compreso; prelevarono due pietre ben squadrate, le portarono a Fermo come trofeo di guerra e le murarono ad altezza d’uomo nella lesena del campanile di Sant’Agostino. dove sono tuttora. Su di esse campeggia una scritta latina che in italiano suona: “Al tempo di Gentile da Mogliano, nel 1348, questa pietra del Porto di Ascoli resta fermata nella fabbrica di questo tempio, con un onore molto più grande di prima”.

     Oggi della fortezza del Porto di Ascoli rimane una torre, detta Torre Guelfa, che campeggia a ridosso della Caserma Guelfa; la lasciarono così, i Fermani, a ricordo dell’impresa.

     Molti storici hanno confuso i due Gentile da Mogliano attribuendo tutto al vincitore del Porto di Ascoli. Ma non è così! Il primo, il vincitore di Civitanova, nel 1306 era defunto quando l’omonimo nipote, vincitore del Porto di Ascoli, dopo aver combattuto contro i Malatesta e, dopo essersi scontrato col potente Cardinale Albomoz, moriva nel 1356. Port Civitanova e Porto d’Ascoli distrutti in modo tutt’altro che gentile (à la guerre comme à la guerre) dai due Gentili, non dicono gentilezza, ma si dovrebbe parlare della loro componente gentilizia.

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Anno 1294 – In coordinate: Ancona e Fermo!

     Sfogliando l’Agenda della Regione Marche, anno 1991, pagina 402, balza agli occhi il Palazzo dei Priori di Fermo, già residenza della Magistratura. Sotto, la didascalia recita: “Fermo Provincia di Ancona: Palazzo dei Priori”. Ogni commento al lettore!!! Un’affermazione del genere in un’Agenda della Regione, compilata dagli “addetti ai lavori”, è la prova della sublime conoscenza, pardon, ignoranza, storica e geografica dei redattori.

     Non così avveniva nel sec. XV. Infatti, l’umanista Aurelio Simmaco De Jacobiti, giurista napoletano (1400c – 1500c), nel suo “Liber Miraculorum” edito a Napoli nel 1490, descrivendo la venuta della Santa Casa di Loreto nelle Marche (strofa 79), dà queste coordinate geografiche: Ancona e Fermo. Com’è noto, la Santa Casa venendo da Tersatto, si posò in una selva posseduta da una donna di nome Loreta, dalla quale il sacello prende il nome. La sua localizzazione geografica è segnalata “tra Ancona e Fermo”. Ed eccoci al passo relativo alla traslazione: “Finché in Piceno presso il mar se pusse / tra Anchona e Fermo et più lochi patenti / presso lo Adriano litto se condusse / ad un boschetto che era veramenti / ed una donna, Loreta fama fusse / unde el nome prese fra le genti / et loco demorò finché fuo viva / la detta donna et poi de vita priva” (canto XV, strofa 79).

     La citazione del De Jacobiti, conferma ancora una volta l’importanza di Fermo, presa come indicazione topografica insieme con Ancona. Ma per la carente scienza geografica dei compilatori dell’Agenda 1991 della Regione Marche, dobbiamo dare un’“attenuante” in confronto al peggio di un istituto specializzato in geografia con sede nella “brumal Novara”, nonostante i conclamati aggiornamenti reclamizzati nella quotidiano La Stampa di Torino: “Il mondo cambia gli atlanti si aggiornano”. “Gli Atlanti D.A. i più aggiornati del mondo”. Ebbene, in tutte le edizioni del suo atlante storico (compresa la recentissima edizione) si ostina a dire che capoluogo del Dipartimento del Tronto voluto da Napoleone Bonaparte sarebbe stato Ascoli, mentre lo era Fermo. Tale dipartimento comprendeva, oltre al territorio della attuale provincia di Ascoli anche buona parte della Provincia di Macerata,.

     Lo diciamo solo per amore di verità e non per campanile. Rileviamo infatti che il “sullodato” Istituto geografico De Agostini, in altra pubblicazione “Tuttitalia: Cronologia storico-artistica” pubblica che “nel 1357 il Cardinale Egidio Albornoz che ha riordinato la Marca, promulga a Fermo le sue celebri Costituzioni”. Ringraziamo, ma nel 1355 pur con la città di Ascoli ribelle il Legato Egidio riuniva a Fermo il primo parlameno della Marca di Ancona, mentre le Costituzioni del 1357 furono da lui pubblicate non a Fermo bensì a Fano. Unicuique suum! E … in molti libri, quanti altri errori vi sono!

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Anno 1294 – La tradizione dei focaracci nelle pagine di scrittori e nei versi di poeti.

     Tutti conoscono Loreto per il Santuario della santa Casa di Nazaret, ma non tutti considerano che gran parte la sua storia è scandita all’insegna del numero 10. Il 10 maggio 1291, dato il fatto che i Turchi avevano invaso la Palestina, gli Angeli di Ancona portarono via la casetta della Madonna, e inseguiti da navi saracene, arrivarono a posarla a Tersatto vicino a Fiume (prima di Trieste nell’ex Jugoslavia). Ma qui, la Vergine non venne onorata come si conveniva, per cui il 10 dicembre 1294, nuovamente la casetta fu trasportata dagli Angeli nella zona di Recanati e posta in una selva appartenente alla nobildonna recanatese di nome Loreta. Sul posto subito si riversò una folla di pellegrini e fedeli che lasciavano offerte, ma si verificarono furti e scippi ai loro danni, per cui il 10 aprile 1295 fu portata per mano dagli Angeli su una collina di cui erano proprietari due fratelli. Ma questi, ben presto litigarono per motivi di interessi pecuniari e la casetta venne ritrasportata nel luogo dove si trova tuttora.

     Poeti, scrittori, storici, parlarono e parlano del fausto evento. Fra essi Flavio Biondo da Forlì famoso umanista e storico (1392-1463) nella sua Italia Illustrata (1451) scriveva: “Fra Recanati ed il mare Adriatico… sta in un villaggio aperto e indifeso, la chiesuola della Vergine Maria, detta di Loreto, celeberrima in tutta Italia” e prosegue dicendo che alle pareti sono appesi doni votivi in “oro, argento, cera e vesti di lino e lana, di gran prezzo, sì da riempire tutta la basilica”.

     Venendo a tempi a noi più vicini, ricorderemo che Giorgio Umani di Ancona, celebre scrittore e scienziato morto nel 1965, nel descrivere le nostre Marche, elenca i geni di casa nostra: Raffaello, Rossini, Pergolesi, Bramante, Leopardi, e altri. Poi ha come un sussulto e per documentare che le Marche sono la Regione più bella d’Italia, scrive: “.. ma se persino Maria santissima / dopo aver dato in segreto / uno sguardo al creato / è venuta di casa a Loreto’’. Sì a Loreto, la città cara al cuore di ogni marchigiano specie quando si trova all’estero.

     Loreto: 10 dicembre festa della Madonna e focaracci! Più volte ho visto scritta questa parola tra virgolette come se di dubbia “cittadinanza”. A parte l’etimologia diretta (focus) il vocabolo focaracci è usato da scrittori di valore come Pasolini (…erano saliti sul monte del Pecoraro a fare focaracci con dei mucchi di platani); Cardarelli (Le ragazze… vanno giù alla Marina ad accendere i focheracci in onore della Madonna); Sinisgalli (spazza il vento faville / di focaracci sulla neve).

      Nelle deliberazioni del Consiglio comunale di Fermo dell’anno 1585 si legge che, in occasione dell’elezione a Papa di Sisto V, sulle nostre colline, di notte, si fecero molti focaracci.

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anno1306 – Il ciocco di Natale e la ‘vellutina’

   I nuovi orientamenti storiografici, con a capo M. Bloch, J. Le Goff, F.R. Furet, F. Braudel, Paolo Brezzi, e altri danno un risalto notevole alla componente linguistica, per cui eccoci pronti e lieti per un piccolo “contributo” che risponde alla domanda se è corretto scrivere “ciocco” anziché ceppo di Natale.

   Il ciocco di Natale si metteva sull’arola del focolare in occasione di tale festa e, per tradizione, doveva durare fino alla Epifania (6 gennaio).

      Una graziosa e commovente novella popolare vuole che esso serva alla Madonna che di notte vi viene a scaldare i panni per Gesù Bambino. Natale, dolce Natale: quanta poesia in questa festa!

   Ciocco è il ceppo da ardere. Già parlato dal fiorentino Dante Alighieri (Par. 18,100) “Come nel percuotere de’ ciocchi arsi / surgono innumerabili faville / onde gli stolti sogliono augurarsi”. Giovanni Pascoli ripetutamente “Il babbo mise un gran ciocco di quercia su la brace (Canti di Castelvecchio 117,5)”; e ancora “Pel camino nero il vento / tra lo scoppiettar dei ciocchi / porta un suono lungo e lento / tre, poi cinque, sette tocchi /” (ibidem). E chi non ricorda Valentino? “…Pensa al gennaio, che il fuoco del ciocco / non ti bastava tremavi ahimé …”. Ancora: “Racconta al fuoco sfrigola bel bello / un ciocco d’olmo intanto che ragiona”.

    Giovanni Papini: “Scoppiettavano i ciocchi già mezzo coperti di neve”. Enrico Pea: “La stanza era rischiarata dai tizzoni ardenti. Io stavo sul ciocco con cagna”. Dino Campana “E lo schioccar dei ciocchi e i guizzi di fiamma”. Italo Calvino: “Le tirò contro un ciocco”.

   Tutti possono scrivere ‘ciocco’ che è registrato come pura lingua nei vocabolari di Palazzi, Gabrielli, Mestica, Devoto-Oli, Zingarelli, e altri.

     Per un altro vocabolo, ‘musco’. non è corretto scrivere muschio per indicare la vellutina, perché si deve (o dovrebbe) dire musco, anche se oggi prevale muschio. Trova preferito il vocabolo vellutina in Cardarelli: “I muri si coprivano di vellutina …”.

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Anno 1306 – Natale di Iacopone da Todi con Giovanni da Firmo, detto de La Verna

    A Natale, nella scena della storia di Fermo, entra un personaggio famoso: Iacopone da Todi. Mi pare di scorger l’aria interrogativa di qualche lettore che si domanda cosa c’entra Fermo con Iacopone da Todi, luminare di spiritualità, luce vivida della letteratura italiana, fiero oppositore di Bonifacio VIII, e “adoratore” della francescana povertà.

     Iacopone fu molto amico di “Frate Ioanni de Firmo dicto de La Verna”, al quale indirizzò una lettera consolatoria nello stile limpido e robusto proprio del poeta delle Laude. Esattamente Giovanni Elisei da Fermo. Quando ci si reca alla Verna a visitare con Dante il “crudo sasso intra Tevere e Arno” dove S. Francesco ebbe le stimmate, e “di Cristo prese /’ultimo sigillo, i visitatori vedono, racchiuso in un’urna, il corpo di un beato: è Giovanni della Verna, seguace di S. Francesco, nato a Fermo nel 1259, marchigiano puro sangue, che nel 1292 si trasferì al “Santo luogo de la Verna” ove visse per più di trent’anni. Iacopone nella sua lettera consolatoria precisava: “A Frate Ioanni de Firmo, dicto de la Verna”.

    I Fioretti di S. Francesco di cui è autore Frate Ugolino da Monte Giorgio, sono pieni delle sue gesta. Raccontano che un giorno gli apparve Cristo e lo abbracciò; e che liberò dalle pene del Purgatorio il confratello Iacopo da Falerone, inoltre che andava spesso in estasi …. Iacopone da Todi e Giovanni de Firmo dicto de La Verna: due colossi nella storia del Francescanesimo: l’uno impetuoso, l’altro serafico e mite, legati da singolare amicizia.

   Il 24 dicembre 1306 Iacopone era in fin di vita. I confratelli lo esortavano a ricevere gli ultimi sacramenti, ma Iacopone rispose loro: “Soltanto dal mio diletto amico, Frate Giovanni della Verna, è d’uopo che io riceva il Santissimo Corpo di Cristo”.

     Frate Giovanni era lontano e i confratelli erano turbati per tale richiesta: Iacopone non aveva che poche ore di vita, era impossibile avere Frate Giovanni che stava lontano sul monte della Verna. Ad un tratto, si videro due monaci venire verso la stanza dove Iacopone era moribondo, uno di essi era il nostro Giovanni da Fermo. “Giunto al capezzale dell’infermo – racconta Domenico Giuliotti – prima gli donò il bacio della pace, poi gli somministrò i Sacramenti. Allora Iacopone, rapito di gioia, cantò il cantico “Gesù nostra fidanza” e, esortati i frati a ben vivere, levò le mani al cielo e rendé lo spirito”. La notte di Natale!    I primi cristiani chiamavano dies natalis il giorno della morte, perché è la nascita al cielo. in quella notte avvenne il dies natalis riferibile alla duplice nascita: la prima, quando era venuto alla vita, ora nel ritorno in Cielo.

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Anno 1320 – Fermo e Camerino DIOCESI contro Macerata

“L’han giurato li ho visti a Pontida / Convenuti dal monte e dal piano. / L’han giurato e si strinser la mano / Cittadini di venti città… Così la nota poesia del Berchet sul giuramento della Lega lombarda contro il Barbarossa, giuramento avvenuto nella Chiesa abbaziale di Pontida il 7 aprile 1167.

Nel 1320, cioè dopo153 anni, nel Fermano, nella Chiesa di Sant’Angelo in Pontano ebbe luogo un altro giuramento: quello dei Fermani e dei Camerinesi uniti in lega contro l’istituzione della Diocesi a Macerata. Con bolla da Avignone, Papa Giovanni XXII l’aveva creata per punire la diocesi di Recanati che si era ribellata alla Chiesa. Precedentemente, Macerata aveva avuto la libertà essere costituito Comune autonomo dal Vescovo di Fermo a metà del XII secolo.

Ora la città veniva eretta a diocesi! Fermo e Camerino, che allora erano le due città più importanti delle Marche. Fermo aveva 10 mila fuochi, cioè famiglie, pari a 50 mila abitanti. Camerino 8 mila, cioè 40 mila abitanti. Seguivano Ancona con 35 mila abitanti, Ascoli con 30 mila.

     Macerata era una delle città più piccole, aveva solo 1.800 fuochi, cioè 9 mila anime. Un po’ poco per essere sede di una diocesi! E Fermo e Camerino non lo potevano sopportare! Si unirono in lega! La nuova Diocesi li avrebbe privati di una consistente parte dei rispettivi territori con molti ricchi castelli, e gran parte della popolazione. Le due città decisero di ricorrere a Roma e di dichiarare guerra a Macerata. Le spese relative sarebbero state divise a metà e, se una delle parti si fosse ritirata, doveva pagare la penalità di mille marche d’argento. Invano! Il Papa avignonese decise, Fermo e Camerino ci rimasero male!

   Nel corso dei secoli le due grandi Diocesi subirono altre amputazioni. Fermo con l’istituzione della Diocesi a Ripatransone nel 1571, perse Ripatransone, San Benedetto del Tronto, Acquaviva Picena, Cupra Marittima e Sant’Andrea; di nuovo nel 15686 con Montalto Diocesi a Fermo furono sottratti Montelparo. Comunanza. Montemonaco. Inoltre nello stesso anno dovette dare Montelupone a Loreto resa nuova diocesi.

     A Camerino nel 1586 furono tolti Tolentino e San Severino erette a diocesi, nonché Urbisaglia e Pollenza, comuni assegnati a Macerata, inoltre, nel 1728, perse Fabriano creata pure Diocesi e nel 1787, Matelica, nuova diocesi. Pio VI, per compensare in qualche modo tali amputazioni, eresse Camerino ad arcidiocesi. Fermo ebbe poi compensi territoriali con Santa Vittoria, Monte Giorgio e Montefalcone provenienti dai Farfensi. Sisto V  che stabilì Montaldo diocesi, nel 1589 volle compensata Fermo con l’erezione ad arcidiocesi con cinque diocesi suffraganee: Macerata, San Severino, Tolentino, Montalto e Ripatransone.

     Nonostante tali vistosi tagli, Camerino unita a San Severino è oggi per il suo vasto territorio montano ha la superficie come prima Diocesi delle Marche con 1603 kmq. Fermo è la seconda con 1334 kmq.; ma per popolazione, per parrocchie, per storia Fermo è la più importante di tutte le Marche e la più antica sede arcivescovile-metropolitana della Regione, non computando l’ex ducato di Urbino.

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Anno 1320 – I Cappuccini e i Fioretti di S. Francesco sono nati qui

 Dante Alighieri Chiama grande “tutto serafico in ardore” S. Francesco d’Assisi che nasce ad Assisi nel 1182 e vi muore nel 1226. Egli era in relazione con Fermo e con il Fermano. In quel periodo, la vasta Marchia Firmana era stata inglobata nella Marca d’Ancona. “La provincia della Marca d’Ancona fu anticamente a modo che il cielo di stelle, adomata da santi ed esemplari frati, li quali a modo di luminari nel cielo, hanno alluminato ed adornato l’ordine di Santo Francesco e il mondo con esempi e la dottrina”. Così si legge nei “Fioretti”, sbocciati nel Fermano per opera di Frate Ugolino da Montegiorgio.     

    Per il movimento francescano è notabile nei Fioretti, il dato che la gran parte di frati attori o protagonisti sono dell’area dello Stato e della diocesi di Fermo: Giovanni da Penna San Giovanni; frate Matteo da Monterubbiano, Jacopo da Falerone; Giovanni da Fermo (detto della Verna per i molti anni ivi trascorsi nella preghiera); Pacifico da Falerone; Liberato da Loro Piceno; Pellegrino da Falerone, frate Corrado da Offida. Alcuni canonizzati.

     Con l’occasione, ricordiamo che le pitture di Giotto nella Basilica superiore di Assisi, vennero eseguite per ordine di un altro frate, Giovanni da Morrovalle nella diocesi Fermana. Egli fu Cardinale e 15° Ministro Generale dell’Ordine. Altri marchigiani si distinsero nelle opere d’arte della Basilica assiate, come il coro di Apollonio da Ripatransone (allora in diocesi Fermana) e nella Basilica superiore, il coro di Antonio Indivini di San Severino Marche.

     In onore di san Francesco a Fermo fu ben presto costruito quel magnifico tempio (ora monumento nazionale) prima di ogni altra città. Nel 1926 da Fermo partì per Assisi la “Campana della Laudi” opera delle Fonderie Pasqualini, bronzo squillante offerto da tutti i Comuni d’Italia al Santo, nell’anniversario, sette volte secolare della morte del santo serafico.

    Anche dopo la scomparsa di S. Francesco, le Marche furono la terra più fertile delle altre per le primordiali presenze del suo ordine. Contava più conventi la “Marcha” in confronto all’Umbria e a tutte le altre regioni. Il numero dei francescani del Fermano era grandissimo. Altra connotazione della Diocesi fermana, è  il fatto che nel “Luogo del Sasso” a Montefalcone Appennino, scoccò la prima scintilla che portò alla fondazione dei Cappuccini, un nuovo ramo del grande albero francescano. Infatti proprio da Montefalcone Appennino, Matteo da Bascio, marchigiano di Carpegna, partì per recarsi a Roma per chiedere a Papa Clemente VII l’approvazione dei Cappuccini.

   Per le tendenze imperiali si può ricordare che anche fra Elia, il successore di S. Francesco e l’artefice della Basilica, ebbe un momento di sbandamento e passò dalla parte imperiale, tanto era il fascino di Federico II; per tale motivo venne scomunicato. Ma poi si pentì, tornò all’“ovile” e fu perdonato

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Anno 1334 – Spade famose e meno famose

  Per parlare di spade e di guerrieri, oggi mettiamo in scena Galasso Conte di Montefeltro, podestà di Fermo, Guglielmo di Ventura del castello di Rapagnano e Puccio Bongiovanni di Montegiorgio con notai, testimoni, e altri.

Nel nome di Dio, Amen. L’anno del Signore 1334, indizione seconda, al tempo di Papa Giovanni XXII, il giorno XXI del mese di gennaio, Guglielmo di Ventura del castello di Rapagnano, ha dichiarato di essere stato soddisfatto di quanto a lui versato quale rimborso da parte di Puccio Bongiovanni di Montegiorgio, per conto di quel Comune e della cittadinanza. Il rimborso consiste nel versamento di un fiorino di oro sopraffino e di giusto peso e delle somme per spese sostenute, come da decisione del conte Galasso di Montefeltro podestà di Fermo”… Così inizia la pergamena conservata nell’archivio comunale di Montegiorgio.

     Il fatto non sembri irrilevante, ha invece una notevole importanza; per serietà, come atto notarile che ha coinvolto tre comuni: Fermo, Rapagnano, Montegiorgio; un notaio Bartolomeo Leonardi, con testimoni Francesco Raynaldi, figliastro di Bartolomeo Dominici, Filippo di Gentile Compagnoni e con un altro notaio, Giovanni Simili, stando nella sede comunale del castello Rapagnano. La stipula era avvenuta il 19 gennaio 1334.

    Nella storia ci sono spade più importanti di quella di Guglielmo di Ventura: famosa la spada di Brenno che dal 390 avanti Cristo, tuona il “Guai ai Vinti”. Poi Alessandro Magno a cui un oracolo aveva predetto che chi avesse sciolto il famoso nodo gordiano sarebbe divenuto padrone dell’Asia. Alessandro Magno ci provò ma, non essendo riuscito, lo recise con la spada e divenne signore dell’Asia. Era il 334 avanti Cristo! Nel 1334 (vedi le ultime tre cifre), Guglielmo di Ventura da Rapagnano ha vicende di spada…millenarie.

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Anno 1336 – Dante Alighieri e Fermo

    Certamente Dante nei secoli è ben ricordato a Fermo perché il notaio Antonio da Fermo merita la riconoscenza di tutti per il fatto che nel 1336 compilò il codice più antico dell’intera ‘Divina’ Commedia. Non sappiamo dove scrisse quest’opera. Sappiamo che il figlio Jacopo stette a Fermo, come diremo.

    Solo dopo 15 anni dalla scomparsa del sommo Poeta, Antonio fermano compilò il codice (detto Landiano perché appartenne ai Landi, un antenato dei quali è menzionato da Dante nel penultimo canto dell’Inferno 32°) e dopo vari possessori in esso annotati, ora sta a Piacenza nella biblioteca e museo comunale. All’inizio del codice si leggono quattro sonetti di Guittone d’Arezzo cui fa seguito Dante Alighieri, «Le dolci rime d’amor ch’io solea» e «Commedia» – Infine, alle carte 101-102: Bosone da Gubbio spiega il senso allegorico della Commedia e ci sono quattro sonetti di Jacopo Alighieri il quale era figlio di Durante (Dante) e stava a Montolmo (oggi Corridonia) nel 1306 come risulta da atto notarile (pergamena esistente a Fermo) ed era Syndicus  della città (capoluogo) di Fermo. Il che fa pensare che il padre Dante allora condannato esule da Firenze stava nelle Marche. Cinque anni dopo la morte del padre Jacopo risulta presente ad un atto notarile a Monterubbiano (pergamena fermana anno 1325).

   Antonio di Fermo scrisse “per richiesta e istanza del magnifico ed egregio signore Beccario dei Beccaria di “Papia”(Pavia), milite imperiale, dottore in legge e podestà onorabile della città e del distretto di Genova”, come egli scrive nell’explicit, a conclusione del codice: “l’anno 1336, indizione terza, al tempo di Papa Benedetto XII, l’anno secondo del suo pontificato”. I Beccaria erano una nobile casata di Pavia detta dai Romani Ticinum, poi Papia capitale longobarda. Non è dichiarato dove il codice sia stato scritto.

Nelle ricerche a Firenze, Vincenzo Cognigni da Monterubbiano ha notato Antonio da Fermo del secolo XIV Uomo d’armi che fu Capitano del Popolo di Firenze al tempo della rivolta dei Ciompi (1378); i rivoltosi gli bruciarono tutte le carte. Viene il sospetto della possibilità che la copia della Commedia l’avesse fatta costui a Firenze.

    Altra benemerenza di Fermo è la traduzione in latino dell’intera Divina Commedia. Si era al Concilio di Costanza (1414-1418), concilio ecumenico (il sedicesimo) e i Cardinali inglesi chiesero a Giovanni de Bertholdis, Vescovo di Fermo, di tradurre per loro il Divino Poema in modo da poterlo apprezzare adeguatamente. Come è noto in quel periodo la lingua ufficiale era il latino.

     In tale maniera, i padri porporati poterono gustare adeguatamente quanto aveva scritto il Divino Poeta. È doveroso ricordare anche che la città di Fermo, è stata sempre all’avanguardia nel culto di Dante; nello stesso anno di fondazione della Società “Dante Alighieri” (1889), il 24 luglio, per opera del senatore fermano Carlo Falconi, venne istituita a Fermo una sezione di tale Società, la quarta in Italia dopo le sezioni di Milano, Venezia e Genova.

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Anno 1341 – Una delle prime armi da fuoco a Rocca Monte Varmine di Carassai

     Rocca Montevarmine, località in Comune di Carassai, (latino: Monte Guarminis) conserva quasi intatta la famosa rocca da cui prende il nome, dopo che ha sfidato secoli ed assedi. Piccolo e vivace centro, già dominio di Fermo, attualmente conosciuto anche per iniziative culturali, vanta un primato interessantissimo dal punto di vista storico.

     Effettuando ricerche ci siamo imbattuti in un elenco prezioso. Sono i nomi dei soldati che Fermo mandava a presidiare tale Rocca-castello e ogni soldato è contraddistinto dall’arma che aveva in dotazione. Appaiono così militi armati di pistoiese (pugnale a lama corta fabbricato a Pistoia) di spito, ronca, alabarda e schioppo (sclopo). Approfondendo le ricerche, è venuto fuori un primato insospettato delle Marche e del Fermano. Infatti è emerso che, nell’uso documentato dello sclopo, la nostra Regione ha il primato storico.

     Leone Cobelli, nella “Cronaca di Forlì”, riporta che Guido da Montefeltro nella battaglia a difesa di Forlì contro i Francesi (1281) “chiamò una squadra di targoni ed una squadra grande di balestrieri e sclopiteri” (schioppettatori). Troviamo conferma che nel 1321, dell’esistenza di “una squadra grande di balestrieri e schioppettatori a servizio del Duca di Urbino” (lo stesso Guido da Montefeltro).

     Dopo dieci anni si parla nel 1332 di soldati che a Cividale del Friuli, balistabant cum sclopo versus terram. Tre anni dopo, i Signori di Ferrara fecero preparare una grande quantità di schioppi e spingarde (maximam quantitatem sclopetorum et spingardarum).

    Angelo Gaibi nel volume “Armi da fuoco”, (Milano 1978) riporta che Angelo Angelucci, direttore dell’Armeria Reale di Torino ed uno dei più intelligenti ricercatori e scopritori di documenti presso gli archivi italiani, nel volume “Documenti inediti sulle armi da fuoco italiane” (Torino 1869, I, 71) dice testualmente: “Sono interessanti a questo riguardo, l’affresco attribuito a Paolo Nesi (1540) nel monastero di San Leonardo in Lecceto presso Siena, ove lo schioppetto è rappresentato da una canna lunga poco più d’una spanna, fissata in cima a un manico (o teniere) e la bombardella manesca trovata fra le rovine di rocca Montevarmine presso Fermo, distrutta nel 1341”.

     L’Angelucci è stato autore di studi sulle armi da fuoco (compreso “Catalogo dell’Armeria Reale di Torino”, Torino, 1890), di cui si ha conferma dagli americani William Smith e Joseph Smith nel volume “Small Arms of thè world” (piccole armi del mondo) edito The Stepole Company di Herrisburg U.S.A. 1962.

   Senza niente “campanilismo”, di fatto è una gloria pura del patrimonio carassanese e fermano di Rocca Montevarmine, sebbene poco onosciuto.

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Anno 1355 – L’implorazione di Mitarella a S. Caterina senese per il marito

    Santa Caterina da Siena (1347-1380) compatrona d’ Italia e il coevo Cardinale de Albornoz (1310-1367) sono personaggi famosi che si sono interessati di Fermo e del Fermano.

   Il Cardinale Gil (Egidio) Alvarez Carrillo de Albornoz, delegato dal Papa Innocenzo VI, che si trovava in Avignone, era stato mandato nelle Marche per riportarle al dominio della Santa Sede. Con senno e con tatto, in poco tempo, quasi senza colpo ferire, riconquistò tutto lo Stato pontificio e, quando, su sollecitazione di Caterina da Siena il Papa tornò a Roma, egli lo incontrò a Tarquinia e gli consegnò un carro carico delle chiavi della città e castelli, tornati sotto il dominio della Sede Apostolica.

    Il Card. Albornoz con atto, emanato a Gubbio il 30 maggio 1355, accordava a Mitarella la licenza di ricostruire il suo castello di Montappone, nello stesso luogo dove sorgeva, allorché fu distrutto da Gentile da Mogliano. Questa concessione del Legato Albornoz era subordinata alla legge secondo la quale per costruire un’altra fortezza era necessario il permesso della Santa Sede. Tre mesi dopo tale atto il Legato pontificio radunava a Fermo il primo Parlamento della Marca. Per merito di questo Legato, lo Stato pontificio si resse sulle sue Constitutiones Aegidianae (di Egidio)che furono l’ossatura, lo statuto rimasto in vigore fino alla caduta del potere temporale (1860)

   Santa Caterina da Siena si interessò di Mitarella da Monteverde, che era la figlia di Mercenario (famoso nella storia di Fermo) e si era sposata con Vico da Fermo, signore di Mogliano (detto Vico da Mogliano). Questi, nel 1373 era stato nominato da Gregorio XI senatore della Repubblica di Siena. Nel periodo in cui fu in carica, punì con la morte cinque giovani gentiluomini che erano entrati di notte in un monastero femminile suburbano. Le famiglie inscenarono un moto popolare contro di lui.

    Mitarella, trepidante per la sorte del marito, si rivolge con una lettera a Caterina senese chiedendo aiuto “per lo caso occorso al senatore” (cioè al marito). La lettera di risposta della santa ha confortato Mitarella esortata ad avere fede e piena speranza in Cristo.

“Le Lettere di S. Caterina da Siena – (ed. Barbera1860). Lettera XXXI – A Monna Mitarella, donna di Vico da Mogliano, senatore, che fu a Siena nel 1373.

“Al nome di Gesù Cristo crocifisso e di Maria dolce. – Dilettissima e carissima Madre in Cristo dolce Gesù. Io Caterina, serva inutile di Gesù Cristo, mi vi raccomando, confortandovi nel prezioso sangue suo, con desiderio di vedervi nel cospetto di Dio serva fedele, cioè che voi siate in quella fede che dà letizia e gaudio nell’anima nostra. Questa è quella dolce fede che a noi conviene avere, siccome disse il nostro Salvatore: «se voi avete tanta fede quanto è un granello di senape, e comandate a questo monte che si levi, si leverebbe». In questa fede, dilettissima suora, vi prego che permaniate. Mandastemi dicendo che, per lo caso che era occorso al Senatore (del quale mi pare che avete avuto grandissimo timore), che non avete altra fede né altra speranza se non nelle orazioni de’ servi di Dio. Onde io vi prego da parte di Dio e del dolcissimo Amore Gesù, che sempre rimaniate in questa dolce e santa fede. Oh fede dolce, che ci dai la vita! Se voi starete in questa santa fede, giammai nel vostro cuore non cadrà tristizia. Perché la tristizia non procede da altro se non dalla fede che poniamo nelle creature; ché le creature si sono cosa morta e caduca, che vengono meno; e il cuore nostro non si può mai riposare se non in cosa stabile e ferma. Adunque essendo il nostro cuore posto nelle creature, non è in cosa ferma. Ché oggi è vivo l’uomo, e domane è morto. Convienci adunque, a volete avere riposo, che noi riposiamo il cuore e l’anima, per fede e per amore, in Cristo crocifisso: allora troveremo l’anima nostra piena di letizia. Oh dolcissimo Amore, Gesù! – Suora mia, non temete le creature. Siccome disse Cristo benedetto: «Non temete gli uomini, che non possono uccidere altro che il corpo; ma temete me, che posso uccidere l’anima e il corpo». Lui temiamo, che dice che non vuole la morte del peccatore; anco vuole che si converta e viva. Oh inestimabile carità di Dio, che prima ci minaccia che può uccidere il corpo e l’anima; e questo fa per farci umiliare, e stare nel santo timore! Oh bontà di Dio! per dare letizia all’anima, dice che non vuole la morte nostra, ma che viviamo in lui. Allora dimostrerete, dilettissima suora, che siate viva, quando la volontà sarà unita ed accordata con quella di Dio. Questa volontà dolce vi darà la fede, e la speranza viva, posta in Dio. – A voler dare vita a questa santa fede, due cose vi prego che aviate alla memoria. La prima si è, che Dio non può volere altro che il nostro bene. Per darci quel vero bene dié sé medesimo infino all’obbrobriosa morte della croce; del quale bene fummo privati per lo peccato. Egli dolcemente umiliò sé medesimo per renderci la Grazia, e tollere da noi la superbia. Adunque, bene è vero che Dio non vuole altro che il nostro bene. L’altra si è, che voi crediate veramente che ciò che addiviene a noi o per morte o per vita, o per infermità o per sanità, o ricchezza o povertà, o ingiuria che fusse fatta a noi da amici o da parenti o da qualunque creatura, voglio che crediate ch’Egli è permissione e volontà di Dio; e senza la sua volontà non cade una foglia d’arbore. Adunque non solo non temete questo, perché a misura tanto Dio ci dà quanto possiamo portare, e più no; ma con riverenzia riceviamo, dilettissima suora, reputandoci indegni di tanto bene quant’egli è a portar fadiga per Dio. E perché ‘l dimonio ci volesse mettere una grande paura per lo caso del quale voi temete, pigliate subito l’arme della fede, credendo che per Cristo crocifisso saremo deliberati. E così riimarrete in perfettissima letizia, credendo, come aviamo detto, che Dio non vuole altro che il nostro bene. Confortatevi in Cristo crocifisso, e non temete. Altro non vi dico, se non che tutte le vostre operazioni siano fatte con amore e timore di Dio. Ricordatevi che voi dovete morire, e non sapete quando; e l’occhio di Dio è sopra di voi, e ragguarda tutte le vostre operazioni. Dolce Dio, dacci la morte innanzi che noi t’offendiamo. Laudato Gesù Cristo.

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Anno 1355 – Fermo viene assolta

   Il 22 settembre 1355 è una data memoranda per Fermo e il Fermano. Da questa città, il Cardinale Egidio Albornoz, mandato dal Papa che si trova in Avignone, convoca i sessanta Comuni che facevano parte dello Stato di Fermo. Vi erano a Sud anche San Benedetto del Tronto, Acquaviva. A Nord: Mogliano, Gualdo (MC), Petriolo, Sant’Angelo in Pontano e altri.

    In conseguenza della sottomissione di Fermo e al suo Stato avvenuta il giorno precedente (per mezzo di Spinuccio di Francesco, delegato dal Comune), l’Albornoz assolve Fermo da tutte le censure in cui era incorsa data la sua ribellione alla Chiesa, specialmente nel periodo in cui era stata soggetta a Gentile da Mogliano.

     Interessantissimo il documento della sottomissione conservato nell’Archivio Vaticano, ma non meno interessante il secondo: quello dell’assoluzione. Il Cardinale Albornoz, come vediamo, prediligeva Fermo e qui trasferì da Macerata la Curia Generale della Marca, nonostante le rimostranze dei Maceratesi. La ribellione di Fermo e dei castelli era causata dal fatto che volevano essere indipendenti, ciascuno per proprio conto.

   Stando il Papa lontano, in Francia, ad Avignone, loro non volevano soggiacere ad alcuna autorità. Fermo e il suo Stato furono definiti dall’Albomoz ‘volubilis ut rota et labilis ut anguilla’ facile latino che indica Fermo “volubile come ruota e labile come anguilla”.

Leggendo i documenti di quel 22 settembre, si rileva che essi impongono ai 60 Comuni di prestare giuramento alla Sede Apostolica ed al Comune di Fermo; di obbedire alle sue leggi; di pagare le tasse dovute. Da quello che si legge per l’assoluzione, si evince che la Chiesa non scherzava. Contro la città e contado erano state attuate sanzioni economiche e giuridiche. Fermo era stata privata delle rocche e castelli dipendenti, diritti, privilegi, etc., e addirittura colpita dall’interdetto.

     Ma l’Albornoz, lieto del ritorno di Fermo con il suo contado alla sottomissione alla Sede Apostolica, restituisce rocche, castelli, privilegi, diritti, esenzioni, beni, etc., loda la “pecorella che ritorna all’ovile” ma precisa che se dovesse nuovamente ribellarsi, ricadrebbe ipso facto cioè immediatamente per tal fatto, nelle sanzioni precedenti (compreso l’interdetto) da cui era stata assolta in quel lontano 22 settembre 1355.

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Anno 1355 – Elenco dei possedimenti di Fermo.

   Dal 1309 erano 46 anni della lontananza del Papa che risiedeva in Avignone e varie località delle Marche (come del resto l’intero Stato Pontificio) cercavano di sottrarsi all’autorità pontificia, dato che il “capo” era al di là delle Alpi.

    Il ghibellino Gentile da Mogliano era riuscito a impadronirsi di Fermo e per tutto lo Stato Pontificio correvano fremiti di ribellione. La cosa impensierì il francese Papa Clemente VI (Pietro Roger) e in modo speciale il suo successore Innocenzo VI (il francese Stefano Aubert) il quale, da Avignone, spedì nelle Marche il Cardinale Egidio Albornoz, spagnolo, che con senno, astuzia, e quando occorreva con la forza, a poco a poco, recuperò la sottomissione di tutto lo Stato Pontificio. Nel 1355 poi, questo Cardinale Legato giunse a Fermo, vi insediò la Curia (trasferendola da Macerata) e vi rimase a lungo. La citta, ubbidiente fu assolta dalla scomunica in cui era incorsa per essersi schierata con Gentile da Mogliano; le tolse l’interdetto e la reintegrò nel possesso delle rocche, castelli e località già di sua pertinenza. Poi, con tre distinte lettere di precettazione (litterae praecepti) ordinò a comuni, terre e castelli di inviare a Fermo dei procuratori, per prestare giuramento di fedeltà nelle sue mani e per dover assolvere ad ogni obbligo dovuto alla città di Fermo.

   In tre pregamene (conservate nell’Archivio di Stato fermano) si scorgono annotate le notifiche avvenute o non avvenute agli interessati, e sono documenti importanti per la storia del Fermano, dato che costituiscono l’elenco ufficiale dei possessi di Fermo, in totale 60.

     Il primo gruppo (pergamena998) elenca i Comuni di Longiano, Torchiaro, Ponzano, Santa Maria (forse Monte Santa Maria in Georgio), Monte Giberto, Petritoli, Montevidon Combatte, Ortezzano, De Medio, Collina, Sant’Elpidio Morico, Monte Leone, Monsampietro Morico, Servigliano, Smerillo, Monte Falcone, Castel Manardo, Belmonte, Grottazzolina, Villa Montone.

     Il secondo gruppo (pergamena 1347) contiene Monte Secco, Porto S. Giorgio, Torre di Palme, Lapedona, Monte San Martino, Altidona, Pedaso, Boccabianca, Marano (= Cupra Marittima), Sant’Andrea, Grottammare, San Benedetto del Tronto, Mercato, Borumpadaro (questi ultimi due erano castelli siti nei pressi di Porto d’Ascoli in Acquaviva Picena), Acquaviva Picena stessa, Massignano, Gabbiano, Cossignano, Monte Rubbiano, Moresco.

     Il terzo gruppo, (pergamena n. 1850) riguarda Monturano, Podium Raynaldi (= Monterinaldo), Torre S. Patrizio, Monte S. Pietr (angeli), Rapagnano, Magliano, Ripa Cerreto, Alteta, Mogliano, Petriolo, Loro (Piceno), S. Angelo in Pontano, Gualdo, Falerone, Montappone, Massa, Monte Vidon Corrado, Monte Verde (attualmente frazione di Monte Giorgio), Francavilla d’Ete.

     Attraverso la lista dei Comuni convocati, abbiamo l’esatta consistenza di quello che era lo Stato di Fermo, a metà del secolo XIV, quando estendeva il suo dominio dal sud con S. Benedetto e Acquaviva Picena (nell’attuale provincia di Ascoli), al nord con i vari Comuni, come Gualdo, Petriolo, Sant’Angelo in Pontano attualmente nella Provincia di Macerata.

L’anno dopo, l’Alborrnoz emanò le Costituzioni Egidiane (Aegidianae Constitutiones), che rappresentarono l’ossatura dell’Amministrazione pontificia fino alla conquista dei re Savoia. Fra l’altro, il Legato divise le città marchigiane in maggiori, grandi, mediocri, piccole, minori.

Le maggiori erano: Ancona, Fermo, Camerino, Ascoli, Urbino. Pesaro e Macerata seguivano, a distanza, le grandi.

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Anno 1355 – Un processo agli Ascolani celebrato a Fermo e la scomunica.

   Ascoli fu scomunicata nel 1355 per aver eletto il suo Podestà senza il permesso della Santa Sede. Si era al tempo di Papa Innocenzo VI e gli Ascolani, contravvenendo ai loro doveri di sudditi della Santa Sede, elessero Galeotto Malate-sta da Rimini a loro “Signore governatore e difensore, protettore e governatore, non solo della città ma di tutto il circondario” o, come si chiamava allora, del “distretto.

     Anzi, nei carteggi del processo, si lamenta che gli Ascolani fecero lega con gli altri nemici della santa Chiesa, invadendo terre e castelli da veri traditori e si erano alleati con Malatesta e Francesco degli Ordelaffi (condannato come eretico) e Gentile da Mogliano.

    Vani furono gli sforzi del Rettore della Marca. Gi Ascolani non vollero ubbidire. Allora si tenne il processo che ebbe luogo a Fermo il 31 ottobre del 1355. Nel carteggio che abbiamo trovato nell’Archivio Vaticano, si legge che tali ribelli, entro il sei novembre, dovevano presentarsi a chiedere perdono del loro operato. Si sperava ancora in una loro resipiscenza e nello stesso tempo si ingiungeva di abbandonare le terre della Santa Sede abusivamente occupate; se avessero perseverato nell’errore, si sarebbe provveduto alla confisca dei loro beni. Il documento nomina ben 81 famiglie ascolane che elenchiamo nel seguito. Nel frattempo, cioè fra il 31 ottobre ed il 6 novembre, Ismeduccio da San Severino e Petrello da Mogliano chiedono perdono e si presentano a Fermo nel palazzo di abitazione del legato papale, ma gli Ascolani non si arresero.

     Il 25 novembre 1355 viene fulminata la scomunica “al consiglio, al gonfaloniere, ai consoli, agli anziani, agli ufficiali, al popolo ed al Comune di Ascoli ed alle persone colpevoli di ribellione alla Chiesa”.

     Fra gli scomunicati Niccolò di Dongiovanni, Cavaliere, e Cola e Zuccio Rossini. Inoltre:   Luca; Tommasi; – Giacomo Luzi; – Ciccolo Nuzi; – Giacobuccio Giacobbi; – Domenico Tornassi; –  Vanne Corraduzzi; – Ziuccio Francisci; –  Petruccio Marini; – (Gio)Vanni Bonagiunta; –  Cervuccio Servidei; – Antoniuccio Bongiovanni; – Angelo Bonagioanni; – Nicoluccio Medico; – Petruccio di Rocca; – Corrado Rainaldi; –  Coluccio Di Vanni Saladini; – Nuzio di Giovanni Bernardi; –  Giovanni Martelli; – Corrado Jacobucci; – Giovanni Zocchi; – Lucio ed Emidio di Nicola di Montecalvo; – Giulio e Nicola Dominici; – Giovanni e Lino Jacobucci di Rocca; – Cavuccio Ventura; – Necco e Vanni Giovannucci; – Agresta Simeoni; – Lippo Ansovelli; – Giovanni di Mastro Luce; – Vannino Vanni; – Chierico Federici; – Giovanni Salvi; – Simeone Agresta; – Giovanni Vinnibene; – Agresta Simeoni; – Massio Cini – Giovanni di Mastro Luce; – Meo Petri Chierico Federici; – Filippo Jacobi; Simeone Agresta; – Coluzzio Sanzio; – Massio Francisci; – Nicola Timidei; – Vannetto Bongiovanni; – Manno Salvucci; – Maramonte Guglielmi; – Angeluccio Giovannucci; – Concizzio Massei; – Nicola Giovannangeli; ed alcune altre persone della città di Ascoli stabilite entro la Marca Anconitana (aliaeque singulares personae civitatis Esculanae infra Marchiae Anconitanae constitutae).

Allora il legato della Sede Apostolica per le Province e le terre della Chiesa Romana, il Cardinal Egidio del titolo di San Clemente, fu tutt’altro che clemente “verso la città, consiglio, anziani, consoli e popolo tutto della città e “distretto di Ascoli”, come abbiamo narrato.

Anno 1356 – Gentile da Mogliano ordinò: “Sia distrutta Santa Croce

   La Basilica di Santa Croce, sita in territorio di Sant’Elpidio a Mare, non molto distante dalla statale Adriatica. Nell’archivio comunale il documento della sua inaugurazione reca la data 14 settembre 886, presenti i Vescovi dell’allora Ducato di Spoleto (in tutto 19). Un privilegio le fu concesso dall’imperatore Federico II di Svevia. Nel 1356 avvennero il suo incendio e la sua dissacrazione da parte di Gentile da Mogliano con le sue soldatesche.

   Nel 1348 questo Gentile, signore di Fermo, dopo aver espugnato il porto di Ascoli che era stato costruito in dispregio di diritti di Fermo sul litorale dal Tronto al Potenza (come recita il privilegio di Ottone IV del 1 dicembre 1211), ebbe vita avventurosa e raminga perché, messosi in urto col legato pontificio card. Albomoz, venne scomunicato con gravi conseguenze.

    Allora, spinto da spirito diabolico (diabolico spiritu istigatus), passò al contrattacco e le sue milizie assalirono proprio questa basilica di Santa Croce. Con armi di offesa e di difesa, piombarono sulla chiesa e monastero sito nel territorio di Sant’Elpidio, penetrarono violentemente nella chiesa e nell’abitazione, rubarono tutti i beni esistenti in detto monastero, asportarono gli animali appartenenti alla mensa vescovile, presero prigionieri i famigliari del vescovo, i laici ed i chierici che vi si trovavano. Alcuni di essi vennero cacciati, altri feriti; si impadronirono delle croci, dei paramenti, dei calici, dei buoi, pecore, maiali, giumente, somari, grano, vino, vettovaglie. La stima dei danni arrecati era di duemila ducati dell’anno 1356.

     Il primo dicembre di tale anno, Gentile da Mogliano e Ruggero suo figlio furono condannati in contumacia alla pena di morte e confisca dei beni. Chi inflisse la condanna si chiamava Angelo Paradiso ed era il giudice generale della Marca d’Ancona. Gentile era soprattutto un ladro.

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Anno 1366 – Giovanni Visconti d’Oleggio signore di Fermo

    Giovanni Visconti d’Oleggio, le cui ossa sono contenute in un’urna di vetro, conservata nella Sala del Mappamondo della biblioteca comunale di Fermo. Era dei Visconti di Milano e “abitator di Oleggio” (Novara). Dopo varie vicissitudini venne a Fermo. Prima era stato vicario generale della curia milanese; abbandonò la carriera ecclesiastica; si sposò; fu podestà di Novara e quindi di Asti; luogotenente dei Visconti per il Piemonte e quindi signore di Bologna. Cambiò il dominio su tale città e territorio, ottenendo di diventare signore di Fermo. Qui operò con saggezza, mirando esclusivamente al bene di città e contado. La sua morte nel 1366 è avvenuta a Fermo. Eccone il testo: “In nome di Dio. Così sia. L’anno 1366, indizione quarta, al tempo di Papa Urbano V, l’8 ottobre, giovedì, di mattina, allo spuntare dell’aurora entrò nella via di tutti quanti della carne (ingressus est viam universae carnis)), il magnifico e potente e nobile milite signor Giovanni Visconti, milanese, di Oleggio, rettore della Marca di Ancona e vicario per la santa Chiesa della città e distretto di Fermo”. Seguono alcune parole inintelligibili per corrosione del testo; si rileva “del palazzo della città di Fermo” (forse residenza). L’atto prosegue: “Io don Rinaldo da Montottone, canonico e mansionario della chiesa maggiore di Fermo, amministrai il sacramento dell’estrema unzione alla presenza di Giovanni de Yspa canonico della cattedrale; di Giovannino… suo nipote; di Dionisio suo cancelliere; di Giorgio da Yspa, provisionato; della moglie Antonia; di parenti, amici, familiari, e di molti altri, provenienti da altri distretti”. Conclude: “E venne sepolto nella Cattedrale suddetta, nell’angolo destro anteriore presso l’altare di San Giovanni e presso l’altare maggiore di detta cattedrale. La sua anima riposi in pace”.

Anno 1367 – Ancona ed i Papi di Avignone

    La nostra Regione ed in particolar modo Ancona, erano intimamente legate alle vicende storiche di Avignone, la città francese dove dimorarono, per sette decenni, i Papi.

    Il 30 aprile 1367, Urbano V, dopo le insistenti preghiere dei Romani, nonché di Santa Brigida che profetizzava i castighi divini e del Petrarca, aveva deciso di riportare a Roma la sede papale dopo una cattività che durava dal l309. Nel frattempo, il suo legato in Italia il Card. Egidio Albornoz, aveva riconquistato con la forza e con la diplomazia le città ribelli delle Marche e Regioni vicine. Tutto era pronto per il ritorno del Papa. Ed ecco che Urbano V, Papa francese, (come tutti i Papi di Avignone), salpa da Marsiglia alla volta di Roma. La nave ammiraglia che lo trasporta è una galea di Ancona, “costruita a spese pubbliche della Marca di Ancona per la sua persona stessa, sotto la guida di Niccolò della Scala, cavaliere anconitano. Tale nave spiegava lo stendardo della Romana Chiesa. Era accompagnata da una flotta di 23 galee e molte navi di Venezia, Pisa, Genova, Napoli. Dopo aver toccato e sostato in vari porti del Tirreno, il 3 giugno 1367 la flotta attracca a Corneto; quindi il Papa prosegue per Roma.

    Dopo soli tre anni, Urbano V inspiegabilmente ritorna ad Avignone, il 5 settembre 1370, giovedì. Di nuovo da Corneto, la “galea grande” di Ancona, con dodici Cardinali e gran seguito di navi pontificie, francesi, spagnole, napoletane, (una sessantina in tutto), riporta il Papa in Francia, dirigendosi alla volta di Marsiglia. Sbarcato, Urbano V prosegue e giunge ad Avignone il 24 settembre. Ma dopo tre mesi, muore. Al conclave per eleggere il nuovo Papa, c’eran tutti Cardinali francesi, eccetto tre italiani ed uno inglese. Viene eletto in un solo giorno Gregorio XI.

   Dopo che il Papa si era assentato da Roma, in Italia si diffondevano malumore ed indignazione, e le condizioni politiche della Penisola erano per riflesso molto turbate. Un nuovo ritorno del Papa sembrava improbabile. Troppe le opposizioni e gli interessi francesi.

   Ma, alla fine, cedendo alle insistenti ed infuocate suppliche di Santa Caterina da Siena, il Pontefice decide di tornare, a Roma. Ancora a bordo, di una galea anconetana, ritorna ai primi di ottobre 1376, il Papa s’imbarca a Marsiglia “sulla galea grossa di Ancona comandata da Niccolò Torriglioni e seguita da una scorta di 5 navi francesi, 6 spagnole, una di Genova ed una di Pisa”.

     Il viaggio, lungo e tormentato, durò più di tre mesi, e l’ammiraglia anconitana “naviglio ammirabile per fortezza e bellezza, reggente in mare, buon veliero ed in punto di ogni comodità che mai potessero i viaggiatori desiderare”, incontrò varie tempeste. Un cronista dice che tutti con l’equipaggio più volte effondono preci all’Altissimo e fanno voto a san Ciriaco (patrono di Ancona) omnes fundunt preces Altissimo et spondunt vota Sancto Quiriaco. Alla fine, lasciando il Tirreno, e risalendo per il Tevere, il 17 gennaio 1377 il Papa entra a Roma. Il “popolo esultante e lacrimando, tendente le braccia prostrato, danzante dietro il destriero del Papa erompe di tripudio e giubilo”. Il Papa rimane a Roma e ci rimane per sempre! Fausto evento, in cui ebbe parte notevole la marineria di Ancona, e delle Marche.

Anno 1373 – Provincia scippata … non Scotti troppo. \ <scritto quando era Ministro dell’Interno l’on. Scotti>

    I Fermani per decenni si adoperarono per la ricostituenda Provincia di Fermo, soppressa nel 1860 dal governo di Vittorio Emanuele II ed unita a quella di Ascoli meno popolata, meno ricca, con meno istituti scolastici e minore importante produttività. Fermo e Provincia contavano 110.000 abitanti contro i 90.000 di quella di Ascoli. La Provincia di Fermo aveva 54 Comuni; quella di Ascoli 52. L’estimo catastale di Fermo era di 19.137.948 lire; di Ascoli 12.929.333. Fermo aveva 46 cultori di scienze, lettere ed arti; Ascoli solo quattro. Medici, farmacisti, levatrici di Fermo erano 241; di Ascoli 139; e altro. Fu un vero e proprio “scippo” ai danni di Fermo!

    Ma anche nel 1373 ci fu un tentato “scippo” da parte di Macerata, che voleva per sé la Curia Generale delle Marche, togliendola a Fermo. Il pericolo era grave e se ne dovette occupare Papa Gregorio XI (1370-1378) che si trovava ad Avignone. Reiterate, intense e martellanti erano le richieste e le pressioni di Macerata, per divenire la sede della Curia Generale, che era stata posta a Fermo dal Cardinale Egidio Albornoz in quanto “luogo più nobile e più sicuro per la conservazione dello Stato di Santa Romana Chiesa”.

    Alla “querelle” Fermo- Macerata, per questo trasloco, con beghe con i Cardinali francesi, col Re di Francia e altro, il Papa da Avignone incarica il Cardinale Ugo di Santa Maria in Portico, che scrive al Rettore della Marca d’Ancona Pietro, Vescovo di Oxford, al tesoriere ed a tutti i dirigenti della Curia che quel trasferimento non s’ha da fare. Un passo della bolla, redatto in un latino polito ed armonioso, recita fra l’altro “…la città di Macerata vuole che venga colà trasferita la Curia Generale della Marca, cioè il Supremo Tribunale, ora esistente nella città di Fermo… ma il Papa non vuole ed espressamente si oppone” (…).“In considerazione dell’idoneità del luogo, della salubrità dell’aria, della comodità di accesso e di soggiorno, i Porti Marittimi dello Stato di Fermo e l’abbondanza di ogni sorta di viveri e vettovaglie, noi rigettiamo le richieste di Macerata, facendo presente che nessuno di voi osi tentare di favorire tale richiesta di trasferimento senza un ordine espresso da parte della Sede Apostolica”. Nessuno di voi pertanto, cioè Rettore, Tesoriere, officiali e componenti tutti della Curia, si muova da Fermo e non osi favorire le richieste di Macerata”.

    Gregorio XI nel frattempo tornato a Roma, moriva  nel 1376. Subentrava Papa Bonifacio IX, il quale, non solo confermò la permanenza a Fermo della Curia Generale, ma nominò suo fratello Andrea Tomacelli “Signore di Fermo e del suo Stato” nel gennaio 1398.

 Allora il Papa e Cardinali si interessarono di Fermo, oggi i nostri governanti se ne infischiano. Attenzione che la faccenda, poi, non “scotti” troppo! <Di fatto nel 2004 fu ricostituita la Provinia Fermana>

Anno 1375 – Un golpe degli otto ‘santi’ finì male

    Nel 1375, la Lega fiorentina era capeggiata da otto personaggi, che il popolo chiamerà Otto ‘santi’, nonostante che combattessero contro il Papa: scenario, personaggi ed interpreti … della libertà (oh libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome! diceva Madame Jeanne Roland de la Piatière).

    La città protagonista, Firenze, capo della lega; e personaggio chiave, Gregorio XI con il Cardinale legato Noellet. Le operazioni iniziano nell’estate 1375: La Lega Fiorentina (quando Papa Gregorio XI sta in Avignone) gli Otto ‘santi’ hanno la peggio ad opera di questo stesso Papa che lancia contro Firenze la scomunica ed i nemici di questa città ne approfittano per andare contro alla scomunicata. Ma alla Lega Fiorentina aderivano quasi tutte le città dello Stato pontificio, perché stando lontano dall’Italia il Papa, i suoi legati commettevano soprusi e razzie. Il popolo, stanco aveva costituito tale Lega.

    Gregorio allora chiama i soldati mercenari ed invia in Italia bretoni e inglesi (quest’ultimi capeggiati da Giovanni Acuto). Essi si dirigono verso Firenze e verso il settore adriatico, per dare una “lezione” agli insorti. Questi resistono combattendo valorosamente; ma poi, la scomunica fulminata contro essi da Gregorio XI ha effetto. Le relazioni diplomatiche con Firenze sono interrotte per il timore di essere a loro volta scomunicati e la Lega rimane isolata. Ma un fatto singolare si inquadra nel contesto di questa Lega. Ascoli ha aderito, e immediata è la repressione da parte del vicario papale Gomez Albornoz, il quale proibiva persino di pronunciare la parola Libertas. Ascoli chiede aiuto ai vicini; mentre contro di essa dalla valle del Tronto arrivano le truppe della Regina Giovanna di Napoli in aiuto all’Albomoz.

    Il “grido di dolore” fu raccolto da Fermo, che allestisce immediatamente un esercito di diecimila uomini e corre a liberare Ascoli, nonostante che nel 1348, pochi anni prima era stata in guerra. Coluccio Salutati, il cancelliere del Comune di Firenze, manda ai Fermani una nobilissima lettera di ringraziamento per aver salvato Ascoli, caposaldo importante per la Lega fiorentina. “Per vostro merito” dice fra l’altro. Alla fine essa ha la peggio! Muore Gregorio nel 1376 e gli succede Urbano VI; si addiviene ad un trattato di pace. Firenze deve sborsare 250.000 fiorini d’oro. Anche Fermo, anche Ascoli debbono versare la loro quota.

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Anno 1379 –Fermo si libera dalla tirannide di Rinaldo

    Il 22 dicembre 1376, Rinaldo da Monteverde si era impadronito di Fermo.

     “In die festo Sancti Bartholomei facta fuit revolutio”.  Nel giorno della festa di san Bartolomeo, cioè il 24 agosto 1379, avvenne a Fermo la “rivoluzione”. Consistette nella cacciata del tiranno Rinaldo da Monteverde, che tre anni prima, per impadronirsi della città aveva mosso il suo esercito, spalleggiato da bande mercenarie di inglesi e tedeschi: in tutto circa diecimila uomini. L’anno successivo, il 4 giugno, mise a ferro e fuoco Sant’Elpidio a Mare e, nello stesso anno, combatté contro la cittadina di San Ginesio. L’otto settembre 1377 di nuovo mise a ferro e fuoco Sant’Elpidio (a Mare) e trafugò la reliquia della Sacra Spina, che da allora si trova nella chiesa di Sant’Agostino a Fermo, molto venerata dai fedeli.

    Rinaldo commise a Fermo molte efferatezze e delitti. Fece decapitare Nicolao e Andreuccio di Andrea Coluccini, Paolo Pucci e Vanne Mattei, rispettabilissimi cittadini. Ma il 24 agosto, Fermo si sollevò contro il tiranno e lo cacciò dalla città. Egli dapprima si rifugiò a Monteverde poi a Montefalcone Appennino. Qui si era asserragliato nella rocca insieme alla moglie Luchina, la Guercia, sua serva, Mercenario e Luchino, figli legittimi, due altri piccoli figli bastardi, Paolino da Massa, Nicola di Maestro Federico e molti altri.

    Dietro pagamento di mille ducati da parte dei Fermani e la promessa di altri cinque per ogni mese, Egidio da Monturano e Bonaccorso Ri- guezi da Potenza Picena, aprirono le porte della rocca di Montefalcone, dando così modo ai Fermani di catturare Rinaldo, moglie, figli e seguaci. Catturati, dopo due giorni furono portati a Fermo in sella ad un asino, con corpi volti all’indietro, con una corona di spine in capo. Fatti passare per Porta San Giuliano, furono condotti in piazza davanti al Palazzo dei Priori. Il popolo di Fermo era tutto in tripudio. Finalmente la tirannide era “sconfitta”. Rinaldo e figli furono decapitati; gli altri seguaci, catturati a Montefalcone, vennero in seguito impiccati. Luchina, per intervento del Conte di Virtù, venne risparmiata. Le teste di Rinaldo e dei figli furono poste su una colonna di pietra. Sotto quella di Rinaldo era scritto: “Tiranno fui pessimo e crudele”. Sotto quella dei figli: “Sol per mal fare di me e di Luchina, cari miei figli pateste disciplina”.

      Ancor oggi in una delle nicchie nel muro esterno della chiesa della Pietà, si ammira una scultura di S. Bartolomeo; ai suoi piedi giace una testa che molti identificano con quella di Rinaldo. Gli Statuti di Fermo (libro I. RubricaVI) stabilirono che ogni anno la festività di S. Bartolomeo doveva essere celebrata con singolare devozione, dato che in tale giorno Fermo era stata liberata dalla rabbia del tiranno.

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Anno 1380 – Boffo da Massa e il Palio di Fermo

    Sulla scena della storia nazionale italiana nel 1380 il milanese Gian Galeazzo Visconti mira al dominio della Penisola, dopo aver ottenuto da Venceslao di Boemia, successore dell’imperatore Carlo IV, il Vicariato della Lombardia. Giovanna, Regina di Napoli, riconosce l’antipapa Clemente VII e il Papa Urbano VI le fulmina la scomunica, privandola del regno. Questo, giungeva nel Piceno. Ad Arquata del Tronto c’è la Rocca che la tradizione vuole dalla Regina Giovanna.

Nella storia dello Stato di Fermo troviamo, in questo anno 1380 si verificano fatti ed eventi di notevole importanza, con riflessi nella storia nazionale. Signore di Fermo era divenuto Boffo da Massa, distinto capitano di ventura e componente della Lega costituita dalla repubblica di Firenze, contro lo Stato della Chiesa e amico di Coluccio Salutati, celebre segretario della Lega. In modo speciale dominava Carassai, Castignano, Cossignano.

Una notizia finora inedita del Palio festeggiato a Fermo è che Boffo da Massa propose alle autorità fermane che per la festa dell’Assunta del 1380 portasse il palio anche il castello di Cossignano, insieme con gli altri. La proposta venne sul momento accantonata, senza menzione, non venne trattata).

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Anno 1386 – Arquata chiede protezione a Fermo

    Fermo e Arquata, località distanti e dissimili; la prima nel secolo XIV era la più importante città delle Marche, la più popolata, seguita nella classifica da Camerino, Ancona, Ascoli.

L’altra, Arquata, alternativamente contesa e soggetta a Norcia, ad Ascoli ed al Regno di Napoli, subì assedi, ritorsioni, depredazioni. Era una rocca importante strategicamente; da qui la mira di conquista da parte dei confinanti. Arquata decise allora di rivolgersi a Fermo e di mettersi sotto la sua protezione. Era stufa di subire angherie e soprusi.

    Nell’anno 1386, radunato il Consiglio Comunale, o, come si diceva allora, il Parlamento “ad onore e riverenza dell’Onnipotente Iddio, della sua Madre, la gloriosa Vergine Maria, dei beati Apostoli Pietro e Paolo e di Papa Urbano VI, del collegio dei Cardinali e ad onore e magnificenza della città di Fermo” si designa ser Cola Cicchi Rainaldi a rappresentare Arquata a “presentarsi a Fermo, ai Magnifici e Potenti Priori ed al Vessillifero della Giustizia, per raccomandare e mettere il Comune di Arquata e il suo Distretto sotto l’ombra delle ali e sotto la protezione e difesa di Fermo, ora e sempre“.

Il passo originale è di suggestiva descrizione. Ricorre il biblico sub umbra alarum tuarum. Nell’atto stipulato si precisa che il podestà di Arquata sarà un cittadino di Fermo; avrà lo stipendio di “seicento libre di denari”. Il Comune di Arquata “promecte de non ospitare nella sua terra, nissuna gente inimica di Fermo, di portare il Palio nel giorno dell’Assunta, patrona di Fermo e di accogliere gente da cavallo e da pie’ che lo comuno di Fermo volesse mettere per la defesa de Arquata e per offensione ad altrui”.

    Vi sono poi altre clausole, come quelle per cui Arquata lascerà passare soltanto il sale del monopolio di Fermo; non dichiarerà guerra ad alcuno senza il permesso di Fermo, e, a sua volta, si impegna a far sì che “alguna potenza, ciptà terra, conte, barone, nobbele overo seculare possa commettere prepotenze contro Arquata”.

    In altri documenti risulta che Arquata, per fare pace con Ascoli, dovette chiedere il benestare di Fermo ed in altro del 1607 risulta che Arquata, in lite con paesi vicini, domanda il “favore” della città di Fermo.

    Arquata durante il regno di Napoleone Bonaparte fece parte del Dipartimento del Trasimeno; e dopo caduto Napoleone, appartenne alla Delegazione Apostolica di Spoleto; nel 1818 “tornò” nella Regione marchigiana, come Comune della Delegazione Apostolica di Ascoli.

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Anno 1386 – Il Palio di FErmo con ottanta castelli

   Il Palio ‘uso cavalleresco era un taglio di stoffa prezioso che ve veniva assegnato al vincitore di gare o competizioni per lo più a cavallo, e in seguito passò ad indicare la competizione stessa. Nel Medio Evo era molto in voga, ma quello di Fermo, documenti alla mano, era ed è uno dei più antichi, se non il più antico. Non mi risulta che qualche altro possa vantare oltre otto secoli, documentati, di esistenza. Ed aveva dimensione “interprovinciale”. Il 15 agosto di ogni anno lo portavano Monterubbiano insieme ai suoi castelli Cuccure e Montotto (1182). Lo portava Ripatransone (1205), che ad un certo momento ne dovette portare in una sola volta ben 22 arretrati. Lo portavano Potenza Picena (allora Monte Santo) e Monte Cosaro, ora entrambe in Provincia di Macerata. Nel 1386 lo portò addirittura Arquata del Tronto che continuò a portarlo anche negli anni successivi: nel 1387 e 1388 lo consegnò a Fermo Marino Damiani; nel 1387 Bartolomeo Cicchi, su precisa delega del castello di Arquata. Portava il palio Monte Giorgio che nel ’400 delegò più volte Collicillo, suo castello dipendente, e di recente lo ha stabilito nel proprio ippodromo.

Oltre ai castelli già detti, dovevano sfilare per le vie di Fermo nel giorno dell’Assunta i rappresentanti dei castelli dipendenti: in tutto un’ottantina che andavano da San Benedetto del Tronto ad Acquaviva Picena, a quelli del litorale sino a Sant’Elpidio e verso i monti, come Gualdo, Montefalcone, Sant’Angelo in Pontano e poi nell’entroterra, Petriolo, e altri.

    La sfilata era un tripudio cui partecipavano i magistrati, le contrade,  bifolchi, fornaciari, vasai, mulattieri, osti, macellai, ciabattini, speziali, mercanti, etc. etc. Era tutto uno scintillare di elmi e di corazze, un garrire di gonfaloni ed orifiamme, un incedere ieratico e festoso. Era la Festa dell’Assunta. Fermo ed il suo popolo ne gioivano, fieri della rassegna della loro potenza, della loro religiosità, dei castelli, dei vicari, dei vassalli, dei rappresentanti delle potenze confinanti.

    Nel tempo antico erano ottanta i castelli che sfilavano, tra cui la connotazione più importante, erano i Palii di Monterubbiano, Corridonia, Montegiorgio, Montecosaro, Potenza Picena, Ripatransone, di Arquata. Viene in mente di suggerire che si possa ripristinare almeno per i più vicini tale sfilata.

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Anno 1389 – Il Tribunale di Fermo e le sue vicende

     “Dal dì che nozze tribunali ed are / dieder alle umane belve esser pietose / di se stesse e d’altrui…” così Foscolo ne “I sepolcri”. A distanza di più di due secoli, i mass media, gli ambienti giudiziari, politici ed economici, parlano di soppressioni di tribunali, di ristrutturazioni e vi sono anche oggi “umane belve” che vorrebbero dilaniare istituzioni e realtà, esistenti da secoli. Il Tribunale è “organo giudiziario che esercita la giurisdizione in materia civile e penale nei modi e nei casi stabiliti dalla legge”. La società, nel corso dei secoli, si è data norme e leggi per uno svolgersi regolato ed ordinato della vita associata. Tra i molti, vi sono i tribunali civili e penali, i tribunali amministrativi (TAR) regionali, i tribunali militari, il tribunale delle acque, i tribunali dei minorenni, i tribunali ecclesiastici e a proposito di questi ultimi, diciamo che sono 18 (diciotto) in tutta Italia e, per l’intera Regione marchigiana, la sede è proprio a Fermo.

  E’ stato istituito nel 1938 da Papa Pio XI e giudica le cause matrimoniali dell’intera Regione e di alcune località dell’Abruzzo come Colonnella, Martinsicuro, Ancarano, Valle Castellana, Sant’Egidio alla Vibrata, appartenenti alle Diocesi di San Benedetto del Tronto od a quella di Ascoli.

   Antica la storia: già nel 1500, prima di Cristo, esistevano i tribunali per giudicare chi contravveniva al codice di Hammurabbi. Tra gli Ebrei veniva anche giudicato chi contravveniva ai dieci comandamenti di Dio dati da Mosé sul Monte Sinai.

    Roma aveva le famose XII Tavole. Poche erano le leggi, e le cose andavano meglio di adesso. Plurimae leges sed mala respublica. Cattiva la repubblica con leggi plurime. Nel Medio Evo era legge tutto ciò che voleva il Principe (quidquid placuit prìncipi legis habet vigorem) ed il Principe stesso giudicava chi contravveniva a qualche sua norma. Poi ogni stato, ogni ducato, cominciò ad avere il suo tribunale a cui il Principe affidava la giustizia. La città di Fermo, sin dall’alto medioevo, ebbe lo jus o diritto di mero e misto impero, cioè poteva giudicare le cause penali e civili non solo della città, ma del vastissimo suo territorio che andava dall’Esino al Pescara, dagli Appennini al mare. Ovviamente a Fermo risiedeva il tribunale supremo di quella che era la Marca Fermana; tribunali minori erano disseminati nella vasta area che ricalcava l’antico Piceno. Più tardi, nel sec. XIV, ebbe sede a Fermo la Curia della Marca, e Papa Bonifacio IX (1389-1404) confermandola, nominò Signore di Fermo suo fratello.

   Nel territorio della Marca (di Ancona) che era parte dello Stato ecclesiastico, ad amministrare la giustizia erano i tribunali pontifici. Con la venuta di Napoleone, nel 1797, Fermo acquistò maggiore importanza come capoluogo del Dipartimento del Tronto, circoscrizione amministrativa napoleonica, che abbracciava il territorio della odierna Provincia di Ascoli, assieme con l’allora Provincia di Camerino, e con la parte meridionale dell’attuale Provincia di Macerata. Fermo era sede del tribunale e della prefettura e da essa dipendevano le vice-prefetture di Ascoli e quella di Camerino. Dopo la caduta di Napoleone, vennero create le Delegazioni Apostoliche di Fermo e quella di Ascoli; ognuna aveva il suo tribunale.

Poi, il Motu proprio di Leone XII, in data 5 ottobre 1824, sopprimeva il tribunale di Ascoli poiché la sua delegazione venne riunita a quella di Fermo. Il 21 dicembre 1827 venne ricostituito tale tribunale. Tuttavia nel triennio 1824/1827 per i reati più gravi il tribunale di Fermo esercitò la sua giurisdizione anche in territorio ascolano.

  Nel dicembre 1860 con l’occupazione piemontese sabauda delle Marche veniva ingiuriosamente soppressa la Provincia di Fermo di gran lunga più importante di quella di Ascoli. Tuttavia rimase il tribunale, la cui giurisdizione in tutto e per tutto ha ricalcato il territorio della soppressa Provincia Fermana. Il Tribunale Fermano  nel Regno Savoia venne sistemato dove si trova attualmente, in corso Cavour, nei locali della già Casa dei Padri Filippini, casa confiscata per le leggi eversive del demanio del Governo Savoia. Nel 1923, con Regio Decreto del 24 marzo n. 601, il Tribunale di Fermo venne soppresso ed il suo territorio compreso nella circoscrizione del tribunale di Macerata. Successivamente fu trasferito alla giurisdizione del tribunale di Ascoli.

    Le disposizioni governative, però, avevano creato una situazione insostenibile, per cui si dovette costatare il grave errore. Pertanto, con Regio Decreto Legge del 28 settembre 1933, n. 1282, venne ricostituito il Tribunale di Fermo.

     Molte personalità di Fermo e del Fermano si erano attivate per tale ricostituzione: Mons. Ercole Attuoni, Arcivescovo fermano e mons. Vincenzo Curi, Arcivescovo di Bari (nativo di Servigliano) avevano interessato personalmente l’allora Capo del Governo, Benito Mussolini. Mons. Curi, tuttavia, non poté vedere il decreto reale, perché morì il 28 marzo 1933, e il decreto arrivò sei mesi dopo.

    Attualmente, il Tribunale di Fermo ha una mole di lavoro cospicua. La relazione dell’Associazione Nazionale dei Magistrati di recente ha previsto la soppressione di ben 43 (quarantatre) tribunali, tra cui Urbino, Camerino. Nel mentre si premette che “alcune città sedi di Tribunale, infatti, saranno promosse capoluogo di Provincia (Biella, Rimini, Crotone, Vibo Valentia, Prato, Lecco, Lodi) e quindi appare opportuno che conservino gli uffici oggi esistenti”, per altri si chiede “l’accoppiamento” (…) “Bisogna rilevare che, al fine di non gravare eccessivamente gli uffici giudiziari del capoluogo di Provincia, si è ritenuto opportuno proporre … accoppiamenti”.

 Il passo che ci interessa recita: “Per alcuni uffici, si è ritenuto, poi, le condizioni socio-economiche della zona richiedano la presenza di tribunali medi: Fermo, Busto Arsizio, Verbania, anche per non gravare eccessivamente i tribunali e preture dei rispettivi capoluoghi di Provincia...”.

     Oggi, il Tribunale di Fermo ha giurisdizione sui seguenti Comuni: Altidona, Belmonte Piceno, Campofilone, Cossignano, Cupra Marittima, Falerone, Fermo, Francavilla d’Ete, Grottammare, Grottazzolina, Lapedona, Magliano di Tenna, Massa Fermana, Massignano, Monsampietro Morico, Montappone, Montefalcone Appennino, Montefiore dell’Aso, Monte Giberto, Monte Giorgio, Montegranaro, Monteleone di Fermo, Montelparo, Monte Rinaldo, Monterubbiano, Monte S. Pietrangeli, Monte Urano, Monte Vidon Combatte, Monte Vidon Corrado, Montottone, Moresco, Ortezzano, Pedaso, Petritoli, Ponzano di Fermo, Porto S. Giorgio, Porto Sant’Elpidio, Rapagnano, Ripatransone, Santa Vittoria in Matenano, Sant’Elpidio a Mare, Servigliano, Smerillo, Torre San Patrizio.

Carassai, che si può dire è un passo da Fermo, dipende dal Tribunale di Ascoli, mentre Ripatransone e Cossignano, sebbene più distanti, dipendono dal Tribunale di Fermo.

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Anno 1389 – Fermo manda sentinelle a  San Benedetto del Tronto.

   Fermo nel medioevo aveva sotto di sé il Castello di San Benedetto del Tronto. Tra i verbali del Consiglio della Città di Fermo un atto documenta che il 29 settembre 1389 vengono mandati dei militi in quella località, per la vigilanza della Rocca e del castello tutto. Le Rocche fermane di Monte Falcone Appennino, Smerillo, Moresco, Porto San Giorgio, Gualdo e Sant’Angelo in Pontano (questi due ultimi ora in Provincia di Macerata) costituivano la difesa turrita dello Stato Fermano.

   Interessante questo documento del 1389 dal momento che San Benedetto è stata tappa obbligata di passaggi di eserciti, devastazioni, incendi, assedi, etc. Gli statuti fermani (del 1381) stabilivano che il castellano e i militi preposti alla vigilanza ed alla difesa, dovevano dimorare nella rocca rimanendovi giorno e notte e potevano anche avere con sé la propria famiglia e una scorta di provviste bastanti tre mesi, per far fronte ad eventuali assedi.

Ecco i militi, per la storia: Nicoluccio Nicolai, Cola Camannucci, Ciccone Gentile, Antonio Nicoluzzi, Massio di Pietro Matteo, Vanne Marini, Bartolomeo Pucci, Giacomo Beneditti, Cola Carfangi, Vanne Benvenuti, Angeluccio Iacobucci, Angelo Dominici, Cicco Iacobucci, Paluzio Cappella, Nicola Gualtierucci, Mingiuzio Antoni.

A loro gli onori militari per l’assidua missione di vigilanza contro le incursioni interne ed esterne, specie per quelle provenienti dal mare!

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Anno 1396 – ASmerillo sotto assedio

    Smerillo, coraggioso paesino del Fermano, posto a 800 metri di altitudine, gemma incastonata nel verde preappenninico, sta a a fianco di Monte Falcone Appennino, col quale ripete l’etimologia degli uccelli accipitriformi o meglio falchi: falco columbarius per Smerillo; falco peregrinus per Monte Falcone. Importantissimo nel medioevo, Smerillo contava 27 vassalli. Di esso parlano molte pergamene degli Archivi di Stato e del vescovato di Fermo.

   In località intermedia tra Smerillo e Monte Falcone, che erano spesso in lotta fra loro, sorge un piccolo convento detto Luogo di Sasso da cui, con Matteo da Bascio (francescano marchigiano), nel 1525 partì la scintilla della fondazione dell’Ordine dei Cappuccini che a fine secolo XX contava 12000 frati, sparsi in tutto il mondo. Fermo, la città di Girfalco (anche qui falchi) teneva molto a Smerillo che, con Monte Falcone, erano due rocche imprendibili nella zona montana ovest.

Nel 1396 “con cùpido sguardo” i Duchi di Camerino, i Varano, agognavano a Smerillo che, verso l’interno, era uno dei più muniti baluardi strategici, ostacolo alla loro espansione. Ma i Varano comprarono i custodi (tali Luzio e Antonio) della rocca; si fecero aprire la fortezza e il ghiotto boccone passò a Camerino.

    Con sdegno Fermo si trova di fronte a Smerillo ribelle che deve essere riconquistato, subito. Mobilitate le truppe della città e del contado, accorrono ad assediare il castello ribelle e lo riconquistano; “die XIII mensis maii… coeperunt castrum Smerilli”, annota lo storico Anton di Nicolò: il 13 maggio 1396. Fu un veni, vidi, vici! L’assedio subitaneo, massiccio e vittorioso; anche se il cassero resisteva, riprende subito il paese di Smerillo che torna nell’orbita fermana.

   Questo piccolo centro, che nel 1944 all’indomani della Liberazione, si costituiva in Territorio Libero di Smerillo, dà un senso di pace. L’aria pura e incontaminata; le acque, limpide e fresche, invitano i turisti. In alto, i ruderi del cassero imponente e austero ricordano fremiti di guerra; i falchi “dai silenzi dell’effuso azzurro” intrecciano “in tarde ruote digradanti / il nero volo solenne”. Le mura massicce rievocano, dopo vari secoli, quel sabato fatidico per l’assedio del 13 maggio 1396. La città del gir-falco è tuttora capoluogo del castello che si fregia pure del nome di un “falco”: lo smeriglio!

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Bruno Cornacchiola e la Chiesa perseguitata, ma protetta dalla Vergine della Rivelazione 10.02.1947

Bruno Cornacchiola veggente nel 1947 alle Tre Fontane a Roma, ascoltato e creduto da Pio XII, il 10 febbraio 2000 ha narrato una sua veggenza in sogno localizzato nella basilica papale di San Pietro in Vaticano. Così è stato trascritto. «Mi trovo con tutta la Sacri a San Pietro per l’acquisto delle indulgenze giubilari. Improvvisamente sentiamo un rimbombo d’una forte esplosione, poi delle grida: “a morte i cristiani!” Una folla di barbari correva dentro la basilica, uccidendo chiunque incontrava. Grido alla Sacri: “usciamo e facciamo muro davanti alla basilica”. Si va sul sagrato, tutti ci mettiamo in ginocchio con il santo Rosario in mano e si prega la Vergine che venga con Gesù a salvarci. Tutta la piazza era colma di fedeli, sacerdoti, religiosi, religiose. I fedeli pregavano con noi. Le donne portavano il velo in testa nero o bianco; tutti i sacerdoti presenti con l’abito talare; i religiosi e religiose ognuno con il suo abito religioso; ai lati del sagrato, i vescovi erano a sinistra di chi guarda la chiesa, i cardinali a destra, e pregavano in ginocchio con il viso a terra … improvvisamente la Vergine è lì presente con noi e dice: “Abbiate fede. Non prevarranno”. Noi si piange dalla gioia e i persecutori escono, stavano per lanciarsi sopra di noi, ma una schiera di Angeli ci circonda e i diabolici lasciano le loro armi a terra, spaventati molti scappano ed altri si inginocchiano con noi dicendo: “La vostra fede è vera, noi crediamo!”. I cardinali e i vescovi si alzano e con un secchiello in mano pieno d’acqua battezzano i pagani, che erano inginocchiati e tutti gridano: “Evviva Maria Vergine della rivelazione che ci ha mostrato Gesù il Verbo che ha salvato l’umanità”: noi con la Vergine si continua a pregare e le campane di San Pietro suonano a festa, mentre esce il Papa.” Il veggente Cornacchiola disse nel 1947 che altri pochi papi ci saranno sul trono pontificio; l’ultimo, un santo, amerà i suoi nemici; mostrandolo, formando l’unità d’amore, vedrà la vittoria dell’Agnello.

(nota del redattore) <E’ bene affidarsi al Cuore umano e divino di Gesù Eucaristia>

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SANTA VITTORIA IN MATENANO nel libro di DARIO ROSSI 2004: Note di storia locale 1799-1950 indice alfabetico dei temi nei secoli

Rossi, Dario, “Santa Vittoria in Matenano – Note 1799-1950”,

 ed, Sfera 2004

Acque 196

Agricoltura 212

Ancona 1799 14

Anno1860 p. 153

Arte – opere303

Arti e mestieri 250

Asilo Infantile 283

Associazioni 285

Banca depositi e prestiti 322

Banda musicale 310

Benedettine. monastero 319

Bersaglieri pontifici 42

Bibliografia 422

Caduti – lapide 384

Caffè comunale 267

Campane a S. Francesco 117

Campanile della chiesa di S. Maria 69

Campo boario 382

Campo sportivo 398

Caporetto 383

Cappellone 194

Cappuccini 130

Carceri mandamentali 291

Carestia del 1816.1817 p.27

Caserma dei bersaglieri 44

Cassa di risparmio agricolo 330

Castello per l’orologio 99

Ceri – offerta 12

Chiesa della Resurrezione 119

Chiesa di S. Maria della Valle 67

Chiesa di S. Salvatore 151

Chiesa: Madonna degli Angeli 84

Chiese e il clero 178

Cholera Morbus 58

Cimitero nuovo 189

Cisterne 40

Cittadinanza onoraria 406

Clero 178

Confraternite 93

Conventi di S: Agostino e S. Francesco 189

Coscrizione militare 34

Croce e calice  306

Culto e tradizioni 82

Delegato papale (1847)  134

Divertimenti 167

Emigrazione 340

Ferrovia 231

Festa dell’uva 405

Feste per il centenario 331

Festeggiamenti del 1843 79

Fiere 112

Filodrammatica 340

Filodrammatica 345

Fonte del Latte 397

Fonti 39

Forno comunale 23

Fotografo 328

Geodetica 260

Gregorio XVI 86

Guardia civica 91

Guardia Nazionale 164

Guardie municipali 288

Guerra d’indipendenza-terza 191

Guerra mondiale2a. 407

Igiene e sanità 299

Illuminazione elettrica 364

Illuminazione notturna 182

Insorti e morti nel 1831 p.48

Internati 409

Lamponi Filippo 308

Lana 37

Macello comunali 23 e 25

Medici e l’arte sanitaria 201

Mercati 132

Millenario – S. Vittoria324

Misure 133

Mostre agricole 376

Mulini 126

Mura Castellane 53

Napoletani insorgon 1799 15

Numerazione civica 245

Opere pie 100

Opere pubbliche 73

Oratori

Oratorio di S Marco 124

Organo della chiesa di S. Agostino 255

Orologio della piazza 71

Ospedale nuovo 337

Palazzo comunale 160

Parco della rimembranza 387

Passeggiata 381

Patrioti Lamponi 170

Patronati 285

Pesi e misure 133

Piazza Vittorio Emanuele II 261

Piazzale di Sant’Agostino 265

Pio IX 86

Porta dei Cappuccini 113

Porta di Sant’Ippolito e Cassiamo 238

Poste italiane 217

Poste -messaggeria 295

Pretura 361

Pro infanzia -comitato 386

Repubblica 2a romana (1849) 63

Repubblica italiana 419

Repubblica romana (1797) p.9

Rivoluzionario 32

S. Vittoria- centenario martirio 418

Sanità 198

Sanità 299

Santa Vittoria-toponimo 173

Scuola 270

Scuola media 416

Seta 37

Sfollati 409

Sicurezza pubblica 1800 20

Società operaia 332

Spettacoli teatrali a S.Vittoria 353

Sport 337

Statuto – festa 215

Stemma del Comune 175

Strada suburbana 228

Teatro – teatro 183

Teatro 346

Teatro pitture 186

Telefono 395

Telegrafo 221

Territorio e popolazione 144

Tiro assegno 225

Toponomastica cittadina 242

Torre del palazzo 207

Torre della collegiata 377

Torre di S. Francesco 257

Tradizioni e culto 82

Tranvia elettrica 379

Trasporti 388

Truppe austriache 1800 18

Vaccinazione 97

Ventennio 400

Viale della passeggiata 381

Vicoli – chiusura 51

Vie di comunicazione 136

Vincenzo Taccari 179

Vittorio Emanuele III- nascita 253

Volontari 146

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Curiosità di storia di Fermo e del Fermano in epoca anteriore all’era cristiana tra i Greci e i Romani. Gabriele Nepi autore 1996

 ERA avanti Cristo anni a ritroso dai più antichi ai più recenti

Secolo X a.C. – E si formarono i Piceni, popolo forte e civile

Questa di oggi è la pagina più genuina e più splendida della nostra storia, della storia picena, perché oggi (come si è fatto ininterrottamente da secoli) si celebra la venuta dei Piceni. È la sagra di Sciò la Pica, fatta slittare alla data odierna dai referendum (si celebra sempre il giorno di Pentecoste), sagra che tuttavia viene celebrata con tutta la magnificenza delle edizioni passate, con tutto l’entusiasmo di sempre. Ab immemorabili ha luogo a Monterubbiano, dove oggi si danno ideale convegno i Piceni provenienti da ogni parte della regione, quasi a vedere o rivedere la culla della loro origine.

Vennero gli antichi piceni della Sabina, guidati da un picchio (pica ave duce). Attraversarono la faglia di Arquata; sciamarono lungo il Tronto e si diressero a nord e a sud di esso, ponendo ivi le loro dimore. Così nacquero Firmum Picenum, Potentia, Interamnia (Teramo). Atri. Asculum Picenum, etc. I nuovi venuti adempivano al voto di “Primave-

ra Sacra” (voto vere sacro). E ciò non è leggenda! Una pleiade di autori classici, greci e latini, parlano di essa. Sono Strabone, Eusebio di Cesarea, Diodoro Siculo, Tito Livio, Silio Italico, Festo Rufo, Paolo Dia¬cono, quasi tutti vissuti prima di Cristo. Dei Piceni parlano inoltre Orazio, Giovenale, Marziale etc. Popolo valoroso e guerriero, tenne testa e più volte, a Roma specialmente durante la Guerra Sociale (quest’anno ricorrono 2080 anni!). La loro civiltà fu splendida: la loro facies culturale, stupenda; la loro arte, meravigliosa! Mentre scriviamo, non possiamo non pensare a quanto diciamo di loro in un’opera storica di imminente pubblicazione e focalizzata a Colli del Tronto, i cui reperti piceni faranno conoscere aspetti sconosciuti di tale civiltà.

Monterubbiano, antico centro piceno, ricorda oggi come ha fatto da secoli, la loro venuta. Da alcuni giorni garriscono sulle torri monterubbianesi vessilli ed orifiammi, oggi, in un tripudio di sole, di colore, di canti, si rievoca quella venuta, mentre il clangore delle chiarine, gli squilli delle campane, il rullo dei tamburi conferiscono alla celebrazione, mista di sacro e profano, un entusiasmo possente ed eloquente, una esaltazione della nostra stirpe. Le quattro corporazioni (Bifolchi, Mulattieri, Artisti, Zappaterra), sfileranno nei loro variopinti paludamenti, su focosi destrieri, accompagnati da splendide dame e damigelle da con-fratelli.

     “Poiché Iddio potente viene placato con l’omaggio ed il culto dei Santi, e poiché per intercessione della beata Vergine del Soccorso la nostra Monterubbiano continui ad essere assistita dalla fortuna, cresca in dimensione, aumenti in prosperità, stabiliamo che, annualmente, arrivando la festa, i Magnifici priori, insieme al Podestà, provvedano a rendere noto nelle località consuete e con le modalità solite che tutti, sia maschi che femmine, si raccolgano nella piazza di Santa Maria dei Letterati, per poi procedere in solenne processione alla volta di Santa Maria del Soccorso insieme ai magnifici Priori, Podestà, ai Salariati, a Sacerdoti, Chierichi e ai loro pari grado. E un Monterubbiano d’Argento sia portato da un famiglio ed ognuno porterà le candele accese che verranno date in elemosina a S. Maria del Soccorso”. Così i patrii Statuti!

     Andiamo a Monterubbiano ad assistere a Sciò la Pica. Sarà un ritorno alle sorgenti, alle fonti primigenie della vita, alla georgica contemplazione della Natura. Gli spiriti degli antichi nostri padri, aleggeranno all’intorno, rievocando la loro venuta, guidata dal Picchio che diede il nome alla Regione (unde nomen genti!).

Anno c. 752 a.C. – Lucio Taruzio e il Natale di Roma

      “Sole che sorgi libero e giocondo / sul colle nostro i tuoi cavalli doma / Tu non vedrai nessuna cosa al mondo / maggiore di Roma”.

     Così si cantava un tempo e spero di non essere tacciato di “nostalgia”; se mai, potrei esserlo di “classicismo”, perché tale inno non è una peculiarietà del ventennio, ma opera del poeta latino Orazio vissuto molti secoli prima, Alme sol… possis nihil Urbe Roma visere maius Lo ricordo in occasione della ricorrenza del 21 aprile, Natale di Roma.

     Noi datiamo i nostri atti dalla nascita di Cristo; ma nell’antichità il tempo era scandito in vari modi: dalle Olimpiadi, che cadevano ogni 4 anni; c’erano poi gli anni del Consolato; l’era di Diocleziano; l’era della fondazione di Roma; le indizioni ecc…

Nel periodo prima di Cristo, gli storici datavano fatti ed eventi ab Urbe condita, cioè dalla fondazione di Roma, avvenuta nel 753 avanti Cristo. Nel fissare tale data, un nostro “concittadino” fermano, Lucio Taruzio, svolse il molo più importante. Già Catone il Vecchio si era interessato di fissare il giorno della nascita di Roma, facendolo risalire al 752 a.C.; Varrone invece, con l’approvazione di illustri storiografi, quali Plinio il Vecchio, Tacito, Dione ed altri, la fissò al 21 aprile, su indicazione di Lucio Taruzio.

     Ce lo dice Plutarco nella “Vita di Romolo”, scritta in greco, ove si dice anche che il natalis urbis si identificava con la festa delle Palilie. Chi toglie ogni dubbio (se dubbi ci fossero), è nientemeno che Marco Tullio Cicerone. Egli nel libro 2, cap. XLXVII del De divinatione, dice testualmente: “Pure Lucio Taruzio di Fermo, amico nostro, uomo molto erudito nelle arti d’astrologia, faceva derivare il giorno natalizio della città, dalle feste di Pale. Si narra che Romolo la fondò durante tali feste. Taruzio affermava che Roma venne fondata quando la luna era nella costellazione della Bilancia e non esitava a cantare le imprese del fondatore”. L. Tarutius firmanus, familiaris noster, in primis caldaicis rationibus eruditus Urbis edam nostrae natalem diem repetebat ab ipsis Palilibus, quibus etiam a Romulo conditam accepimus ecc.

     Successivamente, con Dionigi il piccolo, si incominciò a datare atti e documenti partendo dalla nascita di Cristo; anche se i calcoli su ta¬le data non sono perfetti, tuttavia fu adottata universalmente.

     Particolare curioso: l’era della fondazione di Roma, tanto usata dagli storici, non venne adoperata dai Romani nella datazione di leggi ed atti pubblici, ma soltanto nelle liste e nei fasti consolari. A Fermo, una via dedicata a Lucio Taruzio. ricorda ai posteri colui che fissò al 21 aprile il Natale di Roma, caput mundi.

Anno 536 a.C. – I Fermani a scuola di Pitagora nella Magna Grecia

     Da poco è ricominciato l’anno scolastico; si “torna al lavoro usato”. Ovunque si respira aria di studio e di cultura.

     Fermo, “città degli studi” o “degli studenti”, ogni mattina è invasa da folle di giovani e si perpetua così una tradizione di apprendimento e di cultura, viva sin dal sec. VI avanti Cristo.

     Lo scrittore greco Diogene Laerzio (III sec. d.C.) (da non confondere col “Diogene di Lubrano”), nella sua poderosa opera: “Vita e sentenze dei più illustri filosofi e compendio breve delle opinioni di ciascuna setta”, afferma che durante la 60a Olimpiade, cioè 536 anni prima di Cristo, nella Magna Grecia, a Crotone, affluivano cittadini di varie parti d’Italia per imparare da Pitagora (allora trentacinquenne) la filosofia, le lettere greche e la medicina. Fra essi vi erano dei cittadini di Fermo (Vita di Pitagora, libro 8). Ciò è confermato da Giacinto Gimma in “Idee della Storia dell’Italia Letterata” (1723).

     A tali Fermani interessava la conoscenza della filosofia e, ovviamente, della lingua greca, talché poi parlavano e scrivevano corretta- mente e correntemente sia il greco che il latino. Vos exemplaria graeca nocturna versate manu versate diurna, dirà poi Orazio nell’Arte Poetica: consultate notte e giorno i modelli greci!

     Dell’apprendimento e della conoscenza del greco, sono rimaste tracce nel dialetto del contado fermano,- dovute ai traffici commerciali con la Grecia e la Magna Grecia e per la tradizionale conoscenza bilingue (greca e latina) dei Fermani. Così abbiamo mattara cioè la madia dal greco mattra; gramarò (mestolo) dal greco cammaros; cutumu (stivale) da còtornos; fratte (siepi) da frattei; naulu (pigione noleggio) da naulos; téca (baccello): una téca de fava oppure di piselli da teke; fitturu (cavicchio per far buchi nel terreno per piantagioni) da fiteuo, cioè piantare, etc. Ciò per non parlare delle voci dotte di cui è piena la nostra lingua: ritmo: greco: rithmos; prosopopea gr. prosopopoia; ittico da ictùs: pesce, etc.

     Anche nello Studìum Generale di Fermo, fondato nell’anno 825 da Lotario I, era in auge lo studio del greco. Qui si dovevano recare per studiarlo tutti quelli del Ducato di Spoleto, oltre che dalla Marca Fermana. Tale studìum, potenziato nel 1398 ed elevato a rango di vera e propria università (quando le odierne università di Urbino, di Camerino, Macerata non erano ancora nate) tenne in auge lo studio del greco e ciò fino al 1827. Oggi a Fermo prosperano ben due licei classici, “A. Caro” e “Paolo VI”, parificato e, nonostante certi ostracismi governativi, in tutta Italia la lingua greca… vive e prospera.

     Gli studenti che si cimentano nelle scuole fermane nell’apprendimento della lingua greca, sappiano che le radici di tale studio risalgono a Pitagora, quello che ci ha fatto tribolare con la Tavola Pitagorica e col Teorema che un mio professore di matematica aveva così formulato: “Per consolarti il cuore la scienza ha la sua musa. / Pitagora ti dice con me con me ripeti / Il quadrato costrutto sopra l’ipotenusa / è somma dei quadrati costruiti sui cateti”.

     Non era certo un’ode di Pindaro o una anacreontica, ma serviva per ricordare…

Anno c. 220 a. C. – Colli di anfore

L’articolo della settimana scorsa su Madonna Manù ha suscitato interesse, specie tra i turisti e villeggianti dei campings che costellano la nostra riviera, da Porto Sant’Elpidio a Cupra Marittima. Molti hanno telefonato; qualcuno ha scritto chiedendo ulteriori notizie; qualcu¬no è venuto a trovarmi. Diversi si sono recati a vedere la chiesina romanica, specie quelli del camping Mirage, il più vicino.

L’occasione è propizia per tornare sull’argomento e per dire che proprio nella zona del Mirage (Fosso S. Biagio) il sottosuolo è pieno zeppo di anfore romane. Già dal tempo di Augusto (se non prima) esistevano qui delle fornaci. Gli sbancamenti di terra, operati dalle ruspe quando è stata costruita l’autostrada, hanno portato alla luce parte del¬l’area archeologica. Letteralmente “scapitozzate” dal lavoro di livellamento dei mezzi meccanici, affiorarono per largo tratto numerosissime anfore vinarie con incise c.lu ply, marchio della “impresa” o famiglia Poli. Intorno, resti di focolari di cottura. Ne furono scavate oltre cento; erano tutte bene allineate, dalle anse eleganti, piede ad imbuto rovesciato per fissaggio sulle navi da trasporto. Zona archeologica quindi, quella di S. Biagio e vicinanze e componente non trascurabile di turismo culturale che si va affermando, perché il villeggiante, oltre al mare, al sole ed al paesaggio, vuole conoscere, vuole imparare. Qui poi abbiamo cultura che spazia verticalmente e orizzontalmente: ancore nel sottosuolo; in alto, i resti della chiesa e del castello di S. Biagio; sopra il camping Riva Verde, sorgeva la chiesa farfense di S. Angelo Vecchio; nel centro di Altidona, il castello di Garzania, tutti nominati, come detto, nelle porte di bronzo della Basilica di Montecassino. Ma c’è di più.

     Procedendo verso sud, cioè verso Pedaso, ma sempre in territorio di Altidona (che sulla costa si estende dal fiume Aso al Fosso di S. Biagio), nell’area dove sorge ora Altidona Marina, fu rinvenuta nel 1900 una statua di Esculapio di fattura greca, risalente al III secolo avanti Cristo, ora “emigrata” in Francia. Poco sopra, in località Villa Montana prospiciente il mare, si ammira tuttora una costruzione romana a seminterrato. Sembra servisse per la conservazione delle derrate alimentari al tempo delle guerre puniche. Tutt’intomo. vennero alla luce anfore, suppellettili ed oggetti vari, di epoca romana ed alcune la¬pidi riportate da Teodoro Mommsen nel volume Inscriptiones Calabriae, Apuliae Samni, Sabinorum, Piceni, stampato a Berlino nel 1883.

Anno 217 a.C. – Annibale si riposò nel litorale Piceno

     Era il 21 giugno del 217 avanti Cristo! Oggi si compiono 2204 anni! Tale data ce la indica Ovidio nei Fasti, dove si parla della battaglia e della sconfitta romana al lago Trasimeno.

     Era una mattina nebbiosa; presso il Trasimeno 40.000 Cartaginesi accerchiarono ed annientarono il romano Flaminio ed il suo esercito, avventuratisi sconsideratamente, e contro il parere dei tribuni, in un terre- no circondato intorno da truppe cartaginesi. I Romani attaccati in testa, di fianco e di spalle, non ebbero modo di difendersi e ne sega: un orrenda carneficina. “I caduti romani furono oltre 10.000 e molti prigionieri” racconta Tito Livio. Fra i caduti, lo stesso comandante Flaminio. trafitto dalla lancia di un soldato gallo di nome Ducasio. I Cartaginesi lasciarono sul campo solo 1.600 fra morti e feriti. La vittoria punica era schiacciante!

     Tale battaglia (cui accenna anche Carducci ne “Le Fonti del Clitunno”) ci interessa per le implicanze che ne derivarono e per il fatto che Annibale, anziché dirigersi verso Roma, come era da prevedere, venne nel nostro litorale piceno: “Annibale si diresse verso il Piceno, abbondante di ogni ben di Dio e di ghiotta preda di cui avidamente si impadronirono le sue truppe”. Così Tito Livio (A.U.C. XXII) e Polibio Storie, lib. Ili, 85). Il viaggio durò 10 giorni, perché i Cartaginesi a mala pena riuscivano a trasportare il bottino di cui si erano impadroniti. “Giunte le truppe nel litorale piceno, Annibale le fece riposare: ristorò i soldati con cibi squisiti e con del vino vecchio, di cui tale era l’abbondanza che ci lavò persino le zampe dei cavalli per guarirli dalla scabbia” (Polibio, ibidem 88).

     Secondo una consolidata tradizione e secondo le indicazioni di Tito Livio e Polibio, l’area di sosta di Annibale doveva essere tra Cupra e Potentia. Lo ricorda il toponimo “Campo di Annibale” che fa eco alle “Gorghe di Annibale”, toponimo che indica il luogo dello scontro al Trasimeno. Per dare una indicazione più sicura, potremmo dire che il Cartaginese sostò in un’area territoriale che corrisponde alla fascia marittima della attuale Diocesi di Fermo. Infatti, dal Piceno Annibale spedì navi a Cartagine per annunciare la vittoria; ma porti attrezzati, in quel tempo, all’infuori del Navale Firmanum non ve n’erano. Dal contesto della narrazione di Polibio, che parla di “piccole tappe”, “Annibale si mosse a piccole tappe attraverso le terre Pretuziane (odierno Teramano) e la città di Atri. Poi i Marruccini ed i Frentani…”, si evince che il viaggio ebbe inizio dalla nostra zona, altrimenti Polibio avrebbe descritto altre areee geografiche od altre località.

Dopo questo trionfo e quello dell’anno successivo a Canne, Annibale verrà sconfitto dai Romani a Zama (202 a.C.). Dopo tanta gloria nel 183 a.C. si toglierà la vita col veleno per non cadere in mano ai Romani.

Anno 216 a.C. – Morirono da eroi a Canne per essere fedeli a Roma

     I corpi dei soldati caduti giacevano inerti, sparsi ovunque sul campo di battaglia ed il sole dardeggiante ne favoriva la celere decomposizione. La località presentava un aspetto apocalittico. I Cartaginesi, vincitori, si aggiravano per il campo cercando di individuare qualche commilitone caduto. Siamo a Canne all’indomani della famosa battaglia. Nella pianura, il 2 agosto 216 a.C. si era svolta la famosa battaglia. Sono passati 2108 anni!

     I Romani, forti di 80.000 fanti e 4.000 cavalieri (alleati compresi), si erano scontrati con il Cartaginesi il cui esercito consisteva in 40.000 fanti e 10.000 cavalieri. Al loro comando, c’era il terribile Annibale. I Romani erano comandati dai consoli Marco Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo. Il genio militare di Annibale rifulse ancora una volta: con una mossa a tenaglia, aveva circondato le truppe romane facendone un’orrenda carneficina. I morti romani ed alleati erano 25.000 (Polibio però parla di 70.000; Tito Livio di 45.000); i prigionieri diecimila. I Cartaginesi ebbero soltanto 6.000 morti.

     Fermo ed il Fermano in questo periodo storico ebbero una parte non certo di secondo piano. Già nella prima guerra punica avevano fornito marinai per la flotta di Cajo Duilio ed Attilio Regolo. Ora, nella seconda guerra punica, mentre varie colonie latine si erano rifiutate di inviare contributi in truppe e denaro, Fermo fu tra le diciotto colonie che inviarono sostanziosi aiuti, opponendo a sua volta fiera resistenza ad Annibale sceso nel Piceno. E di ciò fa fede Tito Livio (XXVII, 10). Alla battaglia di Canne erano presenti i soldati fermani che si batterono a fianco di Roma; oltre a loro altre truppe picene. Ce lo ricorda Silio Italico, poeta latino, il quale ci descrive una fase della famosa battaglia… “Curione tremendo per le squame e la cresta equina… sprona gli abitanti della terra picena. Qui vedi i coltivatori dei campi della sassosa Numana e quelli i cui altari fumano nel litorale di Cupra, nonché quelli che difendono le torri sul fiume Tronto. Sta in armi Ancona, celebre come Sidone nel tingere la porpora. Sta in armi Atri, bagnata dal Vomano e lo spietato portabandiera Ascoli… Una volta, come narra la tradizione, la terra era dominata dai Pelasgi sui quali regnava Asi, che lasciò il nome al fiume e da lui i popoli vennero detti Asili”. Chiaro riferimento al fiume Aso e non, come taluno vuole, all’Esino che definiva soltanto il confine nord del Piceno. Oggi turisti e bagnanti, che si godono le vacanze tra S. Benedetto del Tronto e Porto Sant’Elpidio, ricordino che 2108 anni or sono, dalle varie località del litorale, dove fumavano gli altari per i sacrifici offerti alla dea Cupra (et queis litorae fumant altaria Cuprae), partirono per Canne soldati Piceni a combattere a fianco di Roma e morirono da eroi sul campo per mantenere fede all’alleanza romana. Da allora venne coniato il motto Firmum firma fides Romanorum Colonia: Fermo ferma fedeltà colonia dei Romani.

Anno 191 a. C. – Il valore dei Fermani alla battaglia delle Termopili.

     “… E sul col dell’Antela, dove morendo / si sottrasse da morte il santo stuolo / Simonide salìa… Beatissimi voi / che offriste il petto alle nemiche lance / … voi che la Grecia cole e il mondo ammira.”

     Così il nostro Leopardi, celebrando l’eroismo di Leonida e dei 300 Spartani, immolatisi alle Termopili, combattendo contro lo sterminato esercito di Serse.

Nei secoli risuona: “O viandante va’ e annuncia a Sparta, che noi siamo qui morti per obbedire alle sue leggi”.

     Tali leggi, infatti, non consentivano al soldato, impegnato nella difesa di una posizione, di ritirarsi per aver salva la vita. Era il 480 avanti Cristo!

      Ma le Termopili furono teatro di un altro scontro, nel quale rifulse il valore dei Fermani, contro l’esercito di Antioco III, Re di Siria. Questi, alla testa di un potente esercito (c’erano anche elefanti e poderose macchine da guerra) attaccò i Romani, inferiori di numero e di mezzi. L’esercito romano che era comandato dal Console Acilio Glabrione, coadiuvato dai tribuni Lucio Valerio Fiacco e Marco Porcio Catone, doveva mandare avanti un “commando” per conquistare un valico strategico. Era impresa altamente rischiosa e difficile. Per riuscire, occorreva un ardito colpo di mano. Conoscendo il valore e l’audacia dei Fermani che militavano nel suo esercito, chiamò a sé un reparto di essi e tentò l’impresa.

     Sentiamo cosa ci narra in proposito nelle Vite Parallele lo storico greco Plutarco, vissuto al tempo di Traiano: Chiamati a sé i Fermani di cui conosceva la virtù e il valore, disse loro: “Desidero avere vivo un soldato nemico per sapere quanti sono, quale la loro strategia, il loro armamento”. Catone aveva appena detto ciò, che i Fermani si precipitarono nell’accampamento avversario, seminando terrore e mettendo in fuga i nemici.

     Presero un soldato e lo condussero a Catone. Questi fornì utili informazioni sulla consistenza nemica. Grazie al colpo di mano dei Fermani, i Romani vinsero.

Antioco fuggì lasciando sul campo numerosi morti e feriti. Moltissimi furono i prigionieri: del suo esercito di oltre 8.000 uomini rimasero solo 500 soldati.

Altri eventi bellici ebbero luogo alle Termopili: a) nel 279 a.C. la battaglia fra Greci e i Galli di Brenno; b) nel 1821, durante la guerra per l’indipendenza della Grecia 18.000 Turchi sono sconfitti da soli 2.500 Greci; c) nel 1941 (notare la periodicità dei numeri 191-1821- 194 L1991) vi si combatte fra Tedeschi e Anglo-Greci con la vittoria dei primi. Ma su tutti i fatti d’arme, spiccano l’eroismo di Leonida ed il valore di quel pugno d’audaci, tutti Fermani, la cui impresa fu determinante per la vittoria romana.

     Da quell’annoallora 191 a.C. sono trascorsi oltre 20 secoli. Da allora, accanto alla gloria di Leonida (che rifulgeva già da 300 anni), brilla anche quella dei Fermani. La storia ne ha tramandato la fama attraverso i secoli, fama che – sebbene in misura diversa – “ancor nel mondo dura / e durerà quanto il mondo lontana” (Inferno, II, 60).

Anno 89 a. C. -Catilina e Cicerone 17 novembre dell’89 a. C.

     Era il 17 novembre dell’89 a.C. Gneo Pompeo Strabone, generale romano, si trovava con quattro legioni all’assedio di Ascoli.

     Si stava per compiere l’ultimo “atto” della guerra sociale, iniziata due anni prima. Gli Italici (Vestini, Marsi, Marruccini, Sanniti, Irpini, Frentani, Peligni) ed Ascoli, erano insorti contro Roma. Essi con forza reclamavano la cittadinanza romana e la loro “insurrezione” aveva scopi separatistici ed autonomistici. I Pretuzi, cioè i Teramani non vi partecipavano. Ascoli era isolata all’interno della Regione picena, in quanto Fermo era rimasta fedele a Roma; Ancona si disinteressava.

     Roma inviò subito un esercito al comando di Gneo Pompeo Strabone (padre di Pompeo Magno) per reprimere l’insurrezione e dare una lezione ad Ascoli. La si voleva punire per prima, avendo essa scatenato la rivolta. Gli Italici ed i Romani, arruolarono subito i rispettivi eserciti, forti di circa centomila uomini ciascuno. Ad un primo scontro, avvenuto presso Falerone (e non a Falerno come erroneamente sostiene Laffi (Asculum I – pag. XXV) le truppe romane sono sconfitte dagli insorti comandati da Gaio Vidacilio, Tito Lafrenio, Publio Ventidio. Strabone ed il suo esercito si rifugiano a Fermo, che viene circondata d’assedio da Lafrenio. Tale assedio, si protrasse dalla primavera all’autunno del 90 a.C.

Roma mandò rinforzi che presero gli assedianti alle spalle. Strabone allora tentò una sortita e gli Italici, presi tra due fuochi, o meglio tra tre fuochi, per un incendio fatto scoppiare nei loro accampamenti, fuggirono terrorizzati, lasciando sul campo il loro comandante Lafrenio, ferito in combattimento.

     “Nullo militari ordine carpentes iter” dice lo storico Appiano Marcellino (1, 47) cioè in disordine, si rifugiano in Ascoli e da assedianti passano ad essere assediati. I Romani infatti, iniziano l’assedio che durerà circa un anno. Gli insorti opposero lunga resistenza. Ad un certo momento per ingannare i Romani, dislocarono sugli spalti delle mura donne e vecchi per dare ad intendere che erano allo stremo e tentarono quindi, ma senza esito, una sortita. Così narra Frontino (III, 17).

Ma alla fine, Ascoli cadde e il 25 dicembre dell’89 a.C. Strabone celebrò il trionfo de Asculaneis Picentibus cioè sugli Ascolani Piceni. Ma in questa vicenda è emerso un fatto nuovo finora sconosciuto e sfuggito agli storici della guerra sociale.

Nel 1908, il Prof. Giuseppe Gatti di Roma, ebbe casualmente notizia di un frammento epigrafico di bronzo, in possesso di un privato. Ne diede notizia ad Ernesto Nathan, in quel tempo presidente della commissione archeologica italiana, nonché sindaco di Roma. Era l’editto di concessione della cittadinanza romana alla turma salluitiana, cioè ai trenta cavalieri spagnoli che militavano nell’esercito romano all’assedio di Ascoli. Oltre alla cittadinanza, Strabone conferiva onorificenze militari a tale turma.

     Due anni dopo, nel 1910, fu scoperto il secondo frammento della lamina, frammento che combaciava perfettamente col primo (misure cm. 52×28). Dall’esame comparativo dei due pezzi (che si seppe poi erano stati rinvenuti durante i lavori di sterro sotto il Campidoglio), vennero fuori oltre ai nomi dei cavalieri spagnoli, anche quelli del consilium cioè dello staff del contingente militare romano.

Viene nominato innanzi tutto il consul Pompeo Strabone, eletto a tale carica il l2 gennaio dell’89 a.C. per cui fu sostituito per breve tempo al comando dell’assedio da Sex J. Cesar e poi da C. Bebio. Veniva-no poi: 5 legati, un questore; 16 tribuni militum; 33 equites, cioè cavalieri (in gran parte del Piceno) e 4 centurioni primipli.

     Il documento, ora sotto bacheca nei Musei Capitolini, porta la data del 17 novembre (oggi ricorrono 2.082 anni) ed è rilasciato in castreis (sic!) apud Asculum cioè negli accampamenti presso Ascoli.

     Esso ci fa conoscere una presenza importante. Fra gli equites c’è Lucio Sergio Catilina, che aveva appena 19 anni. Egli passerà poi alla storia, a motivo della famosa congiura (63 a.C.), contro cui tuonò Cicerone nella celebre invettiva “Quousque tandem Catilina abutere patientia nostra?”. Fino a quando Catilina abuserai della nostra pazienza?

     Ma in tale assedio, oltre Catilina, che la lamina ci dice appartenente alla tribù tromentina, c’erano (come accennato), anche il figlio di Strabone, il futuro Pompeo Magno appena diciasettenne e Cicerone e, come noto, sventò la congiura di Catilina. La presenza di Cicerone non è indicata nell’editto del 17 novembre a.C. ma ce ne parla lui stesso nella Filippica XII. Infatti prima dell’ultimo assalto, gli Italici mandarono ai loro, truppe di rinforzo al comando di Vezio Scatone. Questi propose a Strabone un abboccamento. Risparmiare un ulteriore spargimento di sangue; ma né il senato italico né quello romano approvarono e fu l’ultimo scontro.

Più tardi, dopo 40 anni, precisamente nel 49 a.C. sarà pure presente Caio Giulio Cesare il quale dopo aver preso Fermo e dopo una sosta a Castro Truentino (zona di S. Benedetto del Tronto) si diresse in Asco¬li e vi si trattenne un giorno per fare rifornimento di frumento ibique (in Ascoli) unum diem rei frumentariae causa moratus. Così egli stesso afferma nel De Bello Civili, 1, XV.

Anno 79 a.C. – Prelibati i vini dell’Ager Picenus 

     Novembre… “per le vie del borgo / dal ribollir dei tini / va l’aspro odor dei vini / Vanime a rallegrar / … La notissima poesia carducciana così descrive questo periodo, in cui si beve il vino nuovo.

Il vino è un elemento che accompagna la vita deH’uomo. Se ne parla nella Bibbia (et vinum laetificat cor hominis), Odissea, etc.

     Plinio, morto durante l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., parla di vini d’Italia. Nel libro XIV, IV della sua famosa Naturalis Historia accenna a quelli della costa adriatica: ai vini pretuziani (area del Teramano), a quelli di Ancona ed a quelli Palmensi.

Andrea Bacci medico di Sisto V e famoso in tutto il mondo occidentale per l’opera De Naturali Vinorum Historia, de vinis Italiae (Roma 1596, Francoforte 1607), descrive l’area del Fermano come la più ricca di vini gustosi e prelibati. Era nativo di Sant’Elpidio a Mare, conosceva tutta Italia e l’Europa e non ha dubbi nell’indicare l’area fermana come la zona più ricca di vini a cominciare da Ripatransone, Acquaviva, Montegiorgio, Santa Vittoria in Matenano, Montelparo, Mon-tegranaro, Magliano, ma soprattutto Falerone i cui abitanti durante le invasioni barbariche si rifugiavano a Cupra Montana portandovi i loro vitigni. Oggi Falerone è la capitale del vino Falerio!

     Ma c’è di più: l’imperatore Diocleziano, morto nel 313 d.C., emanò un editto (Edictum Diocletiani) che altro non è, se non il calmiere dei prezzi dei cereali, delle merci di lusso, dei compensi per prestazioni d’opera. Vi sono indicati anche i vini. I più pregiati (quelli che oggi chiameremmo Doc) sono il vino rosso piceno (nominato per primo), il Tiburtino, il Sabino, l’Amminneo, il Saitino, il Sorrentino, il Falerno (ne parlano anche Orazio e Varrone). Ebbene dato che l’Ager picenus era a nord del Tesino (Plinio, Naturalis Hist 1333) il vino Piceno era prodotto proprio nella zona del Fermano. Lo stesso Diocleziano faceva esportare i vini da Civitanova e dintorni per la sua Dalmazia. Com’è noto, era di Spalato… E il vino piaceva anche a lui, e molto.

Anno 49 a.c. -Giulio Cesare, dal Rubicone al Piceno

     Fiumicino, nome conosciuto nel mondo per il suo aeroporto internazionale. Fiumicino, nome di un piccolo, esile torrentello, dal 1933 identificato, o meglio, riconosciuto ufficialmente, come l’antico Rubicone, noto in tutto l’orbe terracqueo. Era la tarda sera dell’undici febbraio del 49 a.C. e Caio Giulio Cesare lo attraversò in armi. Ciò significava contravvenire a quanto disposto dal Senato di Roma, cioè che nessuno lo potesse attraversare senza l’espressa sua autorizzazione. Costituiva infatti il confine tra l’Italia propria e la Gallia Cisalpina, confine che in precedenza – sembra al tempo dei Gracchi (II sec. avanti Cristo) – era rappresentato dal fiume marchigiano Esino. Cesare, in dispregio del divieto del Senato, che gli aveva ingiunto di licenziare le truppe, lo attraversò. ‘Il dado è trattò echeggia da secoli, anche se Cesare non disse proprio così, ma: ‘il dado sia tratto. Non “alea jacta est’’, ma “alea jacta esto”.

     Ce lo precisa l’umanista Erasmo da Rotterdam (1466-1536) e ce lo conferma il testo greco di Plutarco (Vita di Cesare e Pompeo). Cesare dunque, alla testa di un piccolo esercito varca il fiume. Erano solo 300 cavalieri e 5.000 fanti. Occupa successivamente Pesaro, Fano, Ancona, Osimo e tutto l’agro piceno, che gli si dà spontaneamente, anzi (è lui stesso che ce lo narra nel De Bello Civili, I, XV) tutte le “praefecturae” del Piceno lo accolgono con entusiasmo, compreso Cingoli, patria del suo luogotenente Tito Labieno (lo abbiamo ‘incontrato’ molte volte nel De Bello Gallico) ora passato a Pompeo, che si mette ai suoi ordini.

     Da Osimo, Cesare marcia su Fermo, la occupa. “Recepto Firmo ex- pulsoque Lentulo”, ci narra Cesare stesso, cioè presa Fermo ed espulso Lentulo ordina una leva militare e poi ingrossato ulteriormente l’esercito, cui, nel percorso si erano aggiunti molti volontari, si dirige su Castro Truentino e quindi in Ascoli. A confermare la presa di Fermo ci dà una mano Marco Tullio Cicerone. Egli nel libro Vili, 12 delle Lettere ad Attico riporta un passo della lettera di Pompeo al proconsole Domizio: “Hai avuto notizia che Giulio Cesare dopo essere partito da Fermo è venuto a Castro Truentino” (“quod audieris Caesarem Firmo progressum in Castrum Truentinum venisse” ).

     Giulio Cesare non dice altro; del resto, non nomina nemmeno il Rubicone ce ne parlano altri storici. Dopo la icastica frase “recepto Firmo” (presa Fermo) e dopo aver accennato alla leva militare, scrive che si re¬ca in Ascoli, dove si trattiene un giorno per fare rifornimento di frumento (rei frumentariae causa) e poi prosegue per Corfinio. Il dado gettato 2039 anni or sono, l’undici febbraio, ci ricorda che per l’identificazione del Rubicone vi furono molte lotte. Chi sosteneva che fosse l’attuale Pisciatello in quel di Cesena; chi Fiumicino in territorio di Savignano (dal 1932 Savignano sul Rubicone); chi l’Uso nei pressi di Sant’Arcangelo di Romagna. Prevalse Fiumicino, dal 1933 ufficialmente “battezzato” Rubicone. Nel secolo passato si giunse persino a chiedere un pronunciamento a tal riguardo alla Sacra Romana Rota, ma, inutilmente.

Anno 49 a.C. -Giulio Cesare, dal Rubicone al Piceno

     Fiumicino, nome conosciuto nel mondo per il suo aeroporto internazionale. Fiumicino, nome di un piccolo, esile torrentello, dal 1933 identificato, o meglio, riconosciuto ufficialmente, come l’antico Rubicone, noto in tutto l’orbe terracqueo. Era la tarda sera dell’undici febbraio del 49 a.C. e Caio Giulio Cesare lo attraversò in armi. Ciò significava contravvenire a quanto disposto dal Senato di Roma, cioè che nessuno lo potesse attraversare senza l’espressa sua autorizzazione. Costituiva infatti il confine tra l’Italia propria e la Gallia Cisalpina, confine che in precedenza – sembra al tempo dei Gracchi (II sec. avanti Cristo) – era rappresentato dal fiume marchigiano Esino. Cesare, in dispregio del divieto del Senato, che gli aveva ingiunto di licenziare le truppe, lo attraversò. ‘Il dado è trattò echeggia da secoli, anche se Cesare non disse proprio così, ma: ‘il dado sia tratto. Non “alea jacta est’’, ma “alea jacta esto”.

     Ce lo precisa l’umanista Erasmo da Rotterdam (1466-1536) e ce lo conferma il testo greco di Plutarco (Vita di Cesare e Pompeo). Cesare dunque, alla testa di un piccolo esercito varca il fiume. Erano solo 300 cavalieri e 5.000 fanti. Occupa successivamente Pesaro, Fano, Ancona, Osimo e tutto l’agro piceno, che gli si dà spontaneamente, anzi (è lui stesso che ce lo narra nel De Bello Civili, I, XV) tutte le “praefecturae” del Piceno lo accolgono con entusiasmo, compreso Cingoli, patria del suo luogotenente Tito Labieno (lo abbiamo ‘incontrato’ molte volte nel De Bello Gallico) ora passato a Pompeo, che si mette ai suoi ordini.

     Da Osimo, Cesare marcia su Fermo, la occupa. “Recepto Firmo ex- pulsoque Lentulo”, ci narra Cesare stesso, cioè presa Fermo ed espulso Lentulo ordina una leva militare e poi ingrossato ulteriormente l’esercito, cui, nel percorso si erano aggiunti molti volontari, si dirige su Castro Truentino e quindi in Ascoli. A confermare la presa di Fermo ci dà una mano Marco Tullio Cicerone. Egli nel libro Vili, 12 delle Lettere ad Attico riporta un passo della lettera di Pompeo al proconsole Domizio: “Hai avuto notizia che Giulio Cesare dopo essere partito da Fermo è venuto a Castro Truentino” (“quod audieris Caesarem Firmo progressum in Castrum Truentinum venisse” ).

     Giulio Cesare non dice altro; del resto, non nomina nemmeno il Rubicone ce ne parlano altri storici. Dopo la icastica frase “recepto Firmo” (presa Fermo) e dopo aver accennato alla leva militare, scrive che si re¬ca in Ascoli, dove si trattiene un giorno per fare rifornimento di frumento (rei frumentariae causa) e poi prosegue per Corfinio. Il dado gettato 2039 anni or sono, l’undici febbraio, ci ricorda che per l’identificazione del Rubicone vi furono molte lotte. Chi sosteneva che fosse l’attuale Pisciatello in quel di Cesena; chi Fiumicino in territorio di Savignano (dal 1932 Savignano sul Rubicone); chi l’Uso nei pressi di Sant’Arcangelo di Romagna. Prevalse Fiumicino, dal 1933 ufficialmente “battezzato” Rubicone. Nel secolo passato si giunse persino a chiedere un pronunciamento a tal riguardo alla Sacra Romana Rota, ma, inutilmente.

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INDICE delle Curiosità di storia e del Fermano nel libro di Gabriele NEPI 1996

NEPI Gabriele –Curiosità di storia di Fermo e del Fermano nei secoli.  ed.1996.docx

Indice cronologico

                                                                                                                      PAGINA DEL LIBRO

ANNO                  ANTERIORE ALL’ERA CRISTIANA

 900 a.C. – E vennero i Piceni, popolo forte e gentil   p.162

 752 a.C. – Lucio Taruzio e il Natale di Roma   p.218

 536 a.C. – I Fermani a scuola di Pitagora nella Magna Grecia Anno 535 a.C    pag. 296

 220 a.C. – Colli di anfore   p.246

 217 a.C. – Annibale  si riposò nel nostro litorale   p.172

 216 a.C. – Morirono a Canne per essere fedeli a Roma   p.212

 191 a.C. – Il valore dei Fermani alla battaglia delle Termopili    299

  89 a.C. -17 novembre dell’89 a.C.: Catilina e Cicerone    173

  79 a.C. -I prelibati vini dell’Ager Picenus    210

  49 a.C. – Giulio Cesare, dal Rubicone al Piceno   146

Era cristiana

  79 – d.C.-  Plinio il Giovane a Sabino: “Sarò avvocato dei Fermani”   181

 251 – Quanti Santi nella storia Fermana – Lungo elenco   p.22

 522 – La Regina Amalasunta in cerca di serenità trova rifugio a Fermo   p. 125

 538 – In tempo di guerra invasione di vocaboli   p. 260

 598 – Una lettera di Papa Gregorio Magno al Vescovo di Fermo, Passivo   p. 16

 825 – I Carolingi concessero lo Studio Generale a Fermo   p. 264

 886 – Il complesso architettonico sta andando in rovina   p.235

 972 – Le prove dell’esistenza della Marca Fermana   p. 220

1003 – Un Papa dimenticato: Giovanni XVII di Rapagnano   p. 356

1046 – Clemente II a Fermo di passaggio   p. 53

1055 – I Normanni e la Marchia Firmana   p. 238

1080 – Un tributo da versare il giorno di Pasqua      p. 17

1087 -Gioiello poco valorizzato: antichissima chiesina di Madonna Manù   p. 244

1116 – I doni portati dai Castelli   p. 121

1149 – Del palio si parla già in un documento del XII secolo   p. 121

1149 – Il Palio, espressione della potenza fermana   p. 118

1170 – La Casula di S. Tommaso Becket, Fermo e la massima benedizione di Allah    p. 13

1175 – Fermo distrutta dall’Arcivescovo Cristiano   p. 86

1176 – Fermo distrutta e poi riabilitata   p. 184

1176 – Barbarossa la chiamò Porto San Giorgio   p. 257

1182 – Il drappo dei Castelli   p. 119

1211 – Dal Potenza al Tronto lungo la costa sventolava il vessillo di Fermo   p. 98

1221 – Mal di denti e Pellegrino da Falerone   p. 279

1229 – Quanti privilegi per Montegiorgio   p. 122

1240 – Federico II e S. Elpidio con due diplomi l’imperatore concesse privilegi alle città   p. 78

1240 – Il privilegio concesso da Federico II imperatore   p. 96

1240 – La Vallata del Tronto e Federico II   p. 250

1242 – Epilogo di una Lega di sette secoli fa   p. 213

1242 – Il panno di Federico   p. 265

1245 – La Marca Fermana nominata nel Concilio di Lione   p. 310

1253 – Ranieri Zeno potestà di Fermo eletto doge   p. 277

1250 – I privilegi di Federico II a favore di Torre di Palme   p. 259

1266 – G. 7 a Moresco – Il Doge Tiepolo   p. 248

1267 – La Rocca di Porto S. Giorgio   p. 369

1268 – Una complicata Riforma elettorale, sette secoli fa   p. 198

1272 – Un privilegio ai mercanti Fermani   p. 169

1280 – 16 febbraio 1280: Fermo compera una parte del castello di S. Benedetto   p. 275

1281 – Santa Maria a Mare   p. 30

1288 – Ben dieci i Papi Marchigiani   p. 363

1288 – Nicolò IV, Papa   p. 295

1289 – Nicolò IV Ascolano  p. 54

1292- Quel “crudo sasso” reso famoso dal fermano Beato Giovanni    p. 170

1292-I due Gentile da Mogliano    p. 271

1294- La tradizione dei focaracci nelle pagine e nei versi di scrittori e poeti    p. 15

1294- Le coordinate: Ancona e Fermo!   p. 105

1306- Il ciocco di Natale e la “vellutina”   p. 302

1306 – Natale 1306 – Ancora lacopone da Todi e Giovanni de Firmo, dicto de la Verna   p. 303

1320 – Fermo e Camerino contro Macerata   p. 99

1320 – I Cappuccini e i Fioretti di S. Francesco sono nati qui   p. 318

1334 – Spade famose e spade meno famose   p. 104

1336 – Ancora Dante Alighieri a Fermo   p. 165

1341 – Una delle prime armi da fuoco trovata a Roccamontevarmine   p. 287

1355 – Papi in Avignone   p. 305

1355 – Fermo viene assolta   p. 273

1355 – L’implorazione di Mitarella   p. 192

1355 – Tre importanti pergamene dei possedimenti di Fermo   p. 71

1355 – Un processo di scomunica agli Ascolani celebrato a Fermo il 31 ottobre    p. 292

1356 – Gentile da Mogliano ordinò “Sia distrutta S. Croce”   p. 95

1366 – Ancora su Giovanni Visconti d’Oleggio signore di Fermo    p. 196

1373 – Provincia, scippo che non Scotti troppo   p. 84

1375 – Un golpe degli otto (santi) anche nel 1375 finì male   p. 154

1376 – Gioie e dolori il 22 per Fermo   p. 144

1379 – E Fermo si liberò dalla tirannide di Rinaldo   p. 103

1380 – Boffo da Massa e il Palio di Fermo   p. 117

1384 – I riti pasquali nella Cattedrale di Fermo, più grande di quella di Torino   p. 24

1386 – Arquata chiede protezione a Fermo   p. 82

1386 – Il Palio e gli 80 Castelli   p. 116

1389 – Fermo manda sentinelle a vigilare la rocca   p. 273

1389 – Il tribunale di Fermo e le sue vicende   p. 282

1396 – Assedio e conquista della rocca di Smerillo   p. 72

1407 – Antonio Di Pietro e le Campane   p. 255

1416 – Il vescovo Fermano Bertoldi traduce la Divina Commedia in latino   p. 202

1417 – Sepolto a Recanati Gregorio XII morì all’età di 90 anni   p. 51

1417 – I “meriti” danteschi del monsignore   p. 194

1423 – Morte nascosta – Timore di rivolte per la fine di Ludovico   p. 216

1427 – Un inedito malatestiano   p. 215

1439 – Isolea e Matteo oggi sposi – Una storia d’amore sul Girfalco   p. 129

1440 – L’inedita lettera di S. Giacomo   p. 28

1441 – Ancora matrimoni e corna eccellenti    p. 141

1441 – Fermani e Ascolani, una notte insieme   p. 92

1441 – Sigismondo e la sposa bambina   p 131

1442 – Il benvenuto di Fermo alla “magnifica ed inclita Bianca Visconti”   p. 126

1444 – Degna accoglienza all’arrivo del Conte Francesco Sforza   p. 179

1444 – Lo sfarzo degli Sforza   p. 45

1446 – La rivolta contro gli Sforza e la protezione di S. Caterina   p. 23

1446 – Quel leone ruggiva   p. 240

1446 – S. Giacomo della Marca torna   p. 37

1446 – S. Giacomo e la pace tra Fermo ed Ascoli   p. 19

1450 – I Ripani gridarono “abbasso Fermo!”   p. 106

1450 – Il caviale del Legato pontificio   p. 63

1456 – Una tempesta provvidenziale   p. 27

1458 – Per aiutare i poveri fondò il Monte di Pietà   p. 345

1464 – Il viaggio di Pio II – Enea Piccolomini morì dopo aver visto le galee   p. 54

1467 – Tangentopoli prima e dopo Cristo   p. 288

1467 – Un’opera di Lattanzio Firmano tra i primi quattro libri stampati in Italia   p.189

1473 – L’icona donata da S. Giacomo   p. 34

1480 – Il fondatore di Giulianova eroe italico   p. 347

1484 – I Fermani buttano dalla finestra il Vescovo Capranica   p. 48

1489 – Un ballo negato   p. 161

1489 – Un pornografo del ‘400- Pacifico Massimi autore di Hecatelegium   p. 156

1490 – Un portolano di cinque secoli or sono   p. 315

1491 – Fermo vuole distruggere il castello di S. Benedetto   p. 88

1493 – La lettera di Colombo   p. 236

1496 – Il promotore dei Monte di Pietà di Fermo   p. 322

1497 – Ettore Fieramosca combatté nella guerra tra Ascoli e Fermo   p. 76

1503 – I Borgia, la cabala, Fermo e quel lontano primo maggio   p. 63

1503 – Cronaca di una fine d’anno assai movimentata   p. 222

1507 – Città con il dominio su tutta la costa   p. 107

1507 – E il Vescovo salvò il pesce della sua mensa   p. 187

1507 – Magliano di Tenna, un castello che vale … tanto oro quanto pesa   p. 75

1530 – Cronaca di una fine d’anno assai movimentata   p. 222

1547 – Dolori (e qualche gioia) per Fermo   p. 142

1548 – Sisto V si laurea a Fermo   p. 44

1553 – Ventimila scudi d’oro per riavere i castelli   p. 87

1556 – Marcello II nato a Montefano   p. 239

1560 – Carlo Borromeo cardinale e protettore   p. 252

1567 – Petritoli interdetta e scomunicata   p. 253

1571 – La Bolla del 30 luglio   p. 298

1572 – Sisto V e ‘lu Marguttu’   p. 256

1574 – Quando il biografo di Michelangelo annegò nel Menocchia   p. 152

1575 – Otto castelli dei 48 che Fermo ha   p. 100

1579 – Monturano ricorre al Papa   p. 294

1583 – Torquato Tasso e la fermana Accademia degli Sciolti   p. 193

1585 – 18 aprile: fatidiche date   p. 133

1585 – I giorni fortunati di Papa Sisto V: Mercoledì e Venerdì   p. 52

1587 – Ostilio Ricci, l’unico maestro amato dal sommo Galileo   p. 227

1588 – Sisto V e la cupola di S. Pietro   p. 57

1589 – Il regalo di Sisto Vela gratitudine dei Fermani   p. 50

1590 – Gli ultimi giorni di Sisto V   p. 67

1590 – Sisto V e i tre Sansovino   p. 43

1598 – Il “De iure belli” e l’Irak   p. 208

1608 – La splendida tela del Rubens   p. 20

1608 – La Natività viaggiò fino a Pietroburgo   p. 341

1614 – L’Auditorium e i Gesuiti   p. 38

1631 – Ospitalità degna di una futura Regina   p. 131

1633 – Fermo, i barbari e …. i Barberini   p. 138

1648 – Una disperata rivolta sotto il sole di luglio   p. 73

1654 – La regina di Svezia amica del Cardinale Azzolino   p. 127

1658 – Giacinto Cornacchioli   p. 269

1663 – Collegio invidiato – Dall’Illirico, uscirono Vescovi e scienziati   p. 200

1676 – Fermo e il Cardinale Nepote   p. 285

1725 – Alessandro IV Borgia Arcivescovo di Fermo   p. 281

1735 – Quel grande astronomo dalmata   p. 225

1752 – Disposizioni ai castelli dipendenti – Un “monitorio” del 1752 detta le condizioni   p. 115

1765 – Torre di Palme, Porto di Fermo e Fermo in un diario   p. 108

1770 – La città trasformata dal Cardinale   p. 229

1773 – Clemente XIV   p. 341

1783 – Festa delle donne e la festa ai mariti   p. 312

1789 – Così nacque la Marsigliese   p. 230

1791 – Il teatro dell’Aquila oggi “compie” due secoli   p. 211

1796 – Giuseppe Colucci, storico delle Marche   p. 289

1797 – I delegati di Fermo davanti a Napoleone   p. 148

1798 – L’accanita battaglia di Torre di Palme   p. 94

1799 – Analogie e contrappasso: Napoleone e due Pontefici   p. 313

1799 – L’assedio degli Insorgenti alla rocca di Acquaviva   p. 102

1808 – Il “complotto dei tredici” fallì e Napoleone li fucilò   p. 221

1809 – Napoleone la cancellò   p. 113

1810 – Napoleone e il decreto sui camposanti   p. 249

1810 – Un dì felice ma Napoleone voleva che si festeggiasse solo il suo compleanno   p. 123

1812 – Quando il Viceré nominava i “sindaci”   p. 314

1818 – E nacque “Stille Nacht”, un canto universale   p. 320

1821- Leopardi “devoto servitore” del canonico fermano   p. 226

1822- Diploma firmato Antonio Canova   p. 171

1827- I Promessi Sposi di Fermo   p. 324

1834- La “Cencia” di Belli – La passione del poeta molto legato al Fermano   p. 195

1840 – Diventò un palio venerato e protettore   p. 113

1843 – Il matrimonio felice del conte Gigliucci e del soprano Novello   p. 140

1845 – Fermo ed i Fermani nel giudizio di Mommsen   p. 326

1846 – Il Conclave di Pio IX   p. 58

1846 – Due Fermani protagonisti nel Conclave che elesse Pio IX   p. 46

1848 – In tempi di Tangentopoli ripensiamo al primato nelle scienze e nelle arti   p. 204

1849 – Cinque erano gli assassini, solo tre divennero eroi   p. 177

1849 – Garibaldi a Fermo, la truppa a Porto S. Giorgio   p. 147

1849 – Il Cardinale odiato dalla Repubblica Romana e da Cavour   p. 185

1849 – il letto dove dormì Garibaldi si conserva ancora intatto   p. 327

1852 – I.T.I., il buon nome non tramonta “Mai”   p. 135

1855 – Il Cardinale De Angelis rifiuta Bologna   p. 60

1857 – Avvenne in una festa di colori la visita di Pio IX in Ancona   p. 335

1857 – “Fischiate, fischiate pure” , disse Pio IX alla folla   p. 337

1857 – I contadini videro insieme il Papa e il mare per la prima volta   p. 61

1857 – Sfarzose scenografie in onore di Pio IX   p. 49

1859 – Candido Augusto Vecchi e Mercantini   p. 241

1860 – Plebiscito   p. 261

1860 – Feste, battute di caccia, amori per Re Vittorio Emanuele II   p. 164

1860 – Il “regalo” dei Piemontesi   p. 159

1860 – Il plebiscito ed il giallo delle schede   p. 158

1860 – Moti in piazza contro i “tagli” piemontesi   p. 300

1860 – Provincia scippata; fu ritorsione?   p. 83

1860 – Quando il Cardinale era perseguitato   p. 12

1860 – Ricordando Vittorio Emanuele (1878-1978) nelle Marche   p. 358

1867 – Carnevale 1867: don Bosco arriva a Fermo   p. 29

1873 – Mons. Camilli e la Romania   p. 32

1874 – La notte dell’Epifania del 1874 a Montefiore   p. 80

1876 – Carducci e il dialetto di Fermo   p. 177

1878 – Omaggio al poeta – Fermo, il monumento a Leopardi ha 114 anni   p. 178

1880 – Quante “papere” doc   p. 182

1882- Gabriele D’Annunzio a Porto S. Giorgio   p. 330

1883 – D’Annunzio e il Fermano   p. 145

1883 – Niente esonero per commemorare Garibaldi   p. 150

1888 – Il clinico che curò Carducci e D’Annunzio   p. 151

1888 – L’eredità di Temistocle Calzecchi-Onesti   p. 157

1892 – Sul più famoso vocabolario latino “Campanini e Carboni” hanno studiato”   p. 361

1895 – 1895-1995: L’ultimo Cardinale a Fermo, Amilcare Malagola   p. 309

1895 – Un campanello sotto il letto del Cardinale aprì la strada alla scoperta di Marconi   p. 317

1900 – Domenico Alaleona e l’errore dell’Enciclopedia Treccani   p. 227

1906 – Il Conte Sacconi a Fermo   p. 269

1909 – Padre Giuseppe Gianfranceschi   p. 365

1910 – Romolo Murri   p.  266

1918 – Soldato elpidiense per primo a Trieste   p. 90

1918 – Un fermano con D’Annunzio   p. 242

1919 – Novelli e la Fenice   p. 329

1920 – Silvestro Baglioni: grande figura di uomo e di scienziato    p. 339

1926 – Fusa a Fermo la campana delle Laudi   p. 183

1928 – L’autore di “Ladri di Biciclette” sposo a Porto S. Giorgio    p. 197

1930 – L’inno del fermano per le nozze di Umberto e Mari Josè   p. 321

1933 – Cento anni vissuti a servizio degli altri   p. 36

1944 – L’abbazia di Montecassino fu ricostruita da una impresa fermana   p. 188

1947 – Flaiano   p. 207

1947 – Quando Flaiano scriveva alla sua vecchia maestra   p. 206

1952 – Licini; nell’arte e nella vita lo spezzavi, ma non lo piegavi   p. 137

1973 – Provincia, scippo che non Scotti troppo   p. 229

1975 – La “Resurrezione” del Fazzini dimenticata dalla guida di Roma   p. 11

1989 – Nella biblioteca del Papa   p. 35

1992 – Un monumento ai Caduti   p. 217

1996 – La Diocesi di Fermo, prima in graduatoria   p. 323

                                                                                                                      DIGITAZIONE DI ALBINO VESPRINI

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Altre opere dell’autore:

1)           Note sulla pronuncia dell’H in Latino, 5- edizione – Fermo, 1958.

2)           Clero e Cultura – Grandezze e benemerenze del Clero nel campo culturale –  Roma, 1957.

3)           Le Marche, la nostra Regione, 7a edizione – Ascoli Piceno, 1968.

4)           Cenni storici di Montemonaco – Fermo, 1969.

5)           Cenni storici di M. Falcone Appennino – Fermo, 1958.

6)           Edmondo De Amicis – Bologna, 1961.

7)           Il Duca degli Abruzzi – Bologna, 1961.

8)           Guglielmo Massaia – Bologna, 1961.

9)           Matteo Ricci – Bologna, 1961.

10)         Storia di Porto Sant’Elpidio – Fermo, 1970.

11)         “Dodi Furor Arduus Lucretii” – Città del Vaticano, 1964 –  Premio al Certamen Vaticanum.

12)         One Year in Treblinka – Un anno a Treblinka (traduzione dall’inglese) – Roma, 1958.

13)         Paul Sih: Decision for Cina – Cina al Bivio (traduzione dall’inglese) Torino; 1961.

14)         Pagine di storia inedita del Fermano – Fermo, 1966.

15)         Cenni storici di Altidona – 42 edizione – Fermo, 1985.

16)         Cenni storici di Lapedona – Fermo, 1963.

17)         Cenni storici di Moresco – Fermo, 1964.

18)         Cenni storici di Smerillo – Ancona, 1969.

19)         Cenni storici di Monterubbiano – Fermo, 1961.

20)         Cenni storici di Montefortino – Fermo, 1960.

21)         Cenni storici di M.S. Pietrangeli – Fermo, 1960.

22)         Storia dei Comuni della Provincia di Ascoli Piceno – Voi. I – Fermo, 1966 (in ristampa).

23)         Storia dei Comuni Piceni – Voi. II – Fermo, 1970.

24)         Storia dei Comuni Piceni – Voi. IlI – Fermo, 1971.

25)         Storia dei Comuni Piceni – Voi. IV – Fermo, 1972.

26)         Storia dei Comuni Piceni – Voi. V – Fermo, 1973.

27)         Storia dei Comuni Piceni – Voi. VI – Fermo, 1974.

28)         Storia dei Comuni Piceni – Voi. VII – Fermo, 1976.

29)         Storia dei Comuni Piceni – Voi. VIII – Fermo, 1978.

 30)        Storia del Comune di Santa Vittoria in Matenano – Camerino,1977.

31)         Guida di Moresco – Camerino, 1976.

32)         Flores Sententiarum – 5.000 Proverbi e motti latini – Hoepli ed. – Milano, 1978.

33)         Gens Julia – Premio Certamen Vaticanum, 1974 – Ristampa.1978.

34)         Fermo e Giovanni Paolo II – Fermo, 1988.

35)         Il conclave di Pio IX (estratto Studi Maceratesi) – V ed. – 1989.

36)         Storia di San Benedetto del Tronto – Ascoli P., 1989.

37)         Guida di Fermo e Dintorni – X ed. – Fermo, 1989.

38)         Storia dei Comuni Piceni – Vol. IX – Fermo, 1979.

39)         Storia dei Comuni Piceni – Vol. X – Fermo, 1980.

40)         Storia dei Comuni Piceni – Vol. XI – Fermo, 1989.

41)         Giulio Cesare in Abruzzo – Teramo Voce Pretuziana, 1980.

42)         Saggio degli errori dell’Enciclopedia Britannica – Milano, 1980.

43)         Il fondatore di Giulianova in “Osservatore Romano”, 1981.

44)         Gemina Musa, Poesie greche e latine in onore del prof. O. Pasqualetti. Macerata, 1986.

45)         Sisto V Mecenate – Roma, 1981.

46)         Dal dialetto alla lingua vocaboli dialettali marchigiani con le loro rispondenze in lingua italiana – Camerino – III ed.. 1982.

47)         Federico II a Monte Cretaccio di San Benedetto del Tronto – Teramo, 1988.

48)         Storia dei Comuni Piceni – Voi. XII – Fermo, 1992.

49)         Storia dei Colli del Tronto – Macerata2, 1991.

50)         (S)parliamo delle Donne con simpatia e un pizzico di umorismo.   Fermo, 1990-1962.

51)         Il Padre – Fermo, 1992.

52)         La Madre – Fermo, 1992.

53)         Dolcissimi Nonni – Fermo, 1996.

54)         Catilina in Ascoli nell’89 a.C. – Fermo, 1996.

55)         Nuova Guida di Fermo con appendice trilingue – Macerata, 1996.

56)         Il Palio dell’Assunta al 1182 – Fermo, 1996.

                                                          DIGITAZIONE DI ALBINO VESPRINI Belmontese

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Curiosità dei storia di Fermo e del Fermano nel secolo XVI di Gabriele Nepi 1996

1503 – I Borgia, la cabala, Fermo e quel lontano primo maggio   p.  

1503 – Cronaca di una fine d’anno assai movimentata   p.

1507 – Città con il dominio su tutta la costa   p.

1507 – E il Vescovo salvò il pesce della sua mensa   p.

1507 – Magliano di Tenna, un castello che vale … tanto oro quanto pesa   p.

1530 – Cronaca di una fine d’anno assai movimentata   p.

1547 – Dolori (e qualche gioia) per Fermo   p.

1548 – Sisto V si laurea a Fermo   p.

1553 – Ventimila scudi d’oro per riavere i castelli   p.

1556 – Marcello II nato a Montefano   p.

1560  – Carlo Borromeo cardinale e protettore   p.

1567 – Petritoli interdetta e scomunicata   p.

1571 – La Bolla del 30 luglio   p.

1572 – Sisto V e ‘lu Marguttu’   p.

1574 – Quando il biografo di Michelangelo annegò nel Menocchia   p.

1575 – Otto castelli dei 48 che Fermo ha   p.

1579 – Monturano ricorre al Papa   p.

1583 – Torquato Tasso e la fermana Accademia degli Sciolti   p.

1585 – 18 aprile: fatidiche date   p.

1585 -1 giorni fortunati di Papa Sisto V: Mercoledì e Venerdì   p.

1587 – Ostilio Ricci, l’unico maestro amato dal sommo Galileo   p.

1588 – Sisto V e la cupola di S. Pietro   p.

1589 – Il regalo di Sisto Vela gratitudine dei Fermani   p.

1590 – Gli Ultimi giorni di Sisto V   p.

1590 – Sisto V e i tre Sansovino   p. 1598 – Il “De iure belli” e l’Irak   \\\\

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Anno 1503 – I Borgia, la cabala, Fermo e quel lontano primo maggio

      Il numero diciotto è legato a fatti ed eventi della famiglia Borgia, oriunda dalla Spagna, celebre nella storia, per avere espresso dal suo seno Papa Callisto III (+ 1458) e Papa Alessandro VI (+1503) sotto il cui pontificato venne scoperta l’America, nonché Lucrezia Borgia, Cesare Borgia ed altri.

     Lucrezia Borgia, nata il 18 aprile 1480, a 13 anni va sposa a Gio¬vanni Sforza; poco dopo, il matrimonio è annullato. A 18 anni, secondo matrimonio, con Alfonso di Bisceglie, figlio naturale del Re di Napoli Alfonso IL Ne nasce un figlio, ma il 18 agosto 1500 il nuovo marito di Lucrezia è ucciso; tra i mandanti, il cognato, Cesare Borgia, fratello di Lucrezia. A fine del 1501, terzo matrimonio di Lucrezia che ha solo 21 anni. Artefici, ispiratori e pronubi di questa serie di connubi, il padre di Lucrezia, Alessandro (che la creò tra l’altro govematrice di Spoleto, Ne- pi e Foligno) ed il fratello di lei Cesare Borgia, detto anche Duca Valentino.

     Cesare, nato cinque anni prima di Lucrezia, figlio del Cardinale Roderico Borgia (poi Alessandro VI) e di Vannozza Cattanei, fu avviato alla carriera ecclesiastica e, grazie all’influenza paterna, ne percorse ra-pidamente i gradi maggiori: fu Vescovo nel 1491; Arcivescovo l’anno dopo e quindi nel 1493, cardinale. Ma cinque anni dopo rinunciò ad ogni dignità e al diaconato, secolarizzandosi. El fijo dii papa, ebbe subito parte importante nelle vicende d’Italia. Come è noto occupò la Romagna e poi il Ducato d’Urbino. Machiavelli, che lo conobbe in questa città, ne rimase ammirato. Leonardo da Vinci lavorò per lui, fortificando varie località. Astuto, intelligente, colto, valente nelle armi, era di¬ventato l’incubo dei signorotti dell’Emilia e Romagna. Suo motto era Aut Caesar aut nihil o essere come Giulio Cesare o niente. Sulla sua spada aveva fatto incidere Cum nomine Caesaris omen (il nome di Cesare è un augurio). I regnanti e signorotti dell’Italia centrale, temendo di essere sconfitti ed uccisi, si unirono in lega (la lega di Magione). Vi facevano parte tra gli altri Oliverotto da Fermo e Vitellozzo Vitelli. Ma egli li prevenne. Con “il bellissimo inganno” li convocò a Senigallia ed il 31 dicembre 1502 li fece strangolare; più tardi il 18 gennaio 1503 farà strangolare Paolo Orsini e il Duca di Gravina.

     A Fermo, la notizia dell’uccisione di Oliverotto giunse fulminea il le gennaio 1503. Grande l’esultanza dei fermani che vedevano “spento” il loro tiranno. Oliverotto aveva commesso molti delitti e molte uccisioni per giungere alla signoria della città. Le città ed i potenti “trovavano più sicuro aderire a lui che resistergli”, afferma Machiavelli e Fermo ben presto manda ambasciatori al Borgia. Tra essi il conte Paccarone e Francesco di Leonardo. Ritornarono gli esuli banditi da Oliverotto. Venne il legato pontificio (si ricordi che era Papa il padre di Cesare Borgia) e requisì le rocche dello Stato di Fermo; venne anche il conte Giacomo Nardino da Forlì delegato del Borgia; “homo molto destro che oprò tanto che li cittadini elessero per signore il Duca e così voleva el Papa che se facesse. Il primo de magio in consiglio fu gridato per signore il Duca Valentino e dato lo governo a detto conte Giacomo”.

     Ma il 18 agosto (notare il ricorrere dei 18!) 1503 muore Alessandro VI. Gli succede Pio III che aveva retto la Diocesi di Fermo prima di salire al soglio pontificio. Proteggeva Valentino, ma dopo soli 26 giorni di papato, muore il 18 ottobre 1503. Giulio II, che gli succede, esautora il Valentino e lo fa imprigionare. Dopo fortunose vicende e varie peripezie, il 12 marzo 1507 il Valentino muore combattendo sotto le mura di Viana nella Spagna.

Anno 1507 – E il Vescovo salvò il pesce della sua mensa

     Porto S. Giorgio linda e graziosa cittadina, porto naturale di Fermo, è nominato dai “grossi calibri” della geografia antica, come Strabone vissuto prima di Cristo che nomina esplicitamente “Fermo e il suo Porto”; come Pomponio Mela (I sec. d.C.) ed altri fino ai nostri giorni, fino a Gabriele D’Annunzio che nel 1883 vi trascorse la luna di miele; fino a Luigi Bartolini che il 29 agosto 1928 (non 28 agosto) vi sposò la sua Zambon.

     Di Porto S. Giorgio si interessò addirittura Federico Barbarossa, che in un privilegio “datato nei pressi di Pavia 2 maggio 1164” a favore dei Canonici di Fermo stabilisce… nessun vescovo, marchese, conte, nessuna persona grande o umile, tenga placiti sia nei castelli, sia nelle ville, sia nel Porto di S. Giorgio.

Gli stessi non potranno nemmeno riscuotere tasse”.

     Porto S. Giorgio, pupilla di Fermo e del suo commercio marittimo, costituiva un tutt’uno con la città. La Rocca, fatta erigere dal Podestà di Fermo Lorenzo Tiepolo (1267) (che diverrà con Ranieri Zeno, Doge di Venezia) era il baluardo contro incursioni e di terra e di mare. Nominato sempre come “Portus Firmi”, oppure “Portus Sancti Georgii”, inneggia, in una lapide della Rocca, a Fermo ed al suo mare “O città di Fermo io ti conservo il lido sicuro, fatta per te chiave e tutela (Urbs o Firmana tibi servo ìitora sana etc.”.

     Ma era anche la grande ricchezza ittica di Fermo e Circondario. Gli Statuti di Fermo (1507) prevedono delle normative per la vendita del pesce, normative che portarono ad una curiosa vertenza. I pescatori ed i cittadini del Porto, si ribellarono, chiedendo di poter vendere il pesce dove volevano e non essere obbligati a portarlo a Fermo soltanto. Lamentavano che ormai erano stufi di portare il pesce alla mensa arcivescovile, al Governatore ed al Magistrato, a prezzi stracciati o addirittura gratis. Portarono la faccenda davanti ai tribunali pontifici di Roma. Questi, invitarono l’arcivescovo e la magistratura a non approfittare dei poveri pescatori sangiorgesi! Pensare che pagavano il pesce due assi la libbra. Era troppo poco. Si stabilì che, per loro, il prezzo fosse inferiore di un terzo a quello pagato dal pubblico. D’altra parte, il pagamento della decima previsto “ab immemorabili”, riguardava i prodotti della terra del territorio, non del mare… Ma che? L’arcivescovo e magistratura insorsero. L’arcivescovo obiettò che il pesce era pescato “in acque territoriali della Diocesi ed il confine di esse era a metà Adriatico. L’altra metà era della Diocesi di Zara”.

     La faccenda si concluse che la Congregazione Romana dovette ri-mangiarsi le decisioni prese (pesce a un terzo del prezzo al pubblico) e l’arcivescovo che era Alessandro Borgia, ebbe salvi i “diritti ittici” della sua mensa arcivescovile.

Anno 1507 – Magliano di Tenna, un castello che vale… tanto oro quanto pesa  

     Magliano di Tenna, piccolo, vivace Comune della Valle omonima, località di poco più di mille abitanti, si sta imponendo all’attenzione e all’ammirazione di molti.

     È il più ricco Comune della Provincia di Ascoli (nelle Marche è secondo soltanto a Numana) nel reddito prò capite; vanta commerci, industrie, attività artigianali ed edilizie di rilievo; una laboriosità che incanta, una sedulitas che stupisce. Né si deve pensare che “Magliano privilegi solo l’industria e il commercio”. Anzi! Nel periodo estivo, ospita e promuove manifestazioni di arte, cultura e sport. Vi hanno luogo spettacoli degni di grandi città e qui puoi incontrare musicisti di fama nazionale o cantautori famosi.

     Vi ebbe i natali Giovanni Battista Carducci (da non confondere con romonimo poeta), vissuto a cavallo tra la dominazione pontificia e il nuovo regno di Vittorio Emanuele IL Carducci, Architetto e scrittore famoso, illustrò i monumenti di Fermo, di Ascoli e della Regione in genere. Restaurò e ristrutturò il tessuto urbano di Fermo, realizzando fra l’altro la Torre dell’Orologio (la Torretta) di Piazza Ostilio Ricci; Villa Vinci sul Girfalco; la chiesa degli Angeli Custodi; il Palazzo Monti; le barriere di S. Francesco e di Santa Lucia. Oggi, riposa nella chiesa di S. Filippo, della sua Magliano.

     Magliano fu sempre vivace e pugnace e se diamo uno sguardo re-trospettivo alla storia, lo vediamo castello dello stato fermano, cinto di mura e torrioni (ne erano 7; ne rimangono 2) poderosi e maestosi. Lottò contro la vicina Grottazzolina per questioni di pascoli e mulini; tali erano allora i motivi che costituivano il casus belli; oggi ci sono i pozzi di petrolio. La vittoria arrise a Magliano.

     Infatti nel 1428, Ludovico Migliorati, signore di Fermo dette ragione a Magliano contro le pretese di Grottazzolina. In lite nel 1546 con Montegiorgio, sempre a motivo di confini, sebbene più piccolo, ne uscì vittorioso.

      “Guerreggiò” nel 1507 con Monte Rinaldo per difendere i suoi “sacri confini” e vinse. Prima del 1266, con Grottazzolina, Monturano, Monte S. Pietrangeli (allora Monte S. Pietro oltre Tenna), costituiva il “quadrilatero” a difesa del Capitolo della Cattedrale di Fermo. Non ave¬va certo l’importanza di quello del Risorgimento (Verona, Legnago.

      Mantova e Peschiera, aveva però la sua importanza e bellica e strategica. Dal 1266 Magliano e gli altri tre castelli vennero ceduti in enfiteusi al Comune di Fermo, per la cifra (allora cospicua) di cento once d’oro, da Noè i non quello dell’Arca), il capo del Capitolo della cattedrale.

”… il reverendo Noè prevosto del capitolo della chiesa Cattedrale di Fermo, con la volontà ed il consenso degli infrascritti canonici cioè Saiimbene. Anduolone. Attone di Montelupone, Ramundino, Angelo e Giovanni di Assisi… diede, cedette e concesse in enfiteusi e per diritto enfiteutico a Giacomo di Nicola, sindaco del Comune di Fermo, ricev ente a nome di detto Comune e per il Comune stesso, il castello di Magliano, con Grottazzolina. Monturano e S. Pietro oltre Tenna. con tutti i diritti, azioni reali e personali, rendite e proventi“.

     Dal che si desume che già allora Magliano di Tenna e i suoi amministratori valevano (e valgono) tanto oro quanto è il loro peso.

Anno 1507-  Città con il dominio su tutta la costa  

     Siamo in un periodo nel quale i Comuni in virtù della legge 142/90 debbono provvedere alla compilazione del proprio Statuto, riecheggiando i vecchi e gloriosi statuti comunali che, praticamente, sono durati fino all’epoca napoleonica! Essi regolavano minuziosamente la vita delle singole località.

A scorrerli, si nota quasi ovunque grande sapienza giuridica? Quel¬li di Fermo, risalenti al sec. XIII e pubblicati a stampa nel 1507 e poi nel 1589 evidenziano anche una peculiarità insospettata: recepiscono gli Statuti marittimi di Trani e lo jus varche di Ancona.

    Ciò denota l’importanza marittima di Fermo, avvalorata dal motivo che anche qui esistevano i consoli del mare. Il fatto poi che l’imperato¬re Ottone IV nel 1211 aveva concesso a Fermo il dominio del litorale dalla foce del Potenza a quella del Tronto, documenta ancora una volta l’importanza marittima di Fermo.

     Però, a nord del Tenna, Civitanova alzava la testa e, col suo porto, tentava di rivaleggiare con Fermo. Questa allora dichiarò guerra: vi furono scontri armati e il 31 maggio 1221 Civitanova, che aveva avuto la peggio, si impegnava a non effettuare azioni di approdo o di carico e scarico di merci nella zona costiera a nord di Porto S. Giorgio, senza il permesso di Fermo.

     Questa città, che nel 1214 aveva ottenuto da Aldobrandino d’Este i castelli costieri di Torre di Palme, Lapedona, Altidona, Grottammare col suo porto consolidava così il suo dominio sulla fascia adriatica. Nel 1225 si ha un trattato con Termoli da cui si evince che i porti principali di Fermo erano due: Porto S. Giorgio e Grottammare. Nel 1258 Man¬fredi figlio di Federico II, il Manfredi che Dante descrive “biondo bello e di gentile aspetto” (Purg. Ili), rafforza il dominio di Fermo sulla costa adriatica confermandole i castelli di Marano (= Cupra Marittima), Torre S. Patrizio, Grottammare, Castel di Monte S. Giovanni, Monte S. Pietro, S. Martino, Petritoli, Montefalcone, Monterubbiano e Ripatran- sone che recalcitrava alquanto.

     I villeggianti che affollano le spiagge adriatiche a sud del Potenza, ricalcano scenari dove si è svolta l’attività marittima di Fermo, esercitata specialmente attraverso il suo Porto (odierna Porto S. Giorgio), talché venne definita vera e propria repubblica marinara (prof. Giovanni Paparella). In ogni caso, fu proprio “città mercato“; così venne definita dal Prof. R.S. Lopez nel convegno “I Comuni dell’Europa post-carolingia”, tenutosi a Spoleto dal 6 al 13 aprile 1954.

Anno 1503 – Cronaca di una fine d’anno assai movimentata

     Scena allucinante quella che si è consumata nella notte tra l’ultimo giorno del 1502 e il primo gennaio 1503. Scena di terrore, di orrore e di sangue. I corpi degli uccisi giacciono sulla pubblica piazza, monito eloquente contro i nemici del Duca Valentino.

     Attori principali sono: Cesare Borgia, alias Duca Valentino. Oliverotto Eufreducci (meglio conosciuto come Oliverotto da Fermo) e Vitellozzo Vitelli. Oliverotto, signore di Fermo e Vitellozzo Vitelli, signore della Città di Castello si sono recati a Senigallia, invitati dal Duca Valentino. Presenti sono anche due personaggi, famosi non solo nella storia d’Italia ma in quella europea anzi mondiale. Sono Leonardo da Vinci (allora a servizio di Cesare Borgia, quale ispettore alle fortezze ed imgegnere militare) e Niccolò Machiavelli, il quale sarà anche il “reporter” del fattaccio. Il Duca Valentino aveva chiamato a sé a Senigallia Oliverotto, Vitellozzo ed i fratelli Paolo e Francesco Orsini fingendo di ignorare la Lega di Magione (Umbria) da loro stretta per difendersi dalla prepotenza dei Borgia che in breve tempo li avrebbe fagocitati ad uno ad uno. “A uno a uno divorati dal dragone” (Villari”). Il Borgia li temeva. Essi avevano già riconquistato Urbino e Camerino. Ma Cesare li invitata a Senigallia per espugnare insieme la rocca. Non fu certo ingenuità da parte dei “leghisti”, ma il “bellissimo inganno” di cui parla Machiavelli a farli cadere in trappola. Machiavelli che abbiamo visto presente (in quanto mandato come osservatore dalla Repubblica di Firenze per controllare le mosse del Valentino) da perfetto giornalista descrive il fatto, anzi lo consacra alla Storia, addirittura nel II Prìncipe (cap. VIII): “li fece morire in sua presenza strangolandoli con una corda pisana al collo e con un torcolo e poi li fece trascinare in camicia sulla piazza dove giacquero per tre giorni”.

     Dopo l’uccisione, mentre ancora i corpi paonazzi giacciono sulla piazza, piena di brina, il 2 gennaio 1503 il Valentino, a cavallo, parte da Senigallia conducendo con sé, in manette, Paolo e Francesco Orsini. Essi il 18 gennaio 1503 subiranno (secondo atto della scena descritta) la stessa sorte di Oliverotto e di Vitellozzo. Si dice che prima di morire, sia Oliverotto sia Vitellozzo, implorassero pietà ma “preghiere e pianti si spensero con un gorgoglio, nel nodo della corda pisana stretta da un corto bastone che le mani del carnefice torsero con consumata perizia”.

       Grande fu l’ammirazione di Machiavelli per il Valentino il quale gli aveva detto, quella mattina di Capodanno, che aveva voluto estirpare “quella zizzania che era per guastare l’Italia” e Machiavelli, ammiran¬do la gagliardfa e la perspicacia della vecchia volpe, cioè del Valentino, commentava: “Io giudico che sia meglio essere impetuoso che rispettivo perché la fortuna è donna e bisogna… batterla e urtarla… E però sempre, come donna, è amica dei giovani perché sono meno rispettivi, più feroci e con più audacia la comandano”.

     Alla notizia dell’uccisione di Oliverotto, Fermo scese in piazza, ebbra di gioia. Colui che una anno prima aveva fatto uccidere lo zio Fogliani, due teneri bimbi e il suo genero ed aveva fatto appendere le cervella dei bimbi uccisi sul portale di Palazzo Fogliani, ora “era stato spento”. La pena del contrappasso era attuata! Poco dopo i Fermani chiesero al Papa Alessandro VI (che era il padre di Valentino) di essere governati da quest’ultimo. Interessante la delibera del Consiglio comunale (Libro Consigli e Cernite anno 1503 c. 48) che ne parla e rammenta quella triste vicenda, avvenuta or sono 490 anni.

Anno 1547 – Dolori (e qualche gioia) per Fermo il giorno 21        

     Ci sono giorni propizi e giorni nefasti. Checché se ne dica e a dispetto di esorcizzazioni o scongiuri, sembra accertato che la vita di ognuno ne sia condizionata. Raffaello Sanzio nasce alle ore 3 del 6 aprile 1483; muore alle ore 3 del venerdì (era il venerdì santo) 6 aprile 1520.

     Un’astrologa raccomandò a Luigi XVI di Francia (quando era ancora fanciullo) di guardarsi dal 21 del mese. Luigi mise ogni cura a non compiere alcunché d’importante in tali ricorrenze, ma nonostante ogni precauzione, gli eventi ebbero il sopravvento. Il 21 giugno 1791 fu arrestato a Varennes insieme alla moglie, la Regina Maria Antonietta; il 21 settembre 1792 venne abolita in Francia la monarchia; il 21 gennaio 1793, il Re veniva ghigliottinato.

     Venendo più vicino a noi, abbiamo esempi sorprendenti di strane coincidenze. Ad esempio quelle tra i presidenti degli Stati Uniti, Lincoln e J.F. Kennedy: il primo fu eletto presidente nel 1860; il secondo nel 1960; entrambi ebbero due vice presidenti di nome Johnson;  entrambi vennero assassinati ed i rispettivi uccisori vennero a loro volta uccisi, prima del processo.

     Ma lasciando da parte fatti ed eventi di capi di Stato, focalizziamo la nostra attenzione sulla nostra Fermo, e notiamo subito che i giorni 21 e 22 ne segnano le tappe gloriose o funeste.

     Procediamo per ordine, non senza rilevare che la data del 21 aprile (natale di Roma) fu calcolata e fissata da un fermano: Lucio Taruzio, amico di Cicerone. Nel 1176, il 21 settembre, il cancelliere di Federico Barbarossa, Cristiano di Magonza (arcivescovo scomunicato di tale città) mette a ferro a fuoco Fermo, incendiando la cattedrale, palazzi e preziosi documenti. Il 21 settembre 1355 si ha la cessione di Fermo del suo “comitato” e distretto a Papa Innocenzo VI.

     Il 21 marzo 1520, nella pianura tra Montegiorgio e Grottazzolina, i fermani sconfiggono Ludovico Euffreducci. Fermani ed alleati erano capitanati da mons. Nicola Bonafede di Monte S. Giusto, Vescovo di Chiusi.

     Il 21 novembre 1547 vengono restituiti a Fermo i castelli di cui era stata privata e viene restituita la sede del capoluogo, che da dieci anni era stata portata a Montottone, capitale dello “Stato ecclesiastico in agro piceno”.

     Pure al 21, stavolta del luglio (1550), comincia la serie dei gover¬natori designati dal Papa in quanto Fermo, per sedare le lotte intestine, aveva chiesto al Pontefice di essere governata dal Cardinale nepote o dal parente più prossimo del papa. Il Papa accolse la proposta e cominciò subito la serie con il conte Giambattista del Monte, nipote di Giulio III.

     Il 21 novembre 1799 in territorio di Fermo, a Marina Palmense, si fronteggiano due eserciti: quello francese – cispadano, comandato dai generali Rusca e Casablanca e quello napoletano comandato dal generale Micheroux.

     Il 21 febbraio 1831 il generale Giuseppe Sercognani, al comando al delle truppe dell’Armata Nazionale, irrompe su Fermo.

 Il 21 aprile 1831, Papa Gregorio XVI riceve una delegazione di Fermani che gli chiedono la grazia per 28 cittadini fatti arrestare da mons. Folicaldi.

     Il 21 settembre 1860 i Cacciatori del Tronto, e quindi le truppe piemontesi, si impadroniscono di Fermo. Il 21 luglio 1870 comincia la pubblicazione del giornale “Il Piceno”. Il 21 giugno 1944 si insedia il comando militare alleato, dopo che il giorno precedente erano giunte le truppe degli Alleati tra cui molti polacchi. Il 22 del mese fu pure fatidico per Fermo; lo vedremo qui di seguito.

Anno 1548 – Sisto V si laurea a Fermo

     Grande festa a Fermo il 26 luglio 1548. Fra Felice Peretti, che diverrà poi Papa Sisto Quinto, in tale giorno si laureava davanti al Corpo Accademico composto da docenti e prelati del suo ordine, davanti ad una folla numerosa di dottori, spettatori, ecclesiastici.    

     “Le volte del tempio di S. Francesco, vaste e possenti risuonarono quel giorno echeggiando la proclamazione grave e solenne di una laurea in teologia conferita a pieni voti a Fra Felice Peretti”.

     Dopo gli studi a Fermo, dove era stato preceduto nello studio dal suo predecessore S. Pio V (1566-1572), Punico Papa piemontese, Peretti aveva studiato a Ferrara (1540),

a  Bologna (1543), a Rimini (1544), a Siena 1546). Ma il corso di Filosofia e Teologia,lo aveva compiuto e perfezionato a Fermo. Nell’archivio Segreto vaticano (c.4 Sixtus Quintus) si legge in un bel latino curiale di cui traduciamo che “dopo aver discusso pubblicamente nel tempio dei Francescani difficili e numerose tesi di Filosofia e di Teologia”, con grande plauso degli estimatori, degli uditori e dei presenti fu proclamato dottore in Sacra Teologia (theologiae magister): ovviamente maxima cum laude.

In quel tempo a Fermo esisteva l’Università ed era così famosa da gareggiare con quella di Bologna e simili. Contava, si badi bene, 1200 studenti; quella dove si laureò Sisto V era l’università dell’ordine dei Francescani, che conferiva i gradi accademici ecclesiastici.

     L’anno dopo, ad Assisi, Peretti durante il capitolo generale dei Francescani, si fece notare difendendo una tesi contro il seguace di Telesio, Antonio Persico. Nel 1551 è nominato preside della facoltà di teologia a Siena, dove aveva studiato nel 1546. Incomincia poi la luminosa, brillante ascesa che porterà il nostro al Pontificato e sarà consacrato alla storia e nella storia con nome di Sisto V, Papa mecenate, restaura¬tore di Roma e dello Stato Pontificio.

     Peretti era nato a Grottammare, Stato e Diocesi di Fermo il 13 dicembre 1521, era stato Vescovo di Fermo dal 1571 al 1577. A Fermo aveva studiato, come visto, e brillantemente. A Fermo secoli dopo ave¬va studiato anche il celebre Giuseppe Sacconi. Questi eresse il monumento della patria: il Vittoriano; Sisto Quinto, il massimo monumento della cristianità: S. Pietro. Entrambi spiccarono il volo da Fermo ed ancor oggi il turista che viene a Roma annota: “Sisto V elevò la basilica di S. Pietro con gli obelischi e abbellì e trasformò Roma”. Poi: “Giuseppe Sacconi, autore del monumento a Vittorio Emanuele II”. I Fioretti di S. Francesco terminano con il refrain finale: “A laude di Cristo”. Oggi, osiamo aggiungere “e Sisto V suo vicario, da 484 anni Maestro di teologia proclamato a Fermo il 25/7/1548”. Amen.

Anno 1553 – Ventimila scudi d’oro per riavere i castelli

     Data fatidica il 4 marzo del 1553 per Fermo. Dopo umiliazioni e traversie, le erano stati restituiti due castelli: Mogliano e Petritoli, in aggiunta agli altri riavuti cinque anni prima. Ma vediamo come andarono le cose.

     Tra Fermo e Monte S. Pietrangeli non corse mai buon sangue specialmente nei secoli XV e XVI. I fermani, ogni tanto, lo assalivano ed Ascoli, puntualmente, si schierava a fianco di Monte S. Pietrangeli, dando origine a guerricciole, incendi e lotte accanite che si protrassero per molti anni. Alla fine Papa Paolo III decise una mattina di tacciare Fermo di ribellione, punirla e mandargli contro suo figlio Pier Luigi Farnese (avuto prima di accedere al papato). Era il 10 settembre 1537. Pier Luigi subito saccheggiò la città, la privò di tutti i privilegi, ma quel che è più grave, di tutti i castelli del suo Stato. L’anno successivo, Paolo Ri- nuccio, luogotenente del nuovo governatore, il card. Farnese, la privò pure della sede del governo, trasportandola a Montottone dove rimase per dieci anni col nome di “Stato Ecclesiastico in Agro Piceno”.

     Fermo piombò nella disperazione più nera; priva della sede di governo; priva di magistratura; costretta a pagare le spese del Comune; senza redditi, era allo stremo. Vari, e vani, i tentativi di ottenere dal Papa la reintegrazione. Alla fine, dopo varie suppliche, il Papa si decise a restituire a Fermo i suoi castelli.

“Diletti figli, salute ed apostolica benedizione. Poiché ce lo avete richiesto con insistenza e molte volte con umili suppliche (così inizia la bolla) e molte pressioni, noi vi restituiamo i castelli del vostro Stato, cioè: Marano, Loro Piceno, S. Angelo in Pontano, Falerone, Campofilone, Pedaso, Gualdo, Grottammare, Acquaviva, Servigliano, Porto S. Giorgio, Montefalcone, Petriolo, Torre di Palme, S. Benedetto (del Tronto), Carassai, Monturano, Monte Giberto, Rapagnano, Torre S. Patrizio, Lapedona, Massignano, Belmonte Piceno, Smerillo, Massa Fer- mana, Ortezzano, Altidona, S. Elpidio Morico, Moresco, Francavilla, Monte Leone,Monte Vidon Corrado, Monte Rinaldo, Magliano (di Tenna), Grottazzolina, Montappone, Monte Vidon Combatte, Ponzano, Monsampietro Morico. Ripa Cerreto, Montottone, Montefortino.

Però (precisa il Papa)  non vi restituiamo Monte S. Pietrangeli, Mogliano e Petritoli”.

     Passi per il conteso Monte S. Pietrangeli. ma non restituire Mogliano e Petritoli era un affronto per Fermo. La loro restituzione tuttavia avvenne rispettivamente il l° ed il 3 marzo 1553. Ecco il motivo del tripudio e delle feste a Fermo.

     Dobbiamo però precisare subito, che il Papa non aveva restituito i castelli di cui sopra senza alcuna contropartita. Volle ventimila scudi d’oro. La cifra era alta per Fermo, che ricorse per prestiti al Duca d’Urbino, a Firenze, Venezia, ecc. Anzi, dovette pagare una cifra cospicua di interessi per il ritardo nel pagamento. Ma il marzo 1553 Fermo pote¬va celebrare la reintegrazione del suo Stato al completo, eccettuato il castello di Monte S. Pietrangeli che passò alle dirette dipendenze della Curia di Roma.

Anno 1556 – Il Papa Marcello II è nato a Montefano

     Alla TV nei giorni scorsi è stato asserito da uno storiografo che Papa Marcello II, vicino alla tomba del quale è stato sepolto Giovanni Paolo I, sarebbe di Montepulciano (Siena). Ci spiace dover dissentire dallo “storiografo”, ma Papa Marcello II (1555-1555) è nato a Montefano, in Provincia di Macerata.        

     Alessandro VI aveva nominato il padre, Riccardo Cervini nativo di Montepulciano, vice-tesoriere della Marca di Ancona. Cervini rimase in tale ufficio per nove anni, risiedendo ora a Macerata ora nei paesi limitrofi. Il figlio (che divenuto Papa non volle cambiare il nome e si chiamò Marcello II), nacque mentre la famiglia si trovava a Montefano.

     Perché la nostra non sembri una asserzione campanilistica o partigiana, citiamo testualmente dal Pastor… “allorché nel 1501 trovavasi a Montefano, non lungi da Macerata, la moglie Cassandra dell’illustre famiglia dei Benci al sei maggio gli partorì un figlio che ebbe nome Marcello” (Von Pastor, Storia dei Papi, vol. IV, pag. 311, Roma 1922). Il Panvinio, quotato storico, coetaneo del Papa, nella sua Vita Papae Marcelli II scrive: “.. .in agro piceno, oppido Montis Fani natus.. “.  Singolare coincidenza: tale Papa accanto a cui riposa Giovanni Paolo I, regnò soltanto 22 giorni e come Giovanni Paolo I (che regnò per soli 33 giorni) fu trovato morto dai domestici che erano andati a svegliarlo.

     Ci permettiamo precisare quanto sopra per amore di verità e di “marchigianità”, perché anche in opere storiche di valore, nonostante l’autorità del Pastor, si persiste nel dire che Marcello II è di Montepulciano. Altre opere (fra cui la Treccani e l’Enciclopedia Cattolica) dicono pure che Leone XII (Papa dal 1823 al 1829) è nato a Genga presso Spoleto facendo capire che sarebbe un Papa umbro. Genga si trova in Provincia di Ancona, Diocesi di Fabriano, non in Umbria.

     Ci spiace, ma queste sono doverose precisazioni ad onore e prestigio della nostra bella Regione, tanto spesso bistrattata, sconosciuta e ignorata.

Anno 1560 – Carlo Borromeo Cardinale protettore

      Era il 3 gennaio 1560. Pio IV, il milanese Giovan Angelo de’ Medici, eletto Papa il giorno di Natale del 1559 e non ancora coronato, si affretta a chiamare a Roma il giovanissimo nipote Carlo Borromeo; gli affida alte ed importanti mansioni nel governo della Chiesa ed il 31 gennaio successivo, lo nomina Cardinale. Carlo ha appena 22 anni. Ma non basta: l’8 febbraio seguente, gli conferisce l’arcivescovato di Milano con l’obbligo però di restare a Roma, dove praticamente svolge le mansioni di Segretario di Stato. Il primo, in ordine di tempo! Carlo Borromeo non è prete. Sarà ordinato diacono nel dicembre 1560 dopo un anno dalla sua venuta a Roma. Invece, sarà ordinato sacerdo¬te tre anni dopo: il 17 luglio 1563 e, sempre nello stesso anno, il 2 dicembre, consacrato Vescovo. Come si vede, il nepotismo ha fatto mi¬racoli! Ma i fatti dimostrarono poi, che mai scelta fu più azzeccata.

     Al neo Cardinale sono subito affidate le legazioni dell’Emilia e della Romagna e la Marca d’Ancona. Per tale motivo entrò subito in relazione con Fermo. Nelle deliberazioni comunali del tempo, il suo nome appare più volte ed il 28 febbraio 1560 lo troviamo Cardinale Protettore della Città. Prima del Borromeo, Fermo aveva avuto a che fare con i milanesi. Fra magistrati, governatori, podestà, etc. contiamo una quindicina di nomi, alcuni dei quali di fama. Tra essi, Giovanni Visconti d’Oleggio

(+ 1366), il cui sarcofago si ammira nel Duomo, ma le cui ossa sono raccolte in urna di vetro nella Biblioteca comunale di Fermo. I conti Sforza, Francesco ed Alessandro, noti nella storia nazionale. Qui nella fortezza del Girfalco, nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1444, nacque Galeazzo Sforza, che sarà il quinto duca di Milano. E come dimenticare frate Ugolino da Milano, che miniò il famoso Missale de Firmonìbus, dove si ha la prima rappresentazione miniata della Cavalcata e Palio dell’Assunta? Ora, veniva il card. Borro¬meo, il più famoso Cardinale della chiesa ambrosiana dopo Sant’Am- brogio: il Cardinale che tutti conoscono anche per via della statua alta 35 metri ad Arona; il Cardinale dal motto Humilitas e dall’attività poliedrica. Fermo conserva due sue lettere: una del 7 maggio 1561 ed una del 4 marzo 1562. Un’altra si trovava presso i Domenicani fino al 1860. In Duomo vi è il suo zucchetto cardinalizio, una veste, calze da Cardinale ed altre reliquie, nonché un manoscritto con 16 sermoni in latino; un cilizio etc. E così un altro grande, che proprio il 3 gennaio di 435 anni or sono, cominciò il cursus honorum ebbe relazioni con Fermo, relazioni sconosciute o poco conosciute, ma documentate nella e dalla storia.

Anno 1567 – Petritoli interdetta e scomunicata

     Era il 7 ottobre 1567 quattro anni esatti prima della battaglia di Lepanto. Antonio Raynaldi da Fermo, a nome e per conto della comunità fermana, si reca personalmente in vari Comuni della zona per dare comunicazione ufficiale della scomunica lanciata contro Petritoli.

     “Scomunica”, vocabolo che, nel Medio Evo ed anche nel corso della storia, faceva tremare. Essa poteva essere inflitta a singole persone, sia laiche che ecclesiastiche, e comportava l’esclusione dai sacramenti, dai divini uffici, ecc… Nel Medio Evo la scomunica lanciata ad un sovrano, comportava lo scioglimento dei sudditi dall’obbligo di fedeltà. Era perciò un’arma potentissima. Basti ricordare quella contro il Barbarossa (nel 1161 e nel 1164); quella di Enrico IV e la conseguente Canossa; le tre scomuniche inflitte a Federico II (1194-1250) e via via fino a Napoleone che, scomunicato da Papa, disse: “Non sarà scomunica papale a far cadere le armi di mano ai miei soldati”. Ma in Russia, nella tremenda ritirata, il gelo faceva letteralmente cadere le armi dalle mani delle sue truppe. Ironia del destino!!

     Ed a Petritoli, oltre alla scomunica, vi fu anche l’interdetto, che non è come taluno ha recentemente scritto in un volume su Fermo, “la stasi del commercio di uno stato”. Interdetto è una pena canonica che priva i fedeli dei sacri riti e li rende incapaci di taluni diritti spirituali, senza tuttavia escluderli dalla comunione della chiesa. Ecco perché, sempre a Petritoli, su cui più tardi venne lanciato l’interdetto, un defunto rimase insepolto per più giorni, perché era proibito celebrarne i funerali.

Ma eccoci alla notificazione della scomunica contro Petritoli ed al “messo” che, personalmente, si reca a dame ufficiale comunicazione alle varie comunità gravitanti attorno a Petritoli. “Antonio Raynaldi da Fermo per la Mag(nifica) Comunità di Fermo, è andato personalmente nell’infrascritti luochi a notificare” la scomunica. Tali luoghi sono: Carassiale (= Carassai), Mont’Alto, Porchia (allora era molto importante), Cosignano (sic!), Ripatransone, Acquaviva, S. Benedetto, Grot-tamare (sic), S. Andrea (antica frazione di Cupra Marittima, ndr), Marano (= Cupra Marittima), Massignano, Montefiore, Campofilone, Moresco, Monterobbiano (sic), Altidona, Lapidona, Torre di Palme, Porto, Torchiaro (oggi frazione di Ponzano), Ponzano, Monte Giberti (sic), Moregnano, Monte Guidon (sic) Combatti, Collina. Ortezzano. Monte Ottoni (sic), Sant’Elpidio Morico, Monte Leoni, Serviliano, Falleroni, Sant’Angelo (in Pontano), Gualdo. Ma il notificatore non si ferma alla zona attorno a Petritoli, va anche a: Gualdo, Loro (Piceno), Urbisaglia, Montemilone, Macerata, Petriolo, Monte dell’Olmo (= Corridonia), Monte S. Giusto, località queste tutte in Provincia di Macerata. E non basta ancora. Sono oggetto della notifica: Francavilla (d’Ete), Mogliano (Me), Massa (Fermana), Mont’Apponi (sic), Monte Guidon Corrado, Montegiorgio, Magliano (di Tenna), Cerreto, Rapagnano, Torre S. Patrizio.

     Il lettore facilmente si chiederà perché Petritoli era stata scomunicata. Più che le località di notifica, interessano senza meno i motivi della pena canonica: ne parleremo prossimamente.

Anno 1571 – La Bolla del 30 luglio 1571

     Di questi giorni, nel 1571, giungeva a Fermo una notizia che mise in seria apprensione la città. A Roma, pochi giorni prima, Papa Pio V, aveva con la sua bolla tolto alla Diocesi Fermana: Acquaviva, S. Benedetto (del Tronto), Marano (= Cupramarittima), S. Andrea e Grottammare.

    Con queste località, con due, tolte alla Diocesi di Ascoli (Colonnella e Patrignone) ed altre otto sottratte al Presidato Farfense, erigeva una nuova Diocesi: Ripatransone. A Fermo non fu certo piacevole essere privato di località tanto importanti come S. Benedetto del Tronto, Grottammare, Acquaviva e Cupra Marittima.

     In precedenza, il suo territorio si estendeva anche in Abruzzo, giungendo a sud di Tortoreto. Alla calata dei barbari, si era ingrandito con l’annessione dei territori delle Diocesi scomparse o distrutte di Truentum, Falerone, Cluentum (= Civitanova Marche), Pausolae (= Corridonia) e, in parte, di quella di Urbisaglia, centri questi distrutti dai barbari, per cui la sede vescovile non poteva più sussistervi.

     Fortunatamente, Gregorio XIII. l’anno dopo, aggrega a Fermo S. Vittoria in Matenano. Montefalcone e Monte Giorgio, sottratti all’Abbazia di Farfa, volendo così compensare la Diocesi dell’amputazione dell’anno precedente.

     Nel 1586 Sisto V, che dal 1571 al 1577. era stato Vescovo di Fermo, giunto al Pontificato, volle elevare a sede vescovile la sua patria: Montalto Marche. Ristrutturò i territori delle Diocesi di Fermo togliendole ancora: Comunanza, Montelparo. Monte Monaco (ad Ascoli tolse Castignano).

     Sottrasse pure a Fermo Montelupone, per darlo alla nuova Diocesi di Loreto.

     Però, per compensarla, nel 1589, eresse Fermo a sede arcivescovi- k, le metropolitana, assegnandole come suffraganee: Ripatransone, Montalto, Macerata, Tolentino, S. Severino Marche.

     Nei carteggi relativi alla creazione della Diocesi di Ripa è importante notare la popolazione dei Comuni sottratti a Fermo: Grottammare aveva 250 abitanti, S. Benedetto del Tronto 150, Acquaviva 650, S. Andrea 50, Cupra Marittima addirittura 400.

     Ad Acquaviva non garbò di essere passata alle dipendenze di Ripa; lo stesso non piacque a S. Benedetto ed a Grottammare.

     Addirittura troviamo che, anche dopo l’erezione della nuova Diocesi, il Vescovo di Fermo effettua le Sacre Visite sia ad Acquaviva che a S. Benedetto, i quali non cessarono di fare le loro rimostranze per la forzata separazione da Fermo.

     E pensare che Pio V, poi Santo, aveva studiato a Fermo e qui aveva dimorato per un certo tempo! Ma i Piemontesi furono sempre infesti ai Piceni specie a Fermo. Basti ricordare quello che ci ha fatto Vittorio Emanuele II, Cavour, and Company!

Anno 1572 – Sisto V e lu ‘Marguttu’

     Chi in autostrada (A 14) si dirige verso sud, proprio prima di imboccare la galleria di Grottammare, scorge alla sua sinistra una chiesa.

     E’ Santa Lucia, eretta sul luogo dove il 13 dicembre 1521 nasceva Felice Peretti, divenuto poi Papa Sisto V. Oggi sono 473 anni. Su di lui sono stati scritti volumi e volumi. In soli cinque anni di pontificato (1585-1590) cambiò il volto di Roma: impresse nuovo impulso al governo della Chiesa; elevò obelischi e palazzi; risanò le finanze.     

     Tuttora brilla per fama come astro di prima grandezza nella storia della Chiesa, dell’Italia e dell’Europa. Fermo, nel cui Stato e Diocesi nacque, è fiera di averlo avuto per Vescovo (1571-1577). Sisto elevò ad archidiocesi la Diocesi fermana; anzi, la dichiarò metropolitana, dandole come suffraganee le Diocesi di Macerata, Tolentino, Ripatransone, Montalto. A tutt’oggi tale preminenza è sempre attuale. Anzi, in virtù dei recenti accorpamenti delle diocesi, sono suffraganee di Fermo: Macerata, Tolentino, Recanati, Cingoli, Treia, S. Benedetto del Tronto, Ripatransone, Montalto Marche, Camerino, S. Severino. Se poi si pensa che Fermo è sede arcivescovile e metropolitana dal 24 maggio 1589 ed Ancona è arcivescovile solo dal 1904 e metropolitana dal 1972, balza evidente l’importanza della archidiocesi di Fermo allora e adesso. È infatti tuttora la più importante e popolata delle Marche.

     Oggi il turista che si reca a Fermo e visita la piazza maggiore, è subito attratto dalla statua di bronzo di Sisto V che domina l’ampia facciata del Palazzo dei Priori. Fu eretta nel 1590, in ringraziamento appunto dell’elevazione della sede episcopale in arcivescovile e metropolitana e per il potenziamento dell’università, risalente all’anno 825. Ma qualcuno si domenderà come mai le altre due statue in bronzo coeve, innalzate nelle Marche in onore di Sisto, sono opera di artisti marchigiani, mentre quella di Fermo è opera di uno scultore toscano. Quella di Loreto è del recanatese Calcagni; quella di Camerino di Tiburzio Vergelli, camerte; quella di Fermo, la più bella, secondo la definizione di Ludovico von Pastor (St. dei Papi, vol. X) è invece ope¬ra di Accursio Baldi, toscano di Monte S. Savino (Arezzo). Il motivo è il seguente. Si trovava allora a Firenze Ostilio Ricci, maestro di Galileo. Qui insegnava matematiche chiamato dal Gran Duca di Toscana. A conoscenza dell’iniziativa di Fermo di erigere la statua, propose il nome di Accursio Baldi detto il Sansovino (tre sono i Sansovino nella storia della scultura!) di cui conosceva l’alta professionalità. I fermani accettarono, e la statua, dal 1590, torreggia dall’alto del Palazzo dei Priori. “Guardulu Papa Sistu quant’è bellu / Quant’anni adè che sta su la loggetta / .. .Quante n’ha viste, quante brutte facce / pe’ la scaletta a ji ’ningnò e ’ninzù / e issu sempre sù fra le crepacce / tra lo cacà de cento e più picciù / …Ma guarduli sse ’è bellu!, guardulu ve’ / a vede tutto e sta sempre a sede’ / .. .0 Papa Sistu, ma co’ quella ma’ / Ce venedici o credi de scherza’?”. Così il poeta fermano Leone Bernardi: “Ecculu sù felice notte e jorno / e con quell’aria so’ cuscì serena / Ce dice a tutti: Me facete pena”. Ora nella rinnovata facciata del Palazzo dei Priori, la statua appare ancora più bella e solenne e ci richiama un’altra poesia. Si tratta del colloquio immaginario tra Sisto e lu Marguttu che faceva parte della Quintana che si praticava a Fermo da tempi lontanissimi. Sisto si rivolge a lu Marguttu chiamandolo beato, perché è andato tra i dotti, in biblioteca. Lui invece, Sisto, deve stare lassù “a vedenne de tutte qualità… E mentre a certi su lu cocociò / come che tu facii, je’ vurrio da’ / Me tocca a daie la benedizziò”. Buon compleanno Sisto!

Anno 1574 – Quando il biografo di Michelangelo annegò nel Menocchia

     Il 10 dicembre 1574 esattamente 415 anni or sono, moriva Ascanio Condivi travolto dalle acque del torrente Menocchia. Ascanio Condivi conobbe Michelangelo probabilmente per mezzo di Annibai Caro, il celebre letterato di Civitanova Marche, di cui divenne in seguito parente, avendone sposata la nipote. Michelangelo si affezionò subito al mite Condivi, del quale ammirava la bontà d’animo.

     Il Condivi accarezzò l’idea di scriverne la vita. “Mi diedi con ogni attenzione e ogni studio a osservare e mettere insieme non solamente i precetti ch’egli mi dava dell’arte, ma i detti, l’azione e i costumi suoi, con tutto quello che mi paresse degno di maraviglia e d’imitazione o di lode in tutta la sua vita, con animo ancora di scriverne a qualche tempo”.

     Nel 1550 era apparsa la Vita del Vasari, ma Michelangelo non ne fu soddisfatto. Lo stesso Ascanio Condivi lamenta che vi sono “alcuni che scrivono di questo raro uomo… da canto hanno detto cose che mai non furono; dall’altro lassatene molte di quelle che sono dignissime di essere notate”. Michelangelo, come accennato, aveva intravisto nel Condivi il suo biografo; questi non era un letterato di grido, tuttavia avrebbe ritratto docilmente e diligentemente la figura del maestro.

    Con destrezza e con lunga pazienza “cavò le notizie dal vivo oraculo” del sommo artista, il quale non doveva essere certo insensibile all’iniziativa del Condivi. Dato il suo carattere fiero e chiuso, non avrebbe palesato ad altri la sua vita famigliare, se non avesse veduto nel Condivi colui che lo avrebbe celebrato per la posterità. La Vita di Michelangelo, compilata tra il 1550 e il 1552, uscì a Roma per i tipi di Antonio Biado nel 1553. Andò a ruba e nel 15&Ò, il Vasari che si sentì offeso dal giudizio dato dal Condivi sulla sua biografia, ne fece una seconda, saccheggiando, per quanto riguarda Michelangelo, quella di Condivi, senza mai citare l’autore, anzi lo citò una sola volta “con astio e veleno”, descrivendolo come pittore da nulla.

     Condivi invece, che pare sia stato iniziato alla pittura dal monterubbianese Vincenzo Pagani, operò con una discreta fama nelle Marche.

     A Ripatransone, sua patria, si conservano 15 quadretti dei Misteri della Vergine. A lui sono attribuiti anche la Deposizione, con influssi michelangioleschi, e la Madonna con Bambino che si trova nella casa di Michelangelo. La morte avvenuta per annegamento mentre attraversava il torrente Menocchia rigonfio d’acqua, gli tolse la possibilità di raccogliere le rime e le tavole di “anatomia pittorica”, che egli vagheggiava di raccogliere ad onore e gloria di Michelangelo.

     Condivi ha il merito di essere stato il più efficace ed attendibile biografo di Michelangelo. La “Vita di Michelangelo Buonarroti, pittore scultore e Architetto e gentiluomo fiorentino, pubblicata dal suo scolaro Ascanio Condivi”, vide la luce in seconda edizione a Firenze nel 1746 corretta ed “accresciuta con ritratto del medesimo ed altre figure in rame”. Seguirono altre edizioni.

    Merito del Condivi è quello d’aver fatto conoscere in tutto il mon¬do colui che alzò un “Nuovo Olimpo ai celesti” con una narrazione viva, aderente alla realtà, di aver compilato la vita di questo gran “Maestro”, in tutte e tre le nobili professioni e nella poesia ancora piena di maestà e di sodezza e che fece esclamare alFAriosto: “Michel più che mortale, Angiol divino”.

Anno 1575 – Otto castelli dei 48 che Fermo ha…

    Era il 20 gennaio del 1575. In tutto il mondo cattolico si celebrava il Giubileo e Papa Gregorio XIII. il bolognese Ugo Boncompagni, quel­lo per intenderci che riformò il calendario, volle dare a Fermo una prova tangibile della sua benevolenza e generosità, restituendogli otto castel­li in precedenza sottratti dal suo predecessore.

Per meglio comprendere il gesto “munifico‘’ di Gregorio, occorre rifarsi alla logica dei rapporti tra la curia papale e la città di Fermo, ca­poluogo di uno stato formato da 48 castelli, che andava dal Tronto al Po­tenza e dai Sibillini al mare. Però Fermo aveva una spina al fianco: il ca­stello di Montesampietrangeli (in seguito patria del famoso Romolo Murri). Tale castello non voleva sottostare alla dominazione

ogni tanto ne scuoteva il giogo, come ogni tanto Fermo accorreva a dar­gli una lezione e a ricordargli la sua sudditanza, volente o nolente, alla “metropoli della Marca”.

Montesanpietrangeli aveva però un protettore: Ascoli, che al minimo cenno, correva in suo aiuto. Ogni volta che un Papa moriva, Fermo an­dava ad assediare Montesampietrangeli o meglio Monsanpietrangeli e, puntualmente, Ascoli correva in suo aiuto a mano armata. Interveniva poi il neo eletto pontefice e le cose, almeno apparantemente, si calmavano…

Al tempo di Papa Paolo III e dei Farnese, a Fermo furono tolti i 8 castelli e la capitale dello Stato trasferita a Montottone che divenne co­sì capoluogo dello “Stato Ecclesiastico in Agro Piceno”. Ciò per la du­rata di dieci anni: dal 1537 al 1547. Dopo tale anno, dietro esborso di 23.000 scudi (l’un sopra l’altro infila, scudi ventitremila), Fermo rieb­be i castelli ad eccezione di Monsampietrangeli, Mogliano e Petritoli. La bolla di restituzione parla di una situazione abnorme, gravemente in­comoda e dannosa (graviter incommoda et damnosa). Pio V in seguito sequestrò otto castelli togliendoli di nuovo a Fermo e dandoli “ai dilet­ti figli e chierici della reverenda Camera Apostolica”. Tali castelli era­no: Altidona, Massignano, Montottone, Ponzano, Loro Piceno, Servi- gliano, Falerone e Petritoli.

Gregorio XIII, successore di Pio V, ci ripensò: proclamò pubblica­mente che la separazione da Fermo era stata deleteria per tutti; poi do­po un pittoresco piroettare ed incalzare di avverbi, aggettivazioni e un tambureggiare di formule giuridiche, li riconferma irrevocabilmente a Fermo. Ma le giustificazioni erano di facciata; restituì sì i castelli, ma questi dovettero metter mano alla borsa: Massignano fu tassato per 1563 scudi; Montottone per 2200; Ponzano per 290; Loro Piceno per 2860; Servigliano per 2340; Petritoli per 2700; Falerone per 1200; Altidona per 500. Versate tali somme, si disse che il distacco da Fermo era stato effettuato contro le intenzioni del precedente pontefice Pio V (contro mentem et intentionem). In ogni caso Fermo, il 20 gennaio 1575, riebbe gli otto castelli.

1579 – Monte Urano ricorre al Papa

Non è da tutti scomodare un Papa e per giunta Papa Gregorio XIII (famoso tra l’altro per la riforma del calendario) per una questione di confini, ma Monturano, allora piccolo paese della Diocesi fermana. ci riuscì e come!!!

Stanchi ed esasperati dal fatto che i paletti che delimitavano i con­fini del loro territorio venivano di continuo rimossi, i Monturanesi de­ciderò di rivolgersi direttamente a sua Santità Gregorio XIII. Il Papa, pur tra le occupazioni e cure del suo pontificato, si interessò della fac­cenda. Anzi la prese così a cuore che addirittura il giorno 13 aprile del 1579, anno settimo del suo pontificato (ìdibus Aprilis pontificatus no­stri anno septimo) inviò al Vescovo di Fermo una bolla in pergamena con tanto di sigillo di piombo, raccomandandogli di interessarsi perso­nalmente della cosa.

Molto probabilmente i cittadini di Monturano avevano inviato a chi di dovere ricorsi e doglianze in proposito ma, a quanto sembra, senza alcun esito, tanto è vero che scavalcando la “via gerarchica” si rivolgono al Papa in persona.

Gregorio allora, investe della faccenda il Vescovo di Fermo scri­vendogli testualmente: “Gregorio Vescovo, servo dei servi di Dio, al venerabile fratello e diletto figlio il Vescovo di Fermo od al suo vica­rio generale per gli affari spirituali salute ed apostolica benedizione. Ci è stato fatto presente dai diletti figli, sindaci ed officiali del castello di Monturano della Diocesi fermana che vi sono dei figli di iniquità di entrambi i sessi (quindi pure le donne) che svellono i termini che indi­cano i confini portandoli di luogo in luogo, creando confusione e gravi danni al Comune di Monturano, causando altresì un pericolo per le lo­ro anime e grande detrimento a detto castello”.

“Essi – continua la bolla – hanno invocato aiuto a questa Sede Apostolica. Per la quale cosa ti scriviamo invitandoti ad intervenire nella faccenda ordinando di ammonire dal pulpito, in presenza del po­polo, i trasgressori a riparare il male fatto e stabilire un congruo lasso di tempo, trascorso il quale quelli che hanno usurpato beni e possessi o li detengano fraudolentemente pongano riparo.

Se non lo faranno tu devi scomunicarli”.

Noi non sappiamo come andò a finire la faccenda. Dobbiamo tut­tavia notare che i cittadini di Monturano erano intraprendenti anche al­lora, se non nel commercio calzaturiero, nel ricorrere personalmente al Papa e riuscendo ad ottenere il suo personale interessamento per una questione di confini “nell’anno di grazia 1579, idi di aprile, anno setti­mo del nostro pontificato”.

Anno 1583 – Torquato Tasso e la fermano Accademia degli Sciolti

     Oggi ricorre l’anniversario della scomparsa di Torquato Tasso, il poe­ta ovunque conosciuto per la Gerusalemme Liberata. I primi versi che il Tasso scrisse, li vergò in terra marchigiana, precisamente a Pesaro, alla corte dei Della Rovere; anzi diremo subito che fu compagno di studi del figlio di Guidubaldo, Francesco Maria Della Rovere. Ma Tasso ebbe a che fare con Fermo e con suoi illustri cittadini e vescovi. Ricordiamo che Si­sto V, già Vescovo fermano, lo aiutò e protesse, anche se non lo ricevette alla corte pontificia. Tasso celebrò con versi raffinati l’erezione della Sta­tua di Sisto V che tuttora campeggia sulla facciata del Palazzo dei Priori. Lode altissima ad Accursio Baldi, autore della statua. Ma quello che più interessa è che Tasso fece parte dell’Accademia degli Sciolti di Fermo. Nella lettera di adesione, chiama Fermo: valorosa città. Ma leggiamola, anche perché si tratta di uno dei più prestigiosi poeti della letteratura ita­liana: “Molto illustre Sig(no)re e P(adr)on mio oss/mo; VS poteva in ogni tempo rinnovare con molto mio piacere, la memoria della nostra antica amicizia: perché sempre mi doveva essere cara, per li molti meriti suoi: ma in questo, nel quale è stato eletto Principe dell’Accademia degli Sciol­ti, mi è grato oltremodo, che si sia ricordata di me e che mi abbia invitato a divenire uno degli altri con lodi così grandi: le quali benché siano so­verchie, nondimeno perché sono argomento dell’Amore, le ricevo assai volentieri: et insieme accetto l’invito fattomi dall’Accademia, alla quale non credo di poter aggiungere alcun honore, ma ella che n’è abondevole per se stessa può accrescere la mia reputazione: e le mando la mia impre­sa, la quale è un leopardo col collare ma senza catena, il motto è: “l’atten­do al varco”, il nome che io ho preso “Lo Scatenato”. “Al sonetto et alla lettera del signor Vinco (odierno Vinci n.d.r.) ho dato risposta la quale co­sa sarà con questa e le bacio le mani. Di Ferrara il XXIII d’Aprile del 1583 DVS Aff/mo Ser(vito)re Torq(ua)to Tasso”. L’Accademia degli Sciolti fu fondata da Uriele Rosati, nel 1583. Nel palazzo Vitali Rosati, nella serie delle decorazioni rievocanti le glorie di Fermo, il pittore Giuseppe Carosi ha immortalato l’adesione di Tasso a tale Accademia.

Anno 1585 – 18 aprile: fatidiche date

Grandi ricorrenze oggi! A parte la data odierna, relativa ai referen­dum, il 18 aprile segna ed ha segnato date molto importanti: la posa della prima pietra della Basilica di S. Pietro a Roma, avvenuta il 18 aprile 1506 per mano di Giulio II e la nascita di Lucrezia Borgia, avve­nuta il 18 aprile 1480.

Vi sono altre ricorrenze famose come la nascita di Ardito Desio (18-4-1897) nome legato al K2; il terremoto di S. Francisco (1906); la scomparsa di Einstein (18-4-1955), etc. Ma a noi interessano le prime due, anche se sarebbe da ricordare quel famoso 18 aprile 1948, tappa fondamentale nella storia d’Italia.

Lucrezia Borgia, sposa a 12 anni, fu a Pesaro; passata poi a 18 anni a nuove nozze con Alfonso d’Aragona, è una figura celebre nella storia nazionale. Fu tra l’altro govematrice di Spoleto, Foligno e Nepi. Ma il suo nome evoca quello del fratello Cesare Borgia, alias Duca Valenti­no, che a Senigallia fece uccidere Oliverotto da Fermo e Vitellozzo Vi­telli (31-12-1502). Dopo tale misfatto (levati tu che mi ci metto io) Fer­mo, su pressione del Conte Giacomo Nardino da Forlì, commissario del Valentino “homo destro e molto scaltro” elesse a suo signore il Du­ca Valentino.

“…oprò tanto che li cittadini elessero per signore il Duca; così vo­leva il Papa che se facesse. Il primo de maggio in conseglio fu gridato per signore il Duca Valentino e dato il governo a detto Conte Giacomo, se bene fece resistenza finché non venisse ordine da Roma”.

La posa della prima pietra in S. Pietro, ci interessa perché ben due vescovi di Fermo ascesero al soglio di Pietro: Francesco Todeschini Piccolomini che divenne Pio III (1503/1503) e Felice Peretti che fu Pa­pa col nome di Sisto V (1585/1590).

Anzi, i Papi sarebbero tre, se si conteggiasse Giovanni XVII (1003) della famiglia Siccone di Rapagnano. Sisto V è così famoso che è inutile parlarne. Diremo solo che nel 1590 completò la Basilica di S. Pietro, portando a termine la famosa cupola, opera di Michelangelo.

Numerosi furono i Fermani insigniti della porpora. Fra essi alcuni segretari di Stato della Sede Pontificia, come il Cardinale Decio Azzolino senior; il Cardinale Decio Azzolino junior in ottimi rapporti con Cristina, Regina di Svezia ed il Cardinale Tommaso Bernetti.

Nel corso dei secoli l’Archidiocesi di Fermo fu retta da ben 19 Cardinali-arcivescovi. Tra gli ultimi i Cardinali F. De Angelis che fu presidente del Concilio Ecumenico Vaticano Primo (1870) e risultò ter­zo tra i papabili nel conclave che elesse Pio IX. Durante l’episcopato di Mons. Castelli (+1933) l’Archidiocesi aveva contemporaneamente tre Cardinali: Luigi Capotosti di Moresco; Giuseppe Mori di Loro Piceno; Giovanni Tacci di Mogliano. A sua volta, l’ultimo cardinale-arcivesco­vo di Fermo fu Amilcare Malagola, morto esattamente un secolo fa (1895).

Oggi, a 487 anni dalla posa della prima pietra di S. Pietro e 513 dalla nascita di Lucrezia Borgia si pone forse una prima pietra di un nuovo edificio politico.

Che il cielo ce la mandi buona… e senza vento… !

Anno 1585 – I giorni fortunati di Papa Sisto V: Mercoledì e Venerdì

In questi giorni in cui è tutto un susseguirsi di celebrazioni in ono­re di Sisto V (a Macerata, a Loreto, a Fermo, a Grottammare) ci per­mettiamo riportare alcune curiosità, o preziosità storiche (ognuno è li­bero di considerarle come vuole), sul Papa piceno. Nella vita, secondo opinioni autorevoli, ci sono giorni favorevoli e giorni sfavorevoli, gior­ni di vittoria o di sconfitta, “giorni di riso o giorni di duolo”, come can­ta Longfellow, il poeta statunitense morto nel 1882. Sisto V ebbe in par­ticolare due giorni fortunati; furono: il Mercoledì ed il Venerdì.

Il Mercoledì 17 maggio 1570 è creato cardinale; è eletto Papa il mercoledì 2 aprile 1585; è incoronato il 1Q maggio successivo, di mer­coledì; il le maggio 1586, sempre di mercoledì, viene eretto l’obelisco di piazza S. Pietro. Sono due mercoledì il 26 novembre 1586 e il 10 di­cembre dello stesso anno, date nelle quali Sisto V eleva a Diocesi ri­spettivamente Loreto e Tolentino. Cade di mercoledì il l2 gennaio 1587, data di emanazione della bolla con cui istituisce il collegio di S. Bona­ventura. Il mercoledì 10 agosto 1588, è innalzato l’obelisco di S. Gio­vanni in Laterano, il più grande di Roma. Il mercoledì 11 ottobre 1589 ha luogo la prima ispezione alla bonifica delle Paludi Pontine. Fermo è elevata a sede arcivescovile metropolitana mercoledì 24 maggio 1589; la stampa della Vulgata viene portata a termine il 2 maggio 1589, mer­coledì.

Veniamo ai Venerdì: Felice Peretti, il futuro Sisto V, nasce a Grottammare il 13 dicembre 1521 alle ore 16: è venerdì; il 25 settembre 1534 veste per la prima volta il saio francescano: è venerdì. E venerdì 10 mag­gio 1585 data del suo primo concistoro; di venerdì il 13 settembre 1585, Sisto restituisce a Fermo l’Università; è venerdì il 20 dicembre 1585, giorno di emanazione della bolla Decet Romanus Pontifex relativa al­l’unione tra Papa e Vescovi; il 14 novembre 1586 eleva al rango di città Montalto, è venerdì; fa innalzare l’obelisco di Piazza del Popolo il ve­nerdì 24 marzo 1587; ha inizio la costruzione della cupola di S. Pietro il 15 luglio 1588, venerdì. Curiosa è la storia! I soldati di Napoleone ve­nuti a Fermo volevano fondere la statua di Sisto V che campeggia sulla facciata del Palazzo dei Priori. A loro occorreva bronzo per fare canno­ni. I fermani come già detto, per scongiurare tale pericolo, vestirono Si­sto V da santo, mettendogli in testa una mitra. Diedero ad intendere che fosse S. Savino, protettore di Fermo.

Erano sì anticlericali i francesi, ma davanti alle statue dei santi si fermavano e qui lo stratagemma riuscì a perfezione e Sisto V fu salvo. Non siamo però riusciti a trovare se ciò accadde di mercoledì o di ve­nerdì.

Anno 1587 – Ostilio Ricci, l’unico maestro amato dal sommo Galileo

Tutto il mondo ci invidia Galileo Galilei, colui che… “vide sotto l’etereo padiglion / rotarsi più mondi e il sole irradiarli immoto”, ma ben pochi sanno che suo primo e vero maestro fu un fermano: Ostilio Ricci. Se è vero come è vero che nessuno dà ciò che non ha, la somma di co­gnizioni scientifiche date da Ostilio al suo discepolo Galileo mostra quale e quanta dovizia di scienza possedesse il nostro Ricci.

“… vivendo allora un tal messere Ostilio Ricci di Fermo, matema­tico de’ signori paggi di quell’altezza di Toscana e di poi lettore delle matematiche nello Studio di Firenze”, così Vincenzo Viviani ultimo di­scepolo del grande Galilei nella “Vita di Galileo”. Tale autore prosegue dicendo che il diciannovenne Galileo chiese a Ostilio Ricci se gli pote­va insegnare “qualche proposizione di Euclide”, ma di nascosto del pa­dre, che poi seppe tutto e diede il suo assenso.

Cominciò dunque il Ricci ad introdurre Galileo (prosegue Viviani) nelle solite esplicazioni delle definizioni, assiomi e postulati del primo Libro degli Elementi; ma questi, sentendo proporsi principi tanto chia­ri e indubitati, e considerando le domande d’Euclide così oneste e con­cepibili, fece immediatamente concetto che se la “fabrica della geome­tria” veniva alzata sopra tali fondamenti, non poteva essere che fortissi­ma e stabilissima.

Il Ricci fu sempre vicino a Galilei, anche dopo la fine dell’insegna­mento. Ci piace ricordare i due grandi perché di questi giorni (26 set­tembre 1592) Galilei ascese alla cattedra di matematica e fisica dell’u­niversità di Padova; perché proprio il 27 settembre il Ricci apri gli oc­chi alla luce a Fermo, dove nacque da Orazio e da Elisabetta Gualteroni nell’anno 1540.

Anno 1588 – Sisto V e la cupola di S. Pietro

     Quattrocento anni or sono, di questi giorni, giungeva a Fermo la no­tizia che la cupola di S. Pietro era terminata! Da quando, quel 18 aprile 1506, Giulio II aveva posto la prima pietra della basilica di S. Pietro, ne era passata d’acqua sotto i ponti del Tevere… I lavori procedevano a ri­lento e la cupola da molti anni era ferma al tamburo. Ma Sisto V, il Pa­pa che si faceva chiamare natione firmanus (era infatti nato a Grottammare, Stato di Fermo), appena eletto, con la solita energia decise la pro­secuzione dei lavori e l’innalzamento della cupola. Si era perso troppo tempo!

Il lavoro fu iniziato il 15 luglio 1588. A Roma correva voce che ci sarebbero voluti non meno di 10 anni con una spesa di un milione di du­cati. Ma Sisto V era Papa volitivo ed abile amministratore: l’opera fu compiuta in soli 16 mesi; costo totale: 200 mila ducati! Vi lavorarono giorno e notte 800 operai. Per l’armatura furono utilizzate centomila tra­vi; 15 mila quintali di canapi: 10 mila quintali di ferro per “spranghe, staffe e bandelle”.

Furono usati milioni e milioni di mattoni e migliaia di quintali di pietra per i sedici costoloni. Proprio in questi giorni, nel 1590, furono dati gli ultimi ritocchi. Da allora, la cupola, “novo Olimpo ai Celesti”, spicca sul panorama di Roma. Una cronaca del tempo riporta: “A sua perpetua gloria ed a vergogna dei suoi predecessori, il nostro Santo Pa­pa Sisto V ha terminato il voltamento della cupola di S. Pietro”.

Secondo i calcoli di P. Ruggero Boscovich, scienziato di fama mon­diale (insegnò nell’allora Università di Fermo), e di Thomas Le Seur e Francois Jacquier, il peso delle strutture murarie era di 14 mila tonnel­late, esclusa la lanterna.

Con Michelangelo, Sangallo e Della Porta, nomi marchigiani sono legati alla vicenda della Basilica e della cupola, come Bramante e Raf­faello. Le folle di turisti che si riversano in questi giorni a Roma per i Mondiali, ammireranno i vari monumenti, ma i due maggiori (S. Pietro e l’Altare della Patria) ricordano, come detto altrove, glorie picene, o meglio fermane: Sacconi studiò e si formò a Fermo Sisto V natione fir manus, ne fu Vescovo dal 1571 al 1577.

Anno 1589 – Il regalo di Sisto V e la gratitudine dei fermani

Il 24 maggio 1589 è una data storica per Fermo e il fermano, nes­suno l’ha commemorata e ciò è male! Solenne e altisonante la bolla del fermano (natione firmamus si definiva) Sisto V, diretta Universis Orbis ecclesiis (alle chiese di tutto il mondo). Con essa elevava da vescovile ad arcivescovile metropolitana, la sede di Fermo dandole come suffra­gale le Diocesi di Macerata, Tolentino, Montalto, Ripatransone (a cui oggi si unisce S. Benedetto) e S. Severino.

In forbito latino la bolla recitava… “e condecoriamo la sede vesco­vile fermana, col titolo ed onore di sede arcivescovile metropolitana. L’arcivescovo abbia l’uso del pallio e della croce, secondo il costume degli Arcivescovi nonché i privilegi ed onori etc.”.

L’onore era grande ed unico, se si pensa – come già detto – che An­cona è sede arcivescovile solo dal 14 settembre 1904 e metropolitana solo dal 15 agosto 1972 e Camerino è sede arcivescovile solo dal 1785. Vi sarebbe anche Urbino, ma ha una storia a sè. La gioia di Fermo era grande: il 20 agosto 1589 venne eletto Arcivescovo Sigismondo Zanet- tini, che reggeva la Diocesi da 4 anni. Ma Fermo voleva dare un segno tangibile di riconoscenza a Sisto V che, oltre la sede metropolitana, ave­va ripristinato l’università, la più antica delle Marche, originata da un capitolare di Lotario I nell’825. Si eresse una statua in suo onore. Fu chiamato Accursio Baldi, detto il Sansovino, uno dei più celebri sculto­ri del Rinascimento e si fuse la statua, ponendola su un plinto e con sot­to le iscrizioni di gratitudine. Il costo fu di scudi mille e settecento (scu- tos mille et septingentos). Alla deliberazione dell’erezione della statua, interverranno deputati di tutto lo Stato fermano: l’entusiasmo per Sisto V era alle stelle. Vi fu chi la voleva d’argento; taluno addirittura d’oro (iurans quod si possibile foret fieri esse debet de puro auro!).

Da allora, la statua a Fermo, campeggia sulla facciata del Palazzo dei Priori. Ne ha viste Sisto V e di belle e di brutte. Al tempo della ri­voluzione francese, per sfuggire alle rapine delle truppe, fu vestito da santo e da vescovo. Grande fasto e tripudio per l’inaugurazione e co­spicua produzione di sonetti e poesie, sia in latino e in italiano. La sta­tua venne decantata da poeti del calibro di Torquato Tasso (mira un sol di virtù in terra di Dio / Sisto il quinto ecc.). Ma ora che ricorrono quat­tro secoli, da quando Fermo è stata elevata ad archidiocesi e sede me­tropolitana, non si è vista l’ombra di commemorazione di tale ricorren­za. L’archidiocesi è tuttora la più vasta e popolosa non solo della Pro­vincia ma di tutta la regione. Ma Sisto V attende… Egli che conosceva bene la psicologia degli uomini e il latino, ripensa al passo dell’Eneide Exoriare aliquis (IV – 625) (sorga qualcuno che lo faccia) o forse a Sal­lustio, là dove dice “Perhé non vi sveglite Quin igitur exspergescimini?’\ Non vorrei però, dato che sulla statua compaiono non le chiavi, ma un libro, che leggesse “qualcosa” che assomigliasse a quanto, secoli do­po, affermava Dumas padre “Ci sono servizi così grandi che si possono ripagare solo coll’ingratitudine”. Fermo rifletta! E molto!

Anno 1590 – Gli ultimi giorni di Sisto V

Faceva caldo, molto caldo in quell’ultima decade di agosto 1590. Si era al quinto anno di pontificato. Il lavoro febbrile, i dispiaceri causati dalla Spagna, le cure del governo, avevano procurato a Sisto V (è di lui che si parla) febbri intermittenti. Tuttavia, pur con la febbre, aveva ce­lebrato il pontificale; aveva ricevuto delegazioni di vari Stati ed espli­cava un’attività incessante e poliedrica. Soleva dire che “un principe de­ve morire in mezzo agli affari del suo ufficio”. E così avvenne.

Nonostante il persistere della febbre, il 18 agosto partecipò, a pie­di, ad una processione di lunga durata; nei giorni 22/23/24 agosto sbrigò affari di Stato. La febbre dapprima scomparve; poi ritornò, violentissi­ma. Il 27 agosto, Sisto V moriva nel palazzo del Quirinale; primo Papa ad abitarvi, primo Papa a morirvi. In soli cinque anni, aveva rinnovato Roma, innalzato obelischi, eretto la cupola di S. Pietro, costruito ac­quedotti, estiipato il brigantaggio, risanato le finanze pontificie.

Prima di essere papa, Sisto V era stato Vescovo di Fermo; era nato nel territorio del suo Stato e amava definirsi natione firmanus: di na­zione fermano. Rinunciò alla sede di Fermo nel 1577 per altri ed alti in­carichi in Vaticano. Elevò la sede vescovile di Fermo ad arcivescovile, dandole quali Diocesi suffraganee: Macerata, S. Severino, Tolentino, Ripatransone e Montalto. Ricostituì l’università ed accordò a Fermo molti altri privilegi.

Abbiamo parlato di Quirinale. Tale palazzo fu fortunato per i mar­chigiani. Nel solo periodo dal 1823 al 1846, vi furono eletti (allora i con­clavi avvenivano al Quirinale e non in Vaticano) ben tre Papi marchigia­ni su quattro: Leone XII di Genga di Fabriano (1823); Pio Vili di Cin­goli (1829); Gregorio XVI (il solo non marchigiano perché di Belluno) e Pio IX di Senigallia (1846). Detto fra parentesi, Pio IX fu il Papa che re­gnò più a lungo di tutti i Papi finora esistiti: 32 anni, sei mesi, 22 giorni.

Altra curiosità è che, quando morì Sisto V, furono celebrate solen­ni cerimonie funebri in tutto lo Stato pontificio, ma specialmente in tut­te le Marche, data la sua origine marchigiana. In Ascoli, finite tali cele­brazioni, non si trovava chi pagasse le spese. Solo cinque anni dopo la morte di Sisto V, ci fu qualcuno che pagò. Il motivo? Perché Sisto V non aveva elargito ad Ascoli i benefici concessi a Fermo. Ad Ascoli, riferi­sce lo storico mons. Giuseppe Fabiani, aveva regalato “un bel nulla d’o­ro rilegato in argento”.

Ora però Ascoli ha allestito in onore di Sisto una mostra, aperta fi­no a fine ottobre. Mostra stupenda, anche se il catalogo relativo lascia alquanto a desiderare… Come si fa a parlare di quadri, datandoli con se­coli di differenza e come si può sostenere che “Sisto V era francescano – cappuccino”? (pag. 170). Cavallerescamente però, bisogna riconosce­re che Ascoli si è mossa per Sisto V, mentre Fermo è sempre… ferma, anzi immobile.

Anno 1590 – Sisto V e i tre Sansovino

Sulla facciata del Palazzo dei Priori di Fermo, solenne, sopra una loggetta, campeggia dal 1590 la statua in bronzo di Sisto V. Fu eretta in suo onore dal Senato del Popolo Fermano (S.P.Q.F.), per aver elevato la città a sede arcivescovile metropolitana e per aver restituito e poten­ziato l’università esistente sin dal sec. X. … “Ob episcopalem in metro- politanam erectam et Gymnasium universale restitutum”, così recita la lapide del piedistallo.

Nelle immediate vicinanze, un cartello turistico, indica “Statua di Sisto V del Sansovino”. Un turista tedesco, tempo fa, faceva osservare che vi era un errore di cronologia e di storia. Sansovino morì nel 1529 e la statua risulta eretta nel 1590. Era (diceva il teutonico) un anacroni­smo stridente.

È vero che Andrea Contucci detto Sansovino nato nel 1460 a Mon­te S. Savino (Arezzo), quando venne eretta la statua era morto da 61 an­ni e il suo omonimo Jacopo Tatti, anche lui detto il Sansovino era mor­to a Venezia da venti anni, ma è anche vero che i Sansovino, scultori, furono tre (almeno i famosi).

Il primo: Andrea Contucci nacque, come detto, a Monte S. Savino ed è celebre per i suoi altorilievi nella Santa Casa di Loreto e per altre opere tra cui S. Anna e la Madonna a Roma.

Il secondo: Iacopo Tatti (Firenze 1486 – Venezia 1570), fu allievo del precedente da cui prese il soprannome Sansovino. Celebre per la Loggetta del Campanile di S. Marco a Venezia per la Libreria di S. Mar­co, Palazzo Corner, la Zecca e per altorilievi a Padova, nella Basilica del Santo, operò a Venezia dove si rifugiò dopo il Sacco di Roma.

Ma vi è un terzo: è il nostro Accursio Baldi, detto il Sansovino per essere nato come il Contucci, a Monte S. Savino. Egli è l’artefice della statua di Sisto Quinto, la più bella, superiore a quelle di Camerino di Triburzio Vegelli, di Loreto di Andrea Calcagni, di Grottammare, Roma, etc. Non sono io che lo affermo, ma è il Pastor (Storia dei Papi, X, 59). Tale statua, ispirò poeti e prosatori che scrissero lodi in proposito. Tra essi, Torquato Tasso.

Il fatto di prendere il nome del paese di origine è una prassi che si ripete nel corso dei secoli. Per limitarci alla nostra regione, notiamo che Pergolesi, non è il vero cognome del celebre musicista di Jesi. La sua famiglia aveva per cognome Draghi. Quando da Pergola emigrarono a Jesi, tutti li chiamavano “Pergolesi” perché provenienti da quella loca­lità. Il Sassoferrato, celebre pittore (1609-1685), venne così chiamato perché nato ivi. Il suo vero nome era Giovanni Battista Salvi detto Sas­soferrato. Del resto, Camillo Benso conte di Cavour, dal nome della lo­calità è comunemente detto Cavour. Quindi parlare di Sansovino quale autore della statua di Sisto V non è né improprio, né anacronistico.

Ora, oltre alle statue di cui sopra, ne sono state innalzate altre: a Grottammare davanti alla chiesa di S. Pio V; una in bronzo opera di Al­do Sergiacomi di Offida (1985); un’altra a Montalto Marche, opera di Pericle Fazzini (1986). Ma Accursio Baldi, detto il Sansovino, “sopra gli altri com’aquila vola”, per quella eretta a Fermo.

Anno 1598 – Il De jure belli e e l’Irak               

Mentre incombe minaccioso lo spettro della guerra, ricorre l’anni­versario della nascita di un grande giureconsulto marchigiano Alberi- co Gentili, nato a S. Ginesio il 14 gennaio 1552. Egli è celebre nel mon­do come fondatore del diritto intemazionale, derivatogli dall’opera De jure belli.

Iscrittosi alla facoltà di legge a soli 17 anni a Perugia, ne usciva a 21 col titolo di dottore. Ad Ascoli, dove si recò non appena laureato, per raggiungere il padre Matteo che vi esercitava la professione forense, fu eletto pretore, prima per la durata di un semestre, poi confermato per tre anni consecutivi. Dopo il soggiorno ascolano, durato fino al 1574, tornò col padre alla natia S. Ginesio, dove ricoprì le mansioni di avvocato co­munale, riordinando lo statuto. Ma a S. Ginesio v’era un focolaio pro­testante e il padre era uno dei più accesi fautori delle nuove dottrine anticattoliche. Il Cantù in Eretici in Italia, dice che “San Ginesio, con Co­mo, Cremona, Vicenza, Faenza e Calabria erano le località dove veni­vano spediti dalla Germania sacchi di libri di dottrine protestanti per es­sere poi smerciati nelle zone circostanti”. L’inquisizione ne ebbe sento­re; vista la mala parata, Matteo con i figli Alberico e Scipione, fuggì, ri­fugiandosi a Lubiana; dopo poco, riparò in Inghilterra di recente sepa­rata da Roma.

Alberico insegnò ben presto Diritto romano ad Oxford ed a Londra, conobbe Giordano Bruno, in casa del suo amico, il poeta Filippo Sid­ney. A 33 anni si unì in matrimonio con la francese Ester de Peigny e in questo periodo, pubblicò l’opera che doveva renderlo famoso. Essa è, proprio in questi giorni, di palpitante e direi drammatica attualità. Si intitola De jure belli (Il diritto della guerra), opera in tre libri, uscita in In­ghilterra nel 1598.

Alberico definisce la guerra “giusta contesa di pubbliche armi”. Ini­zia, parlando dell’atteggiamento del cristianesimo dinanzi alla guerra e dalle posizioni dei padri e scrittori dell’età apologetica, quali Tertullia­no (+240), Origene (+254), Lattanzio (+330). Fa inoltre un’acuta ed ac­curata indagine del pensiero dei classici, compreso Cicerone, definendo la guerra un atto di giustizia vendicativa.

Lo stato offeso colpisce con la guerra l’offensore, per piegarlo al rispetto dell’ordine e della giustizia”.

Ha poi un passo (libro primo, cap. 17, pag. 127) che sembra prefi­gurare la vicenda dell’Irak: “.. .È lecito fare guerra a chi la fa per con­quistare luoghi più feraci e più ricchi e per cupidigia di spazio” e… sa­rei per dire: “di petrolio”.

Aggiunge inoltre: “È giusta la guerra intrapresa per soccorrere chi è stato oggetto di una ingiusta aggressione”.

Se Bush o i suoi consiglieri conoscessero questo passo, lo citereb­bero davanti alle assise internazionali e all’Onu.

Il De jure belli, prevede l’ultimatum, rievocando quanto al tempo dei Romani facevano i Feciali.

Vi si parla anche dello spionaggio; degli stratagemmi bellici; della cattura e trattamento dei prigionieri; dei criminali di guerra (come si ve­de, esistevano già allora); del postliminio, ossia del diritto del prigio­niero di riacquistare la libertà se, fuggendo, avesse potuto raggiungere i confini della patria.

Alberico prevede anche la guerra “chimica”. “È un’azione da bar­bari – scrive – usare veleni nella guerra. Il valore non ha più la sua forza quando l’esito della guerra viene affidato ai veleni. Tutti condannano ta­le modo di condurre la guerra”.

Egli chiude il secondo libro con un’invocazione al “Sommo Iddio”.

Rimuovi da noi le barbarie, le ferità, la insaziabile inimicizia. Tu che sei buono! Il bove ed il leone si cibino dell’erba dei campi, e mai il bove impari la ferocia; bensì il leone apprenda la mansuetudine. Né mai imparino dai barbari i cristiani tuoi, i modi di guerreggiare, ma i barba­ri imparino bene dal popolo tuo modi più umani”.

Termina poi l’opera ineggiando nuovamente alla pace.

Alberico Gentili nato a S. Ginesio da genitori ottimi e illustri (ex op- timis nec non Clarisparentibus Sanginesii…), morì a Londra a 59 anni, nel 1608. Era il 19 giugno (obiìt Londini anno MDCVIII die XIX junii, si legge nella lapide sepolcrale nella chiesa di Sant’Elena a Bishopgate).

Nella natia S. Ginesio, un monumento lo ricorda ai posteri. Il suo nome è conosciuto in tutto il mondo come “fondatore del diritto inter­nazionale”.

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Curiosità di storia di Fermo e del Fermano nel secolo XX di Gabriele Nepi 1996

1900 – Domenico Alaleona e l’errore dell’Enciclopedia Treccani   p.

1906 – Il Conte Sacconi a Fermo   p.

1909 – Padre Giuseppe Gianfranceschi   p.

1910 – Romolo Murri   p.

1918 – Soldato elpidiense per primo a Trieste   p.

1918 – Un fermano con D’Annunzio   p.

1919 – Novelli e ìa Fenice   p.

1920 – Silvestro Baglioni: grande figura di uomo e di scienziato    p.

1926 – Fusa a Fermo la campana delle Laudi   p.

1928 – L’autore di “Ladri di Biciclette” sposo a Porto S. Giorgio    p.

1930 – L’inno del fermano per le nozze di Umberto e Mari Josè   p.

1933 – Cento anni vissuti a servizio degli altri   p.

1944 – L’abbazia di Montecassino fu ricostruita da una impresa fermana   p.

1947 – Ancora Flaiano   p.

1947 – Quando Flaiano scriveva alla sua vecchia maestra   p.

1952 – Licini; nell’arte e nella vita lo spezzavi, ma non lo piegavi   p.

1973 – Provincia, scippo che non Scotti troppo   p.

1975 – La “Resurrezione” del Fazzini dimenticata dalla guida di Roma   p.

1989 – Nella biblioteca del Papa   p.

1992 – Un monumento ai Caduti   p.

1996 – La Diocesi di Fermo, prima in graduatoria   p.

                                                                                                                      DIGITAZIONE DI ALBINO VESPRINI

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Altre opere dell’autore:

1)           Note sulla pronuncia dell’H in Latino, 5- edizione – Fermo, 1958.

2)           Clero e Cultura – Grandezze e benemerenze del Clero nel campo culturale –  Roma, 1957.

3)           Le Marche, la nostra Regione, 7a edizione – Ascoli Piceno, 1968.

4)           Cenni storici di Montemonaco – Fermo, 1969.

5)           Cenni storici di M. Falcone Appennino – Fermo, 1958.

6)           Edmondo De Amicis – Bologna, 1961.

7)           Il Duca degli Abruzzi – Bologna, 1961.

8)           Guglielmo Massaia – Bologna, 1961.

9)           Matteo Ricci – Bologna, 1961.

10)         Storia di Porto Sant’Elpidio – Fermo, 1970.

11)         “Dodi Furor Arduus Lucretii” – Città del Vaticano, 1964 –  Premio al Certamen Vaticanum.

12)         One Year in Treblinka – Un anno a Treblinka (traduzione dall’inglese) – Roma, 1958.

13)         Paul Sih: Decision for Cina – Cina al Bivio (traduzione dall’inglese) Torino; 1961.

14)         Pagine di storia inedita del Fermano – Fermo, 1966.

15)         Cenni storici di Altidona – 42 edizione – Fermo, 1985.

16)         Cenni storici di Lapedona – Fermo, 1963.

17)         Cenni storici di Moresco – Fermo, 1964.

18)         Cenni storici di Smerillo – Ancona, 1969.

19)         Cenni storici di Monterubbiano – Fermo, 1961.

20)         Cenni storici di Montefortino – Fermo, 1960.

21)         Cenni storici di M.S. Pietrangeli – Fermo, 1960.

22)         Storia dei Comuni della Provincia di Ascoli Piceno – Voi. I – Fermo, 1966 (in ristampa).

23)         Storia dei Comuni Piceni – Voi. II – Fermo, 1970.

24)         Storia dei Comuni Piceni – Voi. IlI – Fermo, 1971.

25)         Storia dei Comuni Piceni – Voi. IV – Fermo, 1972.

26)         Storia dei Comuni Piceni – Voi. V – Fermo, 1973.

27)         Storia dei Comuni Piceni – Voi. VI – Fermo, 1974.

28)         Storia dei Comuni Piceni – Voi. VII – Fermo, 1976.

29)         Storia dei Comuni Piceni – Voi. VIII – Fermo, 1978.

 30)        Storia del Comune di Santa Vittoria in Matenano – Camerino,1977.

31)         Guida di Moresco – Camerino, 1976.

32)         Flores Sententiarum – 5.000 Proverbi e motti latini – Hoepli ed. – Milano, 1978.

33)         Gens Julia – Premio Certamen Vaticanum, 1974 – Ristampa.1978.

34)         Fermo e Giovanni Paolo II – Fermo, 1988.

35)         Il conclave di Pio IX (estratto Studi Maceratesi) – V ed. – 1989.

36)         Storia di San Benedetto del Tronto – Ascoli P., 1989.

37)         Guida di Fermo e Dintorni – X ed. – Fermo, 1989.

38)         Storia dei Comuni Piceni – Vol. IX – Fermo, 1979.

39)         Storia dei Comuni Piceni – Vol. X – Fermo, 1980.

40)         Storia dei Comuni Piceni – Vol. XI – Fermo, 1989.

41)         Giulio Cesare in Abruzzo – Teramo Voce Pretuziana, 1980.

42)         Saggio degli errori dell’Enciclopedia Britannica – Milano, 1980.

43)         Il fondatore di Giulianova in “Osservatore Romano”, 1981.

44)         Gemina Musa, Poesie greche e latine in onore del prof. O. Pasqualetti .Macerata, 1986.

45)         Sisto V Mecenate – Roma, 1981.

46)         Dal dialetto alla lingua vocaboli dialettali marchigiani con le loro rispondenze in lingua italiana – Camerino – III ed.. 1982.

47)         Federico II a Monte Cretaccio di San Benedetto del Tronto – Teramo, 1988.

48)         Storia dei Comuni Piceni – Voi. XII – Fermo, 1992.

49)         Storia dei Colli del Tronto – Macerata2, 1991.

50)         (S)parliamo delle Donne con simpatia e un pizzico di umorismo.   Fermo, 1990-1962.

51)         Il Padre – Fermo, 1992.

52)         La Madre – Fermo, 1992.

53)         Dolcissimi Nonni – Fermo, 1996.

54)         Catilina in Ascoli nell’89 a.C. – Fermo, 1996.

55)         Nuova Guida di Fermo con appendice trilingue – Macerata, 1996.

56)         Il Palio dell’Assunta al 1182 – Fermo, 1996 \\\

1900 – Domenico Alaleona e l’errore dell’Enciclopedia

     Canti di Natale ovunque in questo periodo; pastorali davanti al Presepe; ninne-nanne, cornamuse, zampogne. Oltre alle ninne-nanne di autori molto conosciuti, vi sono ninne-nanne e pastorali di alto valore musicale, composte da artisti nostrani.

      Qualcuno le ha messe in onda in occasione del Presepe vivente di Altidona, cui i mass media non hanno dato il risalto dovuto, mentre è stata una manifestazione superlativa, una vera e propria rivelazione. Taluno addirittura ha posto l’equazione: “Altidona sta alla Natività come Oberammergau sta alla Passione di Cristo”. Come è noto, Oberammergau è un villaggio tedesco, dove ogni dieci anni si rappresenta il dramma della passione e gli attori (come in Altidona) sono gli abitanti del villaggio.

Ma torniamo alle ninne-nanna e alle pastorali. Fra quelle che hanno allietato il Presepe di Altidona, c’era la Ninna-Nanna di Domenico Alaleona, musicista poco conosciuto, ma validissmo, di Montegiorgio dove nacque nel 1881 e dove morì il 28 dicembre 1928. Ieri ricorreva l’anniversario: il sessantaseiesimo. Dicevamo “poco conosciuto”, o me¬glio misconosciuto. La Enciclopedia Treccani che ne parla (vol. II pag. 162), lo dice morto alla vigilia di Natale del 1928. Noi che non ci fidiamo e controlliamo sempre, siamo andati a consultare gli atti di morte del Comune di Montegiorgio e abbiamo visto che è deceduto il 28 dicembre 1928 e non alla vigilia di Natale.

     Musicista e compositore, l’Alaleona si formò al liceo musicale di Santa Cecilia di Roma, diplomatosi nel 1906. L’anno dopo si laureò all’università di Roma, con la tesi: “Studi sulla storia dell’oratorio musicale in Italia”. Dal 1905 al 1911 insegnò canto corale nella scuola nazionale di musica e dal 1916 ricoprì la cattedra di estetica e storia della Musica nel Conservatorio S. Cecilia di Roma. Primo in Italia ad intuire e studiare certi aspetti della musica più moderna, fu pure il primo a cniare e introdurre alcuni termini musicali, come dodecafonia, entrati nell’uso dell’arte musicale. Compose “Mirra”, rappresentata con successo al Costanzi di Roma nel 1904. “Albe”, sei canti per voce e pia¬noforte; le “Melodie Pascoliane” (sono 15) per canto e orchestra. “Canzoni italiane”, per archi, flauti e trombe; “L’Alleluia” per coro a quattro voci; “Il cantico di Frate Sole” etc. Vasta la sua opera, in gran parte inedita e ancora da scoprire e valorizzare.

Anno 1906 – Il Conte Sacconi e Fermo

     Ricorrono quest’anno 90 anni dalla scomparsa di Giuseppe Sacconi, l’artefice del “Vittoriano”, maestosa bianca mole che simboleggia a Roma l’unità d’Italia.

Giuseppe Sacconi nacque a Montalto Marche nel 1854; a soli 6 anni, ritornando da Loreto dove lo aveva condotto la madre, ritrasse mirabilmente in un disegno la facciata della basilica, non trascurando alcun particolare.

     La sua famiglia abitava nella natia Montalto e, felice coincidenza, nella stessa casa dove tre secoli prima aveva dimorato il suo conterraneo Felice Peretti, poi Sisto V.

Oggi, sulla facciata di tale casa, una lapide ricorda che da qui ascesero alla gloria ed alla fama due figli di Montalto: Sisto V e Sacconi; l’uno, il primo, che alzò al cielo, monumento di fede, la cupola di S. Pietro; l’altro, il Sacconi, che eresse il monumento di italianità, il Vittoriano.

     Nel 1866 Sacconi si trasferisce con la famiglia a Fermo e vi frequenta il Convitto Nazionale (odierno IPSIA), quindi il Ginnasio Liceo, poi l’Istituto d’Arti e Mestieri (odierno Istituto Industriale).

     Terminati gli studi a Fermo, su consiglio di Giovan Battista Carducci, famoso Architetto fermano, si iscrive all’Accademia delle Belle Arti a Roma dove, aiutato dal Pio Sodalizio dei Piceni, percorre tutto il curriculum degli studi divenendo ben presto famoso. Sua è la Cappella Espiatoria a Monza eretta per “espiare l’infame delitto dell’uccisione di Umberto I”; suo il progetto del S. Francesco di Force (1883); il progetto dell’Altare della Cappella di S. Giuseppe nella Basilica di Loreto, l’Arco di Traiano, etc.

     A Fermo intervenne nella facciata della chiesa di S. Francesco, operò pure per la chiesa parrocchiale di Monturano, le Tombe al Pantheon a Roma, etc., ma la sua gloria maggiore è il Vittoriano, con l’Altare della Patria a Roma.

       Se è vero come è vero che i due grandi, Sisto V e Sacconi, sono ascesi da Montalto alla gloria ed alla fama, è vero anche che entrambi nel loro soggiorno, a Fermo hanno temprato le ali e da qui spiccarono il volo: Peretti dopo esservi stato Vescovo dal 1571 al 1577, mentre Sacconi come alunno nelle istituzioni scolastiche di Fermo.

      Se Wellington asseriva che la battaglia di Waterloo fu vinta grazie alla preparazione nella scuola di Eton, se la Germania per lunghi anni proclamò che la battaglia di Sadowa fu vinta dal maestro di scuola prussiano (Der Preussische Schulmeister hat die Schlacht bei Sadowa gewonnen) per sottolineare quanto sia importante la formazione della scuola, senza ombra di esagerazione, possiamo dire, specie per il Sac¬coni, che a Fermo si formò la loro umanità e la loro professionalità.

      Una lapide posta nell’atrio di ingresso all’ex Convitto Nazionale lo ricorda ai posteri.

Essa recita: “Il Conte Giuseppe Sacconi, grande e modesto, ebbe qui i primi studi ed onori; a Roma cariche, titoli, gloria, fama eternale; fu deputa¬to al Parlamento per 6 legislature. Insignito di molte onorificenze, inscritto a dotte società italiane e straniere. Nell’architettura portò valore uguale ad ogni altissima impresa, armonia di linee; semplicità di stile, gusto e critica insuperabilmente finissimi. Visse tutto ardente per il bello, per il vero; tutto inteso allo studio della natura, de’ classici modelli e degli antichi monumenti che illustrò in grande numero: l’Arco di Traiano, la Loggia dei Mercanti in Ancona, la Basilica di Loreto alla primitiva forma; ridusse di nuovi splendori; accrebbe, fece l’Altare Papale nel Duomo di Ascoli Piceno; disegnò la facciata di S. Maria degli Angeli a Roma e la Cappella Espiatoria a Umberto I in Monza, spettacolo di ammirazione all’universo. Lasciò il monumento a Vitto¬rio Emanuele II, famedio de’ suoi successori ove con sapienza creatrice affermava la grandezza e la nazionalità dell’arte con la grandezza e la nazionalità della patria in giovane età. Dell’italico risorgimento rifulse Architetto sovrano, autore e martire della scienza nova. X giugno MCXVI”.

Anno 1909 – Padre Giuseppe Gianfranceschi

     È trascorso il centenario della nascita del Prof. Padre Giuseppe Gianfranceschi e nessuno, per quanto ci consta, ne ha commemorato la ricorrenza.

     Nato ad Arcevia (Ancona) il 21 febbraio 1875, il piccolo Giuseppe frequentò le elementari nel suo paese natio, indi proseguì, nelle Marche, gli studi ginnasiali e liceali, conseguendo la maturità classica. Si iscrisse poi all’università Statale di Roma, ma al quarto anno, sentita la divina chiamata entrò nella Compagnia di Gesù pur hs continuando gli studi universitari. Ben presto si laureò in Fisica, Ingegneria e Matematica, oltre a Filosofia e Teologia. Insegnò alFUniversità Statale di Roma e fu docente di Fisica ed Astronomia all’Università Gregoriana; nel 1919 rinunciò all’insegnamento nell’Università Statale, e, nel 1921, sotto il Pontificato di Benedetto XV, fu eletto presidente dell’Accademia delle Scienze, carica in cui fu riconfermato da Pio XI, il quale gli affidò la restaurazione dell’Accademia predetta. Nel 1930 venne chiamato a dirigere la stazione radiotelegrafica del Vaticana, dotata da Guglielmo Marconi dei più perfetti mezzi di trasmissione. Di tale stazione, il giorno undici febbraio 1931, la parola del magistero divino “già diffusa per venti secoli dal Pontefice Romano attraverso il mondo venne per la prima volta percepita contemporaneamente su tutta la superficie della terra”.

     La stazione vaticana non solo servì alla diffusione della parola del Sommo Pontefice, ma anche alla radiodiffusione di lavori scientifici e di nuove invenzioni, grazie al giornale parlato chiamato da P. Gianfranceschi: “Scientiarum Nuncius Radiophonicus”.

Intanto, la fama di Gianfranceschi come scienziato, cresceva e si diffondeva in Italia ed all’estero, grazie alle sue valide pubblicazioni. Esse assommano a circa 140, senza contare lavori inediti. Sono scritte in italiano, in latino, in inglese, in lingua spagnola. Tra esse sono da ricordare: “L’errore dell’ortogonalità nella scrittura dei moti periodici” e “Sopra la velocità dei joni prodotti da una fiamma” accolta all’Accademia dei Lincei. È dal periodo del suo assistentato all’Università Statale di Roma, un gruppo di lavori sull’acustica tra cui emergono: “Su l’errore della scrittura dei moti periodici”; “Scrittura e vibrazioni acustiche mediante l’elettrometro bifilare di Wulf “ e “Sopra lo studio delle curve vocali”, presentato al I congresso di fonetica sperimentale, tenutosi ad Amburgo nel 1914. Importante è il lavoro sul “Corista campione dell’ufficio centrale italiano”, del quale determinò il coefficiente di raffreddamento e quello di temperatura; inoltre “Prova meccanica della rotazione assiale della terra, ottenuta mediante le misure di deviazione dei gravi in caduta”. In tale lavoro, ebbe precursori e predecessori illustri quali Galileo (Dialogo dei massimi sistemi) e Newton.

     Altra sua importante opera, è “Proiezione sul piano orizzontale della velocità istantanea della terra”. Risalgono al 1909 i suoi studi sulla relatività e la sua traduzione dal tedesco del lavoro di Minkowski “Spazio e Tempo”. Altre sue opere sono: “Disintegrazione e degradazione della materia”, “Teoria dei quanti”, “La costituzione elettronica degli atomi”.

Con i lavori: “Distribuzione dell’energia nello spettro normale”, in cui fra l’altro ribadisce il concetto che i corpuscoli vibratori non posseggono tutti identicamente la stessa frequenza e “Teoria della relatività”, pubblicato da Vita e Pensiero di Milano, “Strutture dell’atomo e inerzia della materia”. “The perthurbation of electronic orbits”, “Lo spazio l’energia e la materia”, “In pondere et mensura”, “Sulle frontiere della nuova fisica”, tutti scritti tra il 1905 e il 1934, si acquistò fama mondiale.

     Assolse importanti missioni all’estero con dignità e rara competenza: a Cambridge nel 1912 per il congresso di matematica; a Ginevra nel 1929, presso la Società delle Nazioni; a Parigi, nel 1923, per il centenario di Pasteur; di nuovo a Parigi nel 1932, per il congresso intemazionale di elettricità. Nel 1924 fu a Toronto per il congresso di matematica e, nello stesso anno, a Filadelfia (Stati Uniti) per il centenario di Beniamino Franklin. Nel 1927 si recò a Lovanio ed a Londra, per i centenari delle rispettive università; nel 1928 partecipò alla spedizione polare di Umberto Nobile. Lo troviamo a Madrid nel 1932, alla conferenza intemazionale di radiotelegrafia e radiotelefonia. Nel 1933 è a Lucerna, per la conferenza europea delle telecomunicazioni.

Ciò, senza contare le missioni scientifiche nelle varie città italiane come a Taranto nel 1914, a Reggio Emilia nel 1918, al centenario di Padre Secchi a Como, al congresso di fisica nel 1927 etc.

Chiamato – come detto – a dirigere la stazione radio della Città del Vaticano, fece eseguire in essa “sin dal 1932, trasmissioni di immagini col metodo di Belin, mediante un’apparecchio originario donato a Pio XI dal Belin stesso”. Questa notizia, annunciata nella commemorazione di P. Gianfranceschi, tenuta alla Pontificia Accademia dei Lincei dal Prof. L. Lombardi il 18 novembre 1934, oggi a distanza di anni, riempie di ammirazione e stupore.

     Dalla medesima Stazione Radio, l’anno dopo, vennero eseguite esperienze di collegamento tra la Città del Vaticano e l’Australia.

Morì a Roma il 9 luglio 1934, per un male all’esofago. Ai funerali, parteciparono Ministri, Cardinali, Ambasciatori italiani ed esteri. Di lui parlarono Radio Austria, la Radio Svizzera, la National Broadcasting Company di New York, Radio Spagna, Radio Portogallo, la Radio tedesca, francese.

     Le università di Tolosa, Pisa, Varsavia, Bologna, Bari, Madrid, Modena, Berlino, Saragozza, Pavia, Milano, l’Università Cattolica di Milano, il generale Umberto Nobile, ed il celebre Enrico Fermi, lo commemorarono in tornate accademiche od in sessioni speciali. Lo stesso fece lo “Smithsonian Institute” negli Stati Uniti d’America.

Guglielmo Marconi ebbe a dire di lui: “Ebbi agio per frequenti rapporti personali di apprezzare in tutta la loro ampiezza le doti di mente e di carattere di Padre Gianfranceschi ed alla stima che nutrivo per lui, si aggiungeva una profonda amicizia”.    

     Pio XI lo ebbe sempre in specialissima predilezione, ed a varie riprese, gliene diede pubblica manifestazione.

     P. Gianfranceschi superò la freddezza dello scienziato, godè del privilegio della poesia intima e naturale. “Lo splendore delle bellezze naturali, la quiete e verde dolcezza dei campi, parlarono al suo spirito non meno che possentemente che la voce della scienza”. Per iniziativa dei suoi concittadini, la salma il 23 maggio 1936, fu riportata nella natia Arcevia e la traslazione fu un trionfo. Con Angelo Rocca (fondatore della Biblioteca Angelica di Roma) con il letterato Giovanni Crocioni, ed il lessicografo Fernando Palazzi, è lustro e vanto del paese natio.

     Nella casa dove trascorse la fanciullezza, una lapide così lo ricorda ai posteri:

Nella vicina collegiata di S. Medardo / gli arceviesi vollero tra¬sportarla,/ la venerata salma del loro illustre concittadino: P. GIUSEPPE GIANFRANCESCHI S.J. : n. in Arcevia il 21 febbraio 1875 – m. a Roma il 9 luglio 1934 / che in questa casa trascorse la fanciullezza gioconda / Perspicace indagatore di scientifice verità / illustrate in dotti studi sommariaftiente pregiati / fu docente e rettore dell’Università Gregoriana / Presidente della Pontificia Accademia dei Nuovi Lincei / Fondatore della Vaticana Stazione Radio / Cappellano della spedizione polare italiana del 1928 / Particolarmente diletto al Sommo Pontefice Pio XI / che gli affidò alte missioni di religione e di scienza / caro a Guglielmo Marconi e a quanti pregiano le virtù eccel¬se / che perpetuano la memoria degli uomini insigni / 23 maggio 1936.

     Nel suo loculo, nella collegiata di S. Medarlo di Arcevia si legge: “Alla religione ed alla scienza / consacrò l’alto impegno e la nobile vita / il Padre Giuseppe Gianfranceschi S. J. / Rettore dell’Università Gregoriana / Presidente della Pontificia Accademia dei Nuovi Lincei / di scientifiche verità genialmente intravviste / assertore ed illustre sapiente / n. in Arcevia il 21 febbraio 1875 – m. a Roma il 9 luglio 1934 / Per unanime volere dei suoi concittadini / qui compianto riposa / 23 Maggio 1936”.

Anno 1910 – Romolo Murri e tre grandi piceni

     Fervore di celebrazioni in questi giorni nel Fermano. Si commemora Augusto Murri, il grande clinico; si ricorda il centenario della nascita di Osvaldo Licini e il cinquantesimo della scomparsa di Romolo Murri, avvenuto a Roma il 12 marzo 1944, pochi giorni prima dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.

      Nato a Monte S. Pietrangeli nel 1870, ben presto entrò nel seminario di Fermo, percorrendo brillantemente gli studi.

     Ordinato sacerdote nel 1893, si iscrisse all’università di Roma dove frequentò le lezioni di Antonio Labriola. Oratore forbito e vivace, si inserì nel mondo studentesco, pervaso da violente competizioni dottrinali e politico-sociali. Insieme a G. Salvatori, F. Ermini, F. Crispolti e G. Semeria, gettò le basi della Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana).

     Fu uno dei pionieri della Democrazia Cristiana e collaborò con don Luigi Sturzo. Ebbe ben presto screzi politici con la gerarchia cattolica che degenerarono in screzi religiosi. Progressivamente Murri maturò una concezione più articolata dei rapporti tra fede e politica, tra Chiesa e Stato, tra azione politica e gerarchia ecclesiastica. Propugnò addirittura un partito aconfessionale, indipendente, nella sua azione politica dalla S. Sede, sebbene ispirato ai valori sociali del cristianesimo.

     Pio X preoccupato dell’unità della fede e delle tendenze autonomistiche del laicato, dopo varie vicende e dato l’atteggiamento ribelle del Murri, nel 1907 lo sospese a divinis e due anni più tardi lo scomunicò (1909). In questo stesso anno, Murri fu eletto deputato nel collegio di Montegiorgio; depose l’abito ecclesiastico: e si unì in matrimonio con Ragnhild Lund, che gli sopravviverà 17 anni.

     Il problema del modernismo di Murri è stato molto discusso. Il Prof. Guasco nel suo recente volume Romolo Murri ed il Modernismo ha chiarito molte posizioni storiche. L’accusa di “modernismo politico-sociale” fatta al Murri, consisterebbe nella negazione di ogni autorità della Chiesa nel campo temporale e nella rivendicazione dei cristiani di una autonomia piena nel campo politico. Tuttavia, afferma Pietro Scoppola, profondo conoscitore del pensiero del Murri: “Il distacco del nostro dalla Chiesa è da attribuire più a questioni disciplinari che a posizioni dottrinali. Un vero e proprio modernismo non c’è negli scritti di Murri, anche se ci sono delle tesi piuttosto avanzate e vicine a quelle dei modernisti”.

     È sepolto a Gualdo, paese dell’archidiocesi di Fermo, dove viveva lo zio don Vincenzo e dove si recava da Roma per ritemprare lo spirito. Volumi e volumi sono stati scritti sul nostro Murri e un articolo giornalistico non è certo sufficiente a lumeggiarne la vita e le opere.

     A Gualdo, sulla sua tomba si legge “Qui posano i resti mortali di / Romolo Murri / Non ebbe nome né posto / nelle gerarchie mondane / non cercò onori o ricchezze / ma credè fermamente in Dio / Dio volle / e considerò ufficio e pregio della vita / servir lui nel prossimo. 27 agosto 1870 – 12 marzo 1944”.

     A fianco riposano la moglie e don Vincenzo Murri (+1917). Immensa fu la sua cultura; travolgente la sua eloquenza. Fermo, nel 1970, in occasione del centenario della nascita, gli tributò un convegno di studi che ebbe risonanza nazionale. Macerata oggi gli fa eco nel cinquantesimo della morte.

     Con Augusto Murri di Fermo, Osvaldo Licini di Monte Vidon Corrado forma la triade dei grandi piceni degnamente oggi ricordati e celebrati.

Anno 1918 – Il soldato elpidiense per primo a Trieste

     Panta rei (tutto scorre) ammoniva la filosofia antica e Foscolo ricorda che “involve tutte cose oblio ne la sua notte”… E per questo, che vorremmo ricordare o far conoscere un episodio dell’ultimo giorno della prima guerra mondiale (2 novembre 1918) che portò alla ribalta della storia e della gloria un umile marinaio-aviere di Porto Sant’Elpidio. Si chiamava Giuseppe Pagliacci (anzi per l’esattezza anagrafica: Pagliaccio) e fu poi medaglia d’argento al valor militare. Fu il primo sol¬dato italiano ad entrare a Trieste, prima dell’arrivo delle forze regolari dell’esercito.

     Pagliacci, con la sua squadriglia partecipava ad un volo esplorativo sulle coste istriane con il preciso compito del Comando Supremo di gettare su Pola e Fiume, e specialmente su Trieste, manifestini multicolori annunzianti il prossimo arrivo delle truppe italiane. A Trieste, i cittadini, resisi padroni della situazione, erano assiepati in Piazza Grande ed avevano sollecitato l’arrivo delle truppe italiane, anche per evitare possibili sorprese croate. Ad un tratto, appaiono nel cielo aerei italiani che, volando a cerchi concentrici, si abbassano gettando manifestini. Un urlo frenetico e deliranti applausi si levano dalla folla. Migliaia di mani sono protese a salutare. Richiamata dal rombo dei motori, la folla diventa sempre più fitta. Gli avieri, anche loro entusiasti, volano sempre più in basso per salutare.

     Ad un tratto il nostro marinaio-aviere Pagliacci che componeva la squadriglia, vinto da quel delirio, non seppe resistere e con perfetta, impeccabile manovra compì l’ammaraggio nello specchio di mare antistante Piazza Grande, che da allora venne chiamata Piazza dell’Unità. Il comandante del porto, lo rimorchiò subito a terra. La folla lo portò in trionfo fino al Palazzo del Governo, senza fargli mettere piede a terra sotto una pioggia di fiori, tra due fitte ali di popolo delirante ed acclamante. Tutti volevano abbracciarlo, tutti volevano stringergli la mano, tutti gli chiedevano qualche cosa di suo, anche un pezzetto di stoffa per ricordo del primo italiano entrato a Trieste.

     Il gesto non era nei disegni del Comando Supremo che voleva riservare quell’onore ad un alto personaggio. Per questo, dal balcone del Palazzo del Governo, Pagliacci aveva detto ai triestini che si aspettava di essere punito per quella “trasgressione”, anzi avrebbe accettato volentieri la punizione, perché amava Trieste e la sua gente. Era però fiero, lui, popolano di Porto Sant’Elpidio, di aver messo piede, per primo, sul suolo triestino.

     Ripartito e rientrato con la squadriglia a Venezia, andava sereno verso la punizione; fu invece portato in trionfo dal suo comandante e dai suoi compagni di volo. Seguì una breve licenza ed anche a Porto Sant’Elpidio Giuseppe Pagliacci ebbe deliranti accoglienze. In seguito emigrò in Canada, rispettato ed onorato dai nostri connazionali e qui morì con vivo il ricordo della patria e di Trieste redenta alla causa italiana.

Anno  1918 – Un fermano con D’Annunzio nello squillante raid su Vienna

Settantasei anni orsono, il 9 agosto 1918, si compiva la più bella ed ardimentosa

impresa aerea della prima guerra mondiale. Bella, perché non causò lutti né rovine; ardimentosa, perché fu un raid di oltre mille chilometri, di cui ottocento in territorio nemico. Era il volo su Vienna di otto aerei italiani al comando di Gabriele D’Annunzio; era il sussulto della rivincita dopo l’infausta rotta di Caporetto, ma era anche il preludio della squillante vittoria, che avrebbe arriso alle armi italiane, dopo soli tre mesi dal raid dannunziano.

     Tra gli otto, v’era un apparecchio pilotato da un tenente fermano, Ludovico Censi, il quale fu il primo ad atterrare dopo il glorioso evento seguito dall’apparecchio di Gabriele D’Annunzio, pilotato dal capitano Natale Palli. Tutti gli apparecchi erano partiti al mattino del 9 agosto, dopo breve ‘orazione’ di D’Annunzio, che incitava gli otto ardimentosi piloti. Alle 9,20 erano giunti sul cielo di Vienna; si abbassarono allora a quota sotto gli 800 metri, lanciando un diluvio di manifestini inneggianti all’Italia ed all’immancabile vittoria delle armi italiane. “Sulle vie della città era chiaramente visibile l’agglomerato della popolazione”. Così il comunicato ufficiale che proseguiva: “I nostri apparecchi, che non vennero fatti segno di alcuna reazione da parte del nemico, al ritorno volarono su Wiener-Neustadt, Graz, Lubiana e Trieste. La pattuglia partì compatta, si mantenne in ordine serrato lungo tutto il percorso e rientrò al campo di aviazione alle 12,40”. A sua volta, il comando dell’Aeronautica comunicava: “Uno stormo di valorosi aviatori al comando del Maggiore Gabriele D’Annunzio, la mattina del 9 corrente ha raggiunto Vienna, percorrendo in gruppo compatto oltre mille km. di cui più di 800 sul territorio nemico, per ripetere sulla stessa capitale nemica la nostra parola di fede e di sfida. Mai vitto¬ria fu più completa e più nostra, perché italiane sono anche le macchine che hanno permesso agli ardimentosi aviatori di compiere la magnifica impresa. Con orgoglio di Capo addito i loro nomi: Magg. Ga¬briele D’Annunzio; Cap. Natale Palli; Ten. Antonio Locatelli; Ten. Aldo Finzi; Ten. Pietro Massoni; Ten. Ludovico Censi; Ten. Giordano B. Granzarolo; Sotto Ten. Gino Allegri; alla riconoscenza ed all’emulazione di tutti i soldati dell’aria”.

     Tre mesi dopo Censi, il 2 novembre 1918, un altro eroe del Fermano sarà il primo aviere italiano ad atterrare a Trieste portato in trionfo dalla folla delirante e gioiosa: Giuseppe Pagliacci di Porto S. Elpidio.

Anno 1919 – Novelli e la Fenice

     In questi giorni, nonostante la crisi di governo, in Italia non si parla d’altro che del “Teatro La Fenice” di Venezia, andato in fiamme il 29 gennaio e ovunque, coerentemente al mito dell’uccello che risorge, si parla della sua ricostruzione. Ben si addice, quindi, il motto che la Mitologia dava alla Fenice: ex flammis resurgo (risorgo dalle fiamme).

     La Fenice, come è noto, era un uccello sacro e favoloso degli Egizi e degli Arabi; veniva descritto come una grande aquila dal piumaggio a vari colori; la sua vita durava cinque secoli, trascorsi i quali si preparava una pira con foglie ed erbe aromaniche, esposta al sole cocente, e così moriva bruciata.

     Dalle sue ceneri rinasceva un’altra Fenice. La leggenda ben si addice al teatro omonimo, costruito dall’Arch. Antonio Selva, e posteriore al nostro Teatro dell’Aquila. La Fenice!

     Tutta l’Italia è mobilitata alla sua ricostruzione ed anche dall’estero giungono aiuti. E pensare che la Fenice non è il più grande e famoso Teatro. Il più grande è il Teatro Massimo di Palermo, con 3.200 spettatori; seguono La Scala di Milano e il S. Carlo di Napoli, entrambi con 3.000 spettatori; quindi vengono il Regio di Torino e il Nuovo di Parma, con 2.000 spettatori.

     La Fenice è più in giù in… graduatoria. Ma La Fenice ha grande risonanza per via della cornice artistica: la città di Venezia. E siamo ben felici che, conformemente a quanto detto sopra, La Fenice risorga (come nella Mitologia) dalle ceneri… Teatro: edificio destinato alla rappresentazione di drammi, di commedie, di tragedie di opere musicali; palestra e pedana per la fama di attori.

     Proprio nello stesso giorno in cui la Fenice periva (29-1-1996) ricorrevano 77 anni esatti dalla morte di un grande attore, cittadino onorario di Fermo: Ermete Novelli. Questi era nato a Lucca in un giorno fatidico: il 5 rnaggiò, (ma dopo 30 anni esatti dalla morte di Napoleone, ossia il 5 maggio 1851) da Alessandro e dalla fermana Giulia Ga- lassi.

    Fra le molte interpretazioni restò famoso ed ammirato per “Il mercante di Venezia” e “Il burbero benefico”, il primo di Shakeaspeare, il secondo di Goldoni. Alfredo Testoni scrisse apposta per lui la commedia “Il Cardinale Lambertini”. Si spense a Benevento il 29 gennaio 1919. Ermete Novelli conobbe la Galassi a Fermo e la storia d’amore sbocciò nel Teatro dell’Aquila in una occasione che assomiglia ad una finzione scenica più che alla realtà della vita

     Ermete Novelli, il Teatro dell’Aquila. Coincidenze del destino ? Resta però un fatto, che il Teatro La Fenice risorge subito, dalle ceneri, ma il Teatro dell’Aquila, dove sbocciò l’amore tra i genitori di Ermete Novelli, quando risorgerà ?

 Anno 1920 – Silvestro Baglioni: grande figura di uomo e di scienziato

    Oltre a quello di Giacomo della Marca, ricorre quest’anno il centenario di un altro illustre marchigiano: Silvestro Baglioni nativo di Belmonte Piceno (un paesino vicino Fermo), culla della civiltà picena come ci attestano i numerosi reperti archeologici ivi rinvenuti. Dopo gli studi classici, Baglioni si iscrisse all’Università di Roma laureandosi a pieni voti e lode in medicina e chirurgia. Ciò all’età di soli 26 anni. Dopo essere stato assistente in Germania nelle Università di Jena e Gottinga, insegnò nelle Università di Sassari, Napoli, Pavia; fu socio dell’Accademia dei Lincei di Roma, presidente dell’Accademia Medica di Roma, dell’Accademia Imperiale Germanica, dell’Accademia di Stato Sanitario della Società fonetica ungherese, dell’Accademia Medica svedese, Accademia d’Italia e così via. Partecipò col grado di maggiore medico alla prima guerra mondiale, ed effettuò studi sull’alimentazione del soldato, di psicofisiologia di volo, per rilevare l’attitudine psicofisica e effettuare la selezione attitudinale dei candidati piloti.      

     Attaccato a Belmonte, suo paese natio, vi ritornava spesso nelle brevi pause di riposo e, grazie al suo interesse, il paese venne risparmiato dalle ire teutoniche nell’ultima guerra. I suoi studi furono parti¬ colarmente incentrati sulle proprietà fisiologiche dei centri nervosi. Il Baglioni rilevò che si può avere la stimolazione chimica di parti circoscritte del nevrasse per mezzo di sostanze che elevano o deprimono l’eccitabilità centrale. Tale affermazione introduceva qualcosa di rivoluzionario nel campo della neurofisiologia, poiché gli studiosi erano pienamente d’accordo nel ritenere che la sostanza nervosa centrale non fosse eccitabile con stimoli artificiali.     

      Baglioni, invece, attraverso un suo esperimento consistente nell’applicazione locale di deboli soluzioni di acido fenico sulla superficie dorsale delle regioni postero-laterali del cervello di rana, dimostrò il contrario.

     Risultò, dopo un periodo di latenza, che si aveva una reazione da parte dell’animale che si manifestava con un grido. Il professore concluse quindi che l’acido fenico agisce specificamente elevando l’eccitabilità di determinati centri corticali. Proseguendo negli studi giunse anche a dimostrare che due diversi veleni, la stricnina ed il fenolo, pur avendo in comune la proprietà di provocare eccitabilità, determinano due tipi di eccitamento completamente diversi. Eseguì, questa volta, l’esperimento sul midollo spinale di rana e costatò che l’avvelenamento da stricnina, provocava dei crampi tetanici a tutti i muscoli del corpo, abolendo ogni movimento coordinato, mentre, con il fenolo, l’esecuzione dei movimenti, si ha tramite scosse rapide, per cui l’animale presenta continui accessi di tremori localizzati nei diversi muscoli. Diverso quindi il veleno, diversa la zona attaccata e le reazioni. Veniva, con queste ricerche, attuato un nuovo metodo di differenziazione dei meccanismi gangliari.

     Il Baglioni, per ampliare le sue esperienze, abbandonò la rana, indirizzandosi al sistema nervoso centrale di invertebrati e specialmente al “preparato centrale Baglioni”, che è un preparato di midollo spinale di rospo completamente isolato ed allontanato dallo speco vertebrale, ma rimasto in connessione con i muscoli degli arti inferiori. Di esso si servì per dimostrare l’azione elettiva centrale della stricnina e dell’acido fenico e la differenziazione farmaco-dinamica dei centri midollari sensitivo-coordinatori da quelli motori. Poté, altresì, con tale metodo catalogare le diverse sostanze chimiche in due categorie, a seconda degli effetti che producono, se applicate sulle aree eccitabili della corteccia. L’acido fenico, acetico, appartengono alla prima categoria; essi non esplicano alcuna azione sull’eccitabilità faradica delle aree sopra citate, soltanto quando sono concentrati deprimono l’attività dei centri. La stricnina e la picrotossina, facenti parte della seconda categoria, anche in piccole dosi fanno aumentare l’eccitabilità faradica delle aree stesse, dopo un brevissimo periodo latente, provocano dei movimenti che si ripetono ritmicamente in forma di tic caratteristici. Ciò portò a far capire al professor Baglioni, che gli elementi gangliari della zona motrice corticale non si possono identificare con gli elementi motori spinali, ma sono da avvicinare agli elementi delle coma posteriori del midollo.

     l periodo più fecondo dell’attività del professor Baglioni, andò dal 1900 al 1909, in cui si ebbe la parte più originale della sua produzione scientifica. Egli compì studi anche su altri campi di non minore importanza quali: la natura dei processi fisiologici degli organi elettrici; la fisiologia dei centri nervosi e degli organi di senso degli animali marini; il complicato meccanismo respiratorio della rana; la fisiologia dell’udito e della voce; la fonetica sperimentale; la meccanica respira¬toria dell’uomo; la genesi centrale della scrittura speculare con la ma¬no sinistra e tanti altri studi che hanno dato vita ad oltre trecento pubblicazioni.

     Silvestro Baglioni morì a Roma nel 1957, lasciando un grande vuoto nel campo scientifico, ma specialmente per gli abitanti di Belmonte Piceno, in particolare per quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e di apprezzarlo.

Anno 1926 – Fusa a Fermo la Campana delle Laudi

       Domenica scorsa tutta l’Europa ha potuto assistere in Eurovisione al convegno di Assisi, dove, dalle più disparate aree geografiche, sono convenuti i capi religiosi a pregare insieme al Papa, per la pace. La situazione nei Balcani, nell’Europa ed altrove è tutt’altro che rosea. Unica speranza per una pace giusta e durevole, è riposta in Colui che è in alto, nei Cieli! Forse per questo Dante parlando di Assisi e di S. Francesco esclama: “… non dica Ascesi (= Assisi) ché direbbe corto / ma oriente se proprio dir vuole”. Arieggiava, padre Dante, il versetto biblico “ci visitò apparendo dall’alto” Visitavit… nos oriens ex alto. L’Oriente è Cristo, che è luce e pace.

     Assisi e Francesco, binomio inscindibile, noto a tutto il mondo. Vi sono persino città fondate in onore di S. Francesco (ricordiamo per tutte S. Francisco di California), ed altre fondate da personalità di nome Francesco, come Le Havre in Francia, fondata da Francesco I.

     Sabato e domenica scorsa, i mass media di tutto il mondo hanno nuovamente portato alla ribalta Assisi e il suo Santo. Milioni di spettatori hanno visto (o rivisto) la stupenda basilica. Gli affreschi di Giotto sono apparsi nel loro fulgore davanti agli occhi di tutti. Giotto, come Francesco, è ormai patrimonio comune a tutti i popoli. Ma chi ha voluto e commissionato queste stupende pitture è un frate, nato nella nostra diocesi, padre Giovanni da Morrovalle, vissuto al tempo di Bonifacio VIII e di Duns Scoto. Fu ministro generale dei francescani, cardinale, teologo. Egli chiamò Giotto e lo incaricò di dipingere le 32 scene della vita del Santo.

I telespettatori hanno potuto ammirare anche il coro della basilica inferiore, opera di Apollonio da Ripatransone (1471) e quello della basilica superiore, dovuto a Domenico Antonio Indivini di S. Severino Marche (1501). Ma a Fermo spetta un altro grande merito: quello di aver fuso nel 1926 la Campana delle Laudi, uscita dalla fonderia Pasqualini e offerta da tutti i Comuni d’Italia ad Assisi, in occasione del settimo centenario della morte di S. Francesco. Campana melodiosa ed armoniosa del peso di 4.000 Kg. Il suo viaggio da Fermo ad Assisi costituì un vero trionfo. Leggendo le cronache del tempo, si ha l’impressione di un evento altamente significativo e ce lo conferma un documentario, riesumato nel 1985 e proiettato a Fermo, in occasione della ricorrenza. Re Vittorio Emanuele III, alla presenza delle più alte dignità ecclesiastiche, inaugurò la famosa campana.

    Vi sarebbero altri episodi che mostrano e documentano le strette relazioni tra Assisi, S. Francesco ed il Fermano. Francesco per andare a predicare alla “presenza del Soldan superba” (Dante) si imbarcò ad Ancona. I Fioretti sono sbocciati nella Diocesi di Fermo esattamente a Montegiorgio per opera di Frate Ugolino. I più devoti e fedeli seguaci di S. Francesco sono (come si legge nei Fioretti): Giovanni della Verna (cap. 49, 3,53) nato a Fermo; Giovanni da Penna S. Giovanni (cap. 45); Umile e Pacifico da Montegranaro (cap. 46); Pellegrino da Falerone; Riczerio da Muccia, ecc.

Anno 1928 – L’autore di “Ladri di Biciclette” sposo a Porto S. Giorgio

     Tartassati come siamo da Isi, Iciap, lei, Iva, Ilor, Irpef, Tickets, una tantum (che si risolve spesso in una semper), frastornati dal cataclisma delle tangentopoli, referendum ed annessi e connessi, non abbiamo più il tempo per leggere, riflettere, ricordare.

     Tuttavia, non possiamo fare a meno di rievocare due eventi di un incisore e scrittore marchigiano, Luigi Bartolini, nato a Cupramontana (Ancona) nel 1892 e morto a Roma il 16 maggio 1963. Gli eventi sono: il suo matrimonio e il trentennio dalla scomparsa.

Bartolini, il famoso autore di “Ladri di biciclette”, da cui venne tratto l’omonimo film di De Sica, si sposò a Porto S. Giorgio il 29 agosto del 1928. Il Concordato tra lo Stato e la Chiesa, che riguardava anche i matrimoni religiosi con effetti civili, verrà stipulato un anno dopo, per cui Bartolini e la sua sposa contrassero matrimonio davanti all’ufficiale dello stato civile di Porto S. Giorgio. Nell’atto trascritto al numero 20, parte L, del registro degli atti di matrimoni dell’anno 1928, si legge che: Luigi Bartolini, nato a Cupramontana e residente a Caltagirone (Catania), e Zambon Adalgisa, Albina, Enrica, nata a Pola, di anni ventuno, residente a Pola, il giorno 29 agosto 1928 contrassero matrimonio davanti all’ufficiale dello Stato Civile del Comune di Porto S. Giorgio, commendator Angelo Silenzi, delegato dal commissario prefettizio.

     A quanto pare, il 29 dei mesi estivi è propizio agli imenei dei grandi scrittori nel dolce clima di Porto S. Giorgio. Infatti, il 29 luglio 1883 vi iniziano la luna di miele Gabriele D’Annunzio con la duchessina di Gallese e, dopo 45 anni, il nostro Bartolini con la Zambon.

     Ora c’è una rivalutazione di Bartolini e, come detto, quest’anno ricorre il trentennale della morte. Incisore e scrittore, dedito a ricerche illuministiche, si avvicinò a moduli della grafica espressionistiva, utilizzando tratti spessi e decisi. Sue acqueforti di gran pregio sono esposte nelle gallerie d’arte di Roma, Milano, Torino, alla Bibliothèque Nationale di Parigi e altrove.

     Collaboratore della rivista “Il Frontespizio”, “L’Italia Letteraria”, eccetera, conseguì numerosi e qualificati premi. Nel 1935 alla “La Quadriennale” di Roma ebbe il primo premio: nella “23a Biennale” di Venezia riportò il primo premio per l’incisione. mentre nella 25a Biennale, sempre di Venezia, il primo premio per la pittura. Conseguì anche il pri¬mo premio Marzotto per la letteratura insieme a Dino Buzzati e il primo premio assoluto per la pittura, sempre al Marzotto.

     Il nostro, che come si è detto si sposò a Porto S. Giorgio, è conosciuto come pittore, scrittore ed incisore, ma è soprattutto famoso per l’opera “Ladri di biciclette”, che gli diede fama mondiale.

Anno 1930 – L’inno del fermano per le nozze di Umberto e Mari Josè     

     In questi giorni si fa gran parlare dei componenti di Casa Savoia, del loro rientro in Italia. Le posizioni delle forze politiche, sono le più disparate. Ormai tutti i protagonisti della prima metà di questo secolo, sono scomparsi. Con essi Vittorio Emanuele III e Umberto II che, nel 1925, visitò Fermo con Maria Josè del Belgio. Ed è a questo matrimonio celebrato a Roma dal Cardinale Pietro Maffi, Arcivescovo di Pisa e uno dei porporati più in vista negli anni Trenta, che oggi ci riferiamo.

L’anno prima, era stata firmata la Conciliazione tra lo Stato Italiano e la Chiesa e tale celebrazione voleva quasi essere un suggello di questa pacificazione. Fasto e feste, quindi, quell’8 gennaio 1930, quando il Principe Umberto di Savoia impalmava Maria Josè del Belgio. Le cronache del tempo riportano con particolari le varie fasi di tali sponsali, ma anche (ed è questo che ci interessa) i canti folkloristici delle varie regioni e province d’Italia.

     La provincia di Ascoli, venne rappresentata dal “Gruppo corale del Dopolavoro di Porto S. Giorgio e di Fermo”. L’inno fece furore. I nostri, vestiti in costumi delle campagne fermane, entusiasmarono tutti; il ritornello divenne subito patrimonio musicale dell’intera nazione.

“.. .0 principessa sposa / Sete la benvenuta / l’Italia ve saluta / con ’nna granfiala (= grandine, ndr) ’ doro sa / co’ ’nna grannala de fiori / Canterine e cantatori”e poi, l’impennata squillante, travolgente: “Fiori Fiori a Mari Josè”. L’inno non solo era diretto a “Mari Josè”, ma anche ad Umberto: “Le fate che se ’ncontra pe’ la sera / non è mejo de voi così belline. ’Nna festa sete de vellezze fine / più de ’nna mammoletta a primavera / Vicino a voi ce sta lo sposo amato l V avete scendo bello lo marito / ve se re guarda tutto ’ntenerito / lo fijo de lo nostro Re sordato..

     Gli autori? Cesare Trevisani alias: Cesare d’Altidona, autore fra l’altro di opere fortunate fra cui la Guida Storico-Artistica di Porto S. Giorgio. Il musicista è Nino Mercuri di Montefortino. Mari Josè ha ora 90 primavere! Se toma, forse ricorderà l’inno bellissimo, entusiasmante, travolgente.

Anno 1933 – Cento anni vissuti a servizio degli altri

      Nel 1892 Italo Svevo (1861-1928) pubblicava il suo primo romanzo: “Una vita’’, nel 1892 nasceva alla vita a Montefiore dell’Aso, Vincenzo Vagnoni, un bimbo destinato a raggiungere i cento anni: 1892/1992.

     Fra qualche giorno, in piena lucidità mentale ed in ottima salute, compirà un secolo di vita. Un secolo! Si fa presto a dirlo. Ma quante vicende, quante vicissitudini, gioie, dolori, speranze, quanti eventi! Gli americani “malati” di statistiche avrebbero subito precisato: 20 lustri; 1.200 mesi; 36.525 giorni; 876.600 ore (anni bisestili compresi).

Ma al di là e al di sopra di tali fredde cifre, sono cento anni di vita intensa, dedicati alla chiesa, alla società, ai fratelli. Sì, perché Mons. Vincenzo Vagnoni, professore di filosofia e teologia, giornalista, scrittore, cultore dell’arte, ha dedicato una vita intera alla sua missione di sacerdote, di formatore di anime, di leviti, di uomini.

      Non li cercò con la classica lanterna di Diogene, ma li formò, li plasmò, guida illuminata e sicura. Se fosse possibile fare una statistica dello spirito, vedremmo che quei molti giorni, quei tanti mesi ed anni, so¬no stati tutti spesi per ideali nobili, per raggiungere traguardi luminosi. “Che tu mi siegua ed io sarò la tua guida”, cantava il poeta e molte generazioni debbono tanto, talvolta tutto, a questa “guida”. Sono passati cento anni!

     All’inizio del centesimo anno, ne demmo notizia e ci giunsero da più parti inviti a ricordare, a suo tempo, il compimento del secolo. Fedeli alla missione giornalistica di informare, ne diamo ora tempestiva notizia, con un certo margine sulla data effettiva: 31 luglio 1892-1992. In tale data, nel 1808 venne eletto Re Gioacchino Murat e nel 1954 fu conquistato il K2 da Compagnoni e Lacedelli.

Non è sempre vero che “virtù viva sprezziam lodiamo estinta“. Spesso date e ricorrenze vengono fatte passare sotto silenzio, perché non c’è il “menestrello” che le ricordi.

      Abbiamo detto che Mons. Vagnoni, vicario dell’archiodiocesi più vasta delle Marche, nella sua lunga esistenza, ha visto molti eventi. Ha visto anche l’abolizione del latino nella liturgia della Chiesa; ma noi possiamo fare a meno di augurargli con Orazio: “Possa tu tardi tornare al cielo ed essere sempre col popolo”. Anzi, perché abbia maggior valore e forza augurale glielo ricordiamo in latino: “Serus in coelum redeas diuque laetus ìntersis populo”.

     Ad multos annos ancora, Monsignor Vagnoni! E questo l’augurio dei suoi estimatori, del popolo del Fermano e di tutti quelli che hanno apprezzato ed apprezzano la sua bontà, il suo altruismo, la sua generosità incondizionata. Oggi non è la storia che racconta, ma Mons. Vagnoni che racconta la storia.

Anno 1944 – L’abbazia di Montecassino fu ricostruita da un’impresa fermana   

     Ricorreva l’altro ieri mezzo secolo dalla distruzione di Montecassino. Ben 227 fortezze volanti alleate, a ripetute ondate, si accanirono contro la celebre abazia, scaricando su di essa tonnellate e tonnellate di bombe. Periva così un celebre monumento, culla della civiltà occidentale, segnacolo di arte, di religione, di storia.

     Era questa la quarta distruzione della sua storia millenaria, ma la più terribile. Molti i morti, specie tra i profughi. Miracolosamente si salvarono i pochi monaci rimasti, rifugiati in un angolo dei sotterranei, insieme al loro abate. Il bombardamento fu ripetuto il 17 ed il 18 febbraio, senza che gli Alleati ne sapessero trarre vantaggio, perché mancò un immediato attacco di fanteria. Anzi, ciò favorì i tedeschi che trasformarono ogni rudere, ogni muro, in un insidioso fortino, continuando a spiare dall’alto ogni movimento alleato.

     Solo il 19 maggio successivo, grazie a una manovra avvolgente delle truppe polacche, la cima venne espugnata. Ma enormi furono i danni. Fortunatamente molte opere d’arte, archivi e libri erano stati messi in salvo e trasferiti a Roma.

     Dalla distruzione si salvarono mille codici; quarantamila pergamene; duecentocinquanta incunaboli ed altre opere a stampa. I monaci in un primo momento, avevano avuto l’ordine di sgombero, ma poi i tedeschi, lo revocarono, assicurando l’abate Diamare che nessun ordigno bellico sarebbe stato installato nei pressi dell’abazia, per una fascia intorno ad essa di varie decine di metri.

     Ma gli anglo-americani (5a e 8a armata) erano convinti che vi fossero asserragliati i tedeschi. La realtà era ben diversa; si ebbe però il feroce bombardamento.

      In tanta distruzione si salvarono molte delle lamine del portale della basilica, lamine in bronzo costruite tra il 1087 ed il 1107, dove sono descritti i possessi dell’Abazia.    

     Fortunatamente, tra esse, vi sono la lamina sesta e la settima del battente di destra. La prima, recita che Montecassino “possedeva nell’area di Fermo, il monastero di Santa Maria in Leveriano e la chiesa di S. Giovanni di Garzania, il castello di Barbolano, inoltre (e qui inizia la lamina settima) la chiesa di Santa Maria e S. Biagio”.

      San Biagio è quel cocuzzolo sito in territorio di Altidona, a sinistra guardando il Camping Mirage. Su di esso sorgeva appunto la chiesa di S. Biagio ed il castello che poi andò distrutto; il titolo della chiesa fu portato nella parrocchiale di Altidona.

        E così a Montecassino, sulle porte della celebre abazia da secoli e secoli, il visitatore può leggere: “In civitate Firmana Monasterium S. Marie loco Leveriano et ecclesia S. Joannis de Garzania et Castellimi de Bubalano cum ecclesia S. Marie et S. Blasi cum pertinentiis eorum”. La chiesa di S. Giovanni di Garzania era nel castello di Altidona nel cui territorio erano S. Biagio e Barbolano (contrada ancor oggi esistente), mentre Leveriano era presso l’Aso.

     Oggi monumento di fede e di civiltà la risorta abazia, nana anche che la sua ricostruzione è opera di imprese fermane. Infatti chi la ricostruì fu la ditta Breccia-Fratadocchi, come indicato in una lapide.

Anno 1947 – Quando Flaiano scriveva alla sua vecchia maestra

       Al Festival del Cinema di Venezia, è stato presentato nella sezione “Venezia Notte” il film “Tempo di uccidere” con il bravissimo Ricky Tognazzi regia di Giuliano Montaldo, che ha ottenuto un grande suc­cesso. “Tempo di uccidere” è un romanzo di Ennio Flaiano, uno scrit­tore entrato già, e a buon diritto, nella storia della letteratura italiana del Novecento. Flaiano era nato a Pescara nel 1910, ma trascorse l’infanzia a Fermo. I critici si accorsero del suo valore solo dopo la sua morte. La sua scrittura “nitida, limpida, forbita e formalmente perfetta…”, lo ren­de oggi uno dei più validi scrittori del Novecento italiano.

La sintesi della sua produzione potrebbe essere quella di “una lun­ga lotta dell’intelligenza contro la morte. A quella lotta egli dava forme argute, allegre, cangianti, dall’aspetto effimero, apparentemente indo­lori”. Ma di essa, era sostanziata la sua vita e la sua opera.

Vasta la sua produzione letteraria: oltre “Tempo di uccidere” ricor­diamo “Un marziano a Roma”, “Un bel giorno di libertà”, “Diario not­turno”, “Melampo”, “La guerra spiegata ai poveri” etc. Ma sorprende la sua produzione come soggettista e sceneggiatore di film famosi. Suo ca­polavoro è la sceneggiatura de “La dolce vita”, il momento più felice della collaborazione con Fellini col quale lavorò anche in “Luci del va­rietà” (1951); “Lo sceicco bianco” (1952); “I vitelloni” (1953); “La stra­da” (1954); “Il bidone” (1955); “Le notti di Cabiria” (1957); “Otto e mezzo” (1963); “Giulietta degli spiriti” (1965). Ma non fu solo sogget­tista e sceneggiatore con Fellini, collaborò nel 1942 al film “Pastor Angelicus”, regia di Marcellini; “La barca del fuoco”, regia di Simonelli (1943); “Inviati speciali”, regia di Zampa (1945); “La freccia nel fian­co”, regia di Lattuada (1945); “La notte di Pagherò” (1948); “Fuga in Francia”, regia di Soldati (1948); “Cintura di castità”, regia di Mastroianni (1949); “Parigi è sempre Parigi”, regia di Emmer (1951); “Guardie e ladri”, regia di Monicelli (1951); “Destini di donne”, regia di Pagliari (1953); “Dov’è la libertà”, regia di Rossellini (1953); “Va­canze romane”, regia di Wyler (1953); “Colpo rovente”, regia di Zuffi (1970) e molti altri. Il soggetto “L’uomo di Nazaret” fu scritto da Flaiano per Zeffirelli e depositato alla Siae nel 1971.

Flaiano, a sette anni, col fratello Nino, frequentò le elementari a Fermo. Egli ricordava questo soggiorno con simpatia e nostalgia. Il 13 luglio 1970, cioè dopo cinquanta anni, precisamente due anni prima di morire, così scriveva alla sua maestra: “Gentilissima Giuseppina, la chiamo così anche se è stata la mia maestra. Ho molta nostalgia di rive­dere Fermo, dove non sono più tornato dal 1921. Ma un giorno voglio rivedere le Marche, dove ho trascorso parte della mia infanzia a Fermo, Camerino, Sinigallia (sic!). Spesso ricordo quel sant’uomo del rettore Don Tordini (era questi il rettore del Convitto Sacconi che ospitava Flaiano e suo fratello, n.d.r.). Egli fu per me un secondo padre… L’ab­braccio affettuosamente e ancora grazie”. Ma oltre a Fermo, come vi­sto, Flaiano ricorda altre località marchigiane Camerino, Senigallia e Recanati, dove si trovava la famiglia di una delle sorelle.

Anno 1947 – Ancora di Flaiano

Ora che le spoglie mortali di Fellini sono tornate a Rimini ed il si­lenzio sta per scendere sulla sua tomba, sia consentito ricordare, accan­to al “mago del cinema”, un altro grande suo collaboratore: Ennio Flaia­no.

Egli fu, per Fellini e con Fellini, soggettista, scenografo, ispiratore di moltissimi films. Flaiano, pur essendo nato a Pescara, studiò a Fer­mo.

I migliori films di Fellini vedono, come detto, Flaiano soggettista, ispiratore, sceneggiatore, eccetera. Il titolo del film “I vitelloni” ad esempio, è stato dato da lui. “In Abruzzo – scriveva – il termine vitello­ne era usato ai miei tempi per indicare un giovane di famiglia modesta, magari studente ma fuori corso, sfaccendato…”.

Troviamo Flaiano soggettista in “Luci del varietà” (regia di Fellini – Lattuada) del 1950. Due anni dopo è sceneggiatore de “Lo sceicco bianco”, regia di Fellini. Nel 1953 soggettista e scenografo de “I vitel­loni”. Nel 1954 esce “La strada”; anche qui sceneggiatura di Flaiano in­sieme a Fellini e Pinelli. Gli stessi li troviamo nel film “Il bidone” del 1955.

Ne “Le notti di Cabiria” ancora una volta c’è la triade Fellini-Flaiano-Pinelli come soggettisti e sceneggiatori. Ne “La dolce vita” del 1959, di nuovo soggettisti e scenografi: Fellini-Flaiano-Pinelli. Ne “Il Boc­caccio”, pure (1961). “Otto e mezzo” (1963) vede sceneggiatori Fellini – Flaiano. “Giulietta degli spiriti” è sceneggiata da Flaiano-Fellini-Pinelli-Rondi. Dopo il film “Otto e mezzo” i rapporti di collaborazione tra Fellini e Flaiano si affievoliscono (“con Fellini ho sospeso dopo Otto e mezzo”, scrive il nostro!). Tuttavia il grande riminese per questo non cessò di stimare e ammirare Flaiano. Da parte sua, Flaiano non era da meno.

Abbiamo accennato sopra a “La dolce vita”. Chi scrive, dopo due anni dall’uscita di tale film, si trovava in USA con una borsa di studio girando per tutti gli Stati Usa e, visitando moltissime città, ricorda le in­terminabili file e le code davanti ai cinema dei cittadini americani per assistere alla proiezione di tale film, che veniva proiettato in italiano con i sottotitoli in inglese. Dovette più volte fungere da interprete. Non era facile per loro capire cosa significasse “paparazzo”, “fregarsene”, ecce­tera. grande la sua fierezza di italiano nel constatare all’estero la fama e la grandezza di Fellini. Tornato in patria scrisse al Fellini in proposito. Fellini, commosso, ringraziò con una lettera autografa e con l’invio con dedica del volume di Angelo Solmi: “Storia di Federico Fellini”.

Emozione e commozione, mentre scrive, nel rileggere la lettera, ri­vedere la grafia felliniana e la dedica del grande “poeta del Cinema”.

Anno 1962 – Licini: nell’arte o nella vita lo spezzavi, ma non lo piegavi

     Noi marchigiani siamo poco conosciuti, ma noi stessi non sappiamo farci réclame. Lo asseriva anche Giorgio Umani nella sua poesia “Il Marchigiano…”: …“pigli il pennello / e ti chiami Gentile / e ti chiami Raffaello / Pure c’è un’arte / che tu dal ceppo / che diede il Bramante / che diede Spontini / Leopardi e Rossini / non saprai mai / vendere bene/ la merce che hai”… Ed è vero! Se altre Regioni avessero avuto un Bramante, esulterebbero e celebrerebbero con fasto i 550 anni della nascita, dato che nel 1944 era impossibile, causa la guerra, celebrare il quinto secolo. Però siamo anche dimenticati e “snobbati”. Basti pensare che la recentissima Guida di Roma uscita appena nel dicembre 1993, nel descrivere la sala Nervi in Vaticano, non nomina affatto il nostro Pericle Fazzini (+1987) né la sua Resurrezione che, come abbiamo già detto, è conosciuta in tutto il mondo. Oltre Bramante, Raffaello, Gentile da Fabriano, Rossini, Leopardi, Spontini, Pergolesi, Sacconi, Annibai Caro, etc. c’è anche un pittore, assurto a fama intemazionale, di cui in questo 1994, ricorre il centenario della nascita. Si tratta di Osvaldo Licini di Monte Vidon Corrado, paese del comprensorio fermano. Licini, vi vide la luce, esattamente il 22 marzo 1894. Dopo i primi studi nel paese natio si iscrisse all’Accademia delle Belle Arti di Bologna, dove conobbe Giorgio Morandi con il quale operò per lo svecchiamento del linguaggio pittorico, mirando al cubismo e al futurismo. Poco più che ven¬tenne partì volontario per la guerra. Ferito e mutilato, tornò poi a Parigi, dove era già stato sin dal 1915 prima del conflitto. Qui conosce Modigliani ed entra in amicizia con Apollinaire, Dino Campana, Jean Cocteau. Nel 1917 toma al paese natio e, da allora insegna nelle scuole medie di Fermo. Si reca spesso a Firenze e nel 1926 sposa la pittrice svedese JNanny Mellestrom e toma definitivamente a Monte Vidon Corrado, dove in volontaria solitudine, continua a dipingere. Dal 1946 al 1954, è sindaco di Monte Vidon Corrado e quattro anni dopo vince la Biennale di Venezia, esponendo 41 opere tutte acquistate da un gallerista di Bergamo. È la “ consacrazione” della sua fama! Oggi, le sue opere sono esposte nelle Gallerie d’Arte moderna di Roma, Milano, Torino, Parigi (Jeu de Paumes) e Mosca.

     A Fermo, ha ancora parenti ed amici e qui vive il dott. Carlo Ferrari che fu suo segretario comunale. Questi nel descrivere la semplicità quasi francescana del grande artista, racconta che in occasione di una ventilata visita del Prefetto di Ascoli al sindaco di Monte Vidon Corrado, cioè a Licini, il paesino non era in grado di offrire una degna ospitalità. Al detto dott. Ferrari che glielo faceva presente, Licini, allargando le braccia disse: “Se viene gli posso offrire mezzo litro da Cuti” (era il Florian del luogo). Quando dopo dieci anni di sindaco perse le elezioni, a Vito Concetti, alias “Cerchia”, il factotum del paese, affezionatissimo a Licini, e addolorato per la sconfitta, mostrando i suoi sigari, Licini disse: “Vedi Cerchià? Questi si possono spezzare, non piegare. Così io mi spezzo ma non mi piego”.

      Piccole cose, grandi geni! Non so se Licini fosse al corrente che il grande poeta latino Orazio, già prima di Cristo, aveva incontrato ed in un’osteria durante il suo viaggio a Brindisi il grande Virgilio, Mecenate e Vario (Sat. 1,5) e non so nemmeno se fosse al corrente che la frase “ mi spezzo ma non mi piego” era stata coniata dallo stesso Orazio: Frangar nonflectar (Odi III, 3). Tuttavia qui abbiamo la prova che, a distanza di luoghi, di secoli, anni e millenni, vi è identità di vedute e di “ filosofia” tra poeti e pittori. Del resto, non lo aveva detto lo stesso Orazio? La pittura è come la poesia: ut pictura poesis.

Anno 1973 – Provincia  “scippo”che non Scotti troppo. ( si riferisce al Ministro dell’Interno del tempo)

        Si nota in questi giorni un vivace scambio di “idee” per la ricostituendo érovoncia di Fermo, soppressa nel 1860 dal governo di Vittorio Emanuele II ed unita a quella di Ascoli meno popolata, meno ricca, meno colta, meno importante. Fermo e Provincia contavano 110.000 abitanti contro i 90.000 di quella di Ascoli. La provincia di Fermo  aveva 54 Comuni quella di Ascoli 52.L’estimo catastale di Fermo era si 19.137.848 lire;  di Ascoli12.929.333. Fermo aveva 46 cultori di scienze, lettere ed arti; Ascoli solo quattro. Medici, farmacisti, levatrici di Fermo erano 251; di Ascoli139, etc. Fu un vero e proprio “scippo” ai danni di Fermo!

Ma anche nel 1373 ci fu un tentato “scippo” da parte di Macerata che voleva per sé la Curia Generale delle Marche, togliendola a Fermo. Il pericolo era grave e se be dovetteoccupare addirittura Papa Gregorio XI (1370-1378) che si trovava ad Avignone. Reuterate, intense e martellanti erano le richieste e le pressioni di Macerata, per impadronirsi della Curia Generale, che era stata posta a Fermo dal Cardinale Egidio Albornoz in quanto “luogo più nobile e più sicuro per la conservazione dello Stato di Santa Romana Chiesa.

     Fra traslochi, beghe con i Cardinali francesi, con Re di Francia erc.  Il Papa da Avignone non può occuparsi personalmente della questione Fermo-Macerata. Incarica perciò oò Cardinale Ugo di Santa Maria in Portico, che scrive al Rettore della Marca d’Ancona Pietro, Vescovo di Oxfprd, al tesoriere e a tutti  i dirigenti della curia che quel trasferimento non s’ha da fare. Il passo della Bolla, redatto in un latino  politi ed armonioso, recita tra l’altro “…. La città di Macerata vuole che venga colà trasferita la Curia Generale della Marca, cioè il Supremo Tribunalem ora esistente nella città di Fermo …. ma il Papa non vuole ed espressamente si oppone. Noi – prosegue la bolla –  in considerazione dell’idoneità del luogo, della salubrità dell’aria, della comodità di accesso e di soggiorno, i Porti Marittimi dello Stato di Fermo, e l’abbondanza di ogni sorta di viveri e vettovaglie, rigettiamo la richiesta di Macerata, facendo presente che nessuno di voi osi tentare di favorire tale richiesta di trasferimento senza un ordine espresso da parte della Sede Apostpolica”. …. “Nessuno di voi pertanto, cioè Rettore, Tesoriere, officiali e componenti tutti della Curia, si muova da Fermo e non osi favorire le richieste di Macerata”

     Morto Gregorio XI (che nel frattempo era tornato a Rome 1376), subentrò Papa Bonifacio IX, il quale non solo confermò la permanenza della Curia Generale, ma nominò suo fratello Andrea Tomacelli “signore di Fermo e suo Stato”. Ciò avveniva di questi giorni, nel gennaio del 1398, cioè 594 anni or sono. Una curiosità: nella bolla del Cardinale Ugo si indicano i Porti Marittimi, per la conaca,  scritti con l’iniziale maiuscola (Portibus Maritimis).

     Sarà un auspicio perché l’”iter” della ricostituendo o  meglio restituendo provincia fermana giunga in “porto”. Allora il Papa e Cardinali si interessarono di Fermo, oggi i nostri Reggenti se ne infischiano. Attenzione che la faccenda, poi non “scotti” troppo!

Anno 1975 – La “Resurrezione” di Fazzini dimenticata dalla guida di Roma del Touring Club

       È Pasqua, la festa più importante per i cristiani; la festa che incentra in sé l’epilogo della vita di Cristo. “È risorto! Alleluia!”. Riecheggiano in questi giorni i canti della liturgia e mi sono andato a rileggere quella stupenda ode Victimae Paschali Laudes. Che poesia! Che alto lirismo! “La morte e la vita hanno combattuto una battaglia tremenda. Il duce della vita è morto, ma regna vivo! Che hai visto o Maria? Gli an¬geli, il sudario, la veste! È risorto”. Anche se è stato abolito il latino, e i meravigliosi Exultet, il Resurrexi ed il citato Victimae Paschali sono svaniti, ora (come è noto) c’è un revival del gregoriano e lo prova il grande interesse per i compact e il boom delle vendite dei dischi relativi. Gregoriano e Vangelo: È troppo bello; troppo verace!: “Era l’alba e molli in viso / Maddalena e le altre donne / fean lamento sull’ucciso / Ecco tutta la Sionne / si commosse la pendice / e la scolta insultatrice / di spavento tramortì /. Un estraneo giovinetto / si posò sul monumento / Era folgore l’aspetto / Era neve il vestimento / a la mesta che le chiese / die’ risposta quel cortese / E risorto, non è qui!”.

     Pasqua di Resurrezione. Per Fermo e dintorni, la storia ci narra che nel 1137 l’imperatore Lotario II, accorso in aiuto del Papa e cacciati dal¬la Marca Fermana i Normanni, passò qui le feste pasquali. Carducci nelle Rime Nuove, canta che Cristiano, Arcivescovo di Magonza (che l’anno dopo, 1176, distruggerà Fermo) si trovava accampato vicino Alessandria, sempre rapace e crudele (.. .e il magontino arcivescovo: accanto / de la mazza ferrata io porto l’olio santo / Ce ne’ è per tutti. Che almeno foste dell’Alpe ai varchi / miei poveri muletti d’italo argento carchi!!!!)”. Anche allora (1174), come farà per Fermo, saccheggerà ori e argenti.

Pasqua di Resurrezione. Quanti si sono commossi nel vedere in TV “Gesù di Nazareth” di Zeffirelli. Ebbene il soggetto col titolo “L’uomo di Nazareth”, è opera di Flaiano, che fu studente qui a Fermo col fratello.

    Pasqua di Resurrezione. Non la conosce (o non la vuole conoscere) l’ultima Guida di Roma del Touring Club Italiano uscita qualche mese fa. Parlando della Sala Nervi (capienza 12 mila persone) non menziona affatto la Resurrezione del nostro conterraneo Pericle Fazzini di Grottammare (1913-1987) e sì, che tale Resurrezione è conosciuta in tutto il mondo; i giapponesi l’adorano.

      Pasqua di Resurrezione. Ricordi dell’uovo a scoccetta; di capriole allo scioglimento delle campane, di quei due altissimi pioppi a fianco della fontana del paese natio; nella mia ingenuità di bambino pensavo che arrampicandomi su di essi, potessi giungere a toccare il cielo. Ora è piccola gioia constatare che sono più lontano dal cielo, di quando ero bambino.

     Pasqua di Resurrezione. Sia questa Pasqua l’inizio della Resurrezione della nostra patria. Anche Egli, il Risorto, amò la sua e pianse per le sfortune di Gerusalemme.

Buona Pasqua.

Anno 1989 – Nella biblioteca del Papa

     Il volume S. Benedetto del Tronto – Storia Arte e Folklore, sta mietendo successi ed è stata approntata la seconda edizione (Arti Grafiche D’Auria – Ascoli Piceno), che sarà prossimamente consegnata alla sede della Cassa di Risparmio di Ascoli, sponsor ed editrice di esso.

Esauritasi in breve la prima edizione, con le copie per i sambene- dettesi e clienti della Cassa, istituzioni scolastiche, culturali, etc., si è poi avuto un boom di richieste da parte di “addetti ai lavori”, università, biblioteche: da Aosta a Gorizia, dal Trentino alla Sicilia, sono piovute e piovono richieste, ma quello che più conta, consensi, positive valutazioni di tale opera, che pur con qualche menda tipografica, è comunque apprezzata e positivamente valutata. Ultimamente, una copia è stata do¬nata al Presidente del Consiglio on. Andreotti, nella sua recente visita a S. Benedetto e nella stessa occasione, è stata donata pure all’on. Merlo¬ni. Dall’estero sono pervenute richieste dal Canada, Usa, Germania, Spagna, Francia, Jugoslavia, segnatamente dalle città dalmate di Sebenico, Spalato e Ragusa. Sul tavolo della direzione della Cassa di Ri¬sparmio di S. Benedetto e su quello della Presidenza di Ascoli, giungono lusinghiere lettere di ringraziamento e di alto apprezzamento.

Un professore dell’università di Liverpool, Ch. H. Elough, venuto in Italia per un ciclo di conferenze, si è recato appositamente a Fermo per conoscere personalmente l’autore principale e il coordinatore del¬l’opera, il Prof. Nepi. Ma ciò che riempie di gioia l’animo degli autori, dei realizzatori e dello sponsor è il fatto che tale volume è giunto fino a Mosca dove lo ha richiesto il titolare dell’antica Diocesi di Truentum, l’Arcivescovo Francesco Colasuonno (è venuto a S. Benedetto quando è stato presentato il volume). Egli è forse la personalità di maggior spic¬co nei rapporti tra il Vaticano e i Paesi dell’Est, l’artefice delle riallacciate relazioni tra la Russia e il Vaticano! Ma gli autori debbono esultare per un’altra prestigiosa affermazione. Il giorno 8 ottobre il curatore e coordinatore dell’opera, Prof. Gabriele Nepi, trovandosi per ricerche in Vaticano, ha avuto la fortuna di poter consegnare personalmente a Pa¬pa Giovanni Paolo II tale volume e proprio mentre il Papa usciva dalla seduta del Sinodo dei Vescovi di tutto il mondo.

Ora nella biblioteca del S. Padre dove non sostano che volumi di éli¬te, l’opera S. Benedetto del Tronto preceduta da una originale dedica del Prof. Nepi, che ha fatto anche i nomi dei collaboratori e della Carisap, fa bella mostra di sé. Ce lo assicura una preziosa lettera di ringraziamento pervenuta al Prof. Nepi e comunicata immediatamente al presidente, avv. Vincenzo Aliberti. Ora non resta che il Presidente Cossiga.

Anno 1992 – Un monumento ai Caduti

     Domenica scorsa, sulla sommità del Girfalco, spettatore e attore delle vicende storiche di Fermo, si è inaugurato il monumento ai Caduti. Fermo era forse l’unica città d’Italia a non averlo. Vi erano sì delle lapidi, ma non un monumento che accendesse “a egregie cose il forte animo”.

     È stato innalzato emblematicamente nel giorno di S. Francesco, patrono d’Italia, a suo tempo anch’egli soldato a difesa della sua Assisi. Lo scultore Aldo Sergiacomi, dall’alto dei suoi 80 anni, ha il merito di avere innalzato sull’alto colle del Girfalco due monumenti: uno alla Patria (quello di oggi) e uno alla Religione (le magnifiche porte di bronzo della Cattedrale). Due monumenti topograficamente vicini e cari al cuore dei Fermani.

     Fermo si distinse nel corso dei secoli per il suo valore militare. Prima colonia, poi alleata di Roma, fornì a questa armi ed armati nelle guerre puniche; i suoi soldati combatterono a Canne e nelle altre battaglie contro Annibaie. Tenne fede a Roma nella guerra sociale e per l’aiuto precipuo dei Fermani, Gneo Pompeo Strabone, da assediato divenne as¬sediarne, espugnò Ascoli capo della rivolta e vinse gli italici insorti. Ci-cerone chiama i Fermani fratelli (Epist. 8 libro IV) per l’aiuto prestato. Ma in precedenza, i soldati Fermani si erano già imposti al rispetto e all’ammirazione di amici ed avversari. Plutarco nelle Vite Parallele nel narrare la vita di Catone, esalta il valore dei Fermani nella guerra con¬tro Antioco Re di Siria (193 a.C.). Qui un manipolo di soldati Fermani fu determinante per la vittoria romana. Tito Livio (Dee. V lib. IV) narra il valore di una coorte fermana nella guerra macedone contro Perseo nel 168 a.C. Più tardi si ebbero episodi di valore fermano nella guerra contro Marco Antonio (45 a.C.). Cicerone ne parla ancora nella Filippica VII, esaltandone le virtù militari.

     Sarebbe troppo lungo elencare gli atti di valore da Carlo Magno a Pipino (che vinse Grimoaldo Duca di Benevento grazie al valore dei Fermani); da Leone IX, che contrastò l’invasione normanna della Marca Fermana grazie al valore di Fermo; dallo Sforza, a Lepanto, ai caduti del periodo napoleonico e a quelli delle guerre d’indipendenza, fortu¬nate e sfortunate.

     Il monumento, quindi è simbolo di tanto valore! “Beatissimi voi che offriste il petto alle nemiche lance”, cantava Leopardi e proseguiva: “Prima divelte in mar precipitando / spente nell’ imo strideran le stelle / che la memoria e il vostro amor trascorra o scemi”… Il monumento servirà a ricordare ad ammonire… In quest’ora tragica e cruciale per la Patria, suoni, diana di riscossa dei valori civici e di amor patrio e, nel marasma della dilagante disonestà, sia faro che indichi la via delle antiche virtù.

     È questo l’invito imperioso che inviano da Fermo all’Italia tutta, i caduti di tutte le guerre. “A egregie cose il forte animo accendono l’urne dei forti… o Pindemonte!”.

Anno 1996 – La Diocesi di Fermo, prima in graduatoria

     Più che “la Storia racconta”, oggi dobbiamo dire “la Storia precisa e documenta”. In seguito ad un articolo apparso in concomitanza della recente promozione del Vescovo Chiaretti da S. Benedetto alla sede arcivescovile di Perugia si è parlato di una

possibile (?) soppressione delle Diocesi di S. Benedetto e di Fermo per unirle ad Ascoli, dato che l’articolo 16 del Concordato tra Stato e Chiesa dell’11-2- 1929 prevederebbe ciò.  

     Infatti tale articolo recita: “le parti contraenti procederanno d’accordo a mezzo di commissioni miste a una revisione nella circoscrizione delle Diocesi, allo scopo di renderla possibilmente rispondente a quella delle province dello Stato”.

     Ma allo stato dei fatti, la realtà si è dimostrata del tutto diversa da quanto deciso a tavolino. Tornando all’articolo 16, integrato dal successivo articolo 17, che prevede eventuali riduzioni, a mano a mano che la sede da “accorpare” si rende vacante, per S. Benedetto del Tronto c’è subito la “smentita” vaticana, in quanto, con decreto 30 settembre 1986 è stata eretta capoluogo della Diocesi S. Benedetto del Tronto-Ripatransone-Montalto.

     Attualmente, la graduatoria delle Diocesi ad Archidiocesi marchigiana è: prima assoluta Fermo che, da sola, ha 290.550 abitanti; seconda è Ancona-Osimo con 209.100 abitanti; terza è Macerata-Tolentino- Recanati-Cingoli-Treia con 133.500; quarta è Fano con Fossombrone- Cagli-Pergola con 133.392; quinta è Senigallia con 118.340; sesta è Pesaro con 114.021; settima S. Benedetto del Tronto con 113.500, che precede Ascoli con 107.100 abitanti. Seguono poi nell’ordine: Jesi (76.000), Camerino-S. Severino (60.000), Urbino-Urbania-S. Angelo in Vado (49.000), Fabriano e Matelica (52.000). Fermo è sede arcive­scovile metropolitana ed ha come suffraganee le Diocesi di Macerata, Tolentino, S. Severino, Recanati, Cingoli, Treia, S. Benedetto del Tronto, Ripatransone, Montalto Marche.

L’erezione dell’Arcidiocesi risale al 1589. È sede del Tribunale ecclesiastico per le cause matrimoniali, l’unico per tutta la regione, ma che abbraccia anche taluni comuni dell’Abruzzo, in quanto giurisdi­zione di Diocesi marchigiane.

Alla luce di quanto sopra, non sembra che S. Benedetto e tanto meno Fermo possano essere soppresse ed accorpate ad altre Diocesi minori. Riguardo all’attuazione del Concordato del 1929, le clausole del nuovo accordo tra la Santa Sede e il Governo Italiano, firmato a Villa Madama il 18-2-1984 ed entrato in vigore il 25-3-1985, non prevedono quanto stipulato in quello del 1929, anzi il nuovo recita te­stualmente che le disposizioni del Concordato Lateranense “non ri­prodotte nel presente testo sono abrogate”.

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Curiosità di storia di Fermo e del Fermano nel secolo XIX di Gabriele Nepi 1996

1808 – Il “complotto dei tredici” fallì e Napoleone li fucilò   p.

1809 – Napoleone la cancellò   p.

1810 – Napoleone e il decreto sui camposanti   p.

1810 – Un dì felice ma Napoleone voleva che si festeggiasse solo il suo compleanno   p.

1812 – Quando il Viceré nominava i “sindaci”   p.

1818 – E nacque “Stille Nacht”, un canto universale   p.

1821- Leopardi “devoto servitore” del canonico fermano   p.

1822- Diploma firmato Antonio Canova   p.

1827- I Promessi Sposi di Fermo   p.

1834- La “Cencia” di Belli – La passione del poeta molto legato al Fermano   p.

1840 – Diventò un palio venerato e protettore   p.

1843 – Il matrimonio felice del conte Gigliucci e del soprano Novello   p.

1845 – Fermo ed i Fermani nel giudizio di Mommsen   p.

1846 – Ancora sul Conclave di Pio IX   p.

1846 – Due Fermani protagonisti nel Conclave che elesse Pio IX   p.

1848 – In tempi di Tangentopoli ripensiamo al primato nelle scienze e nelle arti   p.

1849 – Cinque erano gli assassini, solo tre divennero eroi   p.

1849 – Garibaldi a Fermo, la truppa a Porto S. Giorgio   p.

1849 – Il Cardinale odiato dalla Repubblica Romana e da Cavour   p.

1849 – il letto dove dormì Garibaldi si conserva ancora intatto   p.

1852 – I.T.I., il buon nome non tramonta “Mai”   p.

1855 – Il Cardinale De Angelis rifiuta Bologna   p.

1857 – Avvenne in una festa di colori la visita di Pio IX in Ancona   p.

1857 – Fischiate, fischiate pure, disse Pio IX alla folla   p.

1857 – I contadini videro insieme il Papa e il mare per la prima volta   p.

1857 – Sfarzose scenografie in onore di Pio IX   p.

1859 – Candido Augusto Vecchi e Mercantini   p.

1860 – Plebiscito   p.

1860 – Feste, battute di caccia, amori per Re Vittorio Emanuele II   p.

1860 – Il “regalo” dei Piemontesi   p.

1860 – Il plebiscito ed il giallo delle schede   p.

1860 – Moti in piazza contro i “tagli” piemontesi   p.

1860 – Provincia scippata; fu ritorsione?   p.

1860 – Quando il Cardinale era perseguitato   p.

1860 – Ricordando Vittorio Emanuele (1878-1978) nelle Marche   p.

1867 – Carnevale 1867: don Bosco arriva a Fermo   p.

1873 – Mons. Camilli e la Romania   p.

1874 – La notte dell’Epifania del 1874 a Montefiore   p.

1876 – Carducci e il dialetto di Fermo   p.

1878 – Omaggio al poeta – Fermo, il monumento a Leopardi ha 114 anni   p.

1880 – Quante “papere” doc   p.

1882- Ancora Gabriele D’Annunzio a Porto S. Giorgio   p.

1883 – D’Annunzio e il Fermano   p.

1883 – Niente esonero per commemorare Garibaldi   p.

1888 – Il clinico che curò Carducci e D’Annunzio   p.

1888 – L’eredità di Temistocle Calzecchi-Onesti   p.

1892 – Sul più famoso vocabolario latino “Campanini e Carboni” hanno studiato”   p.

1895 – 1895-1995: L’ultimo Cardinale a Fermo, Amilcare Malagola   p.

1895 – Un campanello sotto il letto del Cardinale aprì la strada alla scoperta di Marconi    \\\\\\\\\\\\\\\\\\\

Anno 1818 – E nacque “Stille Nacht”, un canto universale

     Feste di Natale! In questi giorni, ricorrono grandi eventi in cui so no coinvolti Fermo ed il Fermano: la vittoria di Pompeo Strabone sugli Italici e la caduta di Ascoli (89 a.C.); la morte di Iacopone da Todi, o meglio Giovanni da Fermo; la nascita del Cardinale Bemetti, governatore di Roma, il Cavour dello Stato Pontificio.

Ma siamo, come detto, nel clima natalizio e non è il caso parlare di guerre, assedi, prigionie. Nel clima suggestivo di Natale, non possiamo passare sotto silenzio le note dolcissime del Lied natalizio “Stille Nacht, Heilige Nacht” (Notte serena, notte santa) nota ora dall’“uno all’altro polo”, a tutti i popoli e religioni.

Era il Natale del 1818; da poco era cessata la bufera napoleonica. Dopo il Congresso di Vienna, l’Europa stava faticosamente tornando alla normalità. A Obemdorf, villaggio a 15 chilometri da Salisburgo, patria di Mozart, il Natale si prospettava grigio e senza canti. L’organo della chiesa parrocchiale era inservibile perché rosicchiato dai topi. Inconcepibile un Natale senza canti, senza musica! Il parroco, don Josef Mohr, compone alcuni versi e corre ad Amsdorf, a tre chilometri di distanza, per chiedere aiuto a Franz Xaver Gruber il maestro di scuola che è anche organista e sacrestano.

Occorre musicare l’inno composto dal parroco… Gruber accetta e, in meno che si dica, modula su una vecchia spinetta la musica. E nato “Stille Nacht, Heilige Nacht!” Le note si diffondono armoniose e patetiche, commoventi e delicate. È nato il canto di Natale, universalmente noto ed apprezzato in tutto il mondo: “Notte Santa, notte di pace! All’intorno è tutto buio eccetto lo splendore che si irradia dalla Vergine e dal Bambino, Santo Infante tenero e delizioso che dorme in una pace celeste”…

Oggi non c’è popolo o nazione che non conosca tale canto e non vi è luogo sacro in cui non echeggino le note nate in quella Notte Santa del 1818, quando don Josef Mohr e Franz Xaver Gruber, donarono al mondo la più bella poesia e la più dolce musica di Natale.

Anno 1821 – Leopardi ‘devoto servitore’ del canonico fermano

     Fermo sin dal secolo XIII fu sempre in ottime relazioni con Recanati e l’amicizia tra le due città aumentò nel corso dei secoli. Prova ne sia, che sulla Torre del Borgo, immortalata da Leopardi, ancor oggi spicca lo stemma di Fermo con la legenda “Firmane amicitiae documentum et pignus”: pegno e documento dell’amicizia fermana. Anzi, secondo l’autorevole Corriere della Sera (VII, 1987) la famiglia Leo¬pardi proveniva dal Fermano.

     A Fermo, Giacomo Leopardi ebbe (ed ha) molti ammiratori. Abbiamo addirittura lettere scritte di suo pugno a studiosi fermani; tra questi, il canonico Ignazio Guerrieri che, in suo onore, aveva tradotto in latino la “canzone ad Angelo Mai”, scopritore, fra l’altro, del “De Republica” di Cicerone. Il Guerrieri spedì a Giacomo il manoscritto per un giudizio e Leopardi risponde in data 26 ottobre1821 da Recanati: “Pregiatissimo signor canonico, quantunque non abbia ricevuto il manoscritto di cui mi parla, non voglio tardare a rispondere… e ringraziare la VS della gentilezza che si compiace usarmi. Come ricevo il manoscritto, avrò cura di leggerlo subito, non per giudicare come Ella dice, ma per conoscere e pregiare il valore della SV nelle lettere latine…”. Dopo tre giorni, il 29 ottobre 1821 il Leopardi scrive di nuovo: “Stimatissimo signor canoni¬co. Ho ricevuto coll’ultimo ordinario e letto accuratamente il manoscritto di VS, dove tutto è degno di molta lode, fuorché il soggetto, o la scelta dell’originale. Desidero che la traduzione ricuopra i mancamenti del primo testo, e che le mie canzoni col nuovo abito, facciano più bella com¬parsa. Rimando il manoscritto, dove parecchi falli del copista e segnata- mente molte negligenze nella punteggiatura, non sfuggiranno all’avve¬dutezza di VS quando ve lo passerà… rendendo grazie di avere voluto ammaestrare le mie canzoni contro il merito loro nella favella de’ nostri padri, me le professo particolarmente obbligato…” etc. La lettera chiude con: “suo devotissimo obbligatissimo servitore f.to Giacomo Leopardi“.

      Non sembra che il canonico abbia fatto una splendida figura, ma dopo 174 anni l’ha fatta e superlativa il prof. Olindo Pasqualetti, che insegna ed abita a Fermo. Egli ha tradotto in distici latini e greci l’Infinito, che, pubblicato a cura del Centro Studi Leopardiani, gira per il mondo. Vincitore di certami europei e intemazionali, le sue traduzioni avrebbero avuto i complimenti del cantore di Silvia. Al Guerrieri i puntini sulle i; al Pasqualetti: “magnanimo campion”.

Anno 1822 – Diploma firmato Antonio Canova      

     Non ricorrono né centenari, né cinquantenari, eppure il 1992 è stato proclamato l’anno del Canova sotto l’alto patrocinio del Presidente della Repubblica, del ministro Bernini, presidente del comitato diretto dal prof. Sisinni e del comitato scientifico presieduto da Giulio Carlo Argan.

     Antonio Canova, il famoso scultore, cantato dallo Zanella, celebrato ed apprezzato in tutta Europa, richiesto dall’Inghilterra di scolpire il monumento a Nelson, ha qualcosa a che fare con Fermo. Non sono certo le stupende statue esposte alla mostra di Venezia, undici delle quali vengono dal museo di S. Pietroburgo, statue di levigata, abbagliante bellezza, ma un diploma con firma originale di Canova. “All’egregio Architetto romano Antonio Brunetti. L’insigne Romana Accademia del Disegno detta di S. Luca… si è sempre fatta pregio di accogliere nel suo grembo valorosi artisti di Merito e Romani e Stranieri”, così recita il diploma che dopo varie considerazioni aggiunge: “Essendosi resi noti ad essa i sublimi vostri talenti ed il sommo valore da Voi dispiegato nel-l’Architettura, aggregatasi il 28 del cadente aprile, e tenuto proposito sulla vostra degna Persona, di Comune consentimento, ha risolto di annoverarvi fra i suoi Accademici di Merito e darvene con la presente chiara testimonianza… Dalla stanze Accademiche in S. Apollinare il 30 aprile 1822. Firmato Antonio Canova”.

     Tale atto fu rilasciato e firmato pochi mesi prima della scomparsa di Canova, il quale, come noto, morì a Venezia il 13 ottobre 1822. Vi sono però altre liaisons tra Fermo e Canova… “Coinquilini” alle 11 statue che si conservano all’Ermitage, sono i bozzetti della Natività del Rubens, dipinto che troneggia nella civica Pinacoteca di Fermo. Un Cardinale fermano, Tommaso Bemetti, segretario di Leone XII, nel 1826 fu colà delegato a rappresentare il Sommo Pontefice all’incoronazione dello Zar Nicola I.

     A Fermo si conservano molti altri autografi di personalità famose (tra essi Mazzini, Garibaldi, Carlo I, vari papi, dogi e pascià) ma la città deve essere fiera che la stessa mano che ha scolpito Amore e Psiche (ri¬petutamente baciata da Flaubert), Napoleone, Le Tre Grazie, i Papi Clemente XIII e XIV, ha firmato di suo pugno un documento ora gelosamente conservato nella Biblioteca Civica Fermana.

Anno 1827 – I Promessi Sposi e Fermo

     Nel corso dei secoli, a cominciare dagli autori della Grecia antica, molti si interessarono di Fermo. Anzi, i fermani si recarono a scuola da Pitagora nella Magna Grecia (sec. V a.C.) prova della sete di sapere dei cittadini di quella che sarà poi la “città degli studi”.

     Di Fermo parla Strabone nella sua opera in greco sulla “Geografia”. Silio Italico (sec. I d.C.); Plinio, morto nel ’79 d.C. nell’eruzione del Vesuvio; Procopio di Cesarea (V, VI sec. d.C.); Velleio Patercolo; Plutarco; Liutprando; Appiano Alessandrino; Cicerone; Giulio Cesare.

     Ne parlano anche autori cristiani come S. Agostino, ne parla anche S. Gregorio Magno che incaricò il Vescovo del tempo ad occuparsi delle Diocesi di Ascoli e Teramo; ne parla anche Papa Gregorio VII, quello famoso per Canossa e così via. Se dovessimo soffermarci ad elencare tutti quelli che hanno scritto o parlato, fino ai recenti, come Fanfani, Giovanni Paolo II, Spadolini, Volponi, etc., non basterebbero molte pagine.

Ma fra gli autori non possiamo tacere Carducci che lodò l’indole, il dialetto ed il paesaggio di Fermo, né dimentichiamo Giulio Cesare Croce (1550-1609) autore di “Bertoldo e Bertoldino” integrati poi con “Cacasenno” per opera del monaco A. Banchieri. In tale volume si parla, e come, di Fermo.

      Ma un altro luminare, celeberrimo nella letteratura italiana, Alessandro Manzoni parla di Fermo, ovviamente non della città, ma del personaggio-protagonista. Fermo, con Lucia, appariva nella prima ste¬sura del fortunatissimo romanzo “I Promessi Sposi”. I protagonisti amorosi erano: Fermo e Lucia, poi cambiati in Renzo e Lucia e con tale binomio consacrati alla gloria e alla fama. Ma tra i principali “attori” c’era anche Vittoria cambiata poi in Perpetua, entrata per antonomasia ad indicare la donna a servizio di un sacerdote o qualsiasi domestica anziana e ciarliera. Manzoni dice che lei perpetua che era “serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione”. Lei, di fronte alla paura di don Abbondio, rappresentava il buon senso popolare.

     Noi però, anche se scherzosamente, dobbiamo bocciare il grande Manzoni e (dato che è stato tolto l’esame di riparazione) bocciarlo definitivamente. Infatti (continuando sempre nelle descrizioni di Perpetua) dice: “che era celibe” (non nubile, come avrebbe dovuto dire), … “aveva passata l’età sinodale dei 40, rimanendo celibe, per aver rifiutato tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevano le sue amiche…”.

     Quindi Manzoni “bocciato” e “bocciato” due volte; prima per l’errore di Perpetua, poi per aver cambiato Fermo e Lucia con Renzo e Lucia. Ai fermani ne sarebbe venuto un notevole vantaggio e di propaganda e di immagine.

     Tuttavia questa seconda “bocciatura” potrebbe essere annullata per il molto tempo trascorso. Rimane però quella (imperdonabile, in un autore di tale “stazza”), di celibe…

Anno 1834 – La “Cencia” di Belli – La passione del poeta molto legato al Fermano

     Ricorre quest’anno il secondo centenario della nascita di Gioachino Belli, il grande poeta “romanesco” che ebbe relazioni con il Fermano e con Fermo quale ispettore del demanio del Governo Pontificio. Da noi ebbe amicizie e conoscenze ed a Morrovalle un’amica: la marchesa Vincenza Roberti affettuosamente chiamata “La Cencia”. A lei dedicò molti sonetti (tra cui un bellissimo acrostico) tali da costituire un vero e proprio canzoniere amoroso. Il Belli la incontrò a Roma quando lei aveva 21 anni, splendida, colta, vivace. Sebbene già sposato, se ne invaghì ed anche dopo le sue nozze col medico condotto di Morrovalle, Pirro Perozzi, continuò a frequentarne la casa. Anzi sperava che il figlio Ciro sposasse la figlia di lei, Matilde, ma Ciro si era già invaghito di un’altra e non se ne fece nulla.

    A Morrovalle in casa della diretta discendente della “Cencia”, Nella Scattolin, sono stati rinvenuti recentemente due sonetti che sembrano inediti. Uno è “Napoleone all’Isola di S. Elena”, l’altro “A Gregorio XVI”. Una annotazione in calce ci parla di un cambiamento, fatto proprio da “Cencia”. Nei suoi sonetti, Belli parla anche di Fermo e di taluni cittadini fermani come il Cardinale Tommaso Bernetti, segretario di Stato. Parlando di Fermo lo pone sullo stesso piano di Napoli, Firenze, Genova etc. per “fornitura” alla sede pontificia, di prelati e di cardinali.

      Ovviamente parla anche di Belluno, patria di Gregorio XVI allora pontefice: “Li prelati e li Cardinali. Pijjete gusto: guarda a uno a uno / Tutti li Cardinali e li Prelati; / E vvederai che de romani nati / Sce ne sò ppochi, o nnun ce n’è ggnisuno. / Nun ze sente che Napoli, Bbelluno, / Fermo, Fiorenza, Ggenova, Frascati… / E cqualunque scittà Ili ppiù affamati / Li manna a Rroma a ccojjonà er diggiuno. / Ma ssarìa poco male lo sfamalli: / Er pegg’è cche de tanti che cce trotteno / Li somari sò ppiù de li cavalli. / E Rroma, indove vienghero a ddà ffonno, / E rrinnegheno Iddio, rubben e ffotteno. / È la stalla e la chiavica der monno. / 27 maggio 1834.

     Belli morì nel 1863 quando Roma era ancora governata dai Papi; la “Cencia”, nel 1884, dopo quasi vent’anni. A Roma, dove è sepolto al Verano, un monumento a Trastevere, un busto al Pincio ed una Via lo ricordano ai posteri. A Morrovalle, poche settimane or sono, gli hanno dedicato una via. Fermo dove esiste ancora qualche rampollo delle sue vecchie amicizie, lo ricorda per “li prelati e li cardinali” riconoscente per averla posta terza, in graduatoria, nella “esportazione” di eccellenze ed eminenze.

Anno 1840 – Diventò un palio venerato e protettore

     Mentre si stanno spegnendo gli echi del Palio e della Cavalcata dell’Assunta, che si corre a Fermo da oltre novecento anni, piace ricordare un evento che ha aspetti affascinanti e miracolosi.

Si era nel 1840! Come da secoli, anche in quel 15 agosto ebbe luo­go la corsa del Palio dell’Assunta vinto da un cittadino di Offida: Giu­seppe Desideri, in sella ad una velocissima cavalla bianca. L’Arcivescovo di Fermo, Cardinale Gabriele Ferretti, gli consegnò il premio con­sistente in un palio con ivi dipinta la Vergine Assunta, patrona di Fer­mo. Esultante, Desideri lo riportò in triondo nella sua Offida e lo espo­se nella sua casa alla visione ed all’ammirazione di tutti. Era il trofeo di una vittoria squillante, conseguita brillantemente, nonostante il numero e l’alta professionalità dei cavalieri partecipanti, provenienti da ogni parte della penisola.

Dopo due anni, essendo ristrutturate le carceri, la sacra immagine fu collocata nell’oratorio del penitenziario, dove rimase esposta alla ve­nerazione dei devoti, finché l’^tt»4«gli0 1850, Maria Giuseppina Loffreda, figlia del carceriere, la quale si recava spesso a pregare davanti alla sacra immagine, ebbe un sussulto. La Madonna muoveva ripetuta- mente gli occhi. Spaventata, corse, gridando, a chiamare gente. Gli ac­corsi videro chiaramente la Vergine muovere gli occhi, come la vide il giorno 12 luglio il vicario del Vescovo di Ascoli, mandato sul posto per rendersi conto di che si trattava. Mons. Giudo Poggetti (tale è il suo nome) ordinò che il Palio fosse portato nella chiesa collegiata, dove ancor oggi si venera, collocato nella cappella Pigliardi.

La fama dell’accaduto si sparse in un baleno e da quel giorno la sa­cra immagine, o meglio il Palio vinto a Fermo da Giuseppe Desideri, fu considerata dagli offidani quale loro protettrice. E non invano! Nel 1855 mentre infuriava il colera che mieteva vittime ovunque (basti pensare che nella vicina S. Benedetto, in un solo giorno morirono ben 63 perso­ne), gli offidani si rivolsero alla loro protettrice e furono salvi.

Per voto, promisero di effettuare per cento anni, ogni otto luglio, una solenne processione con la partecipazione del clero, magistrature cittadine e confraternite; ciò quale ringraziamento dello scampato peri­colo. Ma non basta! La Vergine del Palio, salvò Offida l’otto giugno 1944 dalla distruzione.

I tedeschi in ritirata, avevano posto delle mine sotto la chiesa di San­ta Maria della Rocca. Gli offidani in preda al panico, promisero alla Vergine che se li avesse protetti, il voto della processione sarebbe dura­to fino al 2000. Nonostante i ripetuti e rabbiosi tentativi dei tedeschi di far brillare le mine, queste non scoppiarono e la cittadinanza fu salva. In questi giorni, a Fermo, nel Palazzo dei Priori, una grande foto e stampe dell’epoca, ricordano l’evento. C’è fra esse la foto nelle dimensioni ori­ginali del Palio, raffigurante la Vergine Assunta che, ripetutamente, ha protetto Offida da quel 15 agosto 1850 a tutt’oggi.

Anno 1843 – Il matrimonio felice del conte Gigliucci e del soprano Novello       

In sweetest harmony they lived: essi vissero nella più dolce armonia! Epitaffio più acconcio non si poteva apporre sulla tomba di Clara Novello e Giovan Battista Gigliucci. È una frase dal Saul, del musicista George Friederich Haendel, scelta per una cantante famosa, Clara Novello (figlia di un oriundo italiano e di madre inglese). Il Times Musical del 10 aprile 1810 la definiva “il più grande soprano inglese di questo tempo”; Mendelssohn e Schumann la descrissero come “prodigio musicale” ed “esecutrice meravigliosa”.

     Dopo gli allori mietuti in patria, nel 1839 venne a Milano, divenen¬do famosa anche in Italia; nel 1842 la troviamo a Bologna, dove Rossini la scelse quale soprano per lo Stabat. Mentre era in questa città, il con¬te Giambattista Gigliucci di Fermo, fu mandato colà per prendere con¬tatti e scritturarla per la stagione lirica fermana dell’agosto 1842. La Novello venne; cantò nella Saffo suscitando l’entusiasmo e l’ammirazione dei fermani, che pubblicarono anche un disegno eseguito da Gaetano Palmaroli. Dopo la stagione di Fermo, se la contesero Roma e Genova. Si verificava quanto di lei Charles Famb scriveva sull’Athenaeum del 26 luglio 1834: Women lead men by thè uose some cynics say: You draw them by thè eara delicate way cioè: “Qualche cinico afferma che le donne menano gli uomini per il naso; tu invece in modo più delicato, coll’armonia”.

      Ma l’incontro del conte Giambattista Gigliucci con Clara a Bologna, avvenuto nel 1842, portò a un matrimonio che venne celebrato il 22 novembre 1843, nella parrocchia di Paddington. Clara Novello, ora contessa Gigliucci, venne a Fermo e vi trovò l’ambiente ideale per la sua arte. Vi erano i maestri di canto, come Carlo Mora e Francesco Cellini, e Alessandro Marziali maestro di suono; i fratelli Giuseppe e Fudovico Graziani.

     Fa sera del 18 agosto 1846, spopolò con una esibizione musicale improvvisata, in onore di Pio IX. Diede poi concerti di beneficenza ai quali partecipò anche il Cardinale De Angelis. In uno di detti concerti, tale fu l’esibizione, che il Cardinale che aveva firmato per un’offerta di 200 scudi, ne elargì altri 200! Mutarono poi i tempi; venne la Repubblica Romana con Armellini, Mazzini e Saffi. Restaurato il governo pontificio, il conte fu preso di mira dalla polizia. Fu costretto da Martinsicuro, dove aveva i beni, a tornare a Fermo su un carro di buoi.

     Nel 1850 i due coniugi emigrarono in Portogallo e l’anno  seguente a Londra. Tornarono il 3 novembre 1860 per dare (il conte) il voto al Plebiscito del 4-5 di tale mese. Fu accolto con entusiasmo. La famiglia dimorò qui e la contessa Clara continuò a dare concerti. Ma il 29 marzo 1863 il conte si spense. Clara lo seguì il 12/3/1908; entrambi spirarono a Roma, dove si recavano a passare la stagione invernale. L’epi-taffio che contraddistingue la loro tomba è il più bell’elogio alla loro armonia coniugale e al genio canoro di Clara: “In sweetest harmony they lived!”.

Anno 1845 – Fermo e i Fermani nel giudizio di Mommsen

      Spesso un diario, un atto di vendita, un contratto, una donazione, testamento, letti dopo molti anni, gettano nuova luce su fatti e vicende, correggendo più d’una volta la storia ufficiale. Da una pagina del “Viaggio in Italia” di Teodoro Mommsen scritta il 26 luglio 1845. apprendiamo qualcosa dei fratelli De Minicis, nati a Fermo sulla fine 1700.

Di profonda cultura, raccoglitori appassionati e intelligenti di materiale archeologico e bibliografico, illustrarono monumenti e memorie storiche della zona pubblicandoli in volumi, creando inoltre un cospicuo museo e una preziosa raccolta numismatica.

     Quando Mommsen venne a Fermo il 26 luglio 1845, scrisse nel suo diario: “Ho fatto visita al Signor De Minicis, la cui abitudine di andare a letto alle 3 e alzarsi alle 11, stava quasi per mandare a monte l’incontro. Sono riuscito tuttavia a fare in modo che egli fosse svegliato, sebbene la cosa non fosse facile. Era altamente onorato e mi ha annoiato molto con la sua vanità epigrafica; se io avessi copiato una pietra del suo museo ricco di iscrizioni di Faleria e di Firmum, avrei dovuto citare il Museo De Minicis. Le iscrizioni nel palazzo pubblico le ho copiate; De Minicis ha pronta una raccolta di quelle di Fermo, che può essere utile per un Corpus. Per il resto il tipo è ignorante quanto gentile.

Sarei rimasto volentieri più a lungo nel suo museo, ma non volevo perdere la diligenza. Ora sono seduto qui a Porto di Fermo, impazien¬te di sapere come andrò in Ascoli”.

    Sebbene il giudizio e l’appellativo di “ignorante” ci sembri poco generoso, tuttavia dalla pagina si evince che, dopo tutto, Mommsen era interessato al museo e non sono da buttare o sottovalutare le ricerche e le acquisizioni storiche effettuate dagli studiosi locali che vivono sul posto e che spesso forniscono la “materia prima” a “luminari” forestieri.

     Mommsen, nella stessa pagina, dice di Fermo: “La città si trova sopra un alto monte che domina tutti i dintorni, sulle cui vette collinari c’è una gran quantità di paesi. Sulla collina dove si trovano la Cattedrale ed il punto più alto della città, si ha una magnifica vista del mare; l’Appennino è ancora coronato di un po’ di neve. La città è abbastanza antica, piena di brutte chiese; ma faccio eccezione per la Cattedrale”.

Anno 1846 – Ancora sul Conclave del 1846: le tabelle dell’elezione di Pio IX

     “Mentre la cristianità esulta per /’ elezione del nuovo Papa, ospitiamo questa testimonianza del Prof. Gabriele Nepi, il quale rivela precedenti storici sul papato che ci riguardano da vicino. Infatti si riferi¬scono al Conclave che portò all’ elezione di Pio IX (conclave che si svose nei giorni 15-16 giugno 1846), nel corso del quale si ebbero soltan¬to quattro votazioni e fu, pertanto, uno dei più brevi della storia”. Così la nota introduttiva de II Resto del Carlino del 17 ottobre 1978, giorno successivo all’elezione di Giovanni Paolo IL

     Nonostante tutte le proibizioni, i “bruciamenti” ed i segreti con cui sono coperti i risultati di tali elezioni, abbiamo trovato le tabelle di scrutinio, che portarono all’elezione di Pio IX. Ne parliamo, sia perché sia¬mo nel centenario della morte del grande Pontefice, sia nel clima dell’elezione di Giovanni Paolo IL

     In queste tabelle sono elencati i nomi dei 62 Cardinali che allora componevano il Collegio Cardinalizio. Vi si riporta persino il numero dei Cardinali in conclave: 49; uno assente per malattia, mentre i Cardinali di Curia assenti erano 12. Le tabelle riguardano la votazione del 15 giugno (mane XV junii 1846), quella della sera del 15 giugno (vespere XV junii), e le successive del 16 mattina e della sera del giorno 16 che portarono all’elezione (mane XVI junii) e (vespere die XVI junii 1846).

     C’è da notare che nell’ultimo scrutinio, fra i tre scrutatori figurava anche il Cardinale Mastai che ha potuto così vedere in prima persona il “crescendo finale” della votazione che lo portò all’elezione. Fra i nomi dei cardinali, spiccano i nomi di Micara. Macchi. Lambruschini Luigi (un ligure che sarà l’antagonista di Pio IX, tanto che nella prima votazione ottenne 15 voti), Castracane e Mattei. Tutti questi dell’ordine dei vescovi! Dell’ordine dei preti vediamo invece: Opizzoni, Fransoni (di Torino), Barberini, Patrizi, Polidori, Della Genga, Mezzofanti (il famoso poliglotta che conosceva oltre cento lingue, lo dice G. Ricciotti in “Osservatore Romano” del 18-2-1949), De Angelis Filippo (il Cardinale Arcivescovo di Fermo), Ferretti (di Ancona), il nostro Giovanni Ma-stai-Ferretti, Gizzi, Gagiano de Azevedo, immortalato da Leopardi (Italo ardito a che giammai non posi).

     Dell’ordine dei diaconi (ricordiamo solo i più noti): Tommaso Ria- rio Sforza, Tommaso Bemetti (nativo di Fermo, che formò in conclave un forte gruppo che ostacolò il Lambruschini e che sarà poi segretario di Stato di Pio IX, come lo fu per Gregorio XIV) etc…

     Le votazioni del primo scrutinio danno: Cardinale Lambruschini voti 15; Mastai voti 13; Soglia voti 4; Falconieri voti 4; De Angelis voti 4; Fransoni voti 3; Micara voti 1 ; Opizzoni voti 3; Polidori voti 2; Della Genga voti 2; Mai voti 1; Orioli voti 1; Ferretti voti 1; Pianetti voti 1; Gizzi voti 2. Quindi nella prima votazione si fronteggiano il Cardinale Mastai con voti 13 e Lambruschini con voti 15.

     Il secondo scrutinio del pomeriggio del 15 giugno dà i risultati seguenti: Lambruschini voti 13; Mastai voti 17; Macchi voti 4; Fransoni voti 3; Soglia voti 2; Patrizi voti 4; Alberghini voti 1; Polidori voti 2; Della Genga voti 2; Mai voti 1; Falconieri voti 4; Orioli voti 1; De Angelis voti 4; Ferretti voti 1; Acton voti 7; Altieri voti 1; Gizzi voti 2.

     Terzo scrutinio del 16 abbiamo; Mastai voti 27; Lambruschini voti 11; Macchi voti 4; Ostini voti 1; Opizzoni voti 1; Patrizi voti 3; Mai voti 1; Soglia voti 2; Falconieri voti 6; Orioli voti 2; de Angelis voti 5; Ferretti voti 1; Altieri voti 1; Gizzi voti 2; Antonio Cadolini voti 1 (so¬no due i Cadolini: Ignazio e Antonio).

    La votazione finale che ha luogo nel pomeriggio del 16 giugno, ha per scrutatori i Cardinali Amati, Mastai e Fiaschi. I risultati sono: Ma-stai voti 36; Lambruschini voti 10; Macchi voti 2; Fransoni voti 1; Patrizi voti 3; Falconieri voti 4; Orioli voti 1; De Angelis voti 6; Altieri voti 1; Gizzi voti 1. Così il Cardinale Mastai-Ferretti viene eletto Sommo Pontefice; data l’ora tarda, l’annuncio al popolo viene dato il giorno dopo dal balcone del Quirinale.

     C’è da notare a questo punto che, insieme al Mastai, era in predicato per l’elezione al pontificato un altro marchigiano, il già nominato Cardinale Giovanni Soglia, Vescovo di Osimo. Già sin dal 2 giugno 1846 nei rapporti dei vari ambasciatori ai loro governi sui nomi dei papabili si facevano i nomi di Mastai e del Cardinale Soglia, Vescovo di Osimo (Rassegna Italiana Risorgimento 1940, pag. 40).

     Ma ora, l’interrogativo: come mai le tabelle di scrutinio, documento tanto segreto e tanto importante, sono finite nelle Marche e precisamente della biblioteca comunale di Macerata, dove sono custodite gelosamente? Ciò sorprende, data la scrupolosa cura ed il segreto con cui sono coperti tali atti. Forse saranno pervenute a Macerata attraverso canali sconosciuti del palazzo del Quirinale dove, come visto, si sono svolte quelle elezioni (vi si svolsero i conclavi che videro eletti Leone XII (1823), Pio Vili (1829), Gregorio XIV (1831) e il nostro Pio IX).

     Dalla presa di Roma (20-9-1870), tutti gli altri conclavi ebbero luogo in Vaticano e non è escluso che nella confisca di archivi e biblioteche di Roma (oltre 60 arricchirono quella che è oggi la Biblioteca Nazionale) qualcuno, all’atto del trapasso dei beni, abbia preso le tabelle, poi finite nella biblioteca di Macerata. Non sappiamo nulla di certo! Queste sono soltanto ipotesi. Sappiamo però che questo è il solo ed unico documento del conclave del 1846, esistente fuori dal Vaticano dove (sono parole di P. Martina il più profondo conoscitore della vita di Pio IX) non si ritrova la relazione ufficiale del conclave del 1846. Alberto Serafini autore di una voluminosa vita su Pio IX, asserisce che fortuna¬tamente si conserva un resoconto almeno (allude al ns.) del conclave… in cui riuscì eletto Pio IX.

     Da altre indagini, corrispondenze e controlli presso archivi romani, non si escluderebbe la possibilità che vi possano essere altri documenti, simili al nostro. Tuttavia, e lo ribadiamo, è certo che Macerata ha l’alto onore di possedere un documento importantissimo, l’unico esistente fuori dal Vaticano che registra le varie fasi che portarono al soglio di Pietro Papa Mastai, il Papa che regnò più a lungo di tutti i Pontefici.

Anno 1846 – Due fermani protagonisti nel conclave che elesse Pio IX

     Il 16 ottobre ricorreva l’anniversario dell ‘elezione al pontificato di Papa Woityla. Un altro Papa fu eletto il 16 di un mese: era il 16 giugno 1846 e il Papa si chiamava Pio IX. Nella vicenda dell’elezione furono protagonisti due fermani: uno “purosangue”: il Cardinale Tommaso Bemetti; uno di adozione: il Cardinale Filippo de Angelis, Arcivescovo di Fermo. Come si ricorderà, Pio IX fu uno dei personaggi di spicco della storia del Risorgimento. Nato a Senigallia, dopo vari importanti incarichi, divenne Vescovo di Imola e cardinale.

     Morto Gregorio XVI (spirato il le giugno 1846), il Cardinale Ma-stai Ferretti parte per il conclave la sera dell’8 e giunge a Roma il 12. Il mattino del 15 giugno, iniziano le votazioni; subito si delinea una contrapposta bipolarità: su 52 Cardinali presenti, spiccano due nomi: il Cardinale Luigi Lambruschini (da non confondere con l’omonimo pedagogista), genovese ed il “nostro” Cardinale Giovanni Mastai Ferretti. Quattro le votazioni. Nella prima Lambruschini riporta 15 voti; Mastai 13.

Entra allora in scena il Cardinale Tommaso Bernetti, che capeggia una corrente a favore di Mastai Ferretti. Seconda votazione: Lambruschini ha 13 voti: Mastai Ferretti 17; terza votazione: Lambruschini ottiene 11 voti: Mastai Ferretti 27; quarta: Lambruschini scende a 10 voti; Mastai Ferretti sale a 36; ha raggiunto i 2/3: è lui il Papa! Tutto ciò avviene non in Vaticano ma al Quirinale, dove in anni precedenti erano stati eletti altri Papi: Leone XII (1823-1829), conclave durato 18 giorni; Pio Vili (1829-1830), conclave durato 36 giorni; Gregorio XVI (1831-1846). conclave durato 50 giorni! Sono tutti Papi marchigiani, eccetto Gregorio XVI.

     Come si vede, il conclave di Pio IX fu il più breve: durò soltanto due giorni. Ma in tutta questa vicenda, emerge un protagonista finora sconosciuto: il Cardinale Filippo De Angelis. Dalle tabelle di scrutinio di tale conclave, che grazie ad un colpo di fortuna abbiamo trovato, si può rilevare (anche se le schede vengono bruciate) la “vittoria” di tale Cardinale. Egli, nella prima votazione, ottenne 3 voti; nella seconda 4; nella terza 5; nella quarta 6. È il terzo della graduatoria, venendo dopo il neo Pontefice Pio IX che ottiene voti 36 e dopo Lambruschini che ha voti 10. In seguito, De Angelis (che era nato ad Ascoli nel 1792) verrà perseguitato dal governo piemontese per la sua opposizione all’invasio¬ne dello Stato Pontificio; per odio a lui, Vittorio Emanuele II toglierà a Fermo la provincia. Nel 1870, sarà presidente del Concilio Ecumenico Vaticano I. Il terzo posto del De Angelis, denota la stima di cui era circondato. Si noti che tra i Cardinali votanti vi erano personalità di spicco, come Mezzofanti conoscitore fra l’altro di 114 (centoquattordici) tra lingue e dialetti (Osservatore Romano 18 febbraio 1949). Angelo Mai, ricordato anche dal Leopardi ed altri illustri porporati.

Anno 1848 – In tempi di Tangentopoli ripensiamo al Primato nelle scienze e nelle arti

     Oggi le “quotazioni” degli italiani con la vicenda di “tangentopoli” e gli annessi e connessi sono tutt’altro che alte, specialmente all’estero, anche se poi la faccenda non è del tutto disperata.

     A mo’ di consolazione, ricordiamo che quest’anno ricorrono 150 anni della pubblicazione di un libro che fece furore: il “Primato morale e civile degli Italiani” di Vincenzo Gioberti che fu anche capo del go¬verno piemontese. Il “Primato” uscì nel 1843 e divenne subito il “vangelo” del neo-guelfismo, contribuendo ad infiammare gli Italiani nelle vicende politiche del 1848. Esso è l’esaltazione dell’Italia, della Chiesa e costituisce incitamento al popolo italiano ad essere degno della sua storia e del privilegio di avere la sede del Vicario di Cristo in “quella Roma, onde Cristo è romano (Purg. XXXII)”.

     Ma negli stessi anni del Primato giobertiano, il conte Serafino dei Duchi d’Altemps, di Fermo, compilava un’opera analoga: “Il primato degli Italiani nelle scienze, nelle lettere e nelle arti”, poderosa opera in 38 fascicoli, ora rilegata in tre volumi, compresi documenti e note. Il conte Serafino (nato nel 1794, morto nel 1861) compì gli studi a Fermo, superati i quali si trasferì a Roma, dove dal 1815 al 1830 fu guardia Nobile Pontificia. Sposatosi con Caterina Palermi, romana, ebbe 4 figli tra cui Marco, Duca di Gallese. Diciamo ciò, perché più tardi una contessina di tale stirpe andrà sposa a Gabriele D’Annunzio e i due passeranno la luna di miele a Porto S. Giorgio (1883).

     Ma torniamo al “Primato” del conte Serafino. In esso si tratta la preminenza italiana nelle scienze in genere (fisica, mineralogia, agricoltura) ed in quelle morali (etica, diritto, storia ecc.). Né poteva mancare la descrizione del primato italiano nelle arti belle, nella letteratura, musica ecc. Su tutto e su tutti emerge la figura dell’Italia madre di civiltà. “Gino eravamo grandi / e là non eran nati” (Giusti). L’opera che tuttora è conservata, manoscritta, nella biblioteca comunale fermana, costituisce un monumento letterario di indubbio valore, forse troppo poco conosciuto.

     Il d’Altemps fu anche priore (sindaco) di Campofilone, grazioso paesino del Fermano; fu eletto con decreto del Delegato Pontificio del 3 ottobre 1857. In questo periodo, egli che da tempo era tornato a Fermo, alternava il suo soggiorno tra Campofilone e la città del Girfalco. In occasione dei trenta lustri dell’uscita del “Primato” giobertiano, sarebbe lodevole che qualcuno ricordasse l’interessante opera del conte d’Altemps che termina con un inno: “O bella Italia, Eden ferace e delizioso d’Europa, alma terra del sole, terra classica e di supremo privilegio, sede eterna del pensiero cattolico, visitata sempre da un angiolo il più vicino a Dio… Rinnova i gagliardi e generosi spiriti… e segui a mantenere così la tua primizia circa istituzioni e scoperte nelle Scienze, nelle Lettere e nelle Arti”.

Anno 1849 – Cinque erano gli assassini, solo tre divennero eroi

     Era il 28 febbraio 1849, di mercoledì; sull’imbrunire, nell’area di piazzale Falconi a Fermo, alcuni sicari proditoriamente pugnalano Ori«seppe Corsi, Canonico della Chiesa Metropolitana e si danno alla fuga. Il malcapitato chiede disperatamente aiuto; vengono apprestati i primi soccorsi, ma dopo poco tempo muore. Ben sette erano i colpi inferti “da strumenti incidenti e perforanti” ma la causa della morte fu “il colpo inferto nella Regione umbellicale (sic) ed ipogastrica”; così recita la relazione dell’autopsia compiuta dal perito settore il 5 marzo 1849. Enorme fu l’impressione a Fermo, dove il canonico era conosciutissimo per il suo carattere mite e socievole ed era amato da tutti. Insegnante di sacra eloquenza in seminario, non si immischiava di politica. I tempi però erano burrascosi: lo Stato Pontificio in subbuglio. A fine novembre era stato ucciso Pellegrino Rossi, primo ministro del Governo Pontificio e Pio IX era fuggito a Gaeta. Venti giorni prima dell’uccisione del Corsi, era stata proclamata la Repubblica Romana e, dopo pochi giorni dall’eccidio, il Cardinale Filippo de Angelis, per ordine del Triumvirato venne preso prigioniero e condotto nel forte di Ancona, dove rimase per cento giorni. C’era una bufera di anticlericalismo, è vero, ma non era certo il canonico Corsi l’obiettivo giusto, anzi, la sua uccisione ebbe l’effetto opposto, suscitando risentimenti contro la fazione anticlericale. Caduta la Repubblica Romana, il 19 giugno 1849, il Cardinale De Angelis tornò a Fermo accolto da una folla esultante. Intanto continuavano le indagini per scoprire gli uccisori del Corsi. Molti contribuirono ad informare la polizia pontificia e vennero catturati i colpevoli. Erano: Rosettani Ignazio, 33 anni, coniugato, sarto; Venezia Enrico, 55 anni, coniugato, caffettiere; Casellini Giuseppe, 32 anni, celibe, possidente; Testori Filippo, 56 anni, sarto, coniugato senza prole; Smerlili Giambattista, 44 anni, calzolaio, vedovo. Il 10 febbraio 1855 furono processati e condannati a morte. Ebbe poi luogo un altro processo avanti al Supremo Tribunale Pontificio. La pena di morte irrogata in primo grado a maggioranza di voti fu confermata all’unanimità. Era il 22 novembre 1855. Il 23 maggio successivo venne a Fermo Mastro Titta, il boia che decapitò i cinque. Luogo dell’esecuzione: avanti alle Fonti di San Francesco da Paola. Nel frattempo c’erano state richieste di grazia; ad esse s’era unito anche il Cardinale de Angelis che le perorò presso il segretario di Stato Card. Antonelli. Nulla da fare. La scure non guardò in faccia a nessuno.

     Caduto il Governo Pontificio e venuti i Piemontesi, l’8 febbraio 1861 il Regio Commissario Straordinario per le Marche, Lorenzo Valerio (decreto 749) accordò alla vedova del Rossettani, Adelaide ed a Giuditta, vedova del Venezia, la pensione. Nulla per Casellini perché celibe. Gli assasini col nuovo governo erano divenuti “eroi”. Nel 1902 fu posta una lapide, a ricordo dei condannati, ma in essa sono solo tre nomi, “tre o cinque?” si domandavano i giornali del tempo. Alla fazione clericale che chiedeva di poter apporre una lapide a ricordo del can. Corsi fu vietato. Invece, grandi le manifestazioni per l’inaugurazione di quella di Casellini, Rosettani, Venezia. Oltre duecento le bandiere; circa cinquemila gli intervenuti. Per superare le opposizioni (il prefetto aveva negato la commemorazione dei tre) si chiese l’intervento di Giolitti. Rappresentanti di logge massoniche, dei Comuni, delle varie province, erano presenti e Lorenzo Stecchetti, per la circostanza aveva compilato un sonetto. Terminava così: “Il prete qui decretò il macello / Venne per scherno a benedir la scure / e Fermo disse l’assassino è quello!”. Il Procuratore del Re vietò l’affissione di tale sonetto. Solo questo. Il resto fu una parata anticlericale e massonica.

Anno 1849 – Garibaldi a Fermo, la truppa a Porto S. Giorgio

     Le scuole hanno da poco riaperto i battenti e le famiglie, come ogni anno, sono vittime del salasso determinato dall’acquisto dei libro di testo. Fra tanti libri figurano (e come può essere il contrario?) quelli di storia, non escluso il Risorgimento con i suoi eroi: Carlo Alberto, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele II, Garibaldi. Checché se ne dica, que-st’ultimo è il più conosciuto in ogni angolo della terra. Ho potuto constatarlo girando in lungo e largo gli Stati Uniti d’America e il Messico.

      Addirittura nel museo oceanografico della California ho visto pesci chiamati Garibaldi (ysopsys rubicunda). Nell’America del sud, Garibaldi è quasi un eroe indigeno; in Brasile c’è una cittadina che si chiama Garibaldi.

     Ma i nostri bravi studenti e i nostri altrettanto bravi docenti, parlando di Garibaldi, dovrebbero dire che l’eroe dei Due Mondi nel 1849 fu ospite a Fermo in una casa nei pressi dell’attuale sede del Liceo Classico in via Perpenti (una lapide lo ricorda ai posteri) e il 17 gennaio dello stesso anno, si recò, acclamatissimo, al teatro dell’Aquila, dove assi¬stè a una commedia del marchese Trevisani.

     Ma Garibaldi era atteso a Fermo con 540 uomini e 50 cavalli. Ce lo documenta una lettera dell’Intendenza della Seconda divisione: Il ministero delle Armi con “venerato dispaccio comunicava essere stata destinata a questa piazza (cioè Fermo, ndr) la colonna di 540 uomini di truppa con 50 cavalli, organizzata e posta sotto gli ordini del signor ge¬nerale Giuseppe Garibaldi”.

     Il “venerato dispaccio” era contraddistinto da protocollo 24929 / 15333 in data 31 dicembre 1848. Il comandante della piazza informa il gonfaloniere del Comune e subito è una ricerca frenetica per trovare alloggi. Si inviano celermente lettere ai maggiorenti della città. Il delega¬to apostolico, in data 1 gennaio 1849, conferma che “Garibaldi dovrebbe qui giungere secondo i precedenti avvisi del comando della piazza di Foligno”.

    Ma il giorno successivo, 2 gennaio, il “delegato apostolico della città e Provincia di Fermo” scrive al signor gonfaloniere che “la colonna di Garibaldi non si fermerà più a Fermo, ma, dietro disposizione del ministro delle Armi del 2 gennaio 1849, avrà stanza a Porto S. Giorgio”. Piccole note, queste che non compaiono nelle storie ufficiali, ma sono tanto più preziose perché sconosciute o ignorate.

Anno 1849 – Il Cardinale odiato dalla Repubblica Romana  e da Cavour 

     La nomina ebbe luogo il 27 gennaio 1842 durante il concistoro presieduto da Papa Gregorio XVI, ma la notizia giunse a Fermo qualche giorno più tardi; non c’erano i mezzi di comunicazione di oggi. Era trasferito dalla sede vescovile di Montefiascone e Cometo, alla sede arcivescovile metropolitana di Fermo, allora (come oggi) la più vasta, più importante, più popolosa Diocesi delle Marche.

     Di essa erano (e sono) suffraganee le Diocesi di Macerata, S. Severino, Tolentino e quella di Montalto-Ripatransone e S. Benedetto del Tronto. Il Cardinale Filippo De Angelis (è di lui che si tratta) coronava così la sua carriera ecclesiastica, dopo essere stato visitatore apostolico a Forlì, Vescovo titolare di Leuca, poi di Cartagine, nunzio papale nelle città svizzere di Lucerna e Schwyz. In seguito si collocherà terzo nella “graduatoria” delle votazioni del conclave che portò all’elezione di Pio IX.

     Fermo allora era importantissima. Quando egli giunse, era Cardinale da tre anni. Rimase nella nuova sede dal 1844 alla morte (1877) con due forzate interruzioni: una nel 1849 di cento giorni, perché fatto relegare nel forte di Ancona al tempo della Repubblica Romana; l’altra di sei anni, dal 1860 al 1866, quando all’arrivo delle truppe piemontesi, Fanti lo fece prelevare spedendolo in esilio a Torino. “Due volte nella polvere, due volte sull’altar”. Si temeva che il suo indiscusso prestigio e la sua popolarità potessero nuocere al nuovo governo e fomentare la resistenza antisabauda.   

     Del medesimo avviso erano stati il generale Fanti ed il commissario straordinario nelle Marche, Lorenzo Valerio. Ma se resistenze vi furono, non ebbero luogo a Fermo, semmai nell’Ascolano e nelle sue montagne, dove i Piemontesi dovettero combattere il brigantaggio e dove in alcune località nessuno si presentò a votare per il plebiscito (leggi: Mozzano, Roccacasaregnana, Porchiano). Anzi, non si riuscì in taluni casi a formare le commissioni elettorali; nessuno voleva farvi parte.

     Ma quando la storia è scritta dai vincitori e quando sono essi ad imporre il diktat, c’è ben poco da fare. Infatti, nonostante tutto, Ascoli venne premiata con l’annessione della Provincia di Fermo, soppressa – pare – in odio proprio a De Angelis, che del resto era nativo di Ascoli.

      Dopo il ritorno dalla prigionia, il Cardinale ebbe alti onori dalla gerarchia cattolica; fu nominato camerlengo di Santa Romana Chiesa e, nel 1870 presidente del Concilio Ecumenico Vaticano primo.

     Volenti e nolenti dobbiamo ammettere che fu uno dei personaggi più in vista durante il periodo del Risorgimento nelle Marche.

      Particolare coincidenza: il De Angelis, come il suo predecessore, Cardinal Ferretti, fu trasferito a Fermo da Montefiascone – Cometo; creato Cardinale l’8 luglio 1839 morì l’8 luglio 1877 (si notino le due date!) a Fermo, nel cui camposanto riposa.

Anno 1849 – Il letto dove dormì Garibaldi si conserva ancora intatto      

     Festa della Repubblica oggi. La ricorrenza assume un particolare significato anche per la presenza in Italia del Presidente della più potente Repubblica del mondo, Clinton, e per l’anniversario della morte di Giuseppe Garibaldi, strenuo difensore della Repubblica Romana; condottiero che tutto donò all’Italia.

     Proprio oggi, il 2 giugno 1882, moriva a Caprera. Garibaldi ebbe relazioni con Fermo, il Fermano e i suoi abitanti.

     Qui venne il 17 gennaio 1849, ospite dell’Avv. Giambattista Mur-ri, padre dell’illustre clinico Augusto e qui, al Teatro dell’Aquila, potè assistere ad una rappresentazione drammatica, dormendo poi nella casa ora del Conte Mancini-Spinucci.

     Nel Caffè Broglio, che era sito deve è ora l’ufficio di Polizia urbana di Fermo, si dissetò e nel vedere dietro il bancone, in bella mostra, un ritratto di Carlo Alberto, qualificò il sovrano “traditore della patria” e squarciò l’effige con la spada.

     L’ultimo dell’anno 1848 “un venerato dispaccio” della 28 Divisione Militare di Ancona preannunciava che Garibaldi sarebbe venuto e si sarebbe fermato a Fermo con una colonna di 540 uomini e 50 cavalli; ma poi vi fu un contrordine del Ministero in data 2 gennaio 1849. Come è noto, Garibaldi ebbe nel fermano Candido Augusto Vecchi un valido sostenitore per la spedizione dei Mille, anzi gli mise a disposizione la sua Villa Spinola in Liguria.

     Nel 1849, anche il Cardinale De Angelis, Arcivescovo di Fermo, erogò a favore delle famiglie dei volontari che erano accorsi sotto la bandiera di Garibaldi (erano più di 70) 200 scudi ed a più riprese. Luogotenente di Garibaldi fu Costantino Tamanti di Petritoli; fervente garibaldino fu Pietro Basili di Porto S. Giorgio, etc.

     Altra prova della fama e del prestigio di Garibaldi è data dalla casa dove riposò a Fermo, casa di proprietà del Conte Ing. Lorenzo Mancini-Spinucci, luminare della fenomenologia paranormale.

     La stanza dove dormì in quel gennaio 1849 è ancor oggi tale e quale, con il letto a baldacchino, sedie, specchiere, comò. È questo un dato importante della storia italiana ed europea. Fino ad una quindici¬na di anni or sono a Grottammare si conservava intatta la sala dove Vittorio Emanuele II nell’ottobre 1860 aveva ricevuto le delegazioni

 dei vari Comuni italiani e quella di Napoli che gli aveva offerto la co¬rona di quel regno.

     Oggi più non esiste! Rimane però a Fermo la stanza di Garibaldi, più famoso di Vittorio Emanuele quello la cui “fama nel mondo dura e durerà quanto il mondo lontana” (Dante)

Anno 1852 – I.T.I., il buon nome non tramonta Mai

    Giacomo Leopardi gli dedicò la canzone “Italo ardito a che giammai non posi”, quando scoperse il De Republica di Cicerone. Nato a Schilpario (Bergamo) nel 1792, moriva ad Albano Laziale nel 1854: quest’anno si compiono 140 anni. Ma chi era costui? Si tratta di Angelo Mai, principe dei paleografi italiani, cardinale, uomo d’immensa, poliedrica cultura, Prefetto alla Vaticana, il “ Colombo” dei palinsesti, pergamene, dei classici greci e latini. Ne scoprì ben 359. Sono opere di Cicerone (tra cui De Republica), Frontino, Marco Aurelio, Antonino Pio, Frontone, Dionigi d’Alicamasso, Porfirio, Plauto, Terenzio, etc. Tali scoperte vennero poi pubblicate in ponderosi e poderosi volumi.

     Ma egli, il Re dei paleografi, il grande umanista, si occupò anche di Fermo o meglio del “ Montani” di Fermo. Contrariamente a quanto taluno pensa, il “ Montani” non è opera del governo piemontese, ma dei Conti Gerolamo e Margherita Montani, fermani, i quali sin dal 1849 pensarono ad istituire tale opera e con lascito testamentario destinarono per la sua attuazione la somma occorrente. Nominarono esecutore te-stamentario il Card. Filippo De Angelis, Arcivescovo di Fermo, che fu a capo della commissione relativa, composta da tutti i parroci di Fermo, il Gonfaloniere della città e membri del Consiglio Comunale e tre canonici. Ma nell’atto di dare attuazione all’opera, si riscontrarono alcune incongruenze e dissonanze tra quanto stabilito dai fondatori e la realtà del tempo. Ovviamente, non si poteva andare contro alle disposi-zioni dei Conti Montani. Occorreva, per farlo, una deroga sovrana cioè papale; allora era Pio IX il Capo dello Stato.

     La Commissione espose allora al Papa le difficoltà di attuazione (tra l’altro gli alunni dovevano consumare soltanto il pasto di mezzogiorno, non la cena; la sera dovevano tornare alle proprie case, etc.).

     Pio IX delegò a rappresentarlo il Card. Angelo Mai. Questi con rescritto in data 20 agosto 1852 dispose che l’Arcivescovo di Fermo De Angelis, viste le necessità reali ed oggettive poteva derogare: possit et valeat derogare prò suo arbitrio et prudentia.

     Il 6 aprile 1854 (era il venerdì santo) nella Chiesa della Madonna del Pianto eletta protettrice dell’istituzione, ebbe luogo la solenne cerimonia di inaugurazione. Erano presenti autorità civili, religiose con a capo il Card. De Angelis ed i 60 alunni in fiammante divisa con l’effigie della Madonna del Pianto sul petto, e grande folla.

      L’Istituto “ decollò” subito e la sua fama cresceva ogni giorno più. Vennero poi nel 1860 i Piemontesi che se ne impadronirono. Ebbero tuttavia il merito di affidare la scuola all’Ing. Langlois che la potenziò portandola a livelli di ulteriore prestigio. Dopo varie vicende e denominazioni, la Scuola di Arti e Mestieri divenne l’Istituto Tecnico Industriale, il primo in ordine di tempo e fino a poco fa il più prestigioso d’Italia.

     Ma l’atto di nascita di esso fu scritto quel 20 agosto, quando il dotto umanista Card. Angelo Mai approvò le varianti all’atto costitutivo. Cultura umanistica e cultura scientifica unite, sancirono il nascere di una scuola che tanto ha giovato e giova alla città, alla Regione ed all’Europa. Basti ricordare che da esso uscirono il celebre Giuseppe Sacconi, la cui fama è legata all’Altare della Patria; Aristide Merloni, fondatore del- Findustria Ariston; i Benelli dell’omonima industria motociclistica; Flng. Giorgio Kolovic dell’Università di Belgrado, il Prof. Giuliano Massetti, creatore delle industrie Nucleari in California. Molti dirigenti di Telespazio del Fucino hanno studiato al Montani, come pure alti dirigenti della Fiat. Quest’anno ricorrono i 140 anni dalla fondazione (1854-1994).

Anno 1855 – Il Cardinale De Angelis rifiuta Bologna

     Abbiamo accennato più volte al Cardinale De Angelis. Oggi vogliamo parlare di un aspetto pochissimo noto della sua vita. Nell’Archivio Segreto Vaticano si conserva copia di una lettera confidenziale di Pio IX, con cui gli offriva la prestigiosa sede arcivescovile di Bologna. Eccola: “Reverendissimo Cardinale Arcivescovo, pare che Iddio voglia da

Lei un atto di piena rassegnazione alla sua Santissima Volontà e credo che Ella vorrà pienamente assoggettarvisi. La vacante Sede Arcivescovile di Bologna, esige che sia provveduta di un nuovo Pastore ed io, dopo varie preghiere fatte per un affare così importante, mi sono sentito tutto inclinato di rivolgermi a Lei e mettere sopra di Lei lo sguardo per affidare una così onorevole ed importante missione. Ella quindi si rivolga al Signore e diriga la risposta che sia conforme alla stessa Volontà Divina, che si manifesta per mio mezzo. Riceva l’Apostolica Benedizione che di cuore Le comparto. “Datum Romae apud S. Petrum die 30 aprilis 1855”. (firmato) Pius PP. IX.

     Nell’Archivio Vaticano non risulta risposta; tuttavia De Angelis non accettò. Fu nominato al suo posto il Card. Viale Prelà. Più tardi sarà Arcivescovo di Bologna il Cardinale Domenico Svampa di Montegranaro (1893/1907).

Anno 1857 – Avvenne in una festa di colori la visita di Pio IX ad Ancona

     La visita del Pontefice ad Ancona, il 22 maggio 1857.

     Archi, drappi, stendardi, fiori e bandiere pontificie e municipali sventolavano dappertutto in città, mentre nel porto molte navi in gran pavese erano ormeggiate per Limportante avvenimento: tra queste spiccavano le navi da guerra austriache Radetzsky e Vulcanov, insieme a due bastimenti pontifici S. Giovanni e S. Giuseppe.

Il Papa arrivò che erano le 14 circa, accolto dal generale austriaco Rukstuhl con lo stato maggiore in alta uniforme e le truppe schierate sui due lati della strada. Duecento marinai italiani precedevano la carrozza papale, attorniati da dragoni pontifici mentre le campane suona¬vano a distesa. Il Papa è ossequiato dal Cardinale Morichini, Vescovo di Jesi, dal Delegato apostolico, dal barone Lerder che rappresenta l’imperatore d’Austria. È tutto un animarsi di alte uniformi, di cappe, di prelati, di vescovi, di abati, mentre le due bande musicali, quella austriaca e quella dei pompieri di Ancona, eseguono marce trionfali. Ovunque campeggiano scritte inneggianti al Papa dell’“Immacolata” (ne aveva proclamato il dogma tre anni prima) ed alle sue realizzazioni. Si ricordava alla folla l’erezione, “dopo 262 anni, di un degno monumento alle ceneri lacrimate di Torquato Tasso, la conservazione ed i restauri dell’arco di Traiano, che dopo undici secoli appare più maestoso e bello”, l’aver eretto “l’osservatorio magnetico in Ancona” e “l’osservatorio astronomico a Roma, perché alla scienza che indaga l’armonia dei cieli sempre si appalesino le meraviglie dell’Onnipotente”.  Non era taciuto il merito di avere snellito i commerci e l’incre¬mento della civiltà”. Anche gli ebrei inneggiavano al pontefice: “Gli israeliti di Ancona in segno di devozione e di omaggio”; e altrove “Gli israeliti esultanti festeggiano la desideratissima presenza dell’ottimo principe Pio IX”.

     Nel palazzo municipale campeggiava la seguente scritta: “ANCONA, al Sommo Pontefice Pio IX / che nato da anconitana stirpe / è qui vissuto nei giovani anni / ne fu memore sul seggio pontificale / onorandola negli anconitani illustri / gratissima plaude, etc.”.

     Moltissime erano le iscrizioni in latino. A sera, luminarie a non finire, inni e canti di giubilo, musiche della banda militare austriaca e cori in onore di Pio. I soldati austriaci con “fiaccole a cera” accese intrecciavano caroselli policromi, che nella fantasmagoria di luci e suoni, strapparono l’ammirazione del pontefice e del suo seguito. Il giorno successivo ebbe luogo la festa del mare. Non poteva Ancona, città marinara, esimersi dal mostrare al Papa le sue navi ed il suo porto.

     Le navi di cui abbiamo fatto cenno erano nuovamente disposte a semicerchio attorno ad una piccola isola artificiale, costruita in mezzo al porto e riccamente addobbata ed imbandierata. Piccole imbarcazioni di ogni tipo, con bandiere e bandierine, solcavano il mare, mentre la folla che stipava ogni balcone, si assiepava ad ogni finestra o veranda, saliva persino sui tetti per godersi lo spettacolo.

     Ad un tratto compare la lancia che porta il Papa; giunge fin sotto la fregata Radetzky, “la più bella e più potente della imperiale regia marina austriaca”, accolto dall’equipaggio e gli ufficiali schierati sul ponte; mentre la banda suona l’inno imperiale e quello pontificio, trecento marinai, ad un segnale, si slanciano sui pennoni, sugli alberi, si arrampicano sulle corde, calano, salgono, agitando, in tripudio di gioia, i berretti.

     Compaiono e scompaiono tra le nuvole prodotte dallo sparo dei cannoni delle navi a cui fanno eco da terra i cannoni della fortezza e quelli dei baluardi circostanti. Le campane squillano a festa ed il rimbombo dei cannoni si disperde nel mare… Purtroppo tre anni più tardi, parte dei forti e la polveriera salteranno per aria durante l’assedio dei Piemontesi e 125 artiglieri pontifici moriranno sotto le macerie.

     Dopo la festa del mare, a sera, luminarie ovunque, mentre le piccole imbarcazioni sfoggiano fanali e palloncini luminosi e dalla som¬mità delle colline, focaracci di gioia fanno da cornice ai fuochi artifi¬ciali che, da ben 72 punti della città, si innalzano verso il cielo illuminando a giorno Ancona.

     Un particolare molto interessante nella storia è quello dell’ultima notte di soggiorno di Pio IX in città: “Ad un tratto, sfolgorò vivissima una luce che uscendo da una delle fineste (sic) d’una casa posta sulla piazza del teatro, innondava (sic) le contrade e gittava splendidissimi i raggi d’argento sino al palagio Apostolico… era il fuoco elettrico… che veniva posto in azione dal professore canonico Don Luca Zazzini e sì brillante ne fu lo effetto che lo stesso Sovrano e molti personaggi della sua corte ne andarono ammirati”; così un cronista del tempo che precisa che la luce era tanto vivida che la “luce delle luminarie rimase vinta dalla potenza di quella” (elettrica).

      Nella visita del Papa si parlò anche dell’apertura del Canale di Suez (verrà aperto dopo due anni, cioè nel 1859). Ancona per la sua posizione e per i traffici con l’Oriente, ne avrebbe certamente guadagnato. Altra conquista per la civiltà ed i commerci fu l’inizio dei lavo¬ri della ferrovia Pio-Centrale e dopo due giorni la decisione di far pas¬sare per Jesi la ferrovia Ancona-Roma, mentre Macerata l’avrebbe vo¬luta nella valle del Chienti.

     Il Papa ripartì da Ancona diretto a Chiaravalle dove visitò la fab¬brica dei tabacchi e le seicento operaie; sostò poi a Jesi “salutato dal suono delle campane e dallo sparo de’ mortai… e da ben cento gruppi corali”. A Jesi decretò il distacco da quella città della frazione di Santa Maria Nuova e la sua erezione in Comune autonomo a decorrere dal ls gennaio 1858; proseguì poi per la sua Senigallia, “sì bella a specchio dell’Adriaco mare…”.

Anno 1857 – ‘Fischiate, fischiate pure’ disse Pio IX alla folla

    Giorni fa abbiamo ricordato il centenario della morte di Vittorio Emanuele II, che fu nelle Marche e precisamente a Castelfidardo, Ancona, Loreto, Macerata, Grottammare, senza contare le altre località di passaggio. Ricordiamo ora un nostro corregionale, Pio IX, che morì esattamente il 7 febbraio di cento anni or sono; egli, nato nelle Marche, ebbe qui le trionfali accoglienze nella visita del 1857 mentre dopo soli tre anni subiva, sempre nelle Marche, una sconfitta che lo privò dello Stato Pontificio ad eccezione del Lazio.

     Pio IX, l’undici maggio 1857, venne nella nostra Regione, sostando a Camerino. “Lasciata Roma ai primi di maggio, arrivò a Camerino circa due ore dopo il meriggio”.     

     “Archi di verdura” erano innalzati “in più luoghi della strada da lui percorsa… il colle… la via e le mura castellane tutto era gremito di popolo… Fu ricevuto nel tempio maggio¬re dall’Arcivescovo a cui facevano corona i vescovi di Fabriano, Sanseverino, Amelia, il delegato apostolico ecc.”.

     Il 12 maggio fu a Tolentino, indi, dal 13 al 15 maggio a Macerata, alloggiando nel palazzo dell’attuale Prefettura. Varcò i confini di quella che era allora la Provincia di Fermo, sostando a Porto Sant’Elpidio, davanti alla torre della dogana e qui ricevette l’omaggio della delega¬zione della città di Fermo “tutta vestita in spada, eccetto il conte Vinci che indossava la divisa del vice-console di Russia”.

     Alle ore 16,30 del giorno 16 maggio, Pio IX giunse a Fermo, accolto dalle bande di Santa Vittoria in Matenano, di Porto S. Giorgio e di Fermo stessa, tra un tripudio di folla plaudente osannante con in testa il Cardinale Arcivescovo Filippo De Angelis. A sera, grandi furono le feste; pii! di diecimila lumini adornavano Piazza del Popolo (la luce elettrica non esisteva). Fermo era tutta vestita a festa; ovunque drappi, festoni, scritte inneggianti a Pio IX, archi di trionfo, luminarie e festose marce rallegravano la città. Fra il Municipio ed il Palazzo dell’Arcivescovo era costruito un artistico ponte di legno per il passaggio del Papa. Il 17 maggio, domenica, il Papa celebrò la messa al Duomo; la chiesa ed il Girfalco rigurgitavano di folla; tra due fitte ali di popolo, a piedi, scese lungo lo stradone di S. Savino; sostò nel palazzo della De-legazione Apostolica (palazzo dell’ex sotto-prefettura) pieno di personalità in abito di gala e musiche. Il 18 maggio, Pio IX partì alla volta di S. Benedetto del Tronto passando per Porto di Fermo (Porto San Giorgio). A S. Benedetto, dopo aver ricevuto l’omaggio di mons. Bufarini, Vescovo di Ripatransone, del conte Gaetano Martini e le deliranti attestazioni di affetto della folla, dormì nell’attuale Palazzo Brini, non senza aver prima degustato uno squisito brodetto di pesce da fargli esclamare che nella sua Senigallia non ne aveva mai assaggiato così buono.

     Proseguì poi per Ascoli, dove si trattenne due giorni sempre accompagnato dal Card. De Angelis, Arcivescovo di Fermo. Anche qui luminarie, archi di trionfo, bande musicali fatte affluire anche dall’Abruzzo, piogge di fiori e fuochi notturni sul S. Marco e sul monte dell’Ascensione. Pio IX donò alla “bella e buona città di Ascoli” (sono sue parole), una ricca pianeta rossa; elevò la delegazione apostolica al rango di seconda classe; diminuì di sei mesi la pena ai carcerati; ripassò poi per la Salaria e l’Adriatica; si fermò di nuovo a Porto S. Giorgio festosamente accolto dalla popolazione, mentre la “Comune di Fermo” diede alla famiglia del Papa in regalo “doppie in oro numero dieci”; rivide Porto Sant’Elpidio che, sebbene di soli seicento abitanti, lo aveva accolto con sfarzo di archi, scritte e colori, e si diresse verso Osimo, Loreto, Ancona.

     A titolo di curiosità, ricorderemo che, quando il Papa passò a S. Benedetto del Tronto la “Magistratura” si trovò a disagio. Non disponeva infatti di “paludamenti” ufficiali. Si affrettò allora a chiederli in prestito a Ripatransone, ad Acquaviva, a Massignano e a Campofilone; Acquaviva e Massignano opposero un netto rifiuto; Campofilone e Ripatransone, invece, li prestarono, ma non eran sufficienti per cui vennero presi altri in affitto a Fermo.

     Ad Osimo il 22 maggio successe un fatto curioso. Pio IX si trovava nell’episcopio e doveva benedire la folla, assiepata e stipata nella piazza sottostante. Le campane suonavano a distesa ed i campanari ce la mettevano tutta; il crocifero era già apparso sui balconi, i prelati del seguito erano pronti, ma le campane suonavano, suonavano, nonostante i segni della folla. Ad un tratto qualcuno dei campanari se ne accorse e frenò i bronzi. Finalmente silenzio! Ma per un moto istintivo di reazione, la folla proruppe in un formidabile fischio. Proprio in quel momento apparve il Papa. Impartì la benedizione e poi “fischiate, fischiate pure” esclamò. Ci volle del bello e del buono per far capire al Pontefice l’equivoco…

     In Ancona il Pontefice ebbe solennissime trionfali accoglienze. Le truppe austriache ivi in servizio, i nostri marinai, le autorità civili militari e religiose apprestarono un’accoglienza calorosa e una brillantissima festa del mare che rimasero a lungo memorabili.

Anno 1857 – I contadini videro insieme il Papa e il mare per la prima volta

     Domenica 17 maggio 1992, mentre “primavera d’intorno brilla per l’aria e per li campi esulta”, ricorreva l’anniversario della scomparsa di un grande pittore: Sandro Botticelli che fra l’altro dipinse proprio La Primavera, conservata negli Uffizi. La morte lo ghermì il 17 maggio 1510.

   In un altro 17 maggio, quello del 1857, di quel maggio che “risveglia i nidi”, che “risveglia i cuori” come canta Carducci, i cuori dei fer- mani battevano esultanti ed in corale tripudio. Il pontefice Pio IX si trovava a Fermo in visita alla città, una delle più importanti del suo Stato. Venuto la sera precedente, fu accolto a Porto S. Elpidio (il primo Comune a nord dell’allora Provincia fermana) dai maggiorenti della città. Spiccavano fra essi Vinci cav. Raffaele; Brancadoro cav. Antonio; Benedetti conte Saverio; Morrone-Mozzi conte Ludovico “tutti vestiti di spada, meno il conte Vinci in uniforme di vice-console della Russia”. A Porto S. Elpidio c’era una folla veramente oceanica. Erano qui convenuti da una vasta zona circostante, stipati come acciughe in lunghe carrette, contadini e contadine, vestiti a festa. Alcuni vedevano il mare per la prima volta. Era una festa di colori, di sole, di mare. Archi ovunque; festoni, drappi. Fra l’altro, sempre a Porto S. Elpidio, era stata eretta una statua dell’Immacolata tutta di cera. Un famelico sciame di api le si avventò sopra, attacandola da tutte le parti.   

     Fortunatamente qualcuno pensò ad una salutare fumata di zolfo: la statua fu salvata, ma ne uscì deturpata ed i ricami d’argento rovinati.

A Fermo, il Papa restò dalla sera del 16 tutto il 17 e parte del 18. Qui scritte, luminarie, fuochi artificiali, bande musicali, canti, popolo tripudiante! Il 17 maggio, giorno di domenica, il Papa celebrò in Duomo quindi tra due fitte ali di popolo, si recò a Villa Vinci e di lì bene¬disse la folla che assiepava il Girfalco. Poi, a piedi, discese lungo lo stradone e si recò nel Palazzo Apostolico. Attraversò la piazza, acclamatissimo e tornò in arcivescovado, accompagnato sempre dall’arcivescovo card. Filippo de Angelis. A sera, fuochi d’artificio, luminarie, suoni di bande musicali. Ripartì il giorno 18 diretto ad Ascoli.

     Diciasette maggio 1863 ! In questa data, un altro fausto evento si verificò per Fermo e per il suo antico porto. Alla presenza del principe Umberto (il futuro Re Umberto I) veniva inaugurata la ferrovia e la stazione ferroviaria. Come si vede i binari della storia, fissano appuntamenti al 17 del mese di maggio. Le Gazzette e le Effemeridi del tempo, riportarono la notizia il 19 maggio. Anche giornalisticamente la storia si ripete…

Anno 1857 – Sfarzose scenografie in onore di Pio IX

      Era il 16 maggio 1857. Partito da Roma e proveniente da Loreto, Pio IX celebre nella storia d’Italia, il Papa che regnò più a lungo di tutti i Papa finora esistiti (superò i 32 anni di Pontificato) veniva da Fermo. A Porto S. Elpidio, primo paese dell’allora Provincia fermana, erano andati ad ossequiarlo le autorità e la Magistratura. Pio le accolse amorevolmente e si soffermò a lungo, osannato da una folla plaudente.

     Si diresse poi a Fermo, scortato da carrozze e dragoni. Vi giunse alle 18,30. Le campane di tutte le chiese suonavano a festa; sparo di mortaretti; tre bande musicali, inni e canti, accolsero il Pontefice. Per l’occasione tra il Palazzo dei Priori e l’arcivescovado, era stato costruito un ponte in legno. La piazza era tutta un tripudiare di fiori e di colori.

     Pio si diresse verso la cattedrale. Vicino alla statua di S. Savino, che torreggia in capo a via Mazzini, faceva spicco un grandioso arco di trionfo a due prospetti con colonne corinzie adorno di statue. Sulla spianata del Duomo “in fondo al maggiore viale fu innalzato un grandioso monumento sormontato dalla statua del pontefice in abiti pontificali”. Alla ba-se di esso, spiccavano otto statue simboleggianti la fama e la gloria. Sfarzoso e lucente l’interno del Duomo “rivestito di serici drappi”. Il gonfaloniere gli aveva offerto le chiavi della città. Pio era sceso dalla sua carrozza per salire su quella dell’arcivescovo, Cardinale Filippo De Angelis. Giovinetti “uniformemente vestiti a spese del Municipio, spargevano fiori”. Tre bande musicali, impeccabili intonavano inni. Era un rimescolìo di prelati e presuli, presenti anche i Vescovi suffraganei di Macerata, Ri- patransone, S. Severino, Montalto, i delegati apostolici di Fermo e Macerata e folla strabocchevole. Possente e potente il canto del Tu es Petrus.

Uscito dalla cattedrale, Pio IX si recò a Villa Paccaroni (attuale Villa Vinci) ed impartì dal balcone la benedizione alla folla genuflessa. Ridiscese a piedi, attraversò piazza del popolo tra ali di folla osannante e si recò in Arcivescovado. Lumi e fiori in ogni dove; la sola piazza “riluceva per più di diecimila lumi e bengali”.

     Il giorno 17 (era di domenica), ancora celebrazioni solenni in Duomo; benedizione alla folla da Villa Paccaroni; ridiscesa a piedi e sosta nel palazzo del Delegato Apostolico (attuale Comune). Qui ammise al bacio del piede autorità, religiosi, sacerdoti e suore. Il 18 mattina verso le ore 10 partì per Ascoli fermandosi prima a S. Benedetto.

Spiace quindi contraddire l’autore di Dagli Sciaboloni ai Piccioni edito nel 1990 che sostiene (pag. 222) la presenza di Pio IX in Ascoli il 17 e 18 maggio. Ad Ascoli giunse la sera del 18. Nel tragitto da Fermo a Porto S. Giorgio “per oltre quattro miglia” due ali di folla lo salutarono commosse ed entusiastiche. Pio lasciò 500 scudi alle autorità fermane, per elargizioni di beneficenza. Ricevettero in quella occasione la no¬mina a commendatori delFordine di S. Gregorio Magno: i conti Raffaele Vinci, Ludovico Morrone Mozzi, Francesco Roccamadoro, Camillo Garulli. I signori Attilio Marfori e Filippo Capponi, avvocato, presidente del Tribunale.

     Immensa la produzione di scritte e componimenti. Tra le scritte v’e-ra quella che arieggiava il Carmen Seaculare: “Sole che sorgi libero e giocondo, tu non vedrai nessuna cosa al mondo più bella di Pio IX”. Per elencare le scritte in parola, non basterebbe un volume. Commovente la poesia delle Benedettine… Oh giubilo! / Oh fortunato avviso / il solitario claustro / si muta in paradiso / Lo sposo almo dei Cantici / Qui viene in mezzo ai fior / etc. Dopo 131 anni, un altro papa, l’attuale, venne in visita a Fermo esattamente il 30 dicembre 1988.

Anno 1859 – Candido Augusto Vecchi e Mercantini: due piceni a cuii Garibaldi deve molto

     È il centenario della morte di Garibaldi, l’eroe dei due mondi, figura alquanto demitizzata ma pur sempre fascinosa e affascinante, famoso in Italia e moltissimo all’estero.

     Garibaldi ebbe a che fare con le Marche e con la nostra Provincia: il primo fatto d’arme lo dedicò a Macerata; il colonnello Elia, comandante in seconda del “Lombardo” gli fece scudo a Calatafimi del suo corpo, salvandolo da sicura morte. Luigi Mercantini di Ripatransone, scrisse per lui l’inno “Si scopron le tombe si levano i morti”, detto appunto Inno di Garibaldi. Garibaldi fu in Ascoli, a Fermo, a Grottam-mare, Arquata, in Sant’Angelo in Vado, Macerata Feltria, Lunano, ecc. Ma è interessantissimo ricordare che un nostro comprovinciale Candido Augusto Vecchi, fu accanto all’eroe ed è uno dei principali artefici della spedizione dei Mille. Diede infatti a Garibaldi la sua villa. Villa Spinola, presso Quarto, dove Garibaldi si trattenne per oltre venti giorni. Qui, Candido Augusto Vecchi procurò all’Eroe aiuti materiali, armi e denaro.

     A spedizione conclusa lo seguì a Caprera, dove collaborò con l’Eroe come fidato estensore di proclami, di memorie e di lettere a Re Vittorio Emanuele II ed altri regnanti e fu illuminato suo consigliere, quando, Abramo Lincoln invitò Garibaldi ad assumere il comando dell’esercito degli Stati Uniti.

     Nato a Fermo nel 1813, Candido Augusto Vecchi fu battezzato nella chiesa di S. Martino; ma subito dopo, “battezzato” nuovamente “italiano e carbonaro” dal colonnello di Murat, Bricchetti. Ben presto si trasferì con la famiglia in Ascoli Piceno e quindi Chieti dove attese agli studi secondari. Tenuto d’occhio dal Card. Lambruschini segretario di Stato (sarà questi l’antagonista del Card. Mastai poi Pio IX nel conclave del 1846) come elemento pericoloso, salvò Anita, la moglie di Garibaldi, al crollo della Repubblica Romana e la riconsegnò all’Eroe che si allontanava da Roma per sfuggire alla cattura.

     Egli fu un po’ l’alter ego di Garibaldi e con Mercantini, costituisce il duo che, almeno nella nostra Provincia, portò l’eroe verso la fa¬ma e la gloria.

     Secondo Angelo Fucili, noto scrittore di cose marchigiane, parteciparono alla spedizione dei Mille di cui oggi ricorre il 122 anniversario, i seguenti nostri comprovinciali: tenente Eugenio Fabi, morto in Ascoli nel 1870, capitano Giacomo Vittori di Montefiore dell’Aso (1808-1875), Raffaele Rivosecchi di Cupra Marittima (1829-1866) ed i volontari: Gaetano Cestarelli di Fermo, Giuseppe Mondoni di Ascoli, Giovanni Della Costa di Fermo, i quali si imbarcarono con la colonna Zambianchi a Talamone.

     Ci par quindi doveroso ricordare Candido Augusto Vecchi nell’an¬niversario della spedizione dei Mille e con lui il Mercantini che compose l’inno “terribile nelle battaglie”, famoso nell’epopea garibaldina.

Anno 1860 – Ancora del plebiscito

     La consultazione elettorale si svolse in un clima d’entusiasmo – Un busto di Vittorio Emanuele II “presenziò” alle votazioni – Cortei e bande musicali per sensibilizzare i cittadini al dovere del voto.

135 anni or sono, la febbre, l’entusiasmo per il plebiscito di annessione al Regno di Vittorio Emanuele II, infervoravano la “municipalità” ed i cittadini di Fermo e sua Provincia. Era il 4 e 5 novembre 1860! Dopo la battaglia di Castelfidardo, erano venuti a Fermo oltre mille piemontesi più 200 volontari provenienti da Grottammare, S. Benedetto del Tronto e Martinsicuro. Il giorno 11 ottobre era passato a Porto S. Giorgio (allora Porto di Fermo) il Re Vittorio Emanuele II il quale, sebbene fosse atteso a Villa Pelagallo, non vi si recò, ma proseguì per Grottammare ove ricevette la commissione dei fermani che vi andò, servendosi della carrozza dell’arcivescovo di Fermo, il Cardinale de Angelis, arrestato il 28 settembre proprio per ordine del Governo di Vittorio Emanuele e tradotto in esilio in Piemonte.

     I preparativi per le elezioni cominciarono sin dal l° novembre 1860. Il giorno successivo, fu comperato un busto in gesso di Vittorio Emanuele (costo: 1 scudo); tale busto nei giorni 4 e 5 novembre “presenziò” alle votazioni per il plebiscito. La sera prima delle consultazioni, la banda municipale percorse le vie della città, bandiere (tricolori) al vento, illuminata da “8 torcie a vento” acquistate a Porto di Fermo. In ben cinque logge del porticato che circonda quella che è oggi la piazza principale, era stata posta una figura dellTtalia “trasparente e guarnita di molti lumi a colore e addobbata di molto lauro”.

     Interessanti quelle votazioni plebiscitarie sempre accompagnate dal suono di bande musicali! Il 4 novembre 1860, alle ore 4, suona la campana maggiore del municipio. All’inizio delle votazioni (cioè alle ore 9 del 4 novembre) esce di nuovo la banda per le vie della città, pavesata a festa, e con drappi alle finestre, mentre la campana maggiore del Municipio suona a distesa per la durata di un’ora e mezza. Intanto la “trombetta” del Comune, nei due giorni 4 e 5, va in giro per informare che “la votazione è aperta” avvisando che la votazione sarebbe durata fino alle ore 17 del giorno 5, ora di chiusura delle votazioni. Avevo dimenticato di dire che nella notte dal 4 al 5 ben sette “militi” avevano montato la guardia all’urna ed alle schede.

     Terminata la votazione, eccoti un solenne corteo snodarsi per le vie della città per portare le schede e gli scrutini al Tribunale: apre il corteo l’immancabile banda, poi la Guardia Nazionale, indi due servitori del Comune vestiti di mezza gala “uno da una parte ed uno dall’altra, portano l’urna sigillata e chiusa”. Seguono tutte le autorità municipali. Le donne e i ragazzi che non avevano potuto votare, avevano con il loro entusiasmo infiammato i cuori e la mente dei cittadini, inviato delle petizioni alle autorità del nuovo governo (interessanti quelle delle donne e dei minorenni di Fermo, conservate nell’archivio di Stato Fermano). Lo spoglio venne effettuato la stessa sera del cinque. I voti favorevoli alla monarchia erano 3.068, contrari 3, schede bianche 4.

     A sera di nuovo illuminazione in città e in piazza e “coro cantato da molti coristi”.

 Il giorno 6 Fermo è invasa da moltissime bande musicali le quali erano venute ad accompagnare i rispettivi sindaci, recatisi a Fermo per la consegna dei risultati della votazione. “Le bande – come riferisce un diario del tempo – suonarono sempre, sebbene fosse tempo cattivo”.

     Il giorno dopo, infatti, nevica abbondantemente! È interessante ora, a distanza di oltre un secolo, dare un’occhiata ai risultati elettorali.

     La Provincia di Fermo comprendeva i Comuni di: Alteta, Altidona, Belmonte, Campofilone, Castel Clementino (odierna Servigliano), Cossignano, Falerone, Francavilla, Fermo, Grottammare, Grottazzolina, Lapedona, Magliano, Marano (cioè Cupra Marittima), Montefiore, Montegilberto, Montegiorgio, Montegranaro, Monteleone, Montottone, Monterinaldo, Monterubbiano, Monte S. Pietrangeli, Monsampietro Morico, Monturano, Montevidoncombatte, Montevidon Corrado, Moregnano, Moresco, Ortezzano, Pedaso, Petritoli, Ponzano di Fermo, Porto di Fermo (Porto S. Giorgio), Rapagnano, Ripatransone, S. Elpidio a Mare, S. Elpidio Morico, S. Vittoria in Matenano, Smerillo, Torre di Palme (che divenne poi frazione di Fermo nel 1878), Torre S. Patrizio.

     Tutti questi 42 Comuni che avevano una popolazione di 110.391 abitanti (la Provincia di Ascoli che allora faceva Provincia a sé, ne aveva 91.916) costituivano la Provincia di Fermo ed erano raggruppati in varie “giusdicenze” cioè Fermo, Grottammare, Ripatransone, S. Elpidio a Mare, Monterubbiano, S. Vittoria in Matenano, Montegiorgio.

     Il giorno 9 novembre 1968 il regio commissario Vittorio Salvoni pubblicò i seguenti risultati.

Giusdicenza di Fermo: iscritti 9144, votanti 5269, sì 5224, no 39, nulle 6. Giusdicenza di Grottammare: iscritti 2149, votanti 1570, sì 1569, no 1. Giusdicenza di Ripatransone: iscritti 2233, votanti 1337, sì 1327, no 10. Giusdicenza di S. Elpidio a Mare: iscritti 3951, votanti 2328, sì 2322, no 5. Giusdicenza di Monterubbiano: iscritti 2998, vo¬tanti 1872, sì 1862, no 10. Giusdicenza di S. Vittoria in Matenano: iscritti 3187, votanti 2040, sì 2030, no 10. Giusdicenza di Montegiorgio: iscritti 4198, votanti 2376, sì 2361, no 15.

 Come si vede, molti non si presentarono a votare, nonostante le bande musicali ed il suono prolungato del campanone; il popolo non sentiva molto; partecipava passivamente…

     Il 22 novembre a Napoli, Lorenzo Valerio commissario regio per le Marche, presenta a Vittorio Emanuele i risultati delle Marche. Re Vittorio ringrazia, gradisce il plebiscito dicendo che non ha visto ancora tutti i paesi delle Marche, ma li visiterà appena potrà. Subito giunge a Fermo la notizia del gradimento di Vittorio Emanuele ed ecco che alle ore 1 esce la banda musicale; suona la campana maggiore, si sparano bombe e tonanti; si accendono fuochi artificiali ed a sera viene esposto il ritratto di Re Vittorio illuminato da “6 torce a cera”. Dopo pochi giorni ripassa a Porto S. Giorgio Re Vittorio che si reca a Torino per la riapertura delle Camere. La immancabile banda e 99 fra soldati ed “uffiziali” vestiti in uniforme, lo vanno ad ossequiare.

Anno 1860 – Feste, battute di caccia, amori per Re Vittorio Emanuele II

     Di questi giorni, 129 anni or sono, tra Fermo e Grottammare si svolgevano fatti ed eventi di importanza nazionale nel quadro e nel clima risorgimentale.

     Dopo la battaglia di Castelfidardo (18 sett. 1860) e la susseguente occupazione di Fermo da parte dei Piemontesi, il 28 settembre Stanislao Toro, tenente dei “regi Carabinieri”, alle ore 15 arresta l’arcivescovo di Fermo, Cardinale Filippo De Angelis e lo spedisce in esilio a Torino. Era la seconda volta che tale Cardinale Arcivescovo veniva imprigionato: la prima, nel 1849, venne condotto in Ancona dove rimase per cento giorni. Questo secondo esilio, durò sei anni.

     Tolto di mezzo il Cardinale De Angelis, il solo di tutti i prelati che (secondo la dichiarazione di Lorenzo Valerio) poteva dare “fastidio”, Vittorio Emanuele, che il giorno 3 ottobre era sbarcato in Ancona, dopo soste a Loreto, Macerata ed altre località, cala verso Fermo. Doveva fermarsi a Porto S. Giorgio (allora Porto di Fermo), dove si era recata la municipalità fermana per ossequiarlo ed era stato preparato un sontuoso banchetto per 50 persone. Ma il Re non si fermò affatto e si diresse a Grottammare, dove giunse alle ore 14,15.

     Mortificati per la mancata sosta nel territorio del loro Comune (Porto S. Giorgio era tutt’uno con Fermo), le autorità decisero subito di recarsi a Grottammare, sia per ossequiare il Re, sia per portare drappi, addobbi e copertine per decorare la villa Laureati, dove era alloggiato il sovrano (“furono portate cento braccia di cotonina rossa e undici tele che servono per addobbare l’orchestra del Duomo nella festa di Santa Maria”).

     Il povero Cardinale De Angelis che si trovava in esilio a Torino, non poteva mai immaginare che, proprio quel giorno, la sua carrozza ed i suoi cavalli sarebbero stati adibiti per andare ad ossequiare il suo “persecutore”. Infatti, non trovandosi una carrozza degna per una visita ad un sovrano, venne presa proprio quella del cardinale, bella e sontuosa, e venne incaricato della guida equestre lo stesso vice-cocchiere del Cardinale in esilio (il sottococchiere Domenico).

     Giunte a Grottammare, le autorità fermane indirizzarono al Re un vibrante discorso; assistono ai fuochi artificiali che incendiano il cielo della cittadina rivierasca, fieri che la banda musicale di Fermo rallegri con le sue note patriottiche la prima giornata di Vittorio in Grottamma-re, paese di giurisdizione fermana. La banda municipale tornò a Fermo ad un’ora di notte e la commissione (composta per la storia dal marche¬se Cesare Trevisani, Napoleone Marconi, e dagli avvocati Pietro Petrocchi e Federico Monti) “pensò a pagare tutte le spese, anche per le vetture, che portò scudi 29”.

Il giorno successivo, 12 ottobre, il Re riceve il generale Cialdini, il vincitore di Castelfidardo, quindi la commissione napoletana guidata da Ruggero Bonghi che gli offre la corona di Napoli. Da Lione, l’arcivescovo di Torino, mons. Fransoni, scrive a Torino al collega Card. De Angelis, una lettera consolatoria. A Fermo, da Grottammare, da Macerata, da S. Benedetto giungono in continuazione feriti. Ad ognuno di essi il Comune di Fermo dà un sussidio di baiocchi 18,5. Ma non si deve credere che Fermo fosse solo città ospedaliera. Vi è un continuo “sbaro di bomme”, fuochi artificiali, suoni di bande cittadine e dei paesi vicini; si innalzano globi, la “campana maggiore” del Duomo viene fatta suonare in continuazione. Anzi vi fu anche la corsa dei cavalli col pa¬lio; su questo era effigiato il Re Vittorio Emanuele IL  Il vincitore del palio si buscò dieci scudi di premio.

     A Grottammare intanto il Re, di buon mattino, nei giorni 13 e 14 va a caccia della fauna locale e anche… di prosperose donzelle, scortato dalla guardia del corpo.

Come si vede, le gesta eroiche del Risorgimento Italico erano caratterizzate (e qui “essenzialmente”) da sortite venatorie, “sbaro di bomme”, fuochi artificiali, balli, bande musicali e corse al palio. Ma quello che non mancò, fu la presenza della contessa di Mirafiori che, eccettuati i momenti venatori del re, gli fu costantemente al fianco e da Grottammare lo seguì a Giulianova, dove il Re si recò il giorno 15, alle ore sette, dopo aver dato udienza alle ore sei ai ministri Farini e Fanti.

Anno 1860- Il “regalo” dei Piemontesi 

     Il 22 settembre 1860 dopo la battaglia di Castelfidardo, dilagarono nel fermano ed a Fermo le truppe piemontesi. Era crollato nelle Marche e in Umbria il governo pontificio, grazie anche al contributo dei volontari e dei “Cacciatori del Tronto” i primi, in verità, che entrarono a Fermo.

     I Piemontesi per “ripagare” il contributo di sacrifici e di sangue dei Fermani alla causa di Vittorio Emanuele II, dopo tre mesi esatti, il 22 dicembre 1860, decretarono la soppressione della Provincia di Fermo insieme a quella di Camerino.

      La Provincia di Fermo era più florida, più ricca, più popolosa di quella di Ascoli, ma i nuovi padroni la accorparono a questa, mandando in esilio il Cardinale Arcivescovo Filippo De Angelis, confiscando beni e biblioteche ai religiosi.

     Oggi, dopo 129 anni e precisamente in questi giorni, la questione della Provincia o meglio di una nuova Provincia a Fermo è sulla bocca di molti e se ne sono interessati giornali e rotocalchi. Con Fermo sono interessate altre località di ogni parte della Penisola.

Ma quali Comuni componevano nel 1860 la Provincia di Fermo prima della sua soppressione?

Erano (fra parentesi il numero degli abitanti) i seguenti: Alteta (ora fraz. di Montegiorgio con 496 abitanti); Altidona (1356); Belmonte (Pi­ceno, 1002); Campofilone (1413); Castel dementino (Servigliano, 2218); Cerreto (442); Cossignano (1343); Falerone (3439); Francavilla d’Ete (1057); Fermo (18.179); Grottammare (3799); Grottazzolina (1431); Lapedona (1474); Magliano (di Tenna, 1048); Marano (Cupra- marittima) + S. Andrea (2262); Massa (Fermana, 1255); Massignano (1848); Montappone (1960); Montelparo (1641); Monte Falcone (1124); Montefiore (dell’Aso, 2436); Monte Giberto (1385); Monte Giorgio + Monteverde (4938); Montegranaro (4342); Monte Leone di Fermo (1049); Montottone (1758); Monte Rinaldo (936); Monterubbia- no (2924); Monte S. Pietrangeli (2412); Monsampietro Morico (639); Monturano (2015); Monte Vidon Combatte + Collina (1142); Monte Vidon Corrado (1239); Moregnano (ora fraz. di Petritoli, 405); More­sco (881); Ortezzano (862); Pedaso (605); Petritoli (2615); Ponzano + Torchiaro (1395); Porto S. Giorgio (4143); Rapagnano (1474); Sant’El- pidio a Mare (8817); Sant’Elpidio Morico (502); Santa Vittoria in Ma- tenano (2419); Smerillo (808); Torre di Palme (1126); Torre S. Patrizio (1107).

Tutti gli altri Comuni dell’attuale Provincia di Ascoli, apparteneva­no a quella che era la Provincia di Ascoli la quale aveva una popolazio­ne totale di 91.916 unità, mentre Fermo ne aveva 110.321.

Fermo aveva un estimo catastale di lire 19.187.948, Ascoli di lire 12.929.555. Ascoli aveva 131 Km. di strade rotabili, Fermo 357. Ma, come detto, a soli tre mesi dalla “liberazione” avvenuta il 21 settembre 1860, il 22 dicembre dello stesso anno i Piemontesi regalarono a Fermo F“accorpamento” ad Ascoli, sopprimendo la Provincia fermano.

Anno 1860 – Il plebiscito ed il giallo delle schede

     Il 4 novembre segna la data della vittoria nella Grande Guerra e da allora ogni anno se ne ha la rievocazione ed il commosso ed affettuoso ricordo per tanti caduti per la patria. Ma non tutti sanno che in un altro 4 novembre, quello del 1860, dopo la “venuta” dei Piemontesi, fu decretato il plebiscito per l’annessione delle Marche al regno di Vittorio Emanuele II.

Sono passati 129 anni, ma nelle pagine di alcuni diari manoscritti troviamo la narrazione di tale evento, con alcuni particolari che meritano di essere conosciuti. Ovviamente non c’era stata possibilità di propaganda libera. Il governo pontificio nelle Marche era caduto sotto i colpi dei cannoni piemontesi, e questi avevano fra l’altro cacciato i religiosi, confiscato beni della Chiesa, esiliato il Cardinale Arcivescovo Filippo De Angelis.

     C’era solo, da parte piemontese, la fretta di mostrare ad una certa opinione pubblica che le Marche tutte, erano con Vittorio Emanuele. Infatti i voti a suo favore furono 3068; tre i contrari; schede bianche quattro (“tre contro, e quattro cartine bianche” dice il diario). La propaganda era a senso unico. Il giorno del 4 novembre alla mattina alle ore quat¬tro, la campana maggiore del Comune suonò a distesa svegliando quan¬ti non si ricordassero di votare o avessero dei “dubbi”. Poi alle ore 9, “suono della campana maggiore per il lasso di un’ora e mezza” sbaro (sic) di molte bombe, suono della banda in città; alla sera, illuminazione per la Città.

     “L’urna contenente le schede votate fu posta nella camera annessa alla residenza, guardata da sette militi, ai quali il Comune di Fermo passò la cena consistente in maccheroni, umido, arrosto, insalata, pane e vi¬no in tutto per conto del Comune che portò la spesa di scudi 3.72 e fu‘ (sic) pagato al cuoco Brini cantiniere”.

     Il 5 novembre in presenza del “capo di ispezione della Guardia Nazionale, Fuma fu’ (sic) portata nella sala grande dove fu messa il giorno prima; suono della campana maggiore e suono di banda. Una Trombetta del Comune dovette dar segno alla loggia col suono della Tromba, ed un balivo per pubblicare che la votazione era già aperta… Alle ore 5 pomeridiane in punto, la commissione fece dare segno da un Trombet¬ta alla loggia che la votazione già è chiusa”.

     Il giorno dopo, 6 novembre, Fermo fu invasa dalle bande musicali dei paesi che componevano la sua provincia. Il 7 novembre grande fe¬sta da ballo in Comune per celebrare la… vittoria. Il giorno 9, il Commissario Regio per le Marche. Lorenzo Valerio, telegrafa che “ha accettato in modo solenne i risultati portatigli dai presidenti dei sette tribunali delle Marche”. Il testo viene fatto stampare e quindi esposto alla vista di tutti “illuminato con quattro padelle di sego e vi fu’ messo una copertina rossa”.

Anno 1860 – Moti in piazza contro i “tagli” piemontesi  

Centotrentaquattro anni or sono, di questi giorni, e precisamente finite le feste natalizie, a Fermo scoppiarono moti di piazza, manifestazioni contro il Governo piemontese ed agitazioni varie. Dopo tre mesi esatti dal loro ingresso a Fermo e due dall’indizione del Plebisci¬to (21 settembre 1860 e 21 ottobre 1860) con decreto n. 4495 del 22 dicembre 1860, il Governo piemontese privava Fermo della Provincia e la univa coattivamente a quella di Ascoli. Si disse che era necessario istituire una nuova grande Provincia comprendendovi anche parte di quella di Teramo e costituire così una “saldatura” tra l’ex Stato Pontificio e l’ex Regno di Napoli. Teramo reagì energicamente e non se ne fece nulla. Fermo si diede da fare per riaverla, ma inutilmente. Addi¬rittura lo stesso Consiglio provinciale in data 8 dicembre 1875 ne chiese il ripristino al Parlamento, ma invano. Si ottenne solo, nel 1861, una sotto-Prefettura che fu soppressa dal governo fascista nel 1926, inasprendo ancora una volta la ferita infetta a Fermo che mai, nel corso dei secoli, era stata soggetta ad Ascoli.

     Il governo piemontese (il Regno d’Italia sarà proclamato solo il 17 marzo 1861 quando la fortezza della vicina Civitella del Tronto resisteva ancora), cercò di addolcire la pillola istituendo a Fermo l’”Istituto d’Arti Mestieri per tutte le Marche”, dotandolo di una rendita annua di lire diecimila. Ma tale istituto, promanazione dell’opera Pia Montani, esisteva già dal 1854. Per dare idea della ottusità dei Governanti di allora, basti dire che mentre il commissario regio (che viveva ed operava sul posto, cioè Lorenzo Valerio, consigliava di mantenere a Fermo la Provincia, il Governo piemontese la soppresse senza alcuna ragione.

     Per la progettata macroprovincia con Teramo, si era deciso che se non si fosse riusciti, Fermo (come del resto Teramo) avrebbe riavuto il mal tolto! Ma nulla! Ottusi e microcefali, i governanti di Torino ne commisero altre… che qui sarebbe troppo lungo elencare e che appaiono ora perché, allora, la storia la scrissero i vincitori ed a modo loro. La forzata e forzosa unione della Provincia di Fermo a quella di Ascoli, fu un atto di solenne ingiustizia.

     Al momento della soppressione, la Provincia di Fermo contava 110.960 abitanti (Ascoli soli 90.000). Solo nel 1901, dopo 40 anni dal¬la perdita della Provincia, passa seconda in graduatoria. In quell’epoca, Fermo contava 138 professori (Ascoli 98). Il censimento pontificio del 1853 indica per Fermo 46 “cultori di scienze e lettere” ‘Ascoli solo 4); Sanitari nella Provincia di Fermo: 241; (Ascoli 139). All’atto della soppressione della Provincia fermana, questa era della stessa importanza di Ancona e di Macerata, cioè di seconda classe (Ascoli era di terza classe). Oggi, malgrado le mutilazioni, privazioni ed emarginazioni (leggi: Cassa del Mezzogiorno solo per la parte sud dell’attuale Provincia), Fermo ha ancora buoni numeri. Basti pensare che ha 60 mila abbonati al telefono contro i 45 mila di Ascoli e nel traffico telefonico per l’Europa il Distretto di Fermo è il secondo d’Italia.

 E che dire le giurisdizioni ecclesiastiche? Fermo ha la più vasta e popolata Diocesi delle Marche ed un Tribunale ecclesiastico per tutta la Regione. Ora c’è l’aspirazione alla istituzione o meglio alla restituzione della Provincia e nonostante i 40 Comuni su 73 siano favorevoli ed il Consiglio Regionale pure, ci sono forze oscure, contro una deci¬sione di giustizia. Non siamo contro nessuno. “Io parlo per ver dire / non per odio d’altrui né per disprezzo”, come dice il Petrarca, ma non è giusto che il calzaturiero di Montegranaro per pagare l’iva o per il Catasto od altro, si debba recare al capoluogo dell’attuale Provincia e per di più attraversando il territorio abruzzese, quando a due passi ha Macerata.

Anno 1860 – Provincia scippata; fu ritorsione?

      Nel quadro delle iniziative che sono state prese, o si stanno prendendo, per l’istituzione della nuova Provincia di Fermo, Gabriele Nepi non nuovo a certe ricerche riguardanti l’area Picena, ha pubblicato un’interessante monografia “La Provincia di Fermo nella storia”, patrocinatori di quest’ultima fatica di Nepi: l’Associazione dei Comuni della zona calzaturiera e l’Associazione intercomunale del Fermano, che si battono ormai da anni per l’istituenda Provincia.

     La ricerca parte da un’ampia sintesi dell’età romana per arrivare sino al 1860, quando con il decreto n. 4495 del 22 dicembre, la Provincia di Fermo fu soppressa. Eppure a questa data – come Gabriele Nepi dimostra con precise testimonianze storiche – Fermo godette di un eccezionale prestigio e di una vera e propria supremazia su tutte le città marchigiane. Il periodo riguardante l’occupazione napoleonica, con la divisione delle Marche in dipartimenti (tra i 3 dipartimenti in cui la Regione marchigiana era divisa, del Metauro, del Musone e del Tronto, Fermo fu il capoluogo di quello del Tronto comprendente la Marca del sud), viene accuratamente studiato ed illustrato con riproduzioni di carte geografiche dell’epoca, mentre con grafici e tavole vengono riportati i dati del censimento pontificio del 1853, riguardante le due Province di Ascoli e Fermo, da cui risulta una superiorità notevole del capoluogo ferma¬no nei confronti della densità demografica.

     Soffermadosi sul Plebiscito, al quale nei primi giorni di novembre del 1860 fu chiamata la popolazione marchigiana per decidere la sua annessione al regno di Vittorio Emanuele II, Nepi fornisce i dati precisi dei risultati. Essi (malgrado ricerche) erano sconosciuti. Infatti quelli dell’allora Provincia di Fermo e di quella che era la Provincia di Ascoli erano raccolti in una busta con l’indicazione: Polizia. Essi sono qui pubblicati per la prima volta.

     Malgrado la quasi totale adesione degli abitanti del Fermano al nascente stato italiano, la grave ingiustizia della soppressione della Provincia fermana ebbe luogo a poco più di un mese dal plebiscito. Le ragioni di tale atto non sono state mai chiarite: forse una ritorsione del Governo piemontese contro Fermo per la posizione del suo arcivescovo, il Cardinal De Angelis. mai favorevole al nuovo stato di cose; forse una ri- ricci dello stesso Governo piemontese, per la tiepida accoglienza di cui fu oggetto nel suo viaggio verso il sud: forse un più vasto disegno politico che mirava a costituire una Provincia centralizzata comprendente anche territori a sud del Tronto. Certo è che la soppressione della Provincia fermana, generò tensioni e proteste che perdurarono per alcuni decenni: tentativi furono fatti da parte di amministratori, deputati e dagli stessi cittadini fermani attraverso delegazioni, recatesi a perorare la causa di una restituzione del mal tolto, o attraverso petizioni popolari, ma da parte del Governo centrale nessuna risposta positiva fu data e il problema, col passare degli anni, fu posto nel dimenticatoio finché fu ripreso soltanto con la riconquista della libertà democratica, all’indomani del secondo conflitto mondiale.

     La monografia si chiude con una serie di dati riguardanti la vita economica e culturale di Fermo e del territorio, dati che ancor oggi dimo¬strano il crescente sviluppo della zona fermana, anche se privata da tutti quei benefici e privilegi garantiti al territorio ascolano dalla Cassa del Mezzogiorno. La restituzione della Provincia a Fermo appare quindi, anche per opera della monografia di Gabriele Nepi, un atto di giustizia riparatrice dei tanti torti e speculazioni subite da Fermo in questi cento- trentacinque anni che ci separano da quell’infausto dicembre dell’anno 1860. (V. Girotti in “Resto del Carlino”- 30-XII-1990) (31-XII-1990).

Anno 860 – Quando il Cardinale era perseguitato

Il Card. Filippo De Angelis è noto, oltre che nella storia di Fermo, anche in quella nazionale. Deportato, al tempo della Repubblica Roma­na del 1849 in Ancona, vi rimase per cento giorni fino alla liberazione da parte degli Austriaci. Nel 1860, all’indomani della venuta dei Pie­montesi a Fermo, fu preso prigioniero e deportato a Torino dove rima­se fino al 1866. Appena giunto, chiese ed ottenne di conferire diretta- mente con Cavour per l’ingiusto trattamento e gli rinfacciò la sua poli­tica anticuriale.

Venne a Fermo dalla Diocesi di Cometo Tarquinia nel 1842; era già insignito della porpora cardinalizia e Cardinale fu per 38 anni esatti: dall’8 iuglio 1839 all’8 luglio 1877, giorno della morte. Ma vi sono aspetti inediti della sua vita e della sua storia, specie sulla prigionia a Torino e ritorno a Fermo nel 1866. Appena saputa la notizia della libe­razione dopo sei anni di esilio, si recò nel Duomo di Torino per cele­brare una messa solenne di ringraziamento. Particolare curioso: oltre ad una folla strabocchevole, vi partecipò la Duchessa di Genova con i figli Eugenio ed Amedeo di Savoia, di quei Savoia il cui governo lo aveva preso e tenuto prigioniero. Il De Angelis partì da Torino il 29 novembre 1866. Qui era stato visitato dal Card. Arcivescovo di Rouen, Enrico Ma­ria Gaston; da S. Giovanni Bosco, dal clero torinese, prelati subalpini ed altre personalità del mondo della cultura fra cui l’umanista Antonio Vai- lauri. Nel viaggio di ritorno, fu ossequiato dal Vescovo di Tortona, Gio­vanni Negro, dai canonici, clero e popolo. A Voghera, molti sacerdoti e religiosi andarono a salutarlo. A Piacenza il Vescovo della città, Anto­nio Ranza (anche egli perseguitato dal governo piemontese), gli andò incontro. Lo fece salire sulla sua carrozza e fra due ali di popolo plau­dente, i due si recarono in episcopio dove il De Angelis rimase due gior­ni per riposarsi dagli strapazzi del viaggio. Qui vennero a trovarlo non solo i canonici in pompa magna, ma i maggiorenti della città e le più rag­guardevoli signore. Nessuno poteva credere che un uomo così amabile e pio fosse stato oggetto di persecuzioni ed angherie. Dopo le acco­glienze calorose e trionfali di Piacenza, fu la volta di Ferrara, dove ven­ne accolto dal Cardinale Luigi Vannicelli Casoni, che lo ospitò nel pa­lazzo arcivescovile. Fermo si avvicinava. A Pesaro gli venne incontro una delegazione del clero di Fermo. Ad Ancona una commissione di ca­nonici. A Porto S. Giorgio lo attendevano i maggiorenti di tutte le loca­lità dell’archidiocesi e due ali di folla osannante. Un corteo di 19 car­rozze di cittadini fermani scortò il De Angelis fino al Duomo. Lascia­mo immaginare al lettore il tripudio dei fermani e le calorose acco­glienze in cattedrale. La relazione del ritorno, scritta in latino e stampa­ta a Cometo. si dilunga in particolari. Ivi è riportata integralmente una lettera del Card. Fransoni. esule a Lione e la risposta del De Angelis. Curiosità: entrambe le lettere sono scritte in francese.

Il Card. De Angelis per le sue benemerenze fu nominato in seguito Camerlengo di S. Romana Chiesa, presidente del Concilio Vaticano le (1870). Nel Conclave che portò all’elezione di Pio IX, si piazzò onore­volmente nella votazione: giunse terzo in graduatoria. Il Card. Mastai Ferretti (poi Pio IX) ebbe 36 voti: Luigi Lambruschini 10, Filippo De Angelis 6. Chiarissimo Falconieri 4, seguono gli altri.

Anno 1860 – Ricordando Vittorio Emanuele (1878-1978) nelle Marche

Non era ancora spenta l’eco della battaglia di Castelfidardo (18/9/1860), che il Re Galantuomo sbarca il 3 ottobre in Ancona pas­sando in rassegna l’esercito di circa 30.000 soldati. In Ancona il Re si trattenne sette giorni, ricordando la città di Pergola che gli aveva do­nato (accompagnato da un’ode di Luigi Mercantini di Ripatransone) un paio di speroni d’oro, e da Ancona inviò il proclama “ai popoli del­l’Italia Meridionale”. Dopo aver visitato il luogo della battaglia di Ca­stelfidardo, il 9 ottobre, il Re, passando per Osimo e Loreto, si reca a Macerata.

A Loreto grande era l’attesa. Tutto il capitolo era ad attenderlo da­vanti la porta maggiore della Basilica, però senza la presenza del Ve­scovo. Vittorio Emanuele ammirò la statua di Sisto V, entrò poi in Ba­silica e si “pose in ginocchio davanti all’antica statua di legno, della Vergine dalla faccia di colore oscuro, con ricchissima veste intessuta d’oro”.

Vista una scodella piena di corone (racconta Gaspare Finali) mi ordinò di acquistargliene un buon numero”. Prima di lasciare il san­tuario, donò di sua tasca la somma di lire cinquantamila, cifra cospi­cua allora per i bisogni della Basilica; quindi visitò il Collegio Illirico che sorge ad un passo dal Santuario e visitò i feriti piemontesi e ponti­fici dello scontro di Castelfidardo. Alcuni, vedendo il Re “usurpatore” si nascosero sotto le lenzuola; altri sembravano quasi chiedere scusa di aver combattuto contro di lui; altri gli strinsero la mano. Dopo la visita ai feriti, TAmministrazione della Santa Casa offrì il pranzo al Re.

Tornando da Macerata, ridiscese verso il litorale e da Porto Civitanova si diresse a Porto Sant’Elpidio “tutto bandiere, verdure e fiori” dove spiccava un arco trionfale “incimierato dallo stemma sabaudo”. L’allora modesta frazione che contava sì e no 600 (seicento) abitanti, rigurgitava di migliaia e migliaia di persone, accorse dalle zone più lontane per “vedere lo Re”.

Proseguendo nel suo itinerario, Vittorio Emanuele doveva fermar­si a Porto S. Giorgio e sostare nell’ex villa Bonaparte, ma poiché il proprietario non si fece trovare presente ed a causa della sua ideologia tutt’altro che ligia alla monarchia sabauda, Vittorio Emanuele si dires­se a Grottammare non senza gradire l’omaggio della popolazione e di alcuni cittadini di Fermo che, banda in testa, andarono a salutarlo a Porto S. Giorgio. Cavalcando il fido destriero, chiamato Solferino, il Re passò a Pedaso indi a Cupra Marittima ed alle ore 13 dell’undici ottobre 1860 giunge a Grottammare.

Qui fu ospite a Villa Laureati ove una lapide ricorda l’evento mentre lo stato maggiore (Gen. Fanti, Menabrea, Farini, De Sonnaz, etc.) e le “reali cucine”, trovarono alloggio nel palazzo del nobile Car­lo Fenili.

In quel periodo, aspro era il dissidio con l’autorità. L’Arcivescovo di Fermo, Cardinal Filippo De Angelis, era stato mandato in esilio a Torino dal governo del Re Vittorio Emanuele e, particolare curioso, il nobile Paolo Guerrieri-Paleotti, prese la sontuosa carrozza del Cardi­nale Arcivescovo scacciato, e con essa si recò a rendere omaggio a Vittorio Emanuele nella Villa Laureati.

Grottammare in quei giorni era alla ribalta della cronaca. Il Muni­cipio, nell’indirizzo rivolto al Sovrano, asseriva che il popolo di Grot­tammare, ultimo in dignità, ma non ultimo di cuore agli altri fratelli redenti, salirà in auge allorché per volere della nova Dinastia “nelle marchiane contrade” saranno applicate le vie ferrate, i telegrafi, l’in­cremento dell’industria e del commercio…”.

Ma l’evento più importante fu il ricevimento, nel Comune di Grottammare, della Commissione del Regno di Napoli (circa 25 per­sone tra cui Luigi Settembrini) capeggiata da Ruggero Bonghi che sa­rà poi Ministro della P.I. del Regno d’Italia (1874-1876); essa era ve­nuta attraverso varie peripezie ad offrire a Re Vittorio la corona del Regno partenopeo. Bonghi indirizzò al Re un alato discorso invitando­lo a liberare il Sud.

Il 14 ottobre, domenica, Re Vittorio ascoltò la Messa nel vecchio incasato di Grottammare; messa celebrata dal cappellano di corte; in­di, nel pomeriggio, andò a caccia nelle alture circostanti. Il 15 ottobre alla testa del suo esercito e con tutto lo stato maggiore, passa per S. Benedetto del Tronto e, sempre a cavallo del fiero Solferino, alle ore 10,30 varca il Tronto, annullando così la secolare barriera tra lo Stato Pontificio ed il Regno di Napoli…

A Napoli il 22 novembre accoglieva il plebiscito delle sei Provìn­ce marchigiane (oltre alle attuali v’erano Fermo e Camerino che ver­ranno soppresse esattamente un mese dopo). “O sire nelle Marche avete operosi cittadini, soldati valorosi, italiani di Vittorio Emanuele” così il proclama.

Sia lecito a noi discendenti di quei operosi cittadini e soldati valo­rosi e corregionali dei grandi marchigiani del Risorgimento come Lui­gi Mercantini, Pio IX. Terenzio Mamiani, Candido Augusto Vecchi, Augusto Elia ed altri, ricordare umilmente ma con una punta di meri­tato orgoglio l’anniversario della morte del Re Galantuomo che con Castelfidardo, Pergola. Grottammare ebbe nelle Marche tappe lumino­se e gloriose nel cammino che portò all’Unità d’Italia.

Anno 1867 – Nel giorno di carnevale 1867, don Bosco arriva a Fermo

Siamo in Quaresima, ma non lo si era nei giorni 27 e 28 febbraio 1867; anzi, proprio in quei giorni, si era in pieno carnevale e a sera da Roma, dopo un faticoso viaggio, giungeva a Fermo Formai famoso Don Bosco, accompagnato dal suo fedele segretario Don Francesia.

Don Bosco veniva a salutare e a rivedere il suo amico, l’arcivescovo Cardinale Filippo de Angelis, che aveva conosciuto a Torino dove, dal 1861 al 1866, era stato mandato in esilio dal governo piemontese.

Dopo la battaglia di Castelfidardo (18 settembre 1860), i Piemon­tesi avevano invaso le Marche, avevano innanzitutto soppresso ordini e congregazioni religiose confiscandone i beni, abbattuto gli stemmi pon­tifici e mandato in esilio il De Angelis, perché vedevano in lui il fiero oppositore del nuovo governo e il punto di riferimento dei “nostalgici” pontifici.

Il Card. De Angelis fu tenuto in esilio per sei anni, ospitato a Tori­no nella casa dei padri Lazzaristi e sorvegliato a distanza dalla polizia di Cavour. Don Bosco lo andò a visitare per la prima volta nell’aprile del 1861. Conosceva di fama il card. De Angelis (si occupò di lui anche il regio commissario per le Marche Lorenzo Valerio) e il De Angelis co­nosceva anch’egli di fama il sacerdote Giovanni Bosco, che due anni prima aveva fondato i Salesiani.

Tra i due, nacque una nobile amicizia sostanziata da reciproca sti­ma e ammirazione. De Angelis era molto quotato in Vaticano.

Gli incontri fra Don Bosco e il Cardinale furono frequenti. Don Bo­sco andava spesso a trovare il porporato. L’esilio è sempre triste ed es­sere confinati, non è certo “idilliaco” tanto più che nel 1849 De Ange­lis aveva subito un altro esilio in Ancona, durato cento giorni. Nel 1866, una disposizione del ministro Bettino Ricasoli, permise ai Vescovi e prelati esiliati in Piemonte o rifugiatisi a Roma, di poter tornare alle lo­ro sedi. De Angelis era libero. La notizia non gli fu notificata personal­mente, ma venne data al superiore delle Case dei Lazzaristi dove era ospitato. Tuttavia poté tornare a Fermo nel novembre 1866.

Intanto Don Bosco che, come detto, aveva fondato i Salesiani, non riusciva dopo quasi otto anni ad avere l’approvazione pontificia. Da To­rino, si era recato a Roma accompagnato dal suo segretario Don Fran- cesia. Nella città eterna aveva contattato vari prelati e cardinali, ma in­vano. L’approvazione della Santa Sede non arrivava. Pensò allora al suo amico Card. De Angelis e da Roma venne direttamente a Fermo a tro­varlo. Inutile dire che fu accolto con la più festosa cordialità. Dopo qual­che mese i due si ritrovavano non più nell’esilio di Torino, ma nella se­de arcivescovile del cardinale, a Fermo. Nel frattempo, De Angelis era stato nominato camerlengo di Santa Romana Chiesa; il suo “peso” e la sua influenza erano aumentati. Era inoltre stimato moltissimo da Pio IX. Chi meglio di lui poteva aiutare Don Bosco per ottenere l’approvazio­ne pontificia della Società Salesiana? Il Card. De Angelis prese a cuore la cosa e la sospirata approvazione venne.

Nel suo soggiorno a Fermo. Don Bosco visitò la città, il seminario e parlò ai chierici. Uno di essi, Domenico Svampa, che sarà poi Arci­vescovo e Cardinale a Bologna, gli lesse una poesia da lui composta che Don Bosco gradì moltissimo. E così i Salesiani, ora sparsi in tutto il mondo (sono 18.000) con scuole, istituti di educazione, ospedali, mis­sioni e università, furono approvati grazie all’interessamento del Card. De Angelis, amico ed estimatore di Don Bosco.

Anno 1873 – Mons. Camilli e la Romania

     Alla ribalta oggi della cronaca nazionale, la Romania ogni tanto ci ricorda i suoi legami con la nostra patria e col nostro Piceno.

Oltre al nome che arieggia Roma, la sua conquistatrice, oltre i vincoli di lingua e di stirpe e di etnia (Traiano nel sec. 2- d.C. vi trasferì da ogni parte del mondo romano un gran numero di coloni), ricordiamo che in una sua città, a Tomi, odierna Costanza, morì il “nostro compagno di scuola” Publio Ovidio Nasone qui relegato per il carnieri et errar. Tempo fa siamo andati a trovarlo, o meglio a vedere la stele eretta in suo onore; gli abbiamo perdonato i giorni tristi che ci ha fatto passare nel tradurre i suoi tomi di latino, congratulandoci con lui per la carica di agonoteta che qui ricoprì durante la relegazione voluta da Augusto.

     In Romania abbiamo visto pure il castello di Dracula e ricordato Dumitrescu, un grande storico romeno, che ha fatto grandi studi sul Piceno pubblicando nel 1929 e in lingua italiana un volume ancora attuale: “L’età del Bronzo nel Piceno”. In esso si parla delle necropoli picene di Fermo, di Belmonte, di Cupra Marittima, di Porto S. Elpidio, di Grottazzolina, di Colli del Tronto, Offida, etc.

     Ma grande il nostro stupore a lassi, città alle porte della Russia, anzi ad essa vicinissima, dopo le “rettifiche di confine” dell’ultima guerra.

     Qui nella Chiesa cattolica, abbiamo trovato… un quasi concittadino, o meglio la lapide di un concittadino, fondatore della risorta Diocesi di lassi. Si tratta del Vescovo Nicola Camilli, nato a Monterubbiano nel 1840, consacrato dapprima Vescovo di Mosinopoli; venne promosso nel 1873 alla sede arcivescovile di lassi, dove eresse una bella Cat¬tedrale e il seminario. Due lapidi, ambedue in un latino stupendo (e come poteva essere altrimenti in una nazione daco-romana?) ricordano le virtù e le opere di Mons. Nicola Camilli vescovo, nativo di Monterubbiano. “Itala gente dalle molte vite!”. O meglio: “mondo che giri, marchigiani che trovi!”.

Anno 1874 – La notte dell’Epifania del 1874 a Montefiore

     Era la notte dell’Epifania del 1874! Nella vicina Montefiore dell’Aso apriva gli occhi alla luce Adolfo De Carolis, che sarebbe diventato pittore di fama internazionale. Nasceva nella “notte in cui in cielo disfavilla la cometa che portò luminoso nel mondo il nome di Montefiore”. Così Bruno da Osimo, poi allievo del De Carolis.

     Dopo gli studi elementari, entrò nel Seminario di Ripatransone, ma ben presto ne uscì e frequentò il ginnasio-liceo statale di Fermo. Qui come altri “spiriti magni”, temprò il volo per mete luminose. La scuola fer-mana, che aveva forgiato personalità di spicco come Sacconi, Temistocle Calzecchi-Onesti, Augusto Murri, sommo clinico; Silvestro Baglioni, i Benelli, i Nardi, Don Romolo Murri etc., “guidò le penne / delle… ali a così alto volo”. E quanto mutuiamo da Dante (III, XXV, 49-50), non è esagerazione, perché dopo il liceo classico, De Carolis si iscrisse all’Accademia d’Arte di Roma e Bologna, spiccando un autentico, luminoso volo!

    In quest’ultima città, si iscrisse all’Accademia di pittura, tornando spesso nella natia Montefiore, nella “quiete profumata e sinuosa dell’Aso, nel lembo di mare che azzurreggia giù in fondo”. Vincitore di mostre di pittura e di concorsi, dipinse a Bologna la “Sala Maggiore” del Palazzo del Podestà, opera grandiosa di 2500 metri quadrati. Decorò l’Aula Magna dell’Università di Pisa; i palazzi delle Amministrazioni provinciali di Arezzo e di Ascoli Piceno; gli episodi della vita di S. Francesco a Padova; la cappella dei caduti a S. Ginesio! Disegnò le vetrate ed i mosaici per la cappella di Villa Puccini a Torre del Lago e la Villa Brancadoro a S. Benedetto del Tronto.

    Valentissimo xilografo, ci diede mirabili capolavori: il suo Dantes Adriacus fu posto in tutte le Ambasciate d’Italia dei cinque continenti. Celebri le tavolette dei “Fioretti”. Decorò ed illustrò molte opere di D’Annunzio: Laudi, Figlia di Jorio, Notturno, Francesca da Rimini, Fedra, L’Alcione, Canzoni e Gesta d’Oltremare. Per Pascoli, illustrò Nuo¬vi Poemetti (1909), Odi ed Inni (1911), Carmina (1914). Nel periodo fiorentino, cominciato nel 1901, fu in relazione con personalità celebri, quali Papini, Marinetti, Borgese, Conti, Prezzolini.

     Quando al liceo studiavamo greco e latino, sarebbe stato per noi sommo piacere, sapere che quasi tutte le illustrazioni ai nostri libri di testo erano opere di marchigiani, ma in modo speciale di Adolfo De Carolis. Avremmo dorse amato di più i Lirici greci (Zabichelli) e Inni di Pascoli (pure Zanichelli), oltre ai vocabolari italiani (quasi tutti di autori marchigiani: Gabrielli di Ripatransone; Panzini di Senigallia: Palazzi di Arcevia; Mestica di Apiro) e latini Campanini e Carboni (Carboni era di Ortezzano), Scevola-Mariotti (Scevola è del Pesarese), nessuno peò ce l’ha mai detto.

     De Carolid che come Giovanna d’Ascoli era nato il 6 gennaio, morì a Roma il 7 Febbraio 1928, esattamente mezzo secolo dopo la morte di Pio IX, avvenuta nello stesso giorno.

     Nell’prmai lontano 1902 Pascoli svriveva al nostro: “….. auguro un anno pieno di gioia e di gloria”. Ci permettiamo dopo 90 anni ripetere tale augurio ai nostri lettori con affettuosa stima e viva cordialità, nel ricordo di De Carolis (o meglio de Karolis, come lo aveva ribattezzato D’Annunzio), nato nella notte in cui in cielo disfavilla la cometa,  che portò poi luminoso nel mondo il nome di Montefiore.

Anno 1876 – Carducci e il dialetto di Fermo

     In questi giorni gli studenti vivono trepidanti attese per i risultati de­gli esami di maturità. Nel 1876 Giosuè Carducci, dinanzi al Consiglio Comunale di Fermo, rendeva noti i risultati delle interrogazioni effet­tuate da lui e da un collega. Egli infatti, da Bologna era giunto nella no­stra città, per una ispezione valutativa al Liceo Classico. Era con lui il Prof. Francesco Rossetti. Carducci da Fermo scrive alla moglie, Elvira, elogiando l’ambiente Fermano “… Ma intanto ho visto di gran bei pae­si fra il mare e monti, colli e valli coltivati benissimo: par di essere in Toscana”.

     Quello che però più ci onora è ciò che aggiunge: “Qui la gente par­la benissimo!”.

È veramente un complimento lusinghiero, se pensiamo che ad esprimerlo è nientemeno che l’autore delle “Odi Barbare”, quindi un buon intenditore. In realtà, il nostro dialetto è molto vicino alla lingua italiana ed è il vero dialetto marchigiano. “Veri e genuini dialetti mar­chigiani sono quelli che terminano in U” – diceva Giacomo Devoto pre­sidente dell’Accademia della Crusca – e tracciava un’“area dialettale con tre poli: Fermo, Macerata, Camerino”. Infatti, molto diverso è il dia­letto ascolano che risente di influssi abruzzesi e quello pesarese che sa di romagnolo. Il nostro si avvicina molto all’umbro, talché il Cantico delle Creature di S. Francesco con le molte desinenze in U (laudatu sii Signore per frate focu… ellu è bellu) può essere considerato dialetto marchigiano. Del resto, Gubbio e il suo distretto, durante il Governo Pontificio, facevano parte delle Marche; ne fu staccato dopo il 1860 dal Governo Piemontese.

     Torniamo alla lettera di Carducci. Il poeta continua indicando cosa farà appena tornato a casa: “… Quando poi mi sarò riposato due giorni, metterò a posto i libri e a luglio, nei gran calori, lavorerò… Tu non cre­dere mica che io faccia il fannullone: lavoro e di molto… io voglio udi­re e vedere tutto coi maggiori scrupoli, onde va più per le lunghe che non credessi. Figurati, mi tocca a stare a sentire lezioni ed interrogazioni di studenti per cinque ore al giorno..”Il poeta poi prega la moglie di di­re a Bice, la diciasettenne primogenita, che “mi mandi una trentina o quarantina de’ miei biglietti da visita e me li mandi sotto forte fascia per posta, qui subito a Fermo”. Ancora: “fammi da dimani in poi (venerdì) comperare la Patria e impostala la sera subito con un francobollo da un centesimo, prima per Fermo e da domenica in poi per Spoleto”. Come si vede, anche se la spedizione costava un solo centesimo, le poste viaggiavano puntuali perché Carducci riceveva subito la corrispondenza.

     I “maturi” agli esami, i maturandi ed i cittadini di Fermo che non lo sapessero, saranno lieti di conoscere questa autorevole testimonianza sulla preziosità e bontà del nostro dialetto e, dato che siamo in tempo di vacanza, sull’apprezzamento turistico di Carducci (ho visto dei gran bei paesi fra i monti e il mare ecc.) cosa del resto ripetuta dal poeta il quale, parlando delle Marche, dice: “La terra picena è benedetta da Dio, di bellezza e di venustà, tra il digradare dei monti che difendono, tra il distendersi dei mari che abbracciano, tra il sorgere dei colli che salutano, tra l’apertura delle valli che arridono”.

     Ma ora un dubbio mi tormenta: ho detto che Gubbio era nelle Marche. Ovviamente anche il famoso lupo di francescana memoria era… marchigiano. Ecco perché era un lupo buono… e quando morì, narra l’antica poesia, “fu da tutti pianto / e seppellito presso il camposanto”.

 Anno 1878 – Omaggio al poeta: Fermo, il monumento a Leopardi

     Era il 25 giugno 1876. Grandi festeggiamenti a Fermo per l’inaugurazione del monumento a Giacomo Leopardi, tuttora esistente sito tra il Liceo classico, l’Archivio arcivescovile e l’Archivio di Stato. Le cronache riferiscono di stupende cerimonie, ma noi non sappiamo se quel giorno il nostro Leopardi fosse del tutto soddisfatto. Infatti, nello stesso giorno e nella stessa Fermo, veniva con il suo, inaugurato anche il mo-numento ad Annibai Caro, l’autore della “bella infedele”, o meglio della traduzione dell’Eneide. Tra i due, c’è una differenza di… fama! Tuttavia, l’autore del “Sempre caro mi fu quest’ermo colle” non pare si sia adontato del monumento al Caro. Da 114 anni, imperturbato, alto sul suo piedistallo, continua a leggere…

    Tra Recanati e Fermo vige dal sec. XII un’antica amicizia. Il visitatore, o il turista, può ammirare tutt’oggi sulla famosa Torre del Borgo lo stemma di Fermo con la scritta: Firmanae amicitiae documentum et pignus (documento e pegno dell’amicizia fermana); per tale motivo all’inaugurazione del monumento non poteva mancare la rappresentanza di Recanati. Furono infatti invitate le autorità e gli uomini di cultura, i quali accettarono l’invito, ma vennero a mani vuote. In effetti avevano preparato come dono un’artistica pergamena, ma il miniatore non fece in tempo ad approntarla per il 25 giugno. Furono presenti dunque alla cerimonia, ma tornarono il giorno 28 giugno e portarono la pergamena miniata che recitava: XXV Giugno MDCCCLXXVI / Alla Nobile Fermo I nel dì che festeggia / le due splendide glorie / del Piceno l Giacomo Leopardi lei Annibai Caro / La Comunità Recanatese I suggellando / nel nome del suo massimo cittadino / Manda / un saluto fraterno /.

     In tal modo, veniva ancora una volta sanzionata l’antica amicizia e rinsaldati i vincoli che legano la civitas iustissima di Recanati con Fermo, firma fides. In quel giorno, nel discorso di circostanza, si parlò di Gualtiero figlio di Ugone. potente fermano che nel 1603 aveva donato a Recanati il castello di Loreto; di Gaeta, figlia di Ugone, che cedette al Vescovo terre tra l’Aspio ed il Potenza; di Petrus de Recineto, senatore di Roma nel 1373. di Sisto IV, che nel 1475 chiamò Recanati “città insigne e famosa”.

    Quel giorno, però, non si parlò di Paolo Vanni Leopardi. Questi, forse antenato della celebre famiglia Leopardi, nel 1430 era gravemente malato e chiese di essere curato da un famoso medico fermano (la storia non ce ne tramanda il nome). Il medico partì da Fermo e nonostante le difficoltà di allora per il lasciapassare ecc., giunse in tempo al capezzale di Paolo Vanni e lo guarì. Quindi Fermo non solo ebbe (ed ha) ottime relazioni con Recanati, ma anche con la famiglia Leopardi. Tempo fa (per l’esattezza il 28 giugno 1987) il Corriere della Sera afferma¬va che i Leopardi hanno origini nel Fermano. Comunque stiano le cose, dato che proprio l’altro ieri ricorreva l’anniversario della nascita del grande poeta, (vide la luce il 29 giugno di 192 anni fa) noi che lo ospi¬tiamo da 114 anni, gli auguriamo, sia pure in ritardo, buon compleanno!

Anno 1880 – Quante ‘papere’ doc      Sfogliando un recente Annuario della Regione Marche, per informazioni turistiche trovo (pag. 402) un’illustrazione di Fermo, con la di¬dascalia Fermo (Ancona) palazzo dei Priori.

Inoltre, consultando l’Atlante storico mondiale, edito nel 1989 dall’Istituto Geografico De Agostini di Novara, atlante in cui si sono dati convegno “luminari” di varie Università, specialmente straniere (è la traduzione del The Times Atlas of World History, con aggiunta di testi italiani a cura dell’I.G.D.A. di Novara) trovo altre “papere”.

Nella descrizione cartografica del Dipartimento del Tronto, voluto insieme a quelli del Musone e del Metauro da Napoleone Bonaparte. si assegna ad Ascoli il capoluogo di tale Dipartimento, mentre sia durante la Repubblica Romana voluta dai Francesi, sia nel Regno Italico di Napoleone, protrattosi dal 1808 al 1815 e poi sotto gli Austriaci, e quindi sotto Gioacchino Murat, capoluogo del Dipartimento del Tronto fu sempre Fermo da cui dipendevano le vice prefetture di Ascoli e quella di Camerino.

    In omaggio alle verità ed alla bibliografia, dobbiamo rilevare che i Tedeschi e i Francesi sono al riguardo più esatti (vedi: Atlas Historique di G. Duby ediz. Larousse; K. von Spruner e T. Menke Handatlas fiir die Geschichte des Mittelalters, Gotha 1880 etc.).

     In libreria recentemente è apparso un lavoro d’indole archeologica redatto da un’équipe di docenti dell’Università più settentrionale delle Marche. Ebbene? Vi leggiamo: Fermo, Provincia di Macerata. Che oggi tutti scrivano di tutto è risaputo, ma che qualificate pubblicazioni a livello intemazionale ed universitario, possano commettere tali errori non è certo ammissibile.

     A scuola ci insegnavano che l’ignoranza è la carenza della dovuta scienza (carentia scientiae debitae). Dev’essere quindi bollato come “portatore” di ignoranza, anzi, di crassa ignoranza, chi commette tali errori. E quanti se ne leggono in “riviste specializzate” od in volumi e testi universitari…

Anno 1882 – Ancora di Gabriele D’Annunzio a Porto S. Giorgio

      Durante l’estate 1882, un panfilo attraccava a Porto S. Giorgio e dopo una sosta nella cittadina rivierasca, proseguiva alla volta di Ancona, Rimini, Venezia; era il “Lady Clare”.

    A bordo viaggiavano due amici, due letterati: Adolfo De Bosis di Ancona e la giovane promessa della poesia italiana, Gabriele D’Annunzio, appena diciannovenne. I due, legati da fraterna amicizia, si godevano il caldo sole ed il fresco mare, il mare Adriatico, “l’amarissimo” di cui il D’Annunzio parla spesso nelle opere, soprattutto nella poesia “Ad una torpediniera nell’Adriatico”.

    Il poeta sostò a Porto S. Giorgio e vi incontrò i “Canottieri Piceni”, i quali andarono fieri di lui e del cordiale incontro con il “poeta-soldato magnifico” ed “animatore della passione del Mare Nostro”.

     Ricorre in questi giorni l’anniversario di quell’incontro e nel clima di tale ricorrenza, ricordiamo che il 28 luglio 1883, Gabriele D’Annunzio venne nuovamente nella cittadina adriatica a trascorrere la sua luna di miele con Maria Hardouin, con la quale si era sposato contro la volontà del padre di lei, il 21 luglio 1883.

     Erano le ore 9 del 28 luglio e la coppia felice scendeva dal treno. Il giovane poeta, era vestito con un abito bianco col capo coperto da un grande cappello di paglia; la duchessina, bionda, vestiva un elegantissimo abito nocciola. Una carrozza li attendeva fuori dalla stazione; vi furono caricati i numerosi bagagli, mentre il marchese Trevisani, il deus ex machina della vita balneare sangiorgese ed Alfredo Fiori, vi prendevano posto insieme alla coppia. La carrozza si diresse al corso Garibaldi 17, dove i “colombi” trascorsero i primi giorni della loro luna di miele. Il 5 agosto 1883 assistettero alla regata effettuata dai “Canottieri Piceni” (esiste ancora un biglietto di ingresso ai posti riservati).

     A Porto S. Giorgio gli sposi rimasero circa due mesi e trascorsero le loro giornate passeggiando verso le località vicine come Marina Palmense; visitando la Rocca Tiepolo, Villa Pelagallo, legata ai ricordi dell’ex-Re di Westfalia, della principessa di Wiirttenberg, di Gerolamo.

     Il 5 agosto il “Canottiere Piceno”, giornale locale, nella rubrica “Su e giù per la spiaggia” scriveva: “… da qualche giorno trovasi fra noi la duchessa di Gallese che fin dal 21 luglio è diventata la Signora D’Annunzio; forse avete visto quanto sia carina e simpatica”.

    Il poeta abruzzese trasse ispirazione a Porto S. Giorgio per la sua opera “La Signora dei Sogni”. Nessuno certo potè dimenticare l’avvenimento, e soprattutto la duchessina; per molto tempo nella cittadina si parlò “degli occhi celesti e dei biondi capelli della sposa”. Quando passeggiavano, i due erano mostrati a dito e vi era un ammiccare di sguardi delle signore “per bene” che nascondendosi dietro i variopinti ventagli, seguivano ogni minimo movimento degli sposi. A Porto S. Giorgio si sapeva tutto di loro, soprattutto del romantico e romanzesco matrimonio, che mise in subbuglio tutte le questure dell’allora Regno d’Italia.

     Con D’Annunzio altri piceni furono in stretta relazione e collaborazione; per limitarci al solo Fermano ricorderemo: Adolfo De Carolis (che cambiò, per consiglio di D’Annunzio, in De Karolis) di Montefiore dell’Aso, autore di splendide xilografie che adomano le opere dannunziane.

     Ricordiamo anche il Conte Ernesto Garulli di Monterubbiano (altri membri della famiglia Garulli diedero aiuti finanziari al poeta in momenti di povertà) che morì nel 1952 a Fermo; fu con D’Annunzio a Fiume ed intimo amico del poeta. Da non dimenticare ancora Ludovico Censi di Fermo, che volò con D’Annunzio su Vienna ed Alfredo Zallocco di Porto S. Elpidio, che condivise con il poeta la vicenda di Fiume.

Per concludere, una curiosità: a Pescara, nella camera di D’Annunzio, capeggia un quadro della Madonna del Pianto, il cui simulacro si conserva a Fermo, dove è veneratissima.

     Queste sono piccole tessere di un policromo mosaico della vita del poeta-soldato, legato a Porto S. Giorgio, ai “Canottieri Piceni”, all’Adriatico “amarissimo”, ma per lui, in verità, molto dolce, nella luna di miele vissuta con Maria Hardouin, duchessina di Gallese.

Anno 1883 – D’Annunzio ed il Fermano

     Tempo di ricorrenze il 1988. Non è soltanto il cinquantenario della morte di Gabriele D’Annunzio, ma anche il sessantesimo della scomparsa di uno dei più famosi collaboratori ed amici: Adolfo De Carolis (1874-1928) di Montefiore dell’Aso, ivi sepolto accanto alla tomba dei genitori del Card. Partino, segretario di Stato di Papa Bonifacio Vili. Fra D’Annunzio e De Carolis (che illustrò anche opere di Pascoli) si instaurò subito un rapporto di amicizia e di stima. Il Poeta, volle che illu¬strasse le sue opere e così, ottanta anni or sono, nel 1908, De Carolis (che per suggerimento di D’Annunzio aveva variato il cognome in De Karolis) disegnava le illustrazioni della seconda edizione delle “Laudi del Mare del Cielo e degli Eroi”, mentre in precedenza aveva ornato di disegni la “Francesca da Rimini” (1902), la:“Laus Vitae” (1903) e decorato di xilografie “La Figlia di Jorio” (1904), disegnandone anche la scenografia ed il bozzetto pubblicitario. Del 1909 sono i disegni per la “Fedra” e la scenografia relativa. Seguono a ritmo veloce le illustrazioni per il 32 libro delle “Laudi” – “Alcione” e nel 1912 il quarto libro, non¬ché le “Canzoni delle gesta di Oltremare”. Nel 1917 in piena guerra mondiale, appaiono le illustrazioni per il “Notturno” e l’anno successivo, per la “Beffa di Buccari”, indi la“Gloria” (1919), i “Sogni delle stagioni”. Tanta era la stima e l’affetto di D’Annunzio per De Karolis, che avendo questi vinto il concorso per il bozzetto in onore di Dante, amichevolmente se ne impossessò battezzandolo Dantes Adriacus. Opera di severa e solenne bellezza, fu posta in tutte le sedi delle Ambasciate e Consolati Italiani all’Estero. D’Annunzio fu pure legato a Marina Paimense, una frazione di Fermo, dove abitava il suo fraterno amico Conte     

Anno 1883 – Niente esonero per commemorare Garibaldi

     Solenni ed imponenti le commemorazioni a Fermo e nel Fermano, in occasione della morte dell’“Eroe dei due mondi”. Alcune preziose foto dell’epoca, mostrano la piazza del Popolo a Fermo in cui campeggia un maestoso catafalco; drappi neri alle pareti, manifesti e striscioni al lutto. Ma un episodio curioso contraddistingue Fanno successivo alla scomparsa dell’eroe. Stavolta si tratta di Fermo e Porto S. Giorgio.

      19 marzo 1883: festa di S. Giuseppe e ricorrenza onomastica di Garibaldi. Si vuole fare una commemorazione dell’eroe a Porto S. Giorgio e le autorità del luogo si rivolgono al sindaco di Fermo, perché mandi le scolaresche dell’Istituto Industriale. Si chiede anche la banda musicale di Fermo e l’esonero dalla scuola, per quel giorno, dei professori di tale Istituto.

      Il sindaco convoca la Giunta. La Giunta dopo aver esaminato la richiesta, decide di non esonerare, né professori né alunni.

     “La Giunta fa riflesso che in giorno di scuola, non sia opportuno dispensare gli alunni dalle lezioni, per quanto sia patriottica la dimostrazione e siccome si verifica fuori città, crea un precedente per altri Comuni”.

     Ma Porto S. Giorgio non molla; anche senza la presenza degli allievi dell’Istituto Industriale, la commemorazione la tiene lo stesso; ha luogo al teatro a porte chiuse “con discorsi e brindisi piuttosto accentuati in linea politica”. Tale Giovenale Mancinelli, studente dell’Istituto Industriale, si scaglia contro le autorità che si sono opposte all’invio degli alunni.

     Il sottoprefetto di Fermo (la sottoprefettura fu istituita dopo la soppressione della Provincia di Fermo e durò fino al 1926), incaricato di vigilare sulla faccenda, comunica ai suoi superiori: “vuolsi pure che qualche frase poco misurata, sia stata udita all’indirizzo di codesto Municipio”.

     Anche i paesi del circondario ebbero relazioni con Garibaldi. Costantino Tamanti di Petritoli combattè a Varese, Como, S. Fermo, Bezzecca; fu uno dei “settanta” nella battaglia di Villa Glori (23 ottobre 1867) e venne preso prigioniero a Mentana, quando per la prima volta dai francesi vennero usati i famosi fucili Chassepots che, come affermò il generale Du Fallay, avevano fatto miracoli (les Chassepot ont fait merveille).

Altro fervente garibaldino è Pietro Basili nato a Porto di Fermo (Porto S. Giorgio) nel 1847: partecipò diciannovenne alla battaglia di Bezzecca (21 luglio 1866) rimanendo poi ferito e prigioniero, l’anno dopo, a Mentana, come il Tamanti.

    E come dimenticare Luigi Mercantini di Ripatransone, autore della “Spigolatrice di Sapri” e dell’inno “terribile nelle battaglie glorioso nei secoli. Si scoprono le tombe si levano i morti”? Garibaldi a cui il 2 marzo 1859 fu fatto leggere l’inno, scrisse a Mercantini: “Ho ricevuto e ho letto con ammirazione l’inno vostro bellissimo”.

     In vari archivi del Fermano, si conservano preziose lettere di Garibaldi. Sarebbe utile alla storia raccoglierle e pubblicarle in un volume. “Gran parte della storia d’Italia giace negli archivi e nel sottosuolo”. Così ricordava il celebre storico tedesco Mommsen; io… “parole non ci appulcro!”.

Anno 1888 – Il clinico che curò Carducci e D’Annunzio

     Era di venerdì, quell’undici novembre 1932, quando lugubri rintocchi annunciavano la scomparsa di Augusto Murri, clinico di fama intemazionale. La sua morte gettò nel lutto il mondo medico di allora e la dotta Bologna, dove esercitava la sua professione, era in lacrime.

     “Nella mestizia del grigiore autunnale, onde natura si assopisce, serrando in se stessa ogni forma di vita, si è spenta l’operosa esistenza di un uomo che, salito per ardua e tenace virtù propria agli alti fastigi della scienza, lascia dietro di sè un’orma profonda, incancellabile, Augusto Murri il clinico insigne, il filantropo illuminato non è più… Bologna che si gloriò dell’opere di lui per il vanto che ne venne al suo Ateneo, che del Maestro raccolse non soltanto i fecondi insegnamenti ma la generosa umanità, sente il troncarsi di una consuetudine affettuosa” etc. Così uno dei tanti manifesti che costellavano la città di Bologna.

     Nato a Fermo l’8 settembre 1841. laureato in medicina nel 1864, continuò gli studi a Parigi e a Berlino e fu aiuto di Guido Baccelli. Nel 18 ebbe la cattedra di clinica medica di Bologna, tenendola fino al 1916, conquistandosi fama e gloria. Innumerevoli le sue pubblicazioni: quelle anteriori al 1902 sono raccolte in tre grossi volumi.

     Personalità illustri “ruotarono” attorno a questo nostro concittadino, così famoso che, secondo D’Annunzio, Dante lo avrebbe posto nel “l9 Cerchio”, fra Dioscoride, Ippocrate e Galeno.

     Giosuè Carducci fu da lui curato e guarito, Giovanni Pascoli ere lo ebbe amico, Ada Negri che ne cantò il dolore, furono in stretta relazione col nostro Murri. Recentemente, anche la televisione italiana si è occupata di Murri e delle vicende familiari (sceneggiando II caso Murri, 1982). Anch’egli infatti non fu immune dalla sventura.

     Sfogliando i giornali del 1932 che annunciavano la sua morte, emerge da essi (La lettura, il Giornale d’Italia, la Tribuna, L’Illustrazione Italiana, ecc.) il suo altissimo sapere e la profonda umanità.

     “Per il medico il sapere è il mezzo, ma la carità fu e deve rimanere il fine di ogni attività” così soleva dire. Murri è di attualità ancor oggi.

     A D’Annunzio (che egli curò e fu suo ospite a Fiume) un giorno che il poeta vantava la sua sobrietà rispose: “Voi affermate di essere sobrio, ebbene anche l’uomo cosiddetto sobrio, mangia dieci volte più del necessario”.

      Il grande clinico volle essere sepolto a Fermo, cullato dal pianto delle natie campane. Una modesta tomba racchiude le sue spoglie mortali ma “la sua fama ancor nel mondo dura / e durerà quanto il mondo lontana” (Inf. II 59.60).

1888 – L’eredità di Temistocle Calzecchi-Onesti

     Non poteva certo pensare Bernardo Panzoni, segretario comunale di Altidona, che il suo nome sarebbe riemerso dopo 135 anni, nel corso di una ricerca biografica sulla data di nascita di Temistocle Calzecchi Onesti. Infatti, taluni fanno nascere il futuro scienziato il 13 dicembre 1853: taluni il 14: altri il 15 dicembre, per cui siamo andati alla fonte per consultare l’atto di nascita o meglio di battesimo, poiché all’epoca (si era ancora sotto lo Stato Pontificio) nascite, matrimoni, morti venivano registrati non dal Comune ma dal Parroco. Quello di S. Giacomo di La- pedona ebbe la ventura di registrare la nascita e battesimo di “Temistocle, Timoleonte, Tito, figlio dei signori Icilio e Angela Onesti Calzec¬chi di Monte Rubbiano”.

“… Esso fu da me battezzato e furono padrini Bernardo Panzoni se¬gretario di Altidona e Orsola Onesti moglie del conte Fanelli. In fede, Don Leo Martinelli”.

     Pur di famiglia monterubbianese. Temistocle nacque a Lapedona (non Lampedusa come qualche enciclopedia dozzinale ha scritto) il 14 dicembre 1853 (Die 15 Decembris 1853 Temistocles. Titus. filius baptizatus fuit). Infatti il padre vi esercitava la professione di medico condotto.

     Dopo aver frequentato le scuole elementari a Monterubbiano fu allievo del ginnasio liceo “Annibai Caro” di Fermo. Passò quindi all”uni- versità di Pisa, dove si laureò in fisica sperimentale. Fu professore di fisica nel liceo di Fermo e in seguito a Milano e a Roma. Fondò a Fermil gabinetto di fisica e qui scoprì un fenomeno elettrico che doveva dargli gloria e fama.

     Studiando la conducibilità elettrica delle limature metalliche, osservò che queste, raccolte in un cannellino coibente, acquistano la conducibilità elettrica se il cannellino viene posto nel circuito di una corrente indotta; perdono tale conducibilità, se il cannellino viene colpito da un piccolo urto. Tale dispositivo fu chiamato coherer e Guglielmo Marconi, che stimò moltissimo Calzecchi, lo impiegò come apparecchio ricevitore delle onde elettromagnetiche nella telegrafia senza fili.

    Circa sessantanni dopo, il Prof. Branly di Parigi, effettuava esperienze analoghe, ma la priorità della scoperta è di Calzecchi. Egli l’aveva già consegnata alla storia con una memoria pubblicata sulla rivista Nuovo Cimento s. 3. XVI. anno 1884.

         A Fermo aveva fondato anche un osservatorio meteorologico. Si occupò anche di problemi pedagogici e della rieducazione dei sordo¬muti. Col suo compaesano, prof. Oreste Murani fisico, docente univer¬sitario a Milano, fu amico di Achille Ratti poi Papa Pio XI. Morì a Monterubbiano nel 1922.

 Anno 1892 – Sul più famoso vocabolario latino ‘Campanini – Carboni’ hanno studiato

             cinque milioni di studenti

     FERMO – Spesso, noi marchigiani lasciamo passare sotto silenzio commemorazioni e ricorrenze, mentre altrove (come accadde ed accade ad esempio per la Montessori) i nostri Grandi sono degnamente ricordati ed apprezzati.

     Ma stavolta siamo un po’ tutti coinvolti: marchigiani e non! Anzi, sono interessati tutti gli Italiani che dal 1911 ad oggi hanno studiato il latino, servendosi nelle traduzioni del vocabolario (il famoso vocabolario) Campanini e Carboni. Era un binomio che ci ha accompagnato a lungo; era ed è il binomio del più diffuso vocabolario latino! “Tuttolibri” il 10 giugno 1978” scriveva che non si sa più nulla degli autori Campanini e Carboni e si ignora “se di origine marchigiana fosse il Prof. Campanini od il Prof. Carboni”... Marchigiano era il Prof. Giuseppe Carboni, morto esattamente 50 anni or sono, a Ortezzano, un paesino del Fermano, dove era nato nel 1856.

     Dopo gli studi elementari, effettuati nel paesello natio, passò a Recanati presso uno zio agostiniano che gli insegnò i primi rudimenti di latino. Quindi entrò nel seminario arcivescovile di Fermo, dove attese con ardore e passione agli studi umanistici. Anzi tanto era lo zelo e l’applicazione, che, alla fine, ne risentì la salute e dovette uscire e ritornare in famiglia. Si recò allora in Ascoli Piceno dove, ventenne, conseguì il diploma di maestro elementare, per tornare subito ad Ortezzano ed insegnare, per 16 anni, in quelle scuole elementari.

     Intanto, senza trascurare i doveri scolastici, potenziava la sua cultura umanistica con particolare riguardo al latino e si applicava allo studio dell’inglese, del francese e del tedesco.

     Nel 1892, è chiamato a Fermo ad insegnare in quel Liceo – Ginnasio Statale, facendosi apprezzare ed amare! Ma la sua fama aveva ormai varcato i confini della Regione e, nel 1903, è chiamato a Roma ad insegnare nel liceo Quirino Visconti. Di qui passa al Liceo Tasso, quindi al Mamiani. Sono 23 anni di intensa attività culturale. I colleghi lo stimano profondamente; gli alunni lo adorano. Il Ministero della Pubblica Istruzione lo insignisce di onorificenze e di attestati di benemerenza. Viene nominato Cavaliere della Corona d’Italia, con motivazione onorifica. Dopo 50 anni di intenso lavoro e di feconda attività culturale, nel 1926 viene collocato a riposo a seguito di domanda e si ritira nella pace e nella quiete di Ortezzano.

     Grande la sua produzione letteraria e scientifica. Oltre al celebre vocabolario, il più diffuso in Italia e di cui si sono avute 40 ristampe dal 1911 al 1943 e dopo la guerra (in cui andò distrutta la Casa Editrice Paravia) ebbe ben 70 ristampe. Da una statistica fornita dalla Editrice del vocabolario, si desume che dal 1911 ad oggi sono state vendute 2 milioni e mezza di copie del “Campanini e Carboni” ma considerando che i vocabolari spesso passano di padre in figlio per proseguire per generazioni, si calcola che vi abbiano studiato 5 milioni di studenti. Lui vivente, si ebbero 14 edizioni, cifra ragguardevole per quei tempi, quando lo studio era appannaggio di pochi. Aveva pronto anche il Dizionario Etimologico Latino, ma la morte gli impedì di portarlo a termine ed egli negli ultimi giorni di vita, si lamentava di non poter realizzare un tale e tanto volume. Scrisse anche Le accuse contro il greco ed il latino e la legge biogenetica, Fermo, Bacher 1884. Varietà Didattiche 1894, ibidem. Per una spiegazione di Orazio, Fermo, 1898; Un metodo originale per /’apprendimento del Latino, Fermo, 1898; Critica di crìtica, Fermo, 1898; Quisquis per aliquis, in “La Nostra Scuola”, 1898; The birth, in “La Nostra Scuola” 1899; Il ne proibitivo Fermo, 1899; Esercizi graduali per il Ginnasio, Torino, Paravia, 1915. La tredicesima edizione del Vocabolario Italiano – Latino e Latino – Italiano ebbe luogo nel 1927.

     Come già detto, oltre cinque milioni di studenti sono passati (per così dire) sulle pagine del suo vocabolario. Le Marche che hanno dato alla cultura ed agli studi lessicali altri illustri autori come Mestica (autore del vocabolario Italiano edito da Loescher), il Palazzi (autore di un altrettanto famoso Dizionario della Lingua Italiana, già edito da Ceschina ed ora dai F.lli Fabbri). Panzini (nato a Senigallia, autore del Dizionario Moderno vocabolario edito da Hoepli); Aldo Gabrielli (era nato a Ripatransone) autore del Dizionario Linguistico e di quello dei Sinonimi edito da Mondadori; di Scevola Mariotti (coautore con Castiglioni de II Vocabolario della Lingua Latina Loescher; (altro Mariotti ha compilato pure un Vocabolario della lingua francese); di Alessandro Niccoli di Osimo, che ha compilato un Dizionario della Lingua Italiana Roma 1961. Le Marche, dicevamo, reverenti e fiere onorano con essi il nostro grande Giuseppe Carboni nel cinquantenario della sua scomparsa.

Anno 1895-  L’ultimo Cardinale a Fermo: Amilcare Malagola

     Si compie quest’anno un secolo esatto dalla scomparsa dell’ultimo Cardinale di Fermo, Amilcare Malagola, successore del famoso Cardinal Filippo De Angelis.

    Nato a Modena il 24 dicembre 1840, a 16 anni vestì l’abito clericale e venne ammesso al Collegio dei Nobili Ecclesiastici. Ordinato sacerdote il 19 dicembre 1862, ben presto si laureò in diritto canonico, in filosofia e teologia. Appena venticinquenne, tenne nella Basilica di S. Pietro alla presenza di Pio IX, una dissertazione su De Cathedra Romana. Gli si spalancarono subito le porte dei Dicasteri Pontifici; tuttavia egli preferì la missione pastorale, tornando in diocesi. Ma l’occhio vigile della Sede Apostolica lo seguiva ed a soli 36 anni venne eletto vescovo di Ascoli Piceno. Fu consacrato nel Duomo di Fer¬mo dal Card. De Angelis. Fortunato presagio: infatti, l’anno dopo Malagola venne promosso alla sede arcivescovile di Fermo, succedendo proprio al De Angelis. Il suo ingresso a Fermo ebbe luogo il 23 dicembre 1877. “All’arrivo dell’arcivescovo Malagola – scrive un cronista del tempo – gli sono andati incontro sopra quaranta legni (= carrozze), moltissima gente e molti applausi; non avendo ancora Vexe- quatur del Governo, è andato ad abitare in Seminario”.

     A Fermo portò un ventata di rinnovamento e di potenziamento. Ripristinò, col consenso della Santa Sede, il Collegio Teologico che conferiva i gradi accademici e la laurea in teologia ed impresse un ritmo propulsore alle istituzioni. Nel 1893, a 53 anni, fu nominato Cardinale ed il 5 maggio del 1895 “consacrò” Vescovo nella Cattedrale di Fermo, Mons. Tacci Giovanni, eletto alla sede di Città della Pieve. Tale Vescovo, divenuto poi Cardinale (era di Mogliano Marche), nel 1925 ebbe la fortuna di consacrare a Roma, Arcivescovo, Mons. Angelo Roncalli che sarà il futuro Giovanni XXIII.

     Fermo, che come stiamo vedendo fu sede cardinalizia fino al 1895, ebbe ben 18 Cardinali-Arcivescovi ed è tuttora la più importante e popolosa Arcidiocesi delle Marche, superiore alla stessa Ancona. Oltre ai Cardinali che furono Arcivescovi di Fermo, espresse dal suo seno altri porporati fra cui gli Azzolino, il Card. Bemetti, che fu go¬vernatore di Roma ed altri.

     Per “prassi”, fra qualche anno, dovrebbe essere eletto Cardinale l’attuale Segretario del Giubileo del 2000 Mons. Sergio Sebastiani, nativo di Montemonaco e passato poi a S. Vittoria; ha studiato nel Seminario di Fermo ed è stato ordinato qui sacerdote da Mons. Norberto Perini nel 1956.

     Tornando ai Cardinali che la Diocesi di Fermo ha avuto in passato, notiamo che nel periodo che fu Arcivescovo di Fermo Mons. Carlo Castelli, morto nel 1933, vi erano contemporaneamente nel Collegio Cardinalizio ben tre Cardinali dell’Arcidiocesi: il Cardinale Giovanni Tacci di cui abbiamo parlato che, come detto, era di Mogliano; il Cardinale Luigi Capotosti, di Moresco; il Cardinale Giuseppe Mori, di Loro Piceno.

Nello stesso periodo, vi erano tre Vescovi residenziali della Diocesi: Augusto Curi di Servigliano, Arcivescovo di Bari; Filippo Maria Cipriani, Vescovo di Città di Castello; Massimiliano Massimiliani, Vescovo di Modigliana e Mons. Giuseppe Petrelli di Montegiorgio, Vescovo nella diplomazia pontificia. Ora Fermo ha due Vescovi residenziali: Mons. Carboni, Vescovo di Macerata; Mons. Michetti, Vescovo di Pesaro. Il primo è di Ortezzano, il secondo di Corridonia. Fino a poco tempo fa, era Vescovo di Ariano Irpino-Lacedonia Mons. Nicola Agnozzi, fermano, giovanissimo, nonostante le sue 84 primavere.

Anno 1895 – Il campanello sotto il letto del Cardinale aprì  la strada alla scoperta di Marconi

     Il Tg3 regionale ha effettuato una ripresa televisiva andata in onda tre giorni or sono, dove si parlava di Temistocle Calzecchi Onesti e ciò nel quadro del Centenario delle invenzioni di Marconi.

     Calzecchi Onesti, le cui scoperte furono di valido ausilio a Marconi, era nato a Lapedona da famiglia monterubbianese il 14 dicembre 1853, e non il 22 ottobre 1853 come riporta una lapide il suo busto, vicino al Palazzo comunale. Noi che non ci “fidiamo”, siamo andati a consultare l’atto di battesimo (allora non esisteva lo Stato Civile ed Anagrafe) rilevando che venne battezzato il giorno dopo la nascita: il 15 dicembre 1853.

     Quest’anno, come detto, ricorre il Centenario delle invenzioni di Marconi il quale, anche per sua esplicita ammissione, deve molto al nostro Calzecchi!

Questi aveva inventato il coherer, prezioso dispositivo che Marconi impiegò nei primi esperimenti della telegrafia senza fili, avvenuti a Montecchio, ad un passo da Bologna, nel 1895.

     In quel tempo, era Arcivescovo di Bologna il Cardinale Domenico Svampa, nato a Montegranaro nel 1851. Entrambi, Calzecchi-Onesti e Svampa, avevano studiato a Fermo ed entrambi vi furono docenti: il primo al liceo classico dove inventò il choerer; il secondo nel seminario arcivescovile.

     Svampa, in poco più di un anno, si era conquistata la stima e la simpatia dei bolognesi (vi era giunto il 18 maggio 1894) e ben presto era divenuto amico di Giuseppe Marconi, padre di Guglielmo, che dopo poco, lo aveva invitato a Villa Grifone ad un passo da Pontecchio. Qui, i due parlarono dei loro problemi quotidiani e Giuseppe Marconi confidò al Cardinale la sua conflittualità col figlio Guglielmo, le sue stranezze di comportamento ed il suo rifiuto allo studio (Pensate!!!). Forse Guglielmo lo riseppe; fatto sta, che preparò un tiro birbone al Cardinale! Approfittando della sua amicizia col parroco Calzonari, eludendone la vigilanza, aveva posto sotto il letto dove riposava sua eminenza un ricevitore collegato ad un campanello, poi durante la not¬te, da Villa Grifone, avrebbe azionato il dispositivo che a distanza faceva trillare il campanello, in modo da svegliare il porporato. Una, due, tre, quattro volte. Alla fine, il Cardinale non potendone più, chiama il parroco don Calzonari, che scopre sotto il letto del prelato il “corpo del reato”.

     Svampa, nonostante il sonnus interruptus ci rise sopra divertito, e volle conoscere l’autore del “misfatto”… Risero poi entrambi ed il Cardinale predisse al Marconi un avvenire luminoso. Questi, chiedendo scusa allo Svampa per l’accaduto, gli chiese di non parlarne a nessuno per non compromettere l’esito di un’invenzione che si profilava importantissima e che avrebbe rivoluzionato le comunicazioni fra popoli e nazioni.

     E così, con un gesto birichino, dopo tutto simpatico e direi goliardico, due piceni-fermani: Calzecchi Onesti e lo Svampa furono inconsapevolmente ed indirettamente protagonisti di un esperimento che, perfezionato poi e munito di tutti i crismi ed i carismi di scientificità, portò Marconi ai fasti ed ai fastigi della gloria. Calzecchi morì nel 1922 a Monterubbiano, dove si era già trasferito, poco dopo la nascita; Svampa cessava di vivere nel 1909; Marconi morirà nel 1937

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Curiosità di storia di Fermo e del Fermano nei secoli XVII e XVIII di Gabriele Nepi 1996

1608 –  La splendida tela del Rubens   p.

1608 – La Natività viaggiò fino a Pietroburgo   p.

1614 – L’Auditorium e i Gesuiti   p.

1631 – Ospitalità degna di una futura Regina   p.

1633 – Fermo, i barbari e …. i Barberini   p.

1648 – Una disperata rivolta sotto il sole di luglio   p.

1654 – La regina di Svezia amica del Cardinale Azzolino   p.

1658 – Giacinto Cornacchioli   p.

1663 – Collegio invidiato – Dall’Illirico, uscirono Vescovi e scienziati   p.

1676 – Fermo e il Cardinale Nepote   p.

1725 – Ale ssandro IV Borgia Arcivescovo di Fermo   p.

1735 – Quel grande astronomo dalmata   p.

1752 – Disposizioni ai castelli dipendenti – Un “monitorio” del 1752 detta le condizioni   p.

1765 – Torre di Palme, Porto di Fermo e Fermo in un diario   p.

1770 – La città trasformata dal Cardinale   p.

1773 – Clemente XIV   p.

1783 – Festa delle donne e la festa ai mariti   p.

1789 – Così nacque la Marsigliese   p.

1791 – Il teatro dell’Aquila oggi “compie” due secoli   p.

1796 – Giuseppe Colucci, storico delle Marche   p.

1797 – I delegati di Fermo davanti a Napoleone   p.

1798 – L’accanita battaglia di Torre di Palme   p.

1799 – Analogie e contrappasso: Napoleone e due Pontefici   p.

1799 – L’assedio degli Insorgenti alla rocca di Acquaviva   p.

\\\ Anno 1608 – La Natività viaggiò fino a San Pietroburgo \\\\\\\

     Mentre le festività natalizie volgono al termine, piace accennare ad un capolavoro del Rubens anche perché ha “addentellati” con la Russia, oggi alla ribalta della cronaca intemazionale.

Si tratta di un dipinto di alto valore, olio su tela (cm. 300×192) rappresentante la Natività, opera del fiammingo Pietro Paolo Rubens (1577-1640). Esso fu eseguito nel 1608 su commissione del fermano padre Flaminio Ricci, che dopo la morte di S. Filippo Neri (1595) era diventato superiore dei Filippini. Il dipinto raffigura la Vergine nel­l’atto di sollevare il velo che ricopre il Bambino disteso sulla paglia. San Giuseppe appare in penombra, col viso rivolto in alto. Dal Bambi­no si sprigiona una luce vivissima che conferisce risalto ai pastori ado­ranti e ad un gruppo di tre angeli che irrompono dal cielo. Nella pala vi è una gigantesca figura, un’irruenza pittorica che ricorda Michelan­gelo, mitigato dal Correggio. “Di particolare finezza sono le cadenze coloristiche e il giuoco luministico” (Dania).

Il bozzetto dell’opera si trova a Leningrado (meglio S. Pietrobur­go) al museo deH’Ermitage. Di recente alla mostra del Rubens (25/3 – 31/5/90) sono stato presenti e il quadro di Fermo e il bozzetto dell’Ermitage. Felice incontro dopo secoli!

Rubens morì dopo 32 anni dall’esecuzione del mirabile capolavo­ro, ma la paternità rimase a lungo ignorata. Ne parlano il Gionchini nel 1810 e il Maggiori nel 1832, ma solo nel 1846 la si ascrive al Ru­bens da Francesco Papalini nelle sue Effemeridi Fermane, Loreto 1846. Roberto Longhi, accademico dei Lincei, nel 1927, afferma che tale Natività è opera di P.P. Rubens {Vita Artistica n.10 del 1926). Solo il 3 ottobre 1953 nell’archivio arcivescovile di Fermo venne rintrac­ciato il documento probatorio. È il contratto stipulato tra il Rubens e P. Flaminio Ricci: “Io Pietro Paolo Rubenio (sic), ho ricevuto da R. p. Flaminio Ricci, Rettore della Congregazione dell’Oratorio di Roma, scudi venticinque de moneta. Sono a buon conto e per arra di un qua­dro della Natività di N. S.re, di altezza di palmi 13 e larghezza 8 per servizio della chiesa dei Preti dell’Oratorio di Fermo… Et sarà di va­lore di 200 scudi di moneta… computatici li detti scudi 25… Volendo di più che questa mia poliza abbia valore di pubblico istrumento con tutte le clausole et obbligazioni… l’ho sottoscritta di mia propia (sic) mano questo di’ 9 marzo 1608. Io Pietro P. Rubenio / Io Fabiano Giu­stiniani presente a quanto sopra. Io Deodato van der Mout qui presente come sopra”.

Fortunose le varie vicende di tale quadro! Sfuggito alla requisizio­ne del Trattato di Tolentino (19/2/1797) stipulato tra Napoleone e i de­legati di Pio VI, nel 1944 durante l’occupazione nazista fu accanita- mente ricercato da ufficiali tedeschi; il Rubens però era al sicuro nella rocca di Sassocorvaro, in quel di Pesaro; da questa, passò poi in Vati­cano! Ultimamente è stato esposto in varie mostre di prestigio.

Trasportato dalla chiesa di S. Filippo sua sede da secoli, campeg­gia ora nella pinacoteca cittadina, ammiratissimo da pittori, studiosi e critici d’arte di tutto il mondo.

Anno 1608 – La splendida tela del Rubens

     In questi giorni “Famiglia Cristiana” che conta quattro milioni di lettori, ha proposto due fascicoli di supplemento: “Un Natale d’arte”. In essi si illustra in dodici capolavori la Natività di Cristo. Vengono pas­sate in rassegna le Natività di Giotto (1337). del nostro Gentile da Fa­briano (1370c-1427), Gherardo delle Notti (1590-1656), Correggio (1534), Tiepolo (1770), Botticelli (1510), Tintoretto (1594), Reni (1642), etc. “scelti e commentati da Federico Zeri”.

A nostro modesto avviso, si poteva anche parlare della Natività di P.P. Rubens (1577-1640) commissionata dal fermano P. Flaminio Ric­ci, successore di S. Filippo Neri. Il contratto venne firmato il 9 marzo 1608 ed il lavoro proseguì subito speditamente.

Io Pietro Paolo Rubenio ho ricevuto dal R. p. Flaminio Ricci, ret­tore della congregazione dell’Oratorio di Roma, scudi venticinque di moneta. Sono a buon conto ad Arra di un quadro della Natività di N. S.re di altezza di palmi 13 et larghezza 8, per servizio, come egli dice della Chiesa dei Preti dell’oratorio di Fermo...”.

Così l’inizio del contratto. Una volta terminato, il quadro fu porta­to a Fermo e collocato nella chiesa di S. Filippo sita a fianco dell’attua­le palazzo di Giustizia, ex convento dei Filippini. Qui rimase alla vene­razione dei fedeli fino al 1860, anno in cui il governo di Vittorio Ema­nuele confiscò i beni ecclesiastici. Ora la Natività campeggia nella Pi­nacoteca comunale nel Palazzo dei Priori. Visitatissima, specie da stu­diosi stranieri, è il gioiello delle opere d’arte conservate a Fermo. Sfug­gito alle requisizioni napoleoniche dopo il trattato di Tolentino (1797) ed alle “asportazioni” durante l’occupazione tedesca nel 1944 (era al si­curo nella rocca di Sassocorvaro) e poi in Vaticano è, come detto, il fio­re all’occhiello non solo di Fermo, ma anche della Regione, in quanto è il solo esemplare esistente in Italia.

Il suo costo fu di 200 scudi (misura m. 3×1,90) e la sicura paternità di Rubens fu documentata dai carteggi esistenti nell’archivio arcivesco­vile. Il bozzetto della grande tela si trova al museo dell’Ermitage a S. Pietroburgo; alcuni disegni preparatori al Museo Fodr di Amsterdam e nella collezione del conte Seilem di Londra. In tale Natività vi è la stes­sa irruenza pittorica e quel giganteggiare di figure che risente di un sub­strato michelangiolesco. “Di particolare finezza – asserisce il prof. Lui­gi Dania – sono le cadenze coloristiche e il giuoco luministico”. La Ver­gine è raffigurata a destra nell’atto di risollevare il velo che ricopre il Bambino disteso su un giaciglio. San Giuseppe appare dietro la Vergi­ne, a braccia conserte, viso rivolto all’alto. Dal Bambino si sprigiona una luce vivissima, che conferisce risalto ai pastori adoranti e ad un gruppo di tre angeli che irrompono in volo in avanti. Tonalità di marro­ne cupo prevalenti, sono interrotte dalla luce che irraggia dal Bambino “sgranando in pastosità bianco dorate i rossi, i gialli, i verdi delle vesti e Tincarnato delle figure”.

Fu più volte esposto in mostre famose (Milano 1951), Bruges (1915), Venezia, Roma e di nuovo Roma (1956 e 1980) ed è gelosa­mente conservato nella civica biblioteca, dove fra l’altro è stato ammi­rato da Burchard (1927), Valentiner (1946), Van Puyvelde (1947), Veld (1951), Morassi (1954), Jaffè (uno degli scopritori del contratto), Serra, Sutton, Molaioli e ultimamente anche da Sgarbi. Speriamo che “Fami­glia Cristiana” nel prossimo anno, con o senza Zeri, voglia parlare di questo gioiello.

Anno 1614 – L’Auditorium e i Gesuiti

Chi in questi giorni ha potuto visitare ed assistere a concerti e ma­nifestazioni d’arte nell’Auditorium di S. Martino è rimasto lietamente sorpreso dalla magnificenza della struttura, dalla policromia dei marmi e dalle pitture stupende che costellano le pareti sopra gli ex altari. È una scoperta o meglio una riscoperta dei tesori architettonici ed artistici di Fermo.

L’Auditorium era l’ex chiesa dei Gesuiti con l’annesso collegio (at­tuale Liceo Classico) in funzione fino al 1860, quando dai “liberatori” piemontesi vennero confiscati. Immediatamente furono cacciati i Ge­suiti ed il collegio, adibito ad ospedale per ospitarvi i feriti di Castelfi- dardo. Dopo tale battaglia (18-9-1860), i soldati piemontesi dilagarono nelle Marche del sud e parte del collegio fu adibito a caserma e trup­pe ivi alloggiate, con le baionette sfondarono le botti del vino della cantina dei Gesuiti e, come primo atto di valore, presero una così solenne sbornia che dormirono parecchie ore, rischiando di essere bollati come disertori perché, data la sbornia, non si presentarono alla sfilata in piaz­za. Si pensò addirittura a rappresaglie e rapimenti “da parte della ese­crata tirannide teocratica”…

Ma torniamo al nostro S. Martino, eretto nel 1614, dopo la demoli­zione di una preesistente chiesa dedicata a S. Salvatore. I Gesuiti erano venuti a Fermo chiamati dal Card. Bandini che li richiese al preposto ge­nerale Claudio Acquaviva, oriundo di queste parti ed amico di Fermo. In principio vi furono difficoltà ricettive per la “pecunia”; ma fu impo­sta una tassa sul sale venduto a Fermo e nel Fermano e si ebbe un lasci­to ad hoc di 3.000 fiorini da parte di un cittadino fermano; la spesa fu ripianata. A detti padri fu affidato l’insegnamento e cominciò per Fer­mo quel periodo di splendore culturale che vide in questa università lu­minari famosi tra cui padre Boscovich che a Fermo pubblicò anche l’o­pera “Sulla proiezione dei Gravi”, Fermo 1735.

Il collegio, costituito dal palazzo Euffreducci, venne acquistato dai padri della Compagnia di Gesù (tale è il nome “tecnico” dei Gesuiti). Venditrice: la vedova Caterina Matteucci, che ne era la proprietaria. Nelle Marche vennero eretti altri collegi della Compagnia di Gesù: Ma­cerata, Loreto, Ancona, Monte Santo (Potenza Picena), Ascoli che però non era loro gradito tanto che un loro superiore, Francesco Puccinelli (velata refero), definì la città: “angolo di semi-Turchia”.

La temperies culturale creata dai Gesuiti dopo una prima cacciata da parte di Napoleone non si spense, ma si affievolì… Di essi, restano la fama ed il ricordo dei severi studi nell’Università da loro tenuta e la creazione di opere architettoniche come quella d&W Auditorium di cui stiamo parlando. Qui ora si stanno dando convegno manifestazioni cul­turali di alto livello, che arieggiano e ricordano il culto per l’arte e per la cultura dei Gesuiti, culto mai smentito nei secoli. Checché se ne dica, per Lermo fu una fortuna aver accolto tali padri e la loro cacciata, pas­sati i bollori risorgimentali ed anticuriali, si rivelò dannosa per la città.

In ogni caso, siamo loro debitori di quella stupenda struttura che è S. Martino, ora rinnovata e in veste policroma, dove Lermo, in attesa della riapertura del teatro dell’Aquila, può godere sinfonie e declama­zioni, musica e poesia, gustare in una parola tutte le manifestazioni del­le arti belle.

Anno 1631 – Ospitalità degna di una futura regina

Sono passati 360 anni da quel 1631, quando Anna Maria di Spagna con la sua corte, proveniente da Grottammare si fermò nella nostra città… “Viso lungo, occhi a palpebre bianche, gote alquanto rimosse, labbro di sotto un poco mosso… il suo vestire era di broccato turchino e fondo d’argento con una bottonatura avanti di bottoni d’oro, con dia­manti ed un gioiello in petto, a mo’ di rosetta, parimenti di diamanti. Sul collo le pendeva una collana di vetretti lunghi di colore negro e di color avorio, che raddoppiato in modo che apparisse in fuori dall’una e dal­l’altra parte di quella, la faceva apparire molto bella e vaga. La accon­ciatura della testa era molto semplice e vaga con una fettuccia turchina e col ciuffo alto davanti all’usanza spagnola”.

Non è un cronista del tempo che così ce la descrive, ma addirittura un vescovo, quello di Atri e Penne, Esuperanzio Raffaelli. Tale regina, si recava sposa a Ferdinando III d’Austria. Le nozze erano state cele­brate per procura e lei, da Madrid, era partita per raggiungere lo sposo a Presburgo. Era sbarcata a Genova, ma anziché attraversare l’Italia set­tentrionale, aveva evitato la Lombardia per la peste di manzoniana me­moria ed era scesa a Napoli, accolta con tutti gli onori, per poi risalire dalla parte della costa adriatica.

Attraverso l’Abruzzo, coperto di neve, risalì il litorale adriatico; giunta a Grottammare si recò a Fermo, accolta con onori degni di una sovrana.

Il Magistrato andò a riceverla alle porte della città, essendosi man­dati avanti anco giovani de’ principali con torce accese (era di sera ndr) e avendo sua maestà mostrato di gradire il complimento per una china­ta di capo, seguitando il suo viaggio giunse al palazzo preparatole per un alloggiamento e conforme alle comodità che in quella città erano maggiori che non alle Grotte, fu anco trattata più regiamente”.

Dopo essersi soffermata e riposata nella città, dopo un giorno ri­partiva alla volta di Macerata. Per l’occasione, il Papa aveva provvedu­to alla salvaguardia della regale ospite (essendo tutta quella campagna ripiena di soldatesche pontificie). Dopo una sosta a Loreto, si imbarcò in Ancona alle 4 del mattino, salutata dalla salve dei cannoni delle navi che si trovavano nel porto.

Nel libro delle Riformanze (cioè delle deliberazioni consiliari) di Montembbiano 1626-1634, al foglio 138 verso, si legge che quel Co­mune deliberò di mandarle incontro “una compagnia di soldati al co­mando dell’alfiere Angelo Secreti, che le facesse da scorta al di là del fiume Aso, fino alla città di Fermo”. Tale compagnia aumentava così il numero dei soldati che accompagnavano la regina, numero che supera­va le diecimila unità.

Anno 1633 – Fermo, i barbari e… i Barberini

Quasi tutti abbiamo sentito ripetere, e spesso, la frase “Ciò che non hanno fatto i barbari lo hanno fatto i Barberini” (Quod non fecerunt bar­bari fecerunt Barberini).    

     Questo per dire che i Barberini famiglia co­spicua di Roma, spesso, per costruire palazzi, templi e monumenti asportarono materiali e bronzi dai monumenti eretti dai Romani. Caso tipico, le colonne dell’altare papale, o della Confessione, in S. Pietro a Roma. Tale altare con baldacchino, fu inaugurato il 28 giugno 1633. Po­sto sotto la cupola di Michelangelo, è composto di quattro colonne tor­tili in bronzo. Per la sua fusione e realizzazione furono asportati i bron­zi che rivestivano il Pantheon risparmiati dai barbari: da qui il detto fa­moso messo in bocca a Pasquino, e che ha fatto il giro del mondo. Ma chi è la famiglia Barberini? Oriunda dalla Toscana col cognome primi­genio di Tafani, si trasferì in Ancona dove si arricchì con i commerci. Cambiò il cognome da Tafani in Barberini ed ovviamente cambiò le vespe dello stemma gentilizio in api, api che vediamo scolpite in molti mo­numenti di Roma ed appaiono nell’altare stesso di S. Pietro. Famiglia marchigiana, quindi, i Barberini e ce lo documenta anche il Pastor (Sto­ria dei Papi, voi. XIII) e la Enciclopedia cattolica (s.v. Barberini).

Da questa famiglia, salì al soglio pontificio Urbano Vili o meglio Maffeo Barberini, che pontificò dal 1623 al 1644. Memore delle sue ori­gini marchigiane, Urbano Vili elevò al grado di città la cittadina del Pe­sarese, Urbania, che per questo motivo porta tale nome. Rigido nel com­battere eresie e gli abusi del clero, Urbano partecipò alla guerra dei 30 anni. Unì il Ducato di Urbino allo Stato Pontificio; fondò il Collegio di Propaganda Fide e fu un “impenitente” nepotista. Uno dei suoi nipoti, Francesco, figlio del fratello Carlo, fu creato Cardinale a soli 26 anni, e dopo soli tre giorni dalla incoronazione dello zio. Fra varie cariche con­feritegli dallo zio papa, ebbe l’incarico di essere governatore di Fermo, rientrando nella serie dei Cardinali nepoti del Papa regnante. Infatti, Fermo stanca, delle continue lotte intestine, dal 1550 aveva chiesto di essere governata direttamente dal più stretto famigliare del Papa. Fran­cesco, che fu l’ottavo governatore in ordine cronologico, fu preceduto dal Cardinale Ludovici ed ebbe per successore il principe Camillo Pan­fili nipote di Innocenzo X, cioè Giovanni Battista Panfili (1644-1655). Fedele al “motto”, anch’egli fece asportare materiale, bronzi e marmi dai monumenti di Roma per costruire lo stupendo Palazzo Barberini, iniziato per suo volere nel 1625 su disegno del Mademo. Gran parte del materiale fu asportata dal Colosseo e dal Pantheon.

Una curiosità: di recente è stato rintracciato l’autore del motto che per l’esattezza è: “quod non fecerunt barbari Barberini fecerunt (anzi­ché fecerunt Barberini)”. Fu messo sì in bocca a Pasquino, ed è ormai entrato nella storia e nell’aneddottica; ma il vero autore fu tale Carlo Ca­stelli di Mantova. In ogni caso, la frase o meglio la satira, si addice non solo a Papa Urbano Vili ma anche e soprattutto al nipote Cardinale Francesco Barberini, “governatore di Fermo a nome e per conto della Santità di Nostro Signore Papa Urbano VIII”.

Anno 1648 – Una disperata rivolta sotto il sole di luglio

Il sole di luglio, specie quello della prima quindicina, picchia sodo e spesso stravolge “gli intelletti umani”. Ce lo ricordano: la rivolta di Masaniello del 7 luglio 1647, la presa della Bastiglia e l’attentato a To­gliatti avvenuti rispettivamente il 14 luglio 1789 e 1949 e, per quanto ri­guarda la nostra area, l’assedio e l’incendio di Acquaviva Picena ad ope­ra di Sciabolone (6 luglio 1798) e la sollevazione di Fermo contro Uber­to Maria Visconti, avvenuta il 7 luglio 1648.

Il copione è più o meno lo stesso: quando c’è di mezzo la fame, sia a Milano, sia a Fermo, gli avvenimenti seguono un cliché identico. Ma- lesuadafames: la fame è cattiva consigliera. Ma l’“addetto ai lavori”, o meglio il Vicario di provisione di Milano, fu alquanto più furbo del mi­lanese Uberto Maria Visconti, Vicario di Camillo Pamphili, governato­re di Fermo.

Di milanesi, ce ne sono stati diversi al governo di Fermo. Ricordia­mo Giovanni Visconti d’Oleggio (+1366) che fu un bravo e savio go­vernatore (sono conservate nel Duomo la sua tomba e in biblioteca, in apposita urna, le ossa); il Conte Francesco Sforza, Galeazzo Sforza V Duca di Milano, nato nella zona davanti alla Cattedrale nel 1444; S. Car­lo Borromeo ebbe qui mansioni amministrative. Molti degli Arcivesco­vi di Fermo vengono da Milano. Uberto Maria Visconti però non fu abi­le governatore. Durante il suo governo, vi fu grande carestia e il popo­lo chiedeva a gran voce: pane. Roma a sua volta, chiedeva grano alle Province e Mons. Uberto Maria Visconti fece incetta di 4.000 rubbi di grano per la Camera Apostolica. Erano cioè undicimila e duecento quin­tali, stando ad una relazione dell’epoca. Il Visconti fece venire a Porto S. Giorgio una nave da carico e chiamò da Montalto 500 soldati corsi (provenivano dalla Corsica; avevano per lo pii! mansioni di ordine pub­blico) per proteggere l’imbarco. Il popolo appena lo seppe proruppe in tumulti; piazzò artiglierie contro il palazzo del governatore; invase la piazza. Le campane suonarono a stormo, furono accesi i fuochi per ri­chiamare col fumo l’attenzione dei paesi vicini; i tamburi rullarono rab­biosi per la città; grida e minacce ovunque.

Visconti, nonostante fosse stato consigliato a non tenere la linea du­ra, non cedette. Il popolo continuò ad urlare e ad imprecare: “Vogliamo quel tiranno, quel cane!”. Impauritosi, Visconti si rifugiò nelle carceri, ma fu raggiunto dalla folla inferocita e trafitto da 12 colpi di arma da ta­glio e da fuoco. Il cadavere, spogliato e seviziato, fu lasciato sulla piaz­za fino a notte inoltrata. Un suo stalliere montò a cavalcioni del cada­vere, schiaffeggiandolo; un sedizioso mise sulla punta delle armi le cal­ze di seta di Visconti. Il Visconti, a richiesta della folla tumultuante, aveva prima licenziato i 500 soldati corsi sperando di aver salva la vita. Ma invano; il colonnello Adami, che aveva esortato la folla alla calma, morì, raggiunto da un colpo d’arma da fuoco. La rivolta era stata grave. La vendetta di Roma non tardò a farsi sentire, sebbene mitigata dal Car­dinale fermano, Decio Azzolino della Curia Papale.

La sentenza scaturita dal processo che ne seguì, decretò impicca­gioni, decapitazioni, anni di galera, lavori forzati, confische di beni, trat­ti di corda, strascinamenti a coda di cavallo, risarcimenti di danni. Il Co­mune di Fermo dovette sborsare 2.000 scudi per i danni arrecati al pa­lazzo del governatore. Tutto ciò avveniva nel luglio 1648 quando il so­le picchia sodo sugli “intelletti umani”, rendendoli… disumani.

Anno 1654 – La Regina di Svezia amica del Cardinale Azzolino

Non sempre sono disponibili Regine o teste coronate che abbiano avuto od abbiano relazioni con Fermo o con alcuni suoi cittadini illustri, ma stavolta abbiamo addirittura la Regina di Svezia, Maria Cristina, na­ta a Stoccolma l’8 dicembre 1626. Eletta Regina di Svezia a soli sei an­ni, a diciotto prende l’effettiva direzione della cosa pubblica e, due an­ni più tardi, nel 1646, sarà incoronata regina. Siamo nel periodo della Guerra dei trent’anni. La colta, dinamica e sagace regina, ci sa fare tan­to, che al tavolo della pace riesce ad avere notevoli compensi territoria­li e quindi potenzia ed eleva la sua corte ad una fastosità e ad una sfarzosità senza pari. Né si deve credere che trascuri la componente cultu­rale; anzi si circonda di personalità di fama come Cartesio, Ugo Grozio, giurista olandese, Salmasio etc. L’influenza di Cartesio provoca in lei una crisi religiosa; ben presto la supera, abbraccia la religione cattolica; ma la sua nazione è luterana e lei non esita ad abdicare in favore del cu­gino Carlo Gustavo. Roma l’affascina e viene in Italia, ma prima di var­care le Alpi, ad Innsbruck, proclama ufficialmente la sita abiura al pro­testantesimo, abiura che viene ufficialmente notificata alle case regnan­ti d’Europa. Giunta a Roma, viene accolta con tutti gli onori da Papa Alessandro VII. In seguito, vi sarà un piccolo screzio con la corte papa­le. La Regina Maria Cristina (si era riservata una porzione di territorio per non essere privata del titolo) vuole essere cattolica, ma non bigotta. Non fu fortunata in politica, le sue aspirazioni sul Regno di Napoli e sul­la Polonia vennero frustrate. Cercò allora nelle lettere e nella cultura quelle soddisfazioni negatele dalla politica. Conosceva il greco, il lati­no, il tedesco, lo spagnolo e in modo speciale l’italiano, il che le con­sentì di entrare in amicizia con il Cardinale Decio Azzolino jun. nativo di Fermo ed “eminenza grigia” nel vero senso della parola alla corte pa­pale. I “dotti conversari” con lui e l’ascesa dell’Azzolino a segretario di Stato di Clemente IX (non di Innocenzo X come vorrebbe il Touring Club Italiano, voi. Marche, pag. 580 di cui fu segretario della cifra) la resero sempre più influente alla corte pontificia e nelle relazioni con le corti europee. Il fermano Decio Azzolino “bello, colto, brillante”, sep­pe tanto conquistare il favore della Regina che lo nominò suo erede uni­versale. Un altro fermano illustre nell’entourage di tale Regina è il dot­tor Romolo Spezioli che fu suo medico personale, da lei altamente ap­prezzato. Il 19 aprile 1686 Cristina muore; dopo due mesi l’8 giugno 1689 muore anche il Cardinale Azzolino.

     Un particolare da ricordare: nel salotto della Regina Cristina sboc­ciò l’Arcadia che si sviluppò e fiorì grazie anche ad un altro grande mar­chigiano, Mario Crescimbeni. È sepolta nella basilica di S. Pietro. Que­st’anno ricorrono i tre secoli dalla morte di Cristina di Svezia e del fer­mano Decio Azzolino.

Anno 1658 – Giacinto Cornacchioli

     Vi sono personaggi illustri nati a Fermo e poi emigrati in Ascoli ed altri nati in Ascoli ed emigrati a Fermo; artisti ascolani che hanno operato a Fermo e viceversa. Un fermano, Giuseppe Maria de Marzi, (+1936), sindaco di Ascoli, fu il riordinatore e potenziatore della pinacoteca ascolana.

     Attualmente Fermo ha un sindaco di provenienza ascolana.

     Candido Augusto Vecchi, il famoso patriota che aiutò Garibaldi nell’impresa dei Mille ospitandolo nella sua villa ligure, era nato a Fermo, si trasferì poi con la famiglia in Ascoli, dove è annoverato tra gli uomini illustri.

     Oggi però vogliamo ricordare un musicista: Giacinto Cornacchioli, nato ad Ascoli nel 1590 circa, e spentosi a Fermo nel 1658.

     Egli fu celebre nel fervore musicale del Seicento, quando la potenza della novità si aggiungeva al fascino irresistibile della musica su spiriti raffinati.

Ben presto divenne organista del Duomo di Ascoli; passò poi a Roma presso i Principi Barberini, per perfezionarsi negli studi musicali. Si recò quindi a Vienna. Nel 1635 lo troviamo maestro di cappella e musico della Corte di Monaco di Baviera. “Diana Schernita – Favola boscareccia – Posta in musica da Giacinto Cornacchioli d’Ascoli – E rappresentata in casa dell’Illustrissimo Sig. Gio Rodolfo Baron di Hohen Rechberg – con privilegio, etc. e dedicata al Principe don Taddeo Barberini, Roma 1629”, consacrò la sua fama.

     Dopo tante glorie e tanti onori, tornò in patria, ma se ne distaccò ben presto, perché nominato maestro di cappella del Duomo di Fermo, accolto con stima e deferenza dall’Arcivescovo Cardinale Carlo Gualtieri. A Fermo fu altamente apprezzato e stimato. Qui coronò la sua prestigiosa e luminosa carriera e vi morì nel 1658.

Anno 1663 – Collegio invidiato

             Dall’Illirico, uscirono Vescovi e scienziati

     Fra i vari collegi ed istituti culturali che nel sec. XVII fiorivano a Fermo (l’Università, il Collegio Marziale, il Seminario Arcivescovile, le varie Accademie Letterarie ecc.) v’era anche il collegio per alunni provenienti dai territori dell’attuale ex-Jugoslavia e paesi vicinori. Era il Collegio Illirico. Aperto il 20 maggio 1663, accoglieva studenti aspiranti al sacerdozio provenienti dai “territori soggetti al dominio dei Turchi, cioè Albania, Dalmazia, Serbia, Macedonia, Bosnia, Bulgaria”.

     In un primo momento si era pensato di farlo sorgere a Ragusa, odierna Dubrovnic, sede ideale e ponte con l’Italia (con molte nostre caratteristiche, tanto che venne chiamata la Firenze dalmata), ma poi sorsero divergenze con la Repubblica di Venezia e non se ne fece nulla.

    Si decise allora per Fermo, dal clima temperato, posizione incantevole e località importante della Marca. Fu una scelta fortunata e provvidenziale, perché Ragusa, dopo quattro anni, esattamente il 6 aprile 1667, fu rasa al suolo da un violentissimo terremoto ed oltre la metà degli abitanti morì nelle macerie. A Fermo, all’inizio, il collegio ebbe varie sedi; la definitiva, attorno all’area della chiesa dei Padri Filippini.

     A Loreto sorse un altro Collegio Illirico, questo gestito dai Gesuiti, mentre quello di Fermo era tenuto dai sacerdoti dell’archidiocesi. Ben presto, visto che il collegio fermano prosperava, si manifestarono le gelosie di Loreto e si tentò più d’una volta di screditarlo presso la Santa Sede, come poco adatto e confortevole. Insorse allora il Cardinale Arcivescovo di Fermo, stigmatizzando e smontando le accuse.

     I collegiali, all’inizio erano sulla quindicina; ma ben presto il loro numero salì a settanta. Ben nutriti ed alloggiati, vestivano un’uniforme con mantellina rossiccia (fulvi coloris). Il Rettore ed il maestro avevano lo stipendio di 40 scudi ciascuno; un collegiale, veniva a costarne 30.

     Come detto, sorgeva nei pressi della chiesa dei Filippini che serviva loro per le pratiche di pietà. Ma nel 1745, i Filippini richiesero i locali dati in affitto all’llirico, perché volevano costruire la Casa della Congregazione, dato che la precedente era insufficiente. Cominciarono i lavori in esecuzione del progetto del celebre Architetto Pietro Augustoni da Como e nel 1756, come si legge nella Chronica dell’arcivescovo Borgia, l’edificio era terminato. Ciò comportò lo “sfratto” del Collegio Illirico che, per disposizione della Congregazione di Propaganda Fide, venne trasferito a Roma.

Sebbene la permanenza a Fermo di tale collegio non superasse gli 85 anni, pure espresse personalità del mondo della cultura e della religione.

Anno 1676 – Fermo e il Cardinale Nepote

     Era il mercoledì quel 18 novembre 1676 quando Fermo spedì a Papa Innocenzo XI un importante memoriale. Era morto da pochi mesi (22 luglio) Clemente X, un romano ottantaseienne, eletto dopo un sofferto conclave; durato cinque mesi. In precedenza era stato Vescovo di Camerino e conosceva le “cose” di Fermo. Gli era succeduto, dopo due mesi di interregno, Innocenzo XI, un Odescalchi di Como in precedenza governatore di Macerata. Anch’egli conosceva intus et in cute Fermo.

     Questa città, ininterrottamente da 126 anni godeva del privilegio di avere come Governatore il Cardinale nipote del Papa regnante od il parente più stretto. Ora si rinnovava al nuovo pontefice l’istanza di avere un Governatore della famiglia del pontefice (de stirpe pontificis). Scrive pertanto al Papa una lettera che riportiamo in forma agile, evitando l’ampollosa lingua del tempo.

     “Beatissimo Padre, la città di Fermo, umile serva e suddita della Santità Vostra, riverentemente fa presente che fino all’anno 1550 elesse sempre e da se stessa i propri governatori, ma avendo poi in detto anno supplicato Papa Giulio III di santa memoria… si fosse compiaciuto concedere alla richiedente ed al suo Stato un governatore della sua eccellentissima casa, ne ottenne benignamente la grazia con l’eiezione fattane dalla Santità Sua”.

    Giulio III accordò tale privilegio e diede a Fermo come primo governatore Giovanni Battista de’ Conti di Monte S. Savino, suo nipote. La richiesta di Fermo elenca poi tutti i governatori, nipoti dei Papi che si erano succeduti a Fermo nel suo Stato composto di 48 castelli e pone l’accento sul “Cardinale Sfrondato nipote di Gregorio XIV (+1591) il quale nominò vice governatore Monsignore Giorgio Odescalchi (si noti che il nuovo Papa era un Odescalchi) la cui riverita memoria” – dice la richiesta fermana – “vive presso la Città per le singolari doti sue”.

     Con psicologia sopraffina, Fermo toccava un ricordo che avrebbe dovuto senza meno perpetuare la concessione che durava da 129 anni. Lei sola, in tutto lo Stato Pontificio, godeva di tale privilegio. Ma Papa Innocenzo XI (che verrà poi beatificato il 7 ottobre 1956, cioè dopo quasi tre secoli) volle, come suo primo atto, abolire il nepotismo.

     Scompariva quindi la figura del Cardinal nepote e Fermo ne restava senza. Tuttavia, con singolare predilezione verso la Città, Innocenzo nominò una Congregazione Particolare presieduta dal Segretario di Stato Cardinale Cybo e composta dai Monsignori Agostino, Fano, Al-tovito, Pilastro, Luca.

     In seguito, Alessandro VIII (nel 1689) ristabilì il nepotismo e Fermo riebbe come governatore della città, e del suo Stato, il Cardinal nepote che fu l’Ottoboni.

     Nel 1691, ad opera di Innocenzo XII, venne ristabilita la Congregazione presieduta anche qui dal Segretario di Stato Cardinale Spada. Tale Congregazione fu confermata da Benedetto XIV nel 1746 e fu poi abolita nel 1791 da Clemente XIII.

     Oltre a quanto sopra, il ,iS Novembre ricorrono altri eventi: la morte di Pico della Mirandola (1496) famoso per la sperticata memo¬ria e la scomparsa di Marcel Proust (1922), celebre per il romanzo “À la recherche du temps perdu”.

     Sia la ricorrenza dell’episodio di cui sopra memoria viva dell’antica importanza di Fermo e dei suoi 48 castelli e la nostra rievocazione non costituisca una vacua ricerca del tempo perduto, ma tempo ritrovato (Le temps retrouvé) come ha per titolo altro romanzo di Proust.

 Anno 1725 – Alessandro IV Borgia: 14-2-1764, Arcivescovo e Principe di Fermo

Borgia, cognome famoso e deprecato; famiglia oriunda dalla Spa­gna, poi trapiantata in Italia, che ci diede Alessandro VI (papa Borgia) di costumi dissoluti come lo erano i figli Cesare (alias Duca Valenti­no) e Lucrezia Borgia.

Cesare ebbe parte anche nella storia di Fermo; ne fu signore, dopo aver ucciso a Senigallia il 31 dicembre 1502 Oliverotto da Fermo. Ce lo narra e con dovizia di particolari Machiavelli ne II Principe (cap. Vili). Vi sono stati però altri Borgia, tra cui un santo: S. Francesco Borgia, nipote del dissoluto Alessandro VI; il Card. Gaspare Borgia (1635); Giovanni Borgia (+1503) e Stefano Borgia (1804); entrambi Cardinali di costumi irreprensibili. Tuttavia, il “trio” di cui sopra, Alessandro-Cesare-Lucrezia, ha alimentato una letteratura truculenta e fantasiosa, spesso esagerando. Ciò accadeva nel ’500. Più tardi, dopo due secoli, spunta a Velletri un altro Alessandro Borgia (da non con­fondere con Papa Borgia) che sarà Arcivescovo e Principe di Fermo e sarà anche protagonista della storia fermana di quel periodo. Nunzio pontificio a Colonia e nel Belgio, spettatore ed attore del trattato di Utrecht (1714), tornato in Italia ebbe il governatorato di Assisi.

     Nel 1716 divenne Vescovo di Nocera Umbra e fu candidato visitatore apostolico in Cina, ma questa legazione non ebbe luogo, per malattia.

Eletto a Fermo, dove fece il solenne ingresso il 24 febbraio 1725, ricostruì il Palazzo arcivescovile; resta una incisione che attesta tale opera. Restaurò la Cattedrale e la Torre con le bianche pietre d’Istria; pose la statua di bronzo dell’Assunta nella nicchia, sulla cuspide del portale del Duomo, dove ora fanno vistosa cornice i bronzi di Aldo Sergiacomi di Offida.

Effettuò tre sinodi diocesani (1726-1738-1752) ripresi oggi, sopo un lungo lasso di tempo, dall’Arcivescovo Cleto Bellucci; si oppose con tutte le energie contro le ballerine e le contorsioniste femminili nei teatri dello Stato Fermano. Oggi avrebbe certamente ‘scomunica­to’ Pippo Baudo and company, nonostante “Madonna”…

Salvò la popolazione del Fermano dalle rapine spagnole ed au­striache i cui eserciti scorrazzavano dalle nostre parti commettendo estorsioni ed uccisioni ed insegnando, come ci ricorda Manzoni, “la modestia alle fanciulle ed alle donne del paese e accarezzando di temp o in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre”.

Egli si impose al generale comandante Lobkovic, il quale minac­ciava gravi rappresaglie per non aver trovato viveri per i suoi soldati. Lo affronta; lo riduce alla ragione e salva così Porto S. Giorgio ed i suoi abitanti. Alessandro Borgia ha anche il merito di aver riordinato agli Archivi della Curia, fonte preziosa per la storia di quel tempo.

Scrisse anche la Chronica in elegante latino, in cui “fotografa” le vicende storiche dalla Marca meridionale dal Tronto ad Ancona. Pala­dino e vindice dei diritti dello Stato di Fermo, si spense in questa città il 14 febbraio 1765. Oggi si compiono.229 anni dalla sua scomparsa.

Anno 1735 – Quel grande astronomo dalmata

     Fatti ed eventi dell’opposta sponda adriatica ci toccano da vicino. “Se brucia la casa del vicino – dice un proverbio latino – devi stare all’erta”. Marche e Dalmazia sono state nel corso dei secoli in stretta relazione.

    La Dalmazia ci ha dato Luciano di Laurana, Architetto del Palazzo Ducale di Urbino e della Rocca di Pesaro; S. Girolamo, nativo di Stridone; Nicolò Tommaseo da Sebenico. Ragusa (ora Dubrovnik) ha avuto molte relazioni commerciali con Fermo. Zara poi sin dal sec. XIII ha stipulato molti trattati commerciali con Fermo.

     Ma un grande dalmata, Ruggero Boscovich, famoso geodeta, astronomo, matematico, pose a Fermo il suo quartier generale per le misurazioni dell’arco dei meridiani tra Roma e Rimini. Nativo di Ragusa, a 15 anni entrò fra i Gesuiti e prima ancora di essere sacerdote, insegnò grammatica e matematica al Collegio Romano. Il fratello Bartolomeo, insegnò teologia a Fermo, dove, è bene ricordarlo, esisteva anche un Collegio Illirico per gli studenti della Dalmazia e della Slovenia. Ruggero Boscovich nel 1735 stampò e pubblicò a Fermo il volume Sulla proiezione de’ gravi. Del suo soggiorno a Fermo, il Boscovich parla, nel volume De Litteraria expeditione perpontificiam ditionem, Roma 1755. De¬scrive Fermo come città famosissima, di antica nobiltà, sede di università e pingue sede arcivescovile; Urbem celeberrimam nobilitate veteri… pingue archiepiscopatu.

     Scienziato di altissimo valore, fu chiamato a Londra, a Parigi (dove soggiornò per un decennio) a Costantinopoli, Varsavia, Vienna dove pubblicò nel 1758 Theoria Philosophiae dando ancora una volta prova di un ingegno poliedrico e vivissimo. Lavorò come dirigente nell’osservatorio astronomico di Brera, privilegiando le opere astronomiche sulle meccaniche. Amò e predilesse Fermo. Qui, insieme ad un altro scienziato gesuita inglese P. Maire, effettuò molte rilevazioni geografiche. Nello stesso periodo i due si recarono a Monterubbiano (Colucci, Antichità Picene, XXXI), S. Elpidio a Mare, Montalto Marche, Civitanova. Ruggero Boscovich nato 280 anni or sono, morì a Milano il 13 febbraio 1787.

    Egli, che si interessò di astri e di stelle, sia stella propizia di pace per la sua diletta Ragusa e Dalmazia tutta, ora in preda a sconvolgimenti etnici e bagliori di guerra.

Anno 1752 – Ai castelli dipendenti un “monitorio” del 1752 detta le condizioni per partecipare

     Si sta avvicinando la Festa dell’Assunta e di conseguenza la celebrazione del Palio e della Cavalcata, i più antichi in questo proliferare di manifestazioni consimili.

Come è noto, il Palio di Fermo è documentato sia dal 1182 (Arch. di Stato Fermo perg. 1933) anzi da ricerche effettuate dallo scrivente, si hanno documenti che lo fanno risalire al 1149 (Acta Diversa Firmi 1449).

     È sempre interessante sfogliare atti e documenti antichi e vedere nel corso dei secoli come venivano scanditi la Cavalcata e il Palio. Talvolta, come nel 1447, imperversava la peste e quindi nessuna manifestazione; tal’altra, arde la guerra; anche qui nulla. In alcuni anni le manifestazioni non hanno luogo per non oscurare il compleanno e l’onomastico di Napoleone Bonaparte, che cade proprio il 15 agosto. Ciò si verificò dal 1808 al 1814.

     Scartabellando, abbiamo trovato un editto del 9 luglio 1752; Fermo invia a tutti i castelli dipendenti un “monitorio” intimando l’invio di cavalieri in solemnitate Sanctissìmae Assumptionis. “Ricorrendo il 15 agosto prossimo la solennità della Santissima Assunta, ricordiamo per mezzo di questa, di mandare li Cancellieri per l’accompagnamento della Cavalcata vestiti decentemente, con Cavallo (C maiuscola) fornito di finimenti propri e con la solita offerta (sottolineato nel testo), poiché in caso contrario non saranno ricevuti e sin d’adesso resta a voi intimata la pena del Birro ad standum per l’uno e per l’altro conto”.

     L’intimazione prosegue raccomandando anche le lettere credenziali come le raccomanda in altro monitorio di un mese dopo il 6 agosto 1752 che fra l’altro recita: “Magnifici nostri Carissimi, sul riflesso del¬lo stato deplorabile degli Stendardini, che in occasione della solenne Cavalcata, che ogni anno suol farsi in questa città per la Festa gloriosissima dell’Assunzione di Maria Vergine, si è degnata la Sacra Congregazione Fermana di ordinare la loro rinnovazione, commettendo a questo Nostro Monsignore Illustrissimo Governatore (…) che indilatamente ne sia fatta la spesa e la Tassa di essa premessane la uniformità e la condizione eziandio di poter riportare ciascuna Comunità il proprio a casa sua sicché, in questo stato di cose, abbiamo procurata la sunnominata rinnovazione”.

     La lettera prosegue precisando che ogni Comune deve pagare scudi 4,90 più altre “spesette”, ma ribadisce che tale somma deve essere as-solutamente versata “li 14 corrente vigilia di detta Festa affinché si possa con essi e le altre somme dell’altre Comunità soddisfare il Mercante” (…) “mentre nell’atto istesso del pagamento, verrà consegnato lo stendardino”.

     Le due lettere furono spedite dal Palazzo Priorale di Fermo. Ogni comunità doveva pagare inoltre al Messo bajocchi cinque.

Anno 1769 – Torre di Palme, Porto di Fermo e Fermo in un diario di due secoli or sono

     Non è facile trovare diari di viaggiatori illustri che apportino nuova luce suH’urbanistica, sulla storia e sulla edilizia delle nostre città, in quanto le conosciamo bene o presumiamo di conoscerle. C’è il “Viaggio in Italia 1844-1845” di Teodoro Mommsen, in cui parla di Ancona, Loretto (sic! ). Fermo. San Benedetto, Ascoli, ma quello di G.G. Carlè di molto anteriore e dal titolo “Memorie di un Viaggio fatto per l’Umbria, Abruzzo e Marche”, viaggio durato dal 5 agosto al 14 settembre 1765, ci dà alcuni ragguagli che hanno l’effetto di una vecchia e rara fotografia, forse scolorita, ma sempre interessante perché ci riguarda.

     L’autore parla di Torre di Palma, piccolo castello poco sopra la strada. Sotto di esso si mirano i vestigi di un buon Porto antico, quando il mare era più alto.

Porto di Fermo “adesso nobile terra”. Al 2- miglio si trova la Collegiata di S. Maria a Mare, donde sono tre mi(glia) p(er) Fermo. Il porto, propriam(en)te, è una spiaggia; quanto alle fabbriche merita piuttosto il titolo di città. La parte antica è circondata di belle mura e munita di una fortezzina… ha alcuni buoni palazzi e fabbriche basse. Vi sono delle ricchezze ed ogni giorno cresce la popolazione”. Come si vede, già da allora Porto S. Giorgio appariva come località in pieno sviluppo, tale da meritare il nome di “città”.

     Descrivendo Fermo lautore precisa “…è situata nel declivio di un monte, e le fabbriche lo circondano quasi per 3/4. È piuttosto grande… gode una superba veduta da tu(tt)e le parti. Vi è gran nobilità, ma non molte ricchezze… Bel sangue e spiriti svegliati. Vi è l’Università e la presente buon concorso di scolari e lo studio pratico della Legge vi fiorisce più che a Macerata (…). Nel cima del monte è situato il Duo¬mo… tutto di belle pietre quadrate. Avanti al Duomo è la chiesa dei Cappuccini”… Qui abbiamo il riscontro che l’Università di Fermo era più importante di quella di Macerata, che chiesa e convento dei Cappuccini non erano altro che la odierna Villa Vinci, ristrutturata ed arricchita. I Cappuccini passarono poi sul colle dove sono attualmente, e fa piacere vedere che allora come oggi il quadro di S. Lorenzo di Federico Zuccari e S. Francesco del Pomarancio campeggiavano in detta chiesa. Ma c’è di più: il diario parla della “Venuta dello Spirito S(anto)” di Giovanni Lanfranchi e della “nascita di N(ostro) Sig(nore)” di Paolo Rubens, etc. Ciò testimonia che già da allora l’attribuzione al Rubens, era di pubblico dominio.

Anno 1770 – La città trasformata dal cardinale

     Chi a Fermo dalla Piazza del popolo, vigilata dal burbanzoso Sisto V, si reca al Girfalco, deve necessariamente imboccare viale Mazzini, cui in alto, fa da sfondo la statua di S. Savino, compatrono della città. Viale ampio, in salita, che conduce alla spianata dove, imponente e mae¬stosa si erge la cattedrale. Ma prima del 1771 non era così! Ce lo ricorda una lapide in forbito latino, ora seminascosta dalla folta vegetazione, quasi alla fine di detto viale, prima della svolta per la Casina delle Rose.

     La lapide dice che il “Senatus Populusque Firmanus” per opera del Cardinale Arcivescovo Urbano Paracciani venne aperta dalla piazza al colle (a foro ad jugum) una nuova via. Ciò per dare risalto alla maestà del luogo e degna cornice alla Basilica Metropolitana, abbattendo i ruderi dell’antica fortezza degli Sforza e sistemando il colle con opere di contenimento. Dopo cinque anni, sull’ampio paramento dove spicca la statua di S. Savino, opera di Stefano Interlenghi, fu posta un’altra lapide a “San Savino patrono, il Senato ed il popolo di Fermo”.

      Il Cardinale Paracciani, nel periodo in cui fu Arcivescovo di Fermo (13 anni) fondò l’Orfanotrofio, il Brefotrofio, diede degna sede al se¬minario come ci attesta tuttora una lapide sulla ex sede, a fianco del Carmine. Anzi fece del tutto per farsi assegnare dalla sede apostolica la bi¬blioteca dei Gesuiti (vennero soppressi nel 1773), per poi passarla al seminario che fino al 1955 ebbe sede a fianco della chiesa del Carmine. Potenziò inoltre la cappella musicale della Basilica Metropolitana; effettuò nel 1773 il Sinodo. Visitò la vasta diocesi, imprimendo un ritmo di convegni del clero. Favorì inoltre i pescatori di Porto S. Giorgio eso¬nerandoli (cosa mai accaduta in precedenza) dal fermo biologico, che proibiva la cattura di talune qualità di pesce. Nel periodo in cui fu Arcivescovo di Fermo si verificarono molte carestie, ma la Diocesi non ne risentì, data la sua preveggenza e la sua provvidenza. Altro suo merito è quello di aver riordinato l’archivio arcivescovile, immensa miniera di atti e documenti relativi non solo ai centri della vasta diocesi, ma anche di Tortoreto, Colonnella, S. Benedetto del Tronto, Acquaviva Picena, Ripatransone, Montelupone etc. Ancor oggi il più importante ed attrezzato delle Marche, e visitato e consultato da studiosi italiani e stranieri specie tedeschi. I primi documenti risalgono al sec. IX.

     Paracciani morì il 2 gennaio 1777 (oggi ricorrono 216 anni!) rimpianto da tutti, la lapide posta sulla sua tomba, puntigliosamente precisa:    volò al cielo all’età di 61 anni, mesi 10, giorni 25”. Era nato a Roma nel 1716; venne a Fermo quale Arcivescovo nel 1764. Due anni dopo, Papa Clemente XIII (1758-1769), lo creò cardinale. Per non lasciare la sua Fermo, chiese ed ottenne dal Papa che la berretta cardinalizia gli fosse imposta qui nella Basilica Metropolitana, anziché in S. Pietro a Roma.

Anno 1773 – Clemente XIV

     Nel febbraio del 1769. a Roma si riunisce il conclave per l’elezione di un nuovo Papa, dato che 13 giorni prima era morto improvvisamente Papa Clemente XIII.

I Cardinali entrarono in conclave il 15 febbraio 1769. e le votazioni per eleggere il nuovo pontefice furono ripetute per ben 179 volte, protraendosi dal 15 febbraio al 18 maggio di quell’anno, cioè per oltre tre mesi. Alla fine, venne eletto, con 46 voti su 47, il Cardinale Giovanni Vincenzo Antonio Ganganelli.

     Era nato a Sant’Arcangelo di Rimini da famiglia marchigiana di Sant’Angelo in Vado. Nella iconografia dei Papi è indicato come Clemente XIV vadensis, cioè da Sant’Angelo in Vado. Quindi nessun dubbio sulla sua marchigianità.

     Il padre, come detto, era di Sant’Angelo in Vado e si era trasferito a Sant’Arcangelo per esercitarvi la professione di medico.

     Ben presto Giovanni perdette la madre e, dopo aver compiuto gli studi nei collegi di Urbino e Fano, a 18 anni entrò tra i Frati Minori Conventuali dedicandosi agli studi di filosofia e teologia nei conventi di Fano, Pesaro e Recanati. Forbito oratore e brillante docente, insegnò filosofia e teologia a Fano, ad Ascoli Piceno, a Bologna, a Milano.

     La sua intelligenza e la profondità della sua dottrina lo distinsero talmente da essere inviato a perfezionarsi a Roma, nel collegio di S. Bonaventura, di cui, nel 1741, divenne rettore. Papa Benedetto XIV ne apprezzò le qualità morali e lo nominò nel 1746 consultore della Con-gregazione del S. Ufficio. Gli diede inoltre, prova di alta stima, al pun¬to di considerarlo suo amico e consigliere particolare.

     l 24 settembre 1759, Clemente XIII lo creò Cardinale. Per rico-noscenza, quando Ganganelli fu eletto pontefice volle assumere il titolo di Clemente XIV. (Per inciso ricorderemo che altri “Clementi” fu¬rono marchigiani: Clemente VIII nato a Fano, morto nel 1605 e Cle¬mente XI di Urbino morto nel 1721).

     Clemente XIV seguì nel suo pontificato l’alto esempio di Benedetto XIV, che considerò sempre suo maestro di vita. Il primo proposito del nuovo pontefice, fu la riappacificazione della Santa Sede con i governi cattolici; a tale scopo, allacciò rapporti amichevoli coi principi non solo cattolici ma anche protestanti. Soppresse i monitori e si astenne dal pubblicare l’annuale bolla In coena Domini. In tale contesto, s’inquadra il fatto – che gli diede un rilievo particolare nella storia della chiesa – della soppressione dei Gesuiti.

     Il momento era molto grave per il papato, che si trovava a fronteggiare una situazione forse la più difficile della sua storia. L’opposizione contro il temporalismo si concentrava contro i Gesuiti. Gli Stati Europei, soprattutto le corti Borboniche, ne reclamavano la soppressione. Clemente XIII aveva tentato di resistere. Ma la Francia, per protesta, aveva occupato Avignone. Napoli si era impadronita di Benevento e di Pontecorvo, possessi papali.

      La Polonia minacciava di ridurre i poteri del Nunzio Apostolico; il Portogallo, uno scisma autonomo. Vienna minacciava leggi persecutorie contro gli ordini religiosi in particolare contro i Gesuiti, che erano già stati cacciati, nel 1767, dalla Spagna, da Napoli, da Pavia e da Piacenza. Venezia fremeva in attesa di vederli espulsi dalla sua Re¬pubblica.

      Clemente XIV allora, dopo profonda meditazione e matura riflessione, non senza grande amarezza, in vista del bene supremo della cattolicità, decreta la soppressione della congregazione, facendo sì che l’ordine di tale soppressione, apparisse venuto da Roma non da altri. Si dice che in tale grave frangente, volle consigliarsi con S. Paolo della Croce. Per tal motivo andò personalmente a visitare l’umile religioso per chiedere consiglio. Ne ritornò assicurato – multo quam venerat hilarior – si legge in Miscellanea Francescana (pag. 60, anno 1934).

     Profondamente convinto che per ridare pace e tranquillità alla Chiesa non c’era altra via, elaborò segretamente il breve di soppressione Dominus ac Redemptor e il 17 agosto 1773, lo comunicò ai Gesuiti.

     Il suo operato fu sottoposto a critiche aspre e spesso ingiuste che lo rattristarono profondamente. Il Theiner, in riferimento a giudizi poco obiettivi, ha ribadito che “fu grande, puro, senza macchia ed anzi ammirabile non solo nel conclave, ma ben anche e soprattutto nella questione dei Gesuiti, e per tutto il tempo del suo pontificato”. L’ele¬vata sensibilità artistica lo spinse ad interessarsi all’arte: iniziò infatti la raccolta del Museo Vaticano dementino e abbellì Roma; curò anche opere di utilità pubblica come, ad esempio, il restauro del porto di Ancona e di Civitavecchia. Ricorderemo, inoltre, che è suo merito la ricostruzione avvenuta nel 1772, cioè due secoli or sono, di Servigliano (Ascoli Piceno), con razionale e per allora insuperabile disposizione urbanistica. Gli abitanti in suo onore vollero cambiare il nome di Servigliano con quello di Castel dementino. Solo all’avvento del regno di Vittorio II fu ripristinato nel 1863 il nome di Servigliano. Non si può inoltre non rilevare la gravità di costumi irreprensibile, l’inno¬cenza della sua vita e la mansuetudine ammirabile, che ne fanno una persona di altissima umanità.

    Morì il 22 settembre del 1774, in seguito all’aggravarsi della malattia dopo una serena agonia, consolato da S. Alfonso che gli apparve e prese a parlare con lui delle cose celesti “per consolarlo delle amarezze che gli avevano fatto trangugiare i suoi nemici nel tempo della sua santa vita… per rallegrare la sua anima, mostrandogli l’aspetto anticipato di Colui del quale egli aveva sì degnamente occupato il posto sulla terra…” (Theiner).

Le spoglie mortali furono deposte in S. Pietro e vi rimasero fino al 1802, anno in cui furono trasportate nella Basilica romana dei Dodici Apostoli, sede della Curia Generalizia dei Francescani Conventuali, dove il Cav. Carlo Giorgi, fece erigere a Colui che aveva apprezzato con tanta sensibilità l’arte, un magnifico mausoleo opera di Antonio Canova.

Anno 1783 – Festa delle donne e la festa ai mariti

     Una dozzina di giorni fa, è stata celebrata la Festa della Donna, istituita, come è noto, nel 1910 nella conferenza intemazionale di Copenaghen.

     Domenica ha avuto luogo la festa del papà per cui i due “poli” della famiglia: padre o marito e moglie hanno avuto i loro riconoscimenti. Ma nel corso della storia, abbiamo esempi di mogli che uccidono i propri mariti e viceversa. Sia che l’uccisore sia la moglie, sia il marito, tale delitto è chiamato uxoricidio (da uxor: moglie).

     Anche l’unione di un uomo e una donna, confermata dalla legge (e per i cattolici elevata a sacramento) si chiama matrimonio (da mater: madre). Come si vede, è sempre la donna ad avere la meglio e ad essere vincitrice anche quando si tratta di “matrimonio di patrimoni”. Quando non vi è guerra aperta o battaglia frontale, ma scontro subdolo, quasi sempre vediamo la donna vincitrice, come lo furono Laura Crispoldi, Geronima Spana, Graziosa Farina, Maria Spina e tale Giovannina che si faceva chiamare la “strollaca”. Esse, in combutta, giurarono di “far fuori” i propri mariti ed essere poi “libere”… “realizzando così tali partiti / per ogni donna aver cento mariti”.

     Ce lo racconta un manoscritto della ricchissima biblioteca comunale di Fermo. E un poemetto in versi non disprezzabili, che narra di uxoricidi tentati o perpetrati dalle sullodate femmine. Altro che festa della donna. Qui sono le donne che “fan artifici, acque diaboliche e mortifere, sortilegi e pozioni, ma alla fine, scoperte, vennero appese alla forca”.

     Il curioso manoscritto, donato alla biblioteca fermana da tale Aldebrando Gioni nel 1783, è opera di Francesco Assione. “Canto de cinque femine li scorni / che con lor acque di veleno ignoto / faceano terminar all’uomo i giorni / pria che il tempo tagli lo stame a Cloto / e perché di giustizia i raggi adorni / non può mai chiuso star fallo remoto / dirò come fur prese e carcerate / ed a una forca in angoli appiccate…”

     Il poema preceduto da una protasi od invocazione alla Musa che riecheggia quella della Gerusalemme Liberata, fra l’altro recita: “… che con la spada e la bilancia eguale li boni assolvi in terra e i rei condanni / tu spira ai versi e dà vigore tale / mentre a lode di te spiego i miei vanni / acciò che cinti di giustizia interni / alla futura età restino eterni”.

      Eterni sono restati i loro nomi. Ed oggi all’indomani della festa della donna (l’altra metà del cielo come dicono i cinesi) la lettura del poemetto non conferisce certo prestigio alla “metà del cielo”. Anzi la sua immagine va in discesa, o meglio a picco, come la lira.

Anno 1789 – Così nacque la Marsigliese

     La cantarono più volte a Fermo i soldati francesi; la cantarono in varie località del Dipartimento del Tronto in occasione delle solennità, e del 15 agosto compleanno ed onomastico di Napoleone; ed ancor oggi la si canta nelle celebrazioni patriottiche della Repubblica Francese. È la Marsigliese, che quest’anno compie due secoli; la ricordiamo oggi data “fatidica” della presa della Bastiglia, venuta il 14 luglio del 1789.

     La vera storia della Marsigliese è dissimile da quella narrata da Lamartine (allora aveva appena due anni) nel vol. XVI della Hìstoire des Girondins. Studi recenti hanno portato nuova luce. Rouget del Lisle, l’autore di essa, la sera del 25 aprile 1789 (data della dichiarazione di guerra dell’Austria alla Francia) era stato invitato a cena dal sindaco di Strasburgo, Frédéric Dietrich. Questi, invitò Rouget a comporre un nuovo inno. Rouget de Lisle si schermì, dicendo che non era all’altezza e tracannando il vino del Reno e facendo gli occhi da triglia alla figlia del sindaco Dietrich, finì la cena uscendo insieme ad Ignazio Pleyel suo commensale. Girarono per la città, anche per smaltire i fumi del vino. A Rue de Mésange, videro dei manifesti in cui si leggeva testualmente: Aux armes citoyens! Formez vos battaillons. Erano le prime righe: ne seguivano altre infuocate. Rouget le lesse, le scrutò meglio. Si ricordò di Dietrich, della figlia ora inconsapevole musa ispiratrice. Salutò Pleyel, tornò nella sua casa; afferrò la penna d’oca e scrisse: Aux Armes citoyens. Formez vos battaillons. Ricordando poi un’ode di Boileau… et leurs corps pourrìs dans nos plaines n’ont fait qu’engrasseron nos sillons, cioè e i loro corpi che imputridiscono nei nostri campi non fanno che concimare i solchi, continuò. L’inno ormai c’era! Mancava il primo verso. Rouget, che comandava il battaglione il celebre, travolgente inno, era nato! Ignazio Pleyel, che era maestro di cappella della cattedrale, musicò l’inno giacobino.

     Oggi 14 luglio anniversario della presa della Bastiglia, ricordiamo l’evento. Proprio da Fermo, capoluogo del Dipartimento del Tronto e sede del Prefetto (ne dipendevano le vice-prefetture di Ascoli e Camerino), venivano impartiti gli ordini, ogni qualvolta tale inno doveva essere pubblicamente e solennemente cantato.

Anno 1791 – Il teatro dell’Aquila oggi ‘compie’ due secoli

     Duecento anni or sono – per l’esattezza il 18 agosto 1791 – dopo alcuni controlli riguardanti il funzionamento dei meccanismi essenziali, veniva inaugurato a Fermo il Teatro dell’Aquila. L’atteso avvenimento fu celebrato col dramma sacro di Giuseppe Giordani, detto il Giordanello (morì a Fermo il 4 gennaio 1798): “La distruzione di Gerusalemme” per la prima volta rappresentato al S. Carlo di Napoli nel 1787. Per la curiosità dei nostri lettori, ricordiamo la partecipazione di quei primi interpreti, capostipiti di una lunghissima serie di attori: Francesco Gibelli, Luigi Benedetti, Giovanni Spagnoli, Ubaldo Cavalieri, Antonio Merchini, Filippo Sagripanti. L’opera venne affidata a Cosimo Morelli di Imola (1732-1812) che ricostruì parzialmente anche il Duomo di Fermo. Di lui ci piace ricordare il giudizio che appare nel volume “Teatri e scenografi”, edito dal Touring Club Italiano: “La più significativa realizzazione di Cosimo Morelli nel campo dell’architettura teatrale è rappresentata dal teatro dell’Aquila di Fermo. Opera della piena maturità dell’architetto imolese, fu inaugurato nel 1791.1 canoni di sobrietà e ra¬zionalità imposti dal gusto neoclassico sono pienamente rispettati”.

     Detto teatro è stato uno dei più noti d’Italia. Fu costruito 13 anni dopo quello della Scala di Milano; un anno prima della Fenice di Venezia, due anni prima di quello di Bologna, 55 anni prima del Ventidio Basso di Ascoli. Vi si avvicendarono Giulia Marziali Passerini; Ludovico Graziani per cui Verdi scrisse la parte di Alfredo nella Traviata; Enrico Fa¬gotti, Enrico Petrelli di Palermo, Giuseppina Vitali Augusti (vi cantò nel 1878), Beniamino Gigli, Ermete Novelli, nato a Lucca da madre ferma- na (1851-1919), Giacomo Lauri Volpi, Renata Tebaldi, Isaia Bidè, Mario Del Monaco, Anna Moffo, etc. Ha anche il vanto di aver tenuto a battesimo, per la prima volta in Italia, il dramma “La morte civile”, di Paolo Giacometti. Fra gli spettatori ebbe anche Giuseppe Garibaldi (17/1/1849).

     Sul suo podio si sono avvicendati i migliori direttori d’orchestra; sotto la grande volta dell’Olimpo sono risuonate le melodie dei più celebri musicisti di ogni epoca.

     Oggi noi dobbiamo commemorare due secoli di vita col solo pensiero. .. Tra chiacchiere e progetti vari, il celeberrimo teatro giace fra la polvere e lavori a metà.      

     Nella più completa inerzia, nel più squallido abbandono. .. Fino a quando??? E pensare che il Teatro dell’Aquila è sorto sin dal 1791 preceduto soltanto da Macerata (1767). Ascoli lo ebbe nel 1846 cioè dopo 55 anni; Pesaro nel 1815; Ancona nel 1826; Jesi nel 1798; Fabriano nel 1863; Urbino nel 1853.

Anno 1796 – Giuseppe Colucci, storico delle Marche

     Nei vari congressi, o convegni storici, a carattere sia regionale che nazionale, quando si parla della Marca d’Ancona o delle Marche Pontificie, nell’articolarsi della sua storia dal 1000 fino al 1800, Fermo campeggia come protagonista “nella” e “della” storia picena.

     Come già visto, Pier delle Vigne, colui che tenne “ambo le chiavi del cor di Federigo”, per dirla con Dante, ai suoi tempi la descriveva come la città più importante delle Marche quae cunctas civitates in Marchia praecellebas… (Epistole, Coll. Vat.).

     Quando il Cardinale Egidio Albomoz, delegato dal Papa che era in Avignone, recuperò alla Sede Apostolica l’Emilia Romagna e le Marche, divise la città delle Marche in maggiori, grandi, mediocri e minori.

Fra le città maggiori, cioè le più importanti, collocò Fermo, seguita da Ancona; quindi, nell’ordine, da Camerino, Ascoli e Urbino. Pesaro e Macerata seguivano tra le civitates magnae.

     Ben si avvide di ciò uno storico, di cui oggi si ristampano le Antichità Picene, cioè Giuseppe Colucci, nato a Penna S. Giovanni il 19 marzo 1752, morto a Fermo il 16 marzo 1809, cioè 186 anni or sono. Sacerdote nel 1767, si laureò il Legge nell’Università di Fermo dove in seguito insegnò. Attratto dalla maestosità delle rovine di Falerone (nei cui pressi gli Italici nel 90 a.C. sconfissero Pompeo Strabone) compose numerose opere storiche esordendo con “Delle antiche città picene, Falerio e Tigno”, Fermo 1777; “Cupra Marittima antica città del Piceno” (1778); “Dei primi abitatori del Piceno” (Fermo 1781). “Dei vari confini del Piceno, ivi 1785”; “Delle varie Metropoli del Piceno”, Fermo 1785. Ma L’opera poderosa e grandiosa che diede fama all’autore sono le “Antichità Picene”, 32 volumi stampati a Fermo tra il 1786 e il 1796. Il primo volume venne dedicato a Pio VI, il quale lo apprezzò moltissimo ed ordinò ad ogni Comune delle Marche di prenderne copia. Purtroppo, gli invasori francesi rovinarono ogni cosa e la pubblicazione fu forzatamente interrotta.

     Colucci sperava di poter continuare, ma nel 1800 fu nominato vicario generale del Cardinale  C. Brancadoro (suo amico) che era stato nominato Vescovo di Orvieto.   

     Promosso poi il Brancadoro alla sede arcivescovile di Fermo nel 1803, confermò Colucci, vicario generale della vasta Archidiocesi che comprende anche oggi Penna S. Giovanni, paese natio di Colucci.

      La Biblioteca Comunale di Macerata nel 1932/1933 ha rilevato il fondo principale dell’archivio e biblioteca da Colucci che comprendeva e comprende altri 20 (venti) volumi ancora inediti delle “Antichità Picene”.

     Un epitaffio nella Cattedrale di Fermo ricorda il grande storico, non a torto

considerato il “Muratori delle Marche”.

Anno 1797 – I delegati di Fermo davanti a Napoleone

     Era il 24 febbraio 1797; cinque giorni prima, a Tolentino Napoleone Bonaparte ed i plenipotenziari di Pio VI avevano firmato la pace, passata alla storia come pace di Tolentino.

     Con essa, per la prima volta nella storia, il patrimonio di S. Pietro veniva decurtato di parte del suo territorio. Infatti Napoleone pretese: Avignone, il Contado Venassino, le Legazioni di Bologna, Ferrara, delle Romagne, l’occupazione di Ancona, 31.000.000 di lire, la cessione di opere d’arte, manoscritti, preziosi ecc.

     Pochi giorni prima, dopo la rotta dei pontifici sul Senio, Napoleone, vittorioso, era calato nelle Marche e si era soffermato in Ancona. Aveva mandato commissari di finanza in varie città compresa Fermo per imporre contribuzioni, richiedere buoi, cavalli, vestiario, scarpe etc. Tali commissari vennero a Fermo in due riprese; uno (il commissario d’Antien) si comportò da gentiluomo. Il 21 febbraio venne un altro, scortato da sei dragoni. I Fermani insorsero, però Napoleone era ad portas; pre¬sto o tardi i suoi soldati sarebbero venuti a Fermo e preceduti com’erano dalla fama di dissacratori, ladri, rapinatori “a Dio spiacenti” perché contro la religione, ne avrebbero commesse di tutti i colori. Si pensò quindi di inviare ambasciatori a Napoleone per chiedere scusa a nome della città e dello Stato, complimentarsi con lui per le folgoranti e sfolgoranti vittorie, e scansare la venuta dell’esercito francese a Fermo.

     Napoleone era tornato da poco a Tolentino; se ne stava seduto davanti al caminetto a Palazzo Torri. Quando gli fu annunciato l’arrivo dei delegati fermani, che erano il conte Giacomo Brancadoro e il conte Vincenzo Porti, li accolse bruscamente. I due delegati al cospetto di Napoleone, appena ventottenne e al culmine della gloria, furono presi da timore reverenziale al punto che (narrano le cronache) balbettarono solo alcune parole.

     Al ritorno, a bordo delle loro carrozze, si imbatterono nelle truppe del generale Rusca che, alla testa dei soldati francesi, saliva verso S. El- pidio. Gli elpidiensi tesero degli agguati; si ebbero scariche di fucileria, i ribelli si asserragliarono nel convento dei cappuccini; furono assediati e si ebbe una carneficina. Dei due delegati fermani, il Conte Porti riuscì a fuggire; e riuscirono pure a fuggire altri due delegati, il conte Eugenio Savini e Vincenzo Cordella che Fermo, non avendo più notizie dei primi due, aveva mandato di rincalzo per scongiurare la venuta dei francesi.

     Nella confusione e nella mischia, il conte Brancadoro, scambiato per giacobino, venne ucciso dagli insorgenti, tra i quali alcuni suoi contadini; gli altri, come detto, riuscirono a salvarsi. Molte furono le vittime da entrambe le parti nella battaglia di S. Elpidio. E pensare che solo 5 giorni prima era stata firmata la pace!

     Il corpo del conte Brancadoro fu portato a Fermo e sepolto in S. Francesco. Una lapide ricorda che per scongiurare il pericolo della venuta dei francesi era andato in Ancona (et imminens Gallorum copias reconciliationis causa Anconam adiisset) e fu poi ucciso dagli Elpidiani. I suoi funerali costarono scudi 113.65; la lapide scudi 15.20. Il Generale Rusca, dopo lo scontro di S. Elpidio, chiese a Fermo in risarcimento 2.000 zecchini, ma poi si convenne per l’esborso di 1.500 colonnati, cento doppie papali, oltre a 1.112.38 scudi. Ma per cibarie, viaggi, buoi, cavalli, stivaletti, scarpe, biade, la somma totale per Fermo lievitò a scudi 3.902.44.

Anno 1798 – L’accanita battaglia di Torre di Palme

     Torre di Palme, paesino stupendo a picco sul mare, gioiello d’arte e di storia che ha ispirato poeti, pittori e ultimamente ha strappato la commossa ammirazione anche a Dario Zanasi. Sotto, in pianura, si estende Marina Palmense, attraversata dalla ferrovia, dall’autostrada, dalla Statale 16 e sede di un campo di fortuna dal quale, durante l’ultimo conflitto, partivano gli aerei alleati per i bombardamenti al nord.

Ma in questa amena pianura, al cospetto dell’“adriaco mare” il 28 novembre 1798, cioè quasi due secoli or sono, ebbe luogo un’accanita battaglia tra francesi e cisalpini comandati dai generali Rusca e Casabianca e le truppe napoletane comandate dal generale Micheroux. Fu una battaglia memorabile. Ecco cosa dice in proposito Pietro Colletta nella “Storia del Reame di Napoli”: “Il generale Micheroux giunto ne’ dintorni di Fermo con 9000 soldati, vi trovò schierate a battaglia in preparate posizioni, le squadre francesi rette da’ generali Monier, Rusca e Casablanca; e venute le parti a combattimento, non fu la prova né dubbia né lenta, perché i napoletani agguagliati di numero, superati d’arte, mal diretti, sconfidati, si diedero alla fuga, lasciando sul campo alcuni morti, molti prigionieri, artiglierie e bandiere. I resti della colonna si riparavano tra i monti dell’Abruzzo, e pochi francesi li contenevano con la paura, giacché i molti andavano a rinforzare il centro e l’ala diritta alla linea…”.

     A sua volta, il grande scrittore Alessandro Dumas nel volume “I Borboni di Napoli”, ivi 1845, vol. I, pag. 148, narra: “L’ala destra dell’armata napolitana, composta di 9000 uomini, sotto i generali Saint Philipe e Micheroux dovea prendere posto fra Ancona e Roma e rompere così le comunicazioni. Essi incontrarono improvvisamente i francesi presso Fermo, i quali avevano circa 3000 uomini. In questo frattempo i francesi si erano avanzati ed erano faccia a faccia coi napolitani. Micheroux fuggì per primo e fu seguito da tutta la fanteria, e se non era il buon contegno di due reggimenti di cavalleria, tutto sarebbe stato annientato. Il timor panico fu tale che cannoni, tende, bagagli, casse mi¬litari fu abbandonato a’ francesi.

Credereste voi, è la verità, che tutta questa gran disfatta ebbe per risultato appena la morte di 40 uomini? Dopo aver loro preso tende, cannoni, bagagli, i francesi non si curavano nemmeno di inseguire un’armata tre volte più forte della loro. Vari fuggiaschi erano così animati dalla paura che corsero circa 30 miglia, non fermandosi che a Pesaro!...”.

     La battaglia fu un duro colpo per i napolitani. Però anche allora vi furono vittime civili e non furono né di Torre di Palme né di Marina Paimense, ma di Lapedona. Si trattava di un curioso che andò ad assistere allo scontro e vi morì.

Emili Gaetano fu Gaetano nato il 10 maggio 1770, muori (sic) nel¬la battaglia sucessa tra le truppe napoletane e francesi lungo il lido del nostro mare… Lì 28 novembre 1798 ivi andato per sua curiosità” (così nel Liber Mortuorum della Parrocchia di S. Lorenzo in Lapedona, pag. 20, famiglia 16). Come si vede, il malcapitato aveva appena 28 anni! Grazie anche alla vittoria di Torre di Palme (sia Dumas che il Colletta parlano di vicinanza a Fermo, infatti Torre di Palme ne è frazione), il 23 gennaio del successivo 1799, il generale Championnet potè proclamare a Napoli la Repubblica Partenopea che però ebbe via effimera; durò fi¬no al 20 giugno dello stesso anno: 5 mesi in tutto.

Il 6 luglio 1799 ad Acquaviva Picena, i francesi e i loro adepti subirono un tremendo assedio con molte uccisioni ad opera di Sciabolone, uno dei capi degli insorgenti.

Anno 1799 – L’assedio degli Insorgenti alla rocca di Acquaviva

     Acquaviva di Fermo: non è un’espressione topografica campanilistica, ma tale era la denominazione fino al 1827. Infatti, dipendeva da Fermo sin dai primordi della sua storia e cessò per una “commutazione territoriale” tra Fermo ed il Presidato di Montalto, in quanto quest’ultimo ebbe da Fermo, Acquaviva, S. Benedetto (del Tronto), Carassai, ma cedette a Fermo, Ripatransone e Cossignano.

Tale denominazione, spicca in un rame a didascalia “castello di Acquaviva di Fermo”, esposto ben visibile nei locali della Cassa Rurale ed Artigiana di Acquaviva ed in analogo rame, posto negli uffici comunali di S. Benedetto del Tronto.

     Esattamente il 6 luglio 1799 e nei due giorni seguenti, ad Acquaviva di Fermo ebbe luogo un violento assedio da parte degli Insorgenti, contro i Giacobini del Cantone del Tronto. Questi, privati del supporto delle truppe francesi, si erano asserragliati nella Rocca di Acquaviva, pronti ad ogni evento. Li comandava il conte Pacifico Boccabianca e tra essi, cioè tra i “giacobini”, vi erano alcuni sacerdoti, tra cui Don Vincenzo Boccabianca, fratello del comandante. Gli Insorgenti, in numero soverchiante (taluni parlano di 400 unità, altri di mille) diedero l’assalto, appoggiati da due cannoni. Dall’alto della rocca un cannoncino sparava a tutto andare sugli Insorgenti, che venivano presi di mira anche dai cecchini.

    Quell’“inferno”, durò tre ore e cessò solo perché gli Insorgenti riu-scirono, penetrando da un pertugio, ad aprire la porta. Sciabolone alla testa degli assedianti, vi penetrò, saccheggiando le case; uccidendo i difensori; appiccando incendi. Il saccheggio si potrasse dal 6 al 9 luglio 1799, dopo di che, Sciabolone, caricato il bottino su 18 bestie da soma, si avviò a Lisciano, sua patria. Da qui proseguì per Fermo, dove si incontrò con il generale La Hoz. Insieme si diressero alla volta di Ancona. Ma La Hoz, istituì prima di ciò, la Imperiale – Regia – Pontificia Provvisoria Reggenza, con Fermo capitale. Molti dei giacobini, non ebbero pace; nemmeno dopo la morte. Ad alcuni fu negata la sepoltura in luogo sacro e seppelliti fuori dalle mura, sotto la rocca. Negli anni 1873/74 allorché fu spianato il campo della fiera, riemersero molte ossa umane. Le uccisioni ed i saccheggi continuarono ad Acquaviva ancora per diversi giorni anche se con minore virulenza.

Anno 1799 – Analogie e contrappasso. Napoleone e due pontefici

      Domenica scorsa, 18 giugno, tutti i mass-media hanno rievocato il 1802 anniversario della battaglia di Waterloo, che segnò la definitiva sconfitta di Napoleone. Oggi 27 giugno, anche se la stampa non ne parla, ricorrono 196 anni dalla fine del primo periodo di prigionia a Briangon di Pio VI che, preso prigioniero da Napoleone, dopo averlo spogliato dei suoi Stati col trattato di Tolentino (19 febbraio 1797), lo portava verso Parigi. Pio VI ebbe a Brianzoli la sua prima fase di prigionia: dall’11 floreale al 9 messidoro, cioè dal 30 aprile al 27 giugno 1799!

È storia viva; è storia attuale! La famiglia di Napoleone Bonaparte cui la storiografia attribuisce origini ascolane, emigrata quindi in Toscana e poi in Corsica, salì con Napoleone alla ribalta della storia. Avendo rilevato tempo fa su questo giornale i giorni fausti di Sisto V, mi sono divertito a ricercarne consimili in Napoleone, ma mi sono su¬bito incontrato con un sorprendente contrappasso. Napoleone prende il Papa prigioniero due volte (Briancon fa parte della prima volta), egli è due volte prigioniero all’isola d’Elba e a S. Elena. Napoleone fa viaggiare il Papa prigioniero per 153 giorni. Per lui si verifica altrettanto! La prigionia dei Papi Pio VI e Pio VII dura per sette anni, quella di Napoleone pure. A Tolentino (presente anche una delegazione di Fermo) inizia la gloria napoleonica (17-2-1797).

A Tolentino, il 3 maggio 1815, è sconfitto l’ultimo napoleonide Gioacchino Murat

Il 14 fu invece giorno propizio per Napoleone. Contrassegna il passaggio del Gran S. Bernardo, la battaglia e la vittoria di Marengo (14-6-1800); di Elchingen (14-10-1805); di Iena e Auerstadt (14-10- 1806); di Friedland (14-6-1807); di Raab (14-6-1809); la pace di Vienna (14-10-1809), etc. Il 5 maggio 1810, il Prefetto del Dipartimento del Tronto, che ha sede a Fermo impone ed ordina il canto del Te Deum in tutte le chiese per celebrare la nascita del Re di Roma.

     Il 5 maggio 1821, a S. Elena, muore Napoleone! Chi avrebbe detto che a distanza di undici anni da quel Te Deum, si sarebbe recitato il De Profundis. Coincidenze? Contrappasso? Riscontri? Casi fortuiti? “Ai posteri l’ardua sentenza”.

Anno 1808 – Il ‘complotto dei tredici’ fallì e Napoleone li fucilò

Vicenda “Gladio”, proclami del Cocer, voci di insurrezioni, di col pi di Stato, tali sono i titoli dei giornali e dei mass media di questi giorni. Ma, niente di nuovo sotto il sole! Anche durante il dominio nelle Marche di Napoleone Bonaparte, ed esattamente nel 1808, scandito in date ricorrenti: 8 settembre, 8 novembre e 8 dicembre, ebbe luogo un complotto di 13 cittadini di Altidona contro il colosso napoleonico. Almeno così il comando napoleonico, stanziato a Fermo, sede capoluogo del Dipartimento del Tronto, voleva far apparire un evento di modeste proporzioni, causato dal malcontento contro il regime napoleonico, che fra l’al¬tro imponeva arruolamenti e leve forzose. E così tredici cittadini di Altidona (per la storia: Antonio Tulli. 22 anni, contadino; Giuseppe Parranzani. 30 anni, contadino: Domenico Marzetti. 26 anni, fabbro: Vin¬cenzo Capriotti, 23 anni, contadino; Agostino Lamponi, 19 anni, contadino; Girolamo Marini, 23 anni e Gaetano Vallesi, 48 anni, entrambi contadini; Giovambattista Gazzoli, 24 anni, fornaciaio; Filippo Del Monte, 36 anni, bottaio residente a Fermo; Giuseppe Ercoli, 21 anni; Domenico Lupacini; Ciriaco Lupacini, 26 anni; Angelo Borghè, 19 anni, fabbro) furono accusati di voler “invadere Fermo, impossessarsi della polveriera, della Cassa di Finanza; trucidare le autorità civili e la Truppa ivi stanziata”. Per la verità, tali giovani insofferenti delle costrizioni obbligatorie e delle angherie del comando napoleonico, istigati da Filippo Del Monte, sposato ad un’altidonese, si sollevarono contro le autorità di Altidona “arrestando il sindaco, il balivo ed atterrando lo stemma reale”. Il comando francese di Fermo, saputa la cosa, effettuò una spedizione punitiva mettendo il castello di Altidona al sacco. Documenti di archivio evidenziano ruberie, depredazioni, incendi e arresti. Il comandante della truppa tuttavia, promise il perdono purché i colpevoli avessero deposto le armi, che del resto non adoperarono; lo fecero; vennero rilasciati; richiamati più tardi a Fermo con falsi pretesti, vennero processati. Infatti, la “Commissione Militare Speciale sedente in Fermo”, nominata ai sensi della Legge di S.M.I.R. (Sua Maestà Imperiale e Regia) del 17 messidoro, anno 10, condannò quasi tutti alla pena di morte in esecuzione dell’art. 1 della Legge del 16 termidoro dell’anno V. Detto articolo recitava: “Ogni cospirazione o complotto tendente a turbare la Repubblica con la Guerra Civile, armando i cittadini o gli uni contro gli altri o contro l’esercizio dell’autorità legittima, sarà punito di morte”.

     La sentenza, pronunciata 1’8 novembre 1808 a Fermo, ebbe esecuzione la sera stessa alle ore 20. i “rei” furono fucilati sul Girfalco. È curioso notare che la sentenza fu stampata e divulgata con appositi manifesti (in tutto 600, cm. 70×35) “a spese de’ condannati” i quali furono “solidamente condannati al rimborso presso il Pubblico tesoro delle spese del Processo”. L’8 dicembre 1808, le famiglie, nascostamente, fecero memoria dell’eccidio di questi sventurati, umili untorelli che non avrebbero certo né spiantato, né potuto spiantare l’impero napoleonico.

Anno 1809 – Napoleone cancellò la Cavalcata fermana

     Nei giorni del Palio e della Cavalcata, erano severamente proibite le opere servali. Ma la saggezza dei governanti fermani permetteva delle eccezioni: il trasporto del corredo per le ragazze che dovevano sposarsi e il lavoro dei tintori di stoffe.

     Sfogliando le “Riformanze”, ossia le deliberazioni del Consiglio comunale di Fermo, dal 1300 alla fine del Governo pontificio nelle Marche (1860). le festività del Palio e della Cavalcata fanno da filo conduttore della storia di Fermo e del suo Stato. Si ha così notizia che nel 1381 passano ìe truppe di Alberico da Barbiano e “danno fastidio” allo svolgimento dei festeggiamenti. Dopo cinque anni imperversa la soltadaglia di Boldrino  da Panicale: nel 1406 altri grandi passaggi di truppe (transitus gentium armorum) nel 1446 a furor di popolo viene distrutta la Rocca del Girfalco. dove si erano annidati gli Sforza. Le macerie e le distruzioni non favorirono uno svolgersi ordinato e solenne della festa.

     L’anno dopo, scoppia la peste, che aveva fatto già tante vittime nel 1348 e seguenti: sono messe delle sentinelle alle porte della città, perché non entri nessuno e non si propaghi il contagio. Ma fra i periodi di splendore e di ombra. Palio e Cavalcata prosperarono, specie nel sec. XVII, attirando folle di visitatori e sarei per dire “turisti”, come potevano essere quelli di tale secolo.

     Venuto Napoleone Bonaparte. tutto si fermò. Egli non voleva che nel giorno del suo compleanno e del suo onomastico, che cadevano appunto il 15 agosto, avessero luogo manifestazioni di folklore religioso. Ne avrebbe scapitato il suo nome e la sua gloria. Per tale motivo, abolì il Palio e Cavalcata, permettendo altre manifestazioni e divertimenti ma in un’ottica napoleonica. Dopo il Congresso di Vienna (1815), Palio e Cavalcata tornarono in auge fino alla venuta dei “liberatori piemontesi”, che proibirono tali manifestazioni.

Anno 1810 – Napoleone e il decreto sui camposanti

     Oggi, 2 novembre, è la giornata tradizionalmente dedicata alla visita dei camposanti che, contrariamente a quanto si attribuisce a Napoleone Bonaparte, esistevano e da molto tempo. Il decreto di St. Cloud del 1806, che vietava i “sepolcri fuor dei guardi pietosi”, non dice nulla di diverso di quanto sancivano già le XII Tavole di Roma (non si deve cremare né seppellire alcun cadavere entro le mura cittadine). Giustiniano (sec. V) già da allora, prescriveva le sepolture fuori delle mura delle città e nel 1278 cominciava ad esistere il camposanto di Pisa. Ma, senza andare tanto lontano, a Porto S. Giorgio, a fianco della chiesa omonima, sin dal 1761 fu costruito un cimitero con la scritta significativa: Revicturis, cioè: ‘a quelli che vivranno di nuovo’. Scritta piena di fede che richiama quella: Resurrecturis (‘a coloro che risorgeranno’) ed altre analoghe. In Germania, in un cimitero di guerra ho letto questa lapide: Invictis, victi, victuri: ‘Agli invitti, coloro che sono stati vinti, ma che vinceranno’. Icastica e tacitiana bellezza, se non fosse per quel sentimento di rivincita…

     Tornando alle sepolture fuori dall’abitato (il nostro codice prescrive almeno 200 metri), Napoleone ha avuto il merito di avere stabilito in tutto il suo impero che venissero costruiti cimiteri, abolendo così l’andazzo che si era verificato. Nonostante le leggi in vigore, infatti, prima si seppellivano in chiesa prelati e duchi, conti etc. e poi a poco a poco tutti. Il divieto imposto da Napoleone fu recepito, dopo la sua caduta, dai governi che parteciparono al Congresso di Vienna. Del resto era dettato da norme igienico-sanitarie. Nel Fermano, Altidona fu uno dei primi castelli a costruire il camposanto. Fermo lo costruì nel 1813, quanto era ancora capoluogo del Dipartimento del Tronto. Successivamente, nel 1852 e dal 1882 al 1950, vi furono eretti i loggiati; da tale data fino ad oggi, il cimitero fermano venne ampliato ed arricchito di opere architettoniche. Vi dormono il sonno eterno i cittadini, illustri e non. Tra quelli, ricordiamo qualche nome: il celebre clinico Augusto Murri, il Card. De Angelis, i Bernetti, i Fracassetti, Colli, ecc. Ma l’occasione della solennità odierna ci dà lo spunto per accennare alla lapide, o meglio al distico latino che campeggia sulla porta laterale d’ingresso (quella che dà sulla superstrada Fermo-Porto S. Giorgio). Fu dettato quando si studiava davvero il latino e i ministri non commettevano errori di congiuntivo. Il latino che era, ed è, l’anima di ogni cultura, così recitava: Imperai hic dolor, hic breviter mors pallida re¬gnai / Improbus bine Erebos, bine petit astra plus; cioè: ‘Qui impera il dolore, qui regna ma per poco la pallida morte; il malvagio da qui va all Inferno; il buono in Cielo’. Ne è autore Carmine Galanti, dantista e poeta latino, nato a Cossignano nel 1821, morto a Ripatransone nel 1890. Egli venne spesso a Fermo; fu amico del Card. De Angelis e del card. Malagola, del Prof. Fracassetti; del Sacconi; di Ippolito Fan- glois. Per loro, o in loro onore, scrisse epigrammi e dediche.

Anno 1810 – Un dì felice ma Napoleone voleva far festeggiare solo il suo compleanno

     Folle plaudenti, squilli di chiarine, scampanio festoso, rullo di tamburi, sparo di tonanti, gloria di sole, di fiori, di colori. È la festa dell’Assunta oggi, la festa del Palio e della Cavalcata. L’euforia è alle stelle: è questa una tempesta festosa. Ma in tale dta è bene rievocare anche “i dì che furono”.

La Cavalcata ed il Palio, festa unica nata nel 1182 o meglio, come abbiamo dimostrato, nel 1149, festeggiatissima nei secoli, proprio per volere di Napoleone Bonaparte quando Fermo era capoluogo del Di­partimento del Tronto (1798-1799 e 1808-1815) fu messa da parte. In quel giorno infatti, 15 agosto, ricorreva l’onomastico ed il compleanno di Napoleone Bonaparte.

“Per superiore disposizione resta prescritto che nel giorno 15 an­dante debba, in tutte le Chiese, Cattedrali e Parrocchiali del regno, can­tarsi l’inno ambrosiano, per festeggiare la nascita di sua Maestà l’Au­gustissimo Nostro Imperatore e Re. Dovendo quindi un’epoca così lie­ta, essere accompagnata colle maggiori dimostrazioni di giubilo, sono invitati tutti gli abitanti di questo Comune, d’illuminare con decente pompa, nella sera di domani, le facciate esterne delle loro case, per di­mostrare la loro devozione ed amore verso il proprio Sovrano”. Così un ordine del podestà di Fermo in data 14 agosto 1810.

Analogo manifesto quello del Prefetto del Dipartimento del Tron­to, Comalia, agli abitanti di tutto il Dipartimento. Questo consisteva nel­l’attuale Provincia di Ascoli e buona parte di quella di Macerata. Com­prendeva infatti Camerino, Samano, Pieve Torina, Pioraco, S. Ginesio, Gualdo, S. Giusto etc. Fermo, come detto, ne era il capoluogo e prefet­tura. Ascoli e Camerino le due vice-prefetture.

Tuttavia anche se “mortificata” era la festa dell’Assunta, Napoleo­ne credeva alla Madonna. In altri dispacci ed ordini del Prefetto si invi­ta la popolazione a pregare l’Assunta per la nascita del futuro Re di Ro­ma il figlio di Napoleone, per le sorti dellTmpero e per la salute della Casa dell’Imperatore. C’è anche un ordine in data 5 maggio 1810.

Il Podestà di Fermo, Porti (segretario Abelle), comunica “il già se­guito imeneo (matrimonio) di sua Maestà l’imperatore e Re nostro, con sua altezza imperiale l’arciduchessa Maria Luigia di Austria”.

Si ordina alla cittadinanza di recarsi in Cattedrale dove “alle undici e mezza antemeridiane”, verrà cantato un solenne Te Deum. Come det­to era il 5 maggio 1810. Curiosità storica: Napoleone morirà a S. Elena il 5 maggio 1821.

Ma tant’è! Oggi Napoleone compirebbe 223 anni. “Vergin di servo encomio e di codardo oltraggio” gli inviamo i nostri auguri ed egli da là dove si trova “in più spirabil aere”, li accetterà, sia perché nonostante tutto volle bene a Fermo, sia perché i suoi antenati erano piceni come docunterebbero anche quotate pubblicazioni francesi.

Anno 1812 – Quando il Viceré nominava i “sindaci”

      Come è noto, la legge elettorale vigente, prevede l’elezione diretta del sindaco da parte dell’elettorato. Al tempo di Napoleone, per il Regno d’Italia da lui istituito, le nomine erano addirittura effettuate dal viceré: nel 1812, esattamente il 31 marzo, vennero nominati nuovi podestà nei vari Dipartimenti, ossia nelle circoscrizioni territoriali che alla maniera francese prendevano il nome dai fiumi, e in genere avevano una estensione maggiore delle attuali province italiane. Furono nomi¬nati nuovi podestà nei Dipartimenti dell’Alto Adige, Alto Po, Brenta, Metauro, Mincio, Tagliamento ed altri.

     Ovviamente, non poteva mancare il Dipartimento del Tronto, di cui Fermo era capoluogo. Il decreto di nomina, pomposo, ampolloso e direi “roboante”, recita: “Napoleone per grazia di Dio e delle Costituzioni Imperatore dei Francesi, Re d’Italia, protettore della Confederazione del Reno e mediatore della Confederazione Svizzera...”, etc. Come si vede, Napoleone doveva governare vasti, anzi, immensi territori; dominava su quasi tutta l’Europa per cui, per il Regno d’Italia, aveva nominato Viceré il figliastro Eugenio Beauhamais il quale, ad un dato punto, si inserisce nella stesura del decreto che così prosegue: “Eugenio Napoleone di Francia, Viceré d’Italia, Principe di Venezia, Arcicancelliere di Stato dell’Impero francese a tutti quelli che vedranno le presenti, salute! Noi in virtù dell’autorità che ci è stata delegata dall’altissimo ed augustissimo Imperatore e Re NAPOLEONE (tutto maiuscolo nell’originale, ndr) nostro onoratissimo padre e grazioso sovrano, abbiamo decretato ed ordinato quanto segue: Sono nominati podestà degli infrascritti comuni di seconda classe i seguenti individui: Filippo Segreti, podestà di Monterubbiano; Antonio Seri, podestà di Mogliano; Pietro Paolo Neroni, podestà di Ripatransone; Zaccaria Giorgetti di Porto di Fermo.

      Come si vede, vi è anche Mogliano ora in provincia di Macerata, ma che allora faceva parte del Dipartimento del Tronto. In precedenza, il 19 luglio 1811, lo stesso Eugenio, con le ripetute sperticate lodi al patrigno che egli chiama “padre”, aveva nominato i membri del consi¬glio comunale di Montalto “per la parziale rinnovazione, riferibile al 1811”. Essi erano: Natale Guidotti, Vito Cilini, Giovanni Angelini, Giuseppe Guidotti, Fortunato Orlandi. Oltre al rinnovo parziale del Consiglio di Montalto, abbiamo quelli di Grottammare, S. Vittoria in Matenano, etc.

    Intensi furono i rapporti tra il governo di Napoleone, Fermo e la chiesa fermana. Non ci sappiamo spiegare perché nel convegno di studi che si sta tenendo a Fonte Avellana dove “surgon sassi che fanno un gibbo che si chiama Catria” (Dante 3,21,108), non si parli di tali rapporti (l’argomento è: la Chiesa e Napoleone), quando, se c’è una diocesi che li ha avuti intensi, è proprio la Chiesa fermana, anche alla luce delle ruberie di quadri ed opere d’arte. Ma “quando mai fu lo stranier apportator di libertade?”.

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Curiosità di storia di Fermo e del Fermano nel secolo XV di Gabriele Nepi 1996

1407 – Antonio Di Pietro e le Campane   p.

1416 – Ancora su Bertoldi traduce la Divina Commedia in latino   p.

1417 – Sepolto a Recanati Gregorio XII morì all’età di 90 anni   p.

1417 – I “meriti” danteschi del monsignore   p.

1423 – Morte nascosta – Timore di rivolte per la fine di Ludovico   p.

1427 – Un inedito malatestiano   p.

1439 – Isolea e Matteo oggi sposi – Una storia d’amore sul Girfalco   p.

1440 – L’inedita lettera di S. Giacomo   p.

1441 – Ancora matrimoni e corna eccellenti    p.

1441 – Fermani e Ascolani, una notte insieme   p.

1441 – Sigismondo e la sposa bambina   .p

1442 – Il benvenuto di Fermo alla “magnifica ed inclita Bianca Visconti”   p.

1444 – Degna accoglienza all’arrivo del Conte Francesco Sforza   p.

1444 – Lo sfarzo degli Sforza   p.

1446 – La rivolta contro gli Sforza e la protezione di S. Caterina   p.

1446 – Quel leone ruggiva   p.

1446 – S. Giacomo della Marca torna   p.

1446 – S. Giacomo e la pace tra Fermo ed Ascoli   p.

1450 – I Ripani gridarono “abbasso Fermo!”   p.

1450 – Il caviale dei Legato pontificio   p.

1456 – Una tempesta provvidenziale   p.

1458 – Per aiutare i poveri fondò il Monte di Pietà   p.

1464 – Il viaggio di Pio II – Enea Piccolomini morì dopo aver visto le galee   p.

1467 – Tangentopoli prima e dopo Cristo   p.

1467 – Un’opera di Lattanzio Firmano tra i primi quattro libri stampati in Italia   p.

1473 – L’icona donata da S. Giacomo   p.

1480 – Il fondatore di Giulianova eroe italico   p.

1484 – I Fermani buttano dalla finestra il Vescovo Capranica   p.

1489 – Un ballo negato   p.

1489 – Un pornografo del ‘400- Pacifico Massimi autore di Hecatelegium   p.

1490 – Un portolano di cinque secoli or sono   p.

1491 – Fermo vuole distruggere il castello di S. Benedetto   p.

1493 – La lettera di Colombo   p.

1496 – Il promotore dei Monte di Pietà di Fermo   p.

1497 – Ettore Fieramosca combatté nella guerra tra Ascoli e Fermo   p. \\\\\

Anno 1407 – Antonio Di Pietro e… le campane

     La scorsa settimana parlando della progettata visita del Papa a Sarajevo, abbiamo accennato alle campane. Esse scandiscono la nostra vita.

    Nell’Archivio di Stato di Fermo si conservano editti di Napoleone I. Per la nascita dell’erede, il Re di Roma, Fermo (allora capoluogo del Dipartimento del Tronto) doveva comunicare a tutti i Comuni dipendenti (l’attuale Provincia di Ascoli e metà di quella di Macerata) che le campane di tutte le chiese dovevano suonare festose per tale evento. E l’ordine non si limitava ad una ristretta area, o all’allora Regno d’Italia, bensì a tutto il vasto impero.

     Ai giorni nostri, grazie a una provvidenziale “purificazione” ad opera del pool Mani Pulite, i trasgressori sanno che la campana suona per loro. E il giudice Di Pietro sembra ne sia il battaglio. Effettuando delle ricerche, mi sono in questi giorni imbattuto in un diario… È il “Diario Romano”, scritto tutto in latino, dal 1404 al 1417. Elemento dominante della trattazione sono le campane. Vi si accenna a Innocenzo VII, Gregorio XII, Ladislao Re di Napoli ma, come detto, tutto è incentrato sulle campane, i fatti salienti in cui sono state protagoniste: gli assedi di truppe straniere che avevano invaso il Lazio e miravano a Roma; fughe di mercenari ed assalitori, grazie al suono delle campane che chiamavano alle armi. Vi si parla anche di rintocchi funerei per coloro che erano, per i loro misfatti, condannati alla pena capitale.

     Mi sono divertito a leggere e sviscerare tale diario, specchio degli eventi dell’epoca, reporter fedele degli avvenimenti del tempo, ma sempre con il leit motiv: le campane. Ma indovinate chi ne è l’autore. Quale il suo nome? È strabiliante: Antonio Di Pietro! Ammetto che una delle principali e gloriose fonderie di campane si trova ad Agnone, Provincia di Campobasso, stessa Provincia di Montenero di Bisaccia, patria di Di Pietro. Però quello del “Diario”, è vissuto nel sec. XV ed era canonico vaticano. Il nostro, il Di Pietro vivente, aspirava al sacerdozio, ma non se ne fece nulla. Ora è un “primate” della giustizia e Fermo, città dove ha studiato, formula gli auguri che diventi pontefice massimo della giustizia. Nomen Omen!

Anno 1416 – Ancora su Bertoldi – Contro la noia… Divina Commedia

     Alcuni lettori hanno scritto chiedendo ulteriori notizie su Giovanni De’ Bertoldi, il Vescovo di Fermo che tradusse in latino la Divina Commedia per i padri del Concilio di Costanza (1414/1418). Detti lettori, desiderano anche sapere se il De’ Bertoldi era cittadino della Repubblica di S. Marino, oppure “di Romagna solatìa”. Giovanni nacque nel 1350 a Serravalle, allora dell’agro di Rimini, ma nel 1461, dopo circa un se¬colo dalla nascita del De’ Bertoldi, con altri tre castelli (Fiorentino, Montegiardino e Faete) passò alla Repubblica di S. Marino. Ciò in compenso dell’aiuto prestato a Pio II ed al Duca di Urbino nella vittoriosa guerra contro Sigismondo Malatesta. Tuttavia, in precedenza, i De’ Bertoldi avevano ricoperto importanti cariche nella repubblica del Tita¬no. Entrato tra i Frati Minori, Giovanni frequentò l’Università di Pavia dove si laureò; quindi in quella di Bologna, dove seguì le lezioni di Benvenuto da Imola su Dante. Stimato dal pontefice Bonifacio IX, fu lettore di Teologia in Santa Croce a Firenze; indi nello Studium Fiorentino. Lodato da Coluccio Salutati, cancelliere della Signoria Fiorentina, nel 1410 fu nominato da Gregorio XII, Vescovo di Fermo.

     Suo alto merito è quello di aver tradotto in latino la Divina Commedia a richiesta del Cardinale Amedeo di Saluzzo e dei Vescovi inglesi Nicola Bubwych e Roberto Halam che, con altri ed alti prelati, partecipavano al Concilio di Costanza che per la verità procedeva molto lentamente. Nel 1416 si ebbero soltanto sei sessioni; i Padri Conciliari si annoiavano e chiesero allora al Vescovo di Fermo, De’ Bertoldi, di tradurre per loro, in latino, la Divina Commedia di cui conoscevano la grandezza, ma non conoscevano l’italiano. De’ Bertoldi, si accinse all’impresa. Nel gennaio 1416 iniziò la traduzione, e già nel maggio dello stesso anno era terminata. Oltre alla traduzione, compilò anche il commento. Di tutta l’opera esistono in tutto il mondo tre codici: Uno, il migliore, alla Biblioteca Vaticana. Un altro, nella Library del British Museum di Londra ed uno, incompleto, nella biblioteca del defunto Arcivescovo Carlo Castelli. L’edizione vaticana ribadisce la “fermanità” del nostro De’ Bertoldi. Più tardi il De’ Bertoldi passò alla sede vesco¬vile di Pano. Particolare curioso: due Vescovi di Permo commentarono la Divina Commedia: il De Firmonibus celebre anche per il Messale miniato ed il De Bertoldi.   

     Quest’ultimo che “sopra gli altri come aquila vola”, passò poi alla sede di Fano, cosa che si verificò anche per il De Fir monibus. A Fermo nel 1922 in onore del De’ Bertoldi, fu scoperta nel tempio di S. Francesco la seguente lapide: “A Giovanni Bertoldi da Ser- ravalle / dell’Ordine Francescano / vescovo e principe di Fermo / che nell’anno MCDXVII nel Concilio di Costanza / a preghiera dei Padri coadunati / la Divina Commedia / nella lingua del Lazio tradusse e com-mentò dottamente / il Comitato del Secentenario dantesco / questa me-moria riparatrice del lungo oblio pose/”.

 Il Vescovo Giovanni morì il 3 febbraio 1445.

Anno 1417 – I ‘meriti’ danteschi del monsignore

     “Romagna solatia dolce paese / in cui regnaron i Guidi e i Malatesta / cui tenne pure il Passator cortese” etc. Così Pascoli nella nota poesia. Ma i Malatesta, non regnarono solo in Romagna. Nel 1412 calarono pure nelle Marche ed occuparono Fermo, togliendola al Migliorati. Era Vescovo in quegli anni Giovanni De Bertoldis da Serravalle, centro della Repubblica di S. Marino, da non confondere con Serravalle del Chienti. Erano quelli tempi duri per l’Italia e per la Chiesa. Vi erano contemporaneamente, tre papi: Giovanni XXIII (antipapa da non confondere con l’omonimo, morto nel 1963); Benedetto XIII anch’egli antipapa e Gregorio XII il vero, legittimo pontefice. Per porre fine a tale situazione (lo scisma d’occidente) fu convocato a Costanza, città della Germania sul lago omonimo, un concilio ecumenico (il sedicesimo). Tale concilio depose Giovanni XXIII e Benedetto XIII. Gregorio XII, il vero papa, per il bene della chiesa si sacrificò, rinunciando spontaneamente. Alla fine, in data 18 ottobre 1417, venne eletto il nuovo Papa nella persona di Oddone Colonna, romano, che assunse il nome di Martino V. Ma prima di giungere a tale soluzione, passarono quattro anni.

 Il Concilio, aperto nel 1414, venne chiuso nel 1418. Ovviamente, durante tale lungo periodo, gli intervenuti si annoiavano. Si rivolsero allora al Vescovo di Fermo, che era con loro per i lavori conciliari, pregandolo di tradurre loro la Divina Commedia. Il De Bertoldis si accinse all’opera e nel 1417, l’anno prima della chiusura, apparve una bella e fedele traduzione in latino che entusiasmò i padri. La stampa ancora non era stata inventata ed il manoscritto fu accolto e letto avidamente. Sul frontespizio si leggeva: “Editum a reverendo in Christo Patre et D.D. Fr. Joanne de Serravalle. Arim dioec. Dei et Apostolicae Sedis gratia Episcopo et Principe Firmano”. Latino facile che dice: Edito dal reverendo in Cristo padre Giovanni da Serravalle Diocesi di Rimini, per grazia di Dio e della sede Apostolica Vescovo e principe di Fermo.

     Così il mondo dotto di allora, grazie alla traduzione del De Bertoldis, potè conoscere la Divina Commedia. In un recente convegno a Sentino, nell’alto Pesarese, in una relazione si affermò che tale traduzione venne fatta dal De Bertoldis mentre era Vescovo di Fano. Egli dopo Fermo fu sì “traslato” a Fano, ma la traduzione avvenne durante il vescovato a Fermo. L’intitolazione del manoscritto del resto è chiarissima.

Ma Fermo ha un altro merito “dantesco”. Il primo manoscritto della Divina Commedia, fu eseguito da Antonio da Fermo. L’originale è ora conservato a Piacenza (codice landiano). Pure il grande Giacomo della Marca, oggi santo, fu uno studioso attento di Dante. Nelle sue prediche e sermoni, rincorrono spesso citazioni dantesche e ciò in un periodo in cui ci voleva audacia e grinta a citarle, dato che la lingua dei dotti era il latino. A proposito di questo santo, siamo lieti di comunicare che dopo 520 anni tornerà a Fermo “sua seconda patria” (Pagnani). Il nostro giornale che ripetutamente si è battuto per tale ritorno saluta con gioia tale evento (avrà luogo il 28 maggio) citando i versi usati da Dan¬te (2, 30 21) “Benedictus qui venis… Manibus, o date liba plenis”. Benedetto o tu che vieni. Spargete a piene mani i gigli… pensando anche, e perché no, a Zanella là dove dice… “Tornan giganti a riveder la culla / gli sparsi figli...”.

Anno 1417 – Sepolto a Recanati Gregorio XII morì all’età di 90 anni

      Abbiamo visto che nel 1047 muore a Pesaro Papa Clemente II al secolo Suitgero, di provenienza sassone. Ma un altro Papa morì novantenne nelle Marche, e precisamente a Recanati: Gregorio XII (Angelo Correr veneziano), Papa dal 1406 al 1415, deceduto il 18 ottobre 1417.

     Gregorio XII era stato eletto Papa quando aveva ottant’anni. Sin dal mo-mento della sua elezione, si era dichiarato disposto a rinunciare, purché avesse fatto altrettanto l’antipapa Benedetto XIII, suo rivale. Nel 1409 a Pisa si riunirono i dieci Cardinali fedeli al Papa avignonese ed i quattordici Cardinali fedeli a Gregorio XII, deponendo in data 5 giugno di quell’anno, e il Papa e l’antipapa. Elessero un nuovo Papa: Pietro Filargo che prese il nome di Alessandro V. Risultato? Anziché due Papi ce ne furono tre. A Bologna moriva nel 1410 Alessandro V, antipapa e suo successore fu un altro antipapa Giovanni XXIII (da non confondere con Papa Giovanni XXIII morto nel 1963). Si chiamava Baldassarre Cossa napoletano. Per porre fine a tanto caos, Sigismondo imperatore di Germania, indisse nel 1414 il concilio di Costanza. L’antipapa Giovanni XXIII, finì per disgustare tutti e fu dichiarato decaduto. Gregorio XII, come promesso, abdicò al fine di far cessare lo scisma, ma prima convocò il Concilio che fino a quel punto era nullo. Gregorio morì quando il concilio continuava; rimaneva l’antipapa Benedetto XIII. Il Concilio di Costanza elesse Papa Martino V (Oddone Colonna romano) e depose nel 1419 l’antipapa Benedetto XIII e così Gregorio XII che rinunciò per il bene della Chiesa, riposa dal 1417 nella Cattedrale di Recanati.

Anno 1423 – Morte nascosta – Timori di rivolte gioiose per la fine di Ludovico

Sono ricorsi domenica, 564 anni dalla morte di Ludovico Migliorati (signore di Fermo per 23 anni), morte avvenuta nella rocca del Girfalco.

Ludovico, era nipote di Papa Innocenzo VII, (Cosimo Migliorati di Sulmona) che regnò dal 1404 al 1406. Fu molto caro al pontefice zio e ne vendicò l’umiliazione infettagli da alcuni rappresentanti del popolo romano, che si erano spinti perfino in Vaticano per rinfacciargli vere o presunte ingiustizie commesse contro di loro. Ludovico li attese all’uscita del Vaticano e, quando passarono vicino a Santo Spirito, li fece catturare uccidendone undici. Il popolo insorse. Innocenzo cercò rifugio a Viterbo, ma ben presto tornò a Roma richiamatovi dallo stesso popolo romano. Ludovico, non subì nessuna pena per l’eccidio commesso, anzi fu fatto signore di Ancona e di Fermo; ma dopo la morte dello zio papa, fu privato da Gregorio XII di ogni autorità. Si alleò allora con Ladislao, Re di Napoli, e per conservare il dominio di Fermo, commise molte efferatezze. Sue vittime furono Antonio Aceti, il figlio Giovanni ed il fratello Aceto. Confermato nella signoria di Fermo, sposò nel 1417 Taddea, figlia di Pandolfo Malatesta. Il matrimonio fu celebrato con grandi festeggiamenti con tornei di cavalli e luminarie.

     Ludovico nel 1423 fece erigere sul tetto della abside della Cattedrale una colonnina, nella cui sommità è posto un bellissimo gallo in ferro battuto. Tale gallo simbolo di vigilanza (gallus iacentes excitat et somnolentos increpat, dice un inno) indica, data la sua mobilità, la direzione dei venti. Era in bronzo! Atterrato da un fulmine venne sostituito con l’attuale, opera di Mario Bracalenti di Fermo (1901-1945).

     Tornando alla data della morte di Ludovico Migliorati, c’è un particolare curioso. Essa venne tenuta nascosta al popolo per tredici giorni; per timore di possibili sollevazioni per la naturale “…liberazione” dal tiranno. Altra curiosità: la prima moneta d’argento della Zecca di Fermo, fu fatta coniare dal Migliorati.

Anno 1427- Un inedito malatestiano

     Ieri la chiesa cattolica ha celebrato il dies natalis di S. Giacomo della Marca, le cui spoglie mortali sono tornate, per un anno, da Napoli nella natia Monteprandone. È tornato il nostro Santo nella terra della Marca, dopo 516 dalla morte, egli che tanto amò Fermo e vi predicò più volte. Di lui abbiamo parlato! Ma oggi, al compiersi degli oltre cinque secoli dalla morte, vogliamo narrare un episodio inedito e sconosciuto.

Ha un bel dire Pascoli: Romagna solatia dolce paese / in cui regnaron i Guidi e i Malatesta / cui tenne pure il passator cortese / etc.”.

     I Malatesta regnarono anche nella Marche. A prescindere dal fatto che sono oriundi dal Montefeltro, precisamente da Penna e Billi (poi Pennabilli), antico loro possesso, molti di essi signoreggiarono Pesaro (i Malatesta di Pesaro), Fossombrone, Senigallia, Fano, e per un periodo, tutte le Marche, fino al Tronto.

     Nel settembre 1427 Pandolfo III Malatesta che era signore di Fano, Brescia e Bergamo (non di Rimini, come erroneamente ha scritto taluno) si ammalò proprio a Fano, dove si trovava anche S. Giacomo della Marca che teneva un ciclo di predicazioni. Il santo si recò più volte a visitare e confortare l’illustre infermo. Il 13 ottobre 1427, visto che era gravissimo, con tatto ed estrema delicatezza, gli fece chiaramente capi¬re che era venuta la sua ora e lo invitò a confessarsi e comunicarsi. Pandolfo, che pure era stato valoroso guerriero ed aveva più volte sfidato la morte, ebbe un sussulto, lo invase un tremore per tutto il corpo e svenne. S. Giacomo lo confortò fino alla fine, Pandolfo spirò tra le sue braccia. Lasciava tre figli naturali, i quali, due anni dopo la morte dello zio Carlo (1429) subentrarono nel possesso dei domini dello zio. Essi, poi, legittimati da Papa Martino V (1417-1431), erano Galeotto Romano, morto in odore di santità; Domenico, detto “Malatesta Novello”, che fondò la Biblioteca Malatestiana di Cesena; Sigismondo Pandolfo, che fece costruire il Tempio malatestiano di Rimini, opera di Leon Battista Alberti.

Sigismondo Pandolfo, il 22 settembre 1441 sposò a Fermo Polissena, figlia del conte Francesco Sforza, in quella Fermo di cui il suocero fu signore e dove tanto operò S. Giacomo della Marca che a Fano raccolse l’ultimo respiro del padre.

Anno 1439 – Isolea e Matteo oggi sposi – Una storia d’amore nata sul Girfalco

       Il Girfalco di Fermo ne ha viste di tutti i colori nel corso dei secoli. Da Pompeo Strabone che vi si rifugiò durante la guerra sociale nel pri¬mo secolo avanti Cristo, ad Ataulfo Re dei longobardi, Odoacre, Amalasunta, Teodato, Teia, fino ad Ageltrude, moglie del Duca di Spoleto, Guido nel 1176. Cristiano di Magonza arcicancelliere di Federico Barbarossa, lo rovinò incendiando la Cattedrale e mettendo Fermo a ferro ed a fuoco. Enrico IV lo occupò nel 1192; Marcualdo, gran siniscalco dell’impero, se ne impadronì. Vi si avvicendarono il Conte di Celano, Aldovrandino, Federico II che lo espugnò nel 1240. Manfredi lo occupò nel 1270, Mercenario da Monteverde nel 1355. Nel 1433 vi si istallò il conte Sforza e nel 1444 vi nacque Galeazzo Sforza, che divenne poi il quinto Duca di Milano. Nei tempi a noi più vicini, vennero sul Girfalco e visitarono il bel palazzo Vinci (o parlarono dal balcone) Giuseppe Garibaldi, 1849; Pio IX, 1857; Umberto I (allora principe) nel 1863; Felice Cavallotti; Giosuè Carducci; Umberto II ex Re d’Italia e, il 30 dicembre 1988, Papa Giovanni Paolo II. Ma abbiamo visto che si sono avvicendati anche rappresentanti del gentil sesso. Fra esse, ricordiamo Isolea figlia del Conte Sforza il quale, seguendo una politica di matrimoni alla quale si univano le conquiste militari, fece sposare sua figlia Isolea con il Duca d’Atri, Matteo d’Acquaviva. Tale famiglia era potentissima. Fra l’altro espresse guerrieri, legislatori, letterati, Cardinali (tra cui Troiano, Acquaviva 1747, che ebbe per segretario, il galante Giacomo Casanova). Della famiglia Acquaviva erano il generale dei Gesuiti, Claudio (1615), il fondatore di Giulianova Giulio Antonio (1481) etc. Il matrimonio tra Isolea a Matteo avvenne nella cattedrale, posta sul Girfalco. Correvano tempi burrascosi. Il concilio di Basilea proprio in quell’anno, 1439, si era trasferito da Ferrara a Firenze dopo il precedente trasferimento da Basilea a Ferrara (1437). Nell’invito che il conte Francesco Sforza mandò, vi è qualche puntatina troppo cruda… Lo traduciamo dal latino: “Francesco Sforza, Visconte di Cotignola, Conte di Ariano, Marchese della Marca d’Ancona, Gonfaloniere del Santissimo signor nostro il Papa e di Santa Romana Chiesa, Capitano Generale della Lega Santa”. L’invito a partecipare al fausto evento porta la data: Jesi 23 marzo 1439 ed è rivolto alle terre e città della Marca e recita… “poiché abbiamo deciso, duce il Signore, che il diciannove del prossimo aprile 1439 nella città di Fermo si consumerà per carnalem copulam. il matrimonio fina Noi, cioè tra la nostra dilettissima figlia Isolea e l’Eccellentissimo Signore, figlio e genero nostro, molto onorevole Andrea Matteo d’ Acquaviva. Duca di Atri, invitiamo per tal motivo tutti e i singoli e ne richiediamo la graziosa presenza ecc.”. L’invito fu mandato a tutte le città e terre della Marca, ma non vi figura Camerino. mentre ne furono deliberatamente esclusi Ancona, Osimo, Recanati ed Ascoli. Grande lo sfarzo di tali nozze e poi… gli sposi vissero felici e contenti come nelle fiabe. Quest’anno, ricorrono 550 anni da tale evento. Quindi nozze all’undicesima potenza o meglio, plurime, d’oro.

Anno 1440 – L’inedita lettera di S. Giacomo

     Abbiamo più volte parlato di S. Giacomo della Marca, il santo marchigiano per

eccellenza che molto operò in Europa, specie nella ex Jugoslavia, in Italia e nella nostra regione. Come già detto, egli predilesse Fermo: vi soggiornò a lungo; vi predicò; vi tornò più volte, anche se alla fine se ne partì spiacente perché i fermani avevano creduto più a unvisionario che a lui.

     Di questa “corrispondenza d’amorosi sensi”, ci piace dare notizia di una sua lettera, finora inedita, esistente a Oxford, celebre cittadina uni- versitaria inglese e precisamente nella biblioteca bodleriana. La lettera è diretta a due padovani, ma originari delle Marche, Daulo e Bartolomeo da Urbino. Scritta a fine luglio 1440 cioè 553 anni or sono, porta la data: Assisi 30 luglio 1440. S. Giovanni era stato a Padova a predicare la Quaresima; i padovani avevano ‘molto apprezzato e gradito il ciclo delle sue sue prediche. Ora che è lontano, egli ricorda quei giorni con affetto; anzi dice di essere legato a Daulo e Bartolomeo e a Padova quasi da un vincolo triplice (triplex funiculus) e li prega di porgere ai padovani il suo ringraziamento ed il il suo vivo ricordo.

Questo inedito dimostra l’animo squisitamente umano di un santo che d’altra parte fu inflessibile verso gli eretici. A lui si addice il dantesco “ .. delle Fede cristiana il santo atleta / benigno ai suoi ed ai nemici crudo”.

Anno 1441 – Ancora matrimoni e corna eccellenti 

     L’articolo apparso domenica sulle nozze di Sigismondo e Polissena celebrate a Fermo nel 1441, ha suscitato un certo interesse. La pro-fessoressa Mara De Felice da Pesaro, mi ha scritto che vorrebbe saperne di più e Graziella Gregorini di Ancona, anche lei insegnante, vorrebbe sapere del matrimonio del suocero di Sigismondo, il Conte Francesco Sforza. Anche se lo spazio è tiranno e la struttura di questa rubrica umile, lo facciamo volentieri.

     Il matrimonio tra Sigismondo e Polissena fu celebrato a Fermo il 21 settembre 1441 e il 29 aprile 1441 Sigismondo “menò per sua donna, la magnifica Madonna Polissena figliola del magnifico signor Conte Francesco a Rimini”. Polissena “da Fermo, fu accompagnata da molti si¬gnori e gentildonne. La strada dell’arco di Augusto fino alla corte ricoperta di panni di lana gentile”. Si ebbero pranzi, danze, suoni, giostre, tornei di gioia; i festeggiamenti durarono fino al 2 maggio. Ma c’è un particolare interessante: dopo un mese dalle nozze di Sigismondo con Polissena, il padre di quest’ultima, Conte Francesco Sforza, sposa, a Cremona, Bianca Maria Visconti: lui quarantenne; lei sui 14/15 anni e “triomphalmente consumò il matrimonio con Bianca Maria nella rocca di S. Croce”. Inutile parlare del fasto degli sponsali sontuosi e magnifici e del loro significato politico; viene in mente il detto: “Gli altri facciano la guerra! Tu, felice, Austria, sposati”. Bella gerant alii; tu Felix Austria nube… Infatti e il matrimonio di Sigismondo e quello del suocero erano “frutto” di intese politiche. Come abbiamo notato, Sigismondo sposa a Fermo e poi con la sposa si trasferisce a Rimini; il suo¬cero, sposa a Cremona e poi con la moglie viene a Fermo. “Il venerdì 22 giugno”.

      Sigismondo, pur avendo sposato Polissena se la intendeva con una tale Vannetta: giovane e splendida fanciulla di Fano, di due anni più giovane di lui “vedendola giovane e bella sfringuellare”, le fece la corte; e poi poi… la mise incinta. Vannetta sperava in nozze riparatrici, ma invano! Sigismondo sposò Polissena. Intanto spuntava l’astro di Isotta, il vero amore di Sigismondo e, come è noto, Polissena fu “eliminata”.

     A Fermo furono celebrati in quegli anni altri matrimoni famosi: Alessandro fratello del Conte Francesco vi sposa Costanza Varano, il sabato 28 novembre 1444: gli sponsali vennero celebrati sul Girfalco: notaio dell’atto, fu lo storico fermano Antonio Aceti. Nel 1439 un’altra figlia del Conte Sforza, Isolea, sposò a Fermo Andrea Matteo II di Acquaviva.

A Rimini, nel tempio Malatestiano, Sigismondo e Isotta dormono il sonno eterno. A Rimini è pure sepolta Polissena, la sfortunata fanciulla che sposò a Fermo Sigismondo definito da Pio II “pestifero morbo” e da D’Annunzio “procellosa anima imperiale”. Polissena non seppe dargli i fremiti di amore di Isotta, ma lo amò non riamata. Della Polissena dell’Iliade, parlano Euripide e Ovidio; della nostra, nessuno… Valga per lei questo nostro piccolo contributo, e questo nostro ricordo.

Anno 1441 – Fermani e Ascolani, una notte insieme

     Chissà che festa a Fermo quel 5 giugno 1441. Era il giorno di Pentecoste. Nella vasta Piazza del Popolo, sistemata di recente da Alessandro Sforza per accogliere il fratello e Bianca Visconti, nuovi “tiranni” di Fermo, si riversarono oltre quattrocento ascolani, molti dei quali vestiti con i camici delle confraternite. Invasione pacifica, concordata e promossa da S. Giacomo della Marca, egualmente amato e stimato, e da Fermo e da Ascoli.

Tale “invasione”, era il coronamento di un lungo e tenace lavoro di pacificazione tra le due città, cordialmente nemiche sin dal tempo dei Romani. Fermo allora prescelta da Roma ad essere la sua roccaforte nel Piceno, vigilava su Ascoli e al tempo della guerra sociale, da Fermo era partito Gneo Pompeo Strabone che conquistò e distrusse Ascoli, pala¬ della Lega Italica. Più tardi, 1211, Ottone IV, imperatore tedesco, aveva concesso a Fermo di dominare incontrastata dal Tronto al fiume Potenza e nessuno poteva costruire senza il permesso fermano per la profondità di un chilometro. Ascoli se n’era risentita, perché mirava ad uno sbocco sul mare. Di qui le lotte per il possesso del tratto a nord del¬la foce del Tronto. Fermo poi nel 1348 aveva assalito e distrutto la for¬tezza e il porto, che Ascoli in dispregio dei diritti fermani aveva edifi¬cato nel sito dove sorge attualmente Villa Laureati a Porto d’Ascoli. Il contenzioso marittimo durava da tempo. Monteprandone, patria di S. Giacomo della Marca, era l’avamposto ascolano verso lo Stato di Fermo, la cui giurisdizione si estendeva su Acquaviva Picena e S. Bene¬detto del Tronto.

Ma tutti volevano la pace, le due città erano stanche di lottare, e il 5 giugno quella moltitudine di quattrocento ascolani venne con in mano un ramoscello d’olivo. Giacomo della Marca salì su un podio improvvisato ed infiammò con la sua fervida parola i cittadini di Fermo e di Ascoli. Ad un tratto, si levò un grido alla folla che stipava la piazza del Popolo: “Pace, pace”. I ramoscelli d’ulivo ondeggiavano agitati dalla folla: Pace, pace! La notte, i 400 ascolani furono ospitati da famiglie fermane e dormirono nei loro letti (in eorum lectis et cubilibus). Due giorni dopo, fu stipulato un vero e proprio trattato di pace: Fermo ed Ascoli dovevano costituire un popolo solo (unus et idem). Fermo dove¬va effigiare nel suo stemma quello di Ascoli diviso da una croce ed altrettanto doveva fare Ascoli.

     Il 9 giugno 1464 la pace fu ratificata ed approvata dal Legato della Marca a S. Severino Marche. Francesco Petrarca nella sua tomba forse avrà gioito! Almeno qualcuno, anche se a distanza di anni, aveva raccolto il suo slogan: “Io vò gridando pace, pace, pace”.

     Ma i trattati di pace – diceva Bismarck – sono dei pezzi di carta. Così avvenne tra Fermo ed Ascoli. Appena morto Pio II (morì in Ancona il 15-8-1464) i Fermani corsero subito ad assediare Monte S. Pietrangeli, alleata degli Ascolani, ma spina al fianco nel territorio dello Stato di Fermo e la querelle cominciò di nuovo.

Anno 1441 – Sigismondo e la sposa bambina

     Rimini, famosa per il regista Fellini, per Sergio Zavoli ed altre illustri personalità è celebre anche per il ponte di Tiberio (22 d.C.), per l’arco di Augusto, il proclama di Rimini di Murat (1815) per i Malatesta, il tempio Malatestiano, etc. Ma, sia la città, sia i Malatesta. hanno “connessioni” storiche con Fermo. A Rimini nel 1351 fu firmato il trattato di pace tra Fermo e Ascoli; da Rimini nel 1441 Sigismondo Malatesta ven¬ne a Fermo per sposare Polissena Sforza, figlia del Conte Francesco.

     Sigismondo, oltre ad essere prode guerriero era anche un focoso marito ed un instancabile dongiovanni. Diciassettenne, dopo aver sposato a Rimini la quattordicenne Ginevra, figlia del marchese d’Este ed averla fatta morire poco tempo dopo con una bona medixina, mise gli occhi addosso a Polissena, figlia di una tal Colombina e del Conte Francesco Sforza che diverrà poi duca di Milano.

     “Nel 1441 lo illustrissimo signore misser Sigismondo Malatesta, andò a sposare la figliola dello illustrissimo conte Francescho, alla città di Fermo chiamata la magnifica madonna Polissena”. Così annota C. Broglio nella “Cronaca Malatestiana del sec. XV”, cronaca compilata in quegli anni. Sigismondo aveva 24 anni; lei 14. Non pare che il conte Sforza fosse entusiasta di questa unione, tanto più che poco prima, Sigismondo aveva mandato all’altro mondo per “amore” la Duchessa di Baviera, venuta in Italia in pellegrinaggio. Tuttavia, si sperava che “la grazia ancora acerba di Polissena” mitigasse i furori d’amore di Sigismondo. D’altra parte, lo Sforza preferiva avere il Malatesta più come amico che nemico. Ma Sigismondo ben presto si invaghì di Isotta degli Atti, bella e colta damigella di corte. Appena Isotta si accorse delle attenzioni del Malatesta, gli disse subito chiaro e tondo che condizione sine qua non per un suo eventuale matrimonio con lui, era che Polissena doveva sparire da Corte. Sigismondo dapprima tentò la via diplomatica e si rivolse al Papa per l’annullamento del matrimonio, ma la richiesta fu respinta. Maggiormente invasato d’amore per Isotta, pretese dal confessore di Polissena una dichiarazione scritta ove si attestasse che Polissena avrebbe confessato degli adulterii. Il frate, fedele al segreto confessionale, rifiutò, anche perché adulterii non ve n’erano. Sigismondo allora liquidò la faccenda con l’uxoricidio e di notte mentre Polissena dormiva fu fatta soffocare “con un panicello al collo”. Non contento, fece uccidere pure il frate, dopo avergli fatto porre un cerchio di ferro rovente intorno alla fronte.

       Sigismondo sposò quindi Isotta; fece erigere per lei il famoso Tempio Malatestiano opera dell’Alberti, tempio della monumentalità classica romana, che mira all’esaltazione di Isotta e di Sigismondo. Ma ben presto la fortuna di Sigismondo cominciò a declinare; i nemici invasero gran parte dei suoi possessi; egli morì senza aver potuto vedere il completamento del tempio, fatto erigere con tanto amore in onore, come detto, della sua terza moglie, Isotta. Vendetta dall’al di là di Polissena Sforza? o di Ginevra, Polissena e la Duchessa di Baviera insieme? Si sarebbe avverato quanto diceva Manzoni in Adelchi: “Gli estinti / talor dei vivi sono più forti assai” (IV, 1).

Anno 1442 – Il benvenuto di Fermo alla “magnifica ed inclita” Bianca Maria Visconti

     Bianca Maria Visconti era figlia naturale di Filippo Maria Visconti, poi legittimata. Il padre, non avendo avuto altri figli, aveva riversato su di lei tutto il suo affetto. Per ragioni di politica, fu data in isposa, appena quindicenne, al conte Francesco Sforza, marito infedele di moglie fedelissima che gli donò altri sette figli (egli ne ebbe undici illegittimi). Quando Bianca venne a Fermo il 22 giugno 1442, aveva appena dicia- sette anni.

     La venuta era stata preceduta da Alessandro Sforza, suo cognato che, per l’occasione, aveva fatto sistemare l’attuale Piazza del Popolo, livellandola ed ampliandola. “Il venerdì 22 giugno, a mezzodì, la magnifica ed inclita signora Bianca, figlia del potentissimo Duca di Milano (cioè di Filippo Maria Visconti, ndr) e moglie dell’eccellentissimo conte Francesco, venne a Fermo accompagnata da dodici damigelle. Entrando da Porta S. Giuliano, si recò al Girfalco accompagnata dai priori e dal popolo festante”. Così Anton di Nicolò.

     Grande lo sfarzo: 24 cavalieri vestiti di seta bianca con i loro cavalli bardati pure in seta bianca e vessilliferi dai drappi rossi, con effigiato lo stemma di Fermo, le fecero scorta, mentre lei incedeva, sotto il baldacchino di seta azzurra, sorretto da sei nobili cittadini. Bianca entrò nella Rocca sul Girfalco, nido degli Sforza, che da qui dominavano su tutte le Marche. “Dal Girfalco nostro di Fermo a dispetto dei Santi Pietro e Paolo”. Così chiudevano le loro lettere gli Sforza che, annidati in tale fortezza, si sentivano sicuri e sfidavano il Papa. Ce lo conferma anche Nicolò Machiavelli (St. Fior. V-).

     Proprio nella rocca di Fermo, nella notte tra il 14 e 15 gennaio 1444, Bianca diede alla luce Galeazzo Maria Sforza, che sarà poi Duca di Milano.

     Dopo varie vicende, nel 1446, la rocca fu assediata e presa dai Fermani, stanchi della dominazione sforzesca. Bianca partì con Galeazzo che aveva appena due anni. In seguito egli diede non pochi pensieri per il suo carattere eccentrico, temibile e terribile.    

     I sudditi lo chiamavano illustrissime Domine Noster metuendissime (illustrissimo Signore nostro terribilissimo); egli, nelle lettere alla madre, si firmava obsequen- tissimus filius ac servitor Galeazus Maria Sfortia Dux Mediolani. Ma nonostante tali professioni di devozione, dopo la morte del padre, la mise in disparte.

Bianca morì il 23 ottobre 1468 dopo che la febbre “terzana si convertì in perniciosa e lo colorito divenne giallo come paglia vizza”. Il cadavere fu portato a Milano e “reponato ne la ducale corte, nel tempio de Sancto Gothardo e dopo due giorni con grandissima pompa di esequie, nel maggior tempio fu tumulata accanto a Francesco suo felicissimo consorte”. (Archivio Stato, s.v. Milano).

      L’orazione funebre fu tenuta da Francesco Filelfo, umanista di Tolentino, educatore dei figli di Galeazzo che, del resto, voleva bene ai marchigiani specie a Bramante.

Anno 1444 – Degna accoglienza all’arrivo del Conte Francesco Sforza

     Quel 3 gennaio 1434 cadeva, come oggi, di domenica; per Fermo tale data era contrassegnata da un grande avvenimento. Il conte Francesco Sforza (che a dire di Ludovico Antonio Muratori era “l’eroe che l’Italia da più secoli in qua non aveva più prodotto”) veniva a FERMO. Da poco era stato nominato da Eugenio IV, Gonfaloniere di Santa Chiesa e Marchese della Marca; veniva qui, nella città allora più importante, a porre il suo quartier generale. Aveva comunicato questa sua decisione alle autorità di Fermo e queste “tostamente ordinarono, affine di ricevere col maggiore onore un tanto signore, si assembrassero di tutta la città e contado, i cavalieri d’armi e patrizi e gran borghesi ed altresì il clero secolare e regolare i cavalieri si vestissero d’assisa e tutti andassero incontro al Conte e facessergli riverenze, onore e compagnia… Ap¬parve il conte montato in un bellissimo destriero e circondato da molte genti armate, sì di fanti e sì di cavalieri; il duplice clero, processionalmente, l’accompagnarono per le vie della città, ornate e parate; dodici uomini vestiti di bianco con ciascuno una bandiera in mano e due dardi da lanciare, andavano innanti al nuovo signore cantando inni i canzoni di laude; altri ragguardevoli cittadini vestiti d’assisa erano intorno al conte, alcuni de’ quali tenevano il baldacchino”.

   Così un cronista fermano, descrive l’ingresso del Conte Sforza, il quale si recò al Girfalco, prese possesso della Rocca e da qui effettuava le sue spedizioni e incursioni contro paesi e città della Marca, sottoponendoli a imposizioni fiscali, a consegna di derrate alimentari e di armigeri. Da qui, dopo la rottura col Papa, inviava le sue lettere datando¬le: “Dal nostro Girfalco di Fermo a dispetto del papa”: Ex Girifalco nostro firmano invito Petro et Paulo. Ce lo narra anche il Machiavelli ne Il Principe. Abbiamo accennato alle sortite dello Sforza dalla Rocca. Tolentino, Montolmo (Corridonia), Ascoli, Montefiore, Marano, ne sanno qualcosa e ci limitiamo soltanto a queste località. Essendosi ribellata Ripatransone, ordinò che tutte le milizie si radunassero a Santa Maria della Fede nei pressi di Montefiore dell’Aso. Da qui con 9.000 cavalieri e 3.000 fanti mosse all’attacco. Cinse Ripatransone d’assedio, la espugnò mettendola a ferro ed a fuoco portandosi via un ricco bottino, comprese suppellettili di culto, come paramenti sacri, calici e campane; alcune di esse vennero issate nelle varie chiese di Fermo; la più grande, nel palazzo dei Priori. Condusse a Fermo anche molti prigionieri ma alcuni (erano 36) riuscirono ad evadere.

     Il 22 giugno 1442 lo Sforza condusse a Fermo la sua giovane sposa Bianca Maria Visconti, che nel 1444 gli darà un figlio, Galeazzo il quale diverrà poi il quinto duca di Milano.

     Sforza, a causa delle angherie e soprusi, fu inviso ai Fermani che lo cacciarono e distrussero la rocca. Si era nel 1146. Di essa non rimase che pietra su pietra. Oggi ricorrono 559 anni da quando vi entrò per la prima volta prendendone possesso.

Anno 1444 – Lo sfarzo degli Sforza  

A Fermo nella rocca del Girfalco, v’era grande attesa quel 13 gen¬naio 1444. Bianca Visconti, moglie del conte Francesco Sforza stava per dare alla luce il primogenito ed era appena ritornata da Corinaldo. Gli Sforza volevano che il primo rampollo nascesse a Fermo, loro roc¬caforte e qui appunto nella notte tra il 14 e il 15 gennaio, Bianca partorì un bel maschietto; peperit masculum, annota il cronista. C’era ora da scegliere il nome. Fu allora mandato a Francesco Maria Visconti, padre della puerpera, Gaspare da Pesaro. “Contentissimo, gli piacque che gli imponesse il nome dell’avolo suo Galeazzo”, cui venne aggiunto Maria. E col nome di Galeazzo Maria Sforza fu battezzato nella Cattedrale di Fermo, vicinissima alla rocca.

Per l’occasione, nella spianata del Girfalco, si tennero tornei cavallereschi (fuit iostrarum in Girfalco per multos armigeros). Vi parteciparono numerosi cavalieri e uomini d’arme che “indossavano ricche ar-mature e i destrieri annitrivano di gioia, ancor essi ricoperti e ricamate d’oro. Gli araldi erano vestiti con lucco ornato degli stemmi di Sforza e Visconti”. Era lo sforzo degli Sforza! Galeazzo ben presto si dedicò al mestiere delle armi, dopo che con suo padre si era trasferito a Milano. I fermani nel 1446 cacciarono infatti gli Sforza, che migrarono a Milano. Nel 1466 il Conte Francesco Sforza, divenuto nel frattempo Duca di Milano (1450), morì. Galeazzo Maria che si trovava in Francia incontrò non pochi ostacoli e peripezie per recarsi a Milano. Per non farsi riconoscere nell’attraversare la Savoia si travestì da “servo di mercatante”. Riconosciuto si rifugiò in una chiesa e il diritto di asilo lo salvò. Dopo tre giorni fuggì e attraverso fortunose vicende raggiunse Milano dove, il 20 maggio 1466, a soli ventidue anni, veniva proclamato dal popolo. Nella nuova mansione gli furono di valido aiuto la madre Bianca e la saggezza di Cecco Simonetti. Durante il suo regno, Galeazzo mirò allo sfarzo, al lusso, a spese eccessive, torchiando i sudditi con tasse ed esosi balzelli. Si comportò male verso sua madre Bianca Visconti, relegandola a Cremona, dove morirà il 23 ottobre 1468. Galeazzo, per far fronte ai lussi della reggia ed ai fasti di corte, splendida anche per la presenza di artisti e umanisti quali Bramante e Filelfo (entrambi marchi-giani) e Panfilo Gastaldi, aveva angariato il popolo con tasse molto pesanti ‘“era homo che faceva grandi pazzie et cose disoneste“, si legge in un diario coevo). Tre giovani (Olgiati, Fampugnani. Visconti) ordirono una congiura e il 26 dicembre lo uccisero a pugnalate. Strana coincidenza: il 26 dicembre 1194 nasce a Jesi l’imperatore Federico II, che tanto ebbe a che fare con le Marche e con Fermo; il 26 dicembre 1476 moriva Galeazzo Maria Sforza, mentre a Fermo nella notte tra il 14 e il 15 gennaio di 547 anni or sono, Papa Eugenio IV (il veneziano Condulmer) nell’apprendere la notizia della nascita di Galeazzo ebbe ad esclamare: “È nato un altro Lucifero”.

Anno 1446 – Quel leone ruggiva sepolto sotto terra

     In questi giorni si compiono 550 anni della nascita di Galeazzo Sforza, quinto duca di Milano, nato a Fermo, nella rocca del Girfalco nella notte tra il 14 e 15 gennaio 1444.

La madre, Bianca, figlia di Filippo Visconti, era qui giunta due anni prima; il padre conte Francesco, sin dal 10 giugno 1443 aveva scelto Fermo capoluogo dei suoi domini delle Marche e si era insediato nella rocca da cui dominava tutta la Regione. Da qui, come racconta Machiavelli, datava le lettere con la finale “a dispetto di S. Pietro e Paolo (cioè del Papa): ex Girfalco nostro firmiano invito Petro et Paulo“.

   Oggi tale rocca più non esiste; distrutta a più riprese a decorrere dal 1446 e non una sola volta come scrivono alcuni storici. Anzi, se si leggono le deliberazioni del Comune di Fermo (Riformanze) si nota che dopo il primo colpo o distruzione iniziale, ve ne furono delle successive, sebbene di minore entità. Durante una di queste demolizioni a furor di popolo, fu messo in salvo ed interrato il leone che oggi campeggia a fianco della Cattedrale, per impedirne la distruzione da parte dei nemici degli Sforza.

     Dopo circa quattro secoli, nel settembre 1835, un colono del si¬gnor Luigi Alessandro Monti, lavorando la terra, scoprì “col suo agrario strumento” delle grosse pietre. Scavò in profondità ed ecco apparire un magnifico leone in travertino. Aveva l’aspetto minaccioso, fauci spalancate per azzannare la preda, lingua al di fuori, criniera scarmi¬gliata. Era quasi intatto, ad eccezione delle estremità delle zampe che risultavano spezzate, ma le cui parti mancanti furono rinvenute non molto distante. Grande lo stupore per la scoperta! Si parlò di scultura greca, di opera romana, di alto medioevo. Dopo esami congetture, riscontri, emerse che era un leone che campeggiava nella fortezza, leone messovi dagli Sforza il cui stemma consisteva appunto in un leone ed un cotogno Leonem dabo qui citonium laeva sustineat et minaci dextera tueatur, latino facile che vuol dire “ti darò un leone che con la zampa sinistra tenga un cotogno e con la destra lo difenda”.

     Certo il colono di Luigi Alessandro Monti che lo ritrovò interrato a mezzo miglio fuori porta Santa Caterina, non immaginava di dare o meglio di restituire alla città un monumento della sua millenaria storia. Oggi più non sono né la fortezza né gli Sforza; rimane solo il leone simbolo di gloria passata. “Ombra di un fiore è la beltà su cui / bianca farfalla poesia volteggia / Eco di tromba che si perde a valle / è la potenza”. Così Carducci ne “La Chiesa di Polenta”. Di tanta gloria e di tanta storia rimane la Cattedrale accanto a cui sorgeva la rocca. Stat crux dum volvitur orbis.

Anno 1446 – S. Giacomo della Marca torna…

     “Tornan giganti a riveder la culla / Gli sparsi figli..(Zanella). “Sire, voi tornate in trionfo tra ali di folla, sotto l’arco del trionfo, trainato da otto cavalli, in marcia trionfale, in divisa di imperatore”..Così Victor Hugo, in occasione del ritorno da Sant’Elena delle spoglie di Napoleone Bonaparte.

     Non so se l’accostamento è irriverente, ma qui nella vicina Monte- prandone nei giorni scorsi tra due ali di folla plaudente ed entusiasta, tra volti raggianti e commossi, è tornato “al natio borgo”, in trionfo, un Grande: S. Giacomo della Marca. “Tornan giganti a riveder la culla…”. Ed ha ragione Giacomo Zanella, autore di questi versi, poiché S. Giacomo della Marca è davvero un gigante. In tutti i sensi.

     Nato a Monteprandone nel 1393, carattere deciso e volitivo, operò molto a Fermo e nel Fermano, spesso mediatore di pace tra Ascoli e Fermo. Sedò e compose contrasti tra Monteprandone, sua patria ed Acquaviva; tra S. Benedetto e Monteprandone, araldo di pace e di bene. Santo tipicamente marchigiano (non per nulla fu chiamato della Marca), tutto “serafico in ardore”, operò a Fermo, in Ascoli, Sant’Elpidio, Gubbio, Verona, Pavia, Cremona, Temi, Fabriano, Perugia, Camerino, Macerata, F’Aquila, Spoleto, Cascia, Ancona, etc. Predicò a Milano con tale efficacia, che i milanesi lo avevano già proclamato loro Arcivescovo “ma isso se ne fugì di notte secretamente, per fugire la pompa del mondo”. Ma questa “fuga”, prelude al crescendo della sua azione apostolica. Lo troviamo in Ungheria, in Austria, Bosnia, Germania, Danimarca, Prus¬sia, Polonia, Cipro, Medio Oriente; mirava all’Islanda; lo dissuase il clima rigido di quella nazione. Fu uno dei pionieri dei Monti di Pietà, istituti contro gli usurai di allora. Stigmatizzò le fazioni politiche. Fu amico e consigliere di sette papi: Martino V (+1431), Eugenio IV (+1447), Nicolò V (+1455), Callisto II (+1458), Pio II (+1464), Paolo II (+1471), Sisto IV (+1484).

      Le deliberazioni dei Consigli comunali di Fermo, sono piene del suo nome e delle sue imprese. Nel 1446 riuscì a far firmare la pace tra Fermo ed Ascoli. Donò alla Cattedrale di Fermo un’icona della Madonna ed ebbe molto a cuore il Convento dell’Annunziata di Fermo. Tuttavia, i fermani non si comportarono bene con lui, preferendogli un “Tornan giganti a riveder la culla“. Tempo fa sulle colonne di questo giornale avevamo auspicato un tale ritorno. Omen, nomen! Il sogno si è avverato. Egli, che riposa a Napoli nella chiesa di Santa Maria Nuova, dove è molto venerato, tanto che Napoli l’ha eletto per suo comprotettore (secondo solo a S. Gennaro) è tornato e rimarrà del tempo fra noi. “Tornan giganti a rivede la culla…”. Ma quando torneranno, anche se per breve tempo, gli altri grandi marchigiani che riposano a Napoli tra cui il nostro Leopardi e il nostro Pergolesi?

Anno 1446 – La rivolta contro gli Sforza e la protezione di S. Caterina

     Era il 25 novembre 1446, festa di Santa Caterina. Allora le date erano scandite dalle feste dei Santi e la Santa in oggetto, raffigurata nella iconografia con una ruota e la palma del martirio, costituì la ruota della fortuna per Fermo che proprio nel giorno a lei dedicato, veniva liberata da un lungo martirio: quello imposto dagli Sforza.

     Questa potente dinastia milanese si era impadronita di Fermo; nel 1433 aveva occupato la fortezza del Girfalco dove il conte Francesco aveva insediato un buon nerbo di truppe scelte, dislocando le altre nei punti strategici della città. Dal Girfalco dominava in tutta la Marca d’Ancona (Ex Girfalco nostro firmano invito Petro et Paulo).

     Qui aveva la sua corte; qui nel 1444 era nato l’erede Galeazzo che sarà quinto duca di Milano; da qui effettuava sortite e scorrerie in paesi vicini compiendo razzie e prendendo prigionieri; da qui partì per andare ad assediare Ripatransone. E curioso a tale proposito un ordine, anzi un’ingiunzione, datata Massignano. “Egregi dilecti nostri. Per sapere, ci fanno bisogno delle asse, overo tavole assai, per fare de’ ripari per le Bombarde, volemo piantare qui contro la Ripa e piacciavi e cornandovi che subito, veduta la presente, ci vogliate mandare venticinque tavole, le più lunghe e larghe che possiate trovare e subito le mandiate a Santa Maria della Fede, dove sta Pietro Brunorio, al quale ordinate siano consegnate, e non mancate per quanto cara avete la grazia nostra. Datum in felicibus castris contra Ripa Transonem 22 settembre 1442”.

     Tornando alle vicende di Fermo, dobbiamo dire che la sua era una dittatura vera e propria ed i Fermani erano al limite della sopportazione. Alla fine, non potendone più, ricorsero alle armi. Il giorno di Santa Caterina del 1446, presero le armi, cacciarono i soldati ed i presìdi militari che gli Sforza avevano in città e gridando a squarciagola “Viva la Santa Chiesa e viva la libertà”, i Fermani assalirono i “soldati sforzeschi divisi in tutti i quartieri della città, spogliandoli delle armi e degli arnesi bellici”. Però, in un primo tempo, gli sforzeschi ebbero la meglio: in una sortita presero prigionieri i priori che furono condotti al Girfalco; ma da qui, gli sforzeschi videro molti soldati con fiaccole accese che venivano in aiuto dei Fermani. Erano le due di notte e tali soldati entrarono da porta Santa Caterina. Il popolo allora si infiammò e accorse all’assedio. Fermo oramai era libera; la notte seguente, focaracci di gioia diedero la notizia a tutta a Marca.

Anno 1446 – S. Giacomo e la pace tra Fermo e Ascoli

     Nel 1446, dopo la cacciata degli Sforza e lo smantellamento della rocca, fu convocato a Fermo il Consiglio dei 300 che doveva sancire, dopo tante lotte, una pace duratura tra Fermo ed Ascoli. I dissidi risalivano al tempo dei romani, quando questi stabilirono a Fermo una colo¬nia militare che controllasse anche Ascoli. La Guerra Sociale, che si concluse il 25 dicembre dell’89 a.C. fu originata proprio dal fatto che il pretore romano, Fonteio, da Fermo si era recato in Ascoli, per verificare se gli italici si stavano scambiando ostaggi, pegno di un’azione comune contro Roma. Fonteio ed il suo seguito, furono uccisi e Roma inviò subito un esercito per punire Ascoli. Dopo alterne vicende Ascoli fu espugnata e gli italici sconfitti.

     Altro motivo dell’inimicizia tra Ascoli e Fermo, fu la concessione da parte di Federico II della licenza di costruire un porto. Fermo se ne risentì perché in virtù di un privilegio di Ottone IV imperatore, rilasciato il 10 dicembre 1211, aveva il diritto di dominio dal Tronto al Potenza e nessuno per la profondità di mille passi (grosso modo un chilometro) poteva costruire case e fortezze senza il benestare di Fermo. Ora si voleva addirittura un porto… Ebbero luogo scontri armati che culminarono con l’assedio del Porto di Ascoli e la sua espugnazione (1348), l’anno della famigerata peste nera.

     Ma sia Ascoli sia Fermo erano stanchi di combattersi. Si pensò ad una pace; ne fu mediatore S. Giacomo della Marca e, esattamente il 28 maggio 1446, nel Palazzo dei Priori di Fermo venne convocato il Consiglio dei Trecento che deliberò una pace duratura tra le due città. Per rendere la pace più efficace tra i due centri, vennero da Ascoli 400 cittadini con ramoscelli d’ulivo e si ammassarono in quella che è oggi Piazza del Popolo, cantando inni di giubilo ed auspicando la sospirata pace. Fermani ed Ascolani, cosa mai vista in precedenza, gremivano la piazza. S. Giacomo della Marca rivolse ai presenti infuocate parole mentre le campane suonavano ad arma.Nella notte che seguì tutti gli ascolani trovarono alloggio presso le famiglie fermane e come raccon¬ta Anton Di Nicolò, testimone oculare, dormirono nei letti e nei giacigli dei fermani in eorum lectis et cubilibus.

    Dopo tale manifestazione, il 7 giugno 1446, vennero stipulati i patti di confederazione e fraternità tra Fermo ed Ascoli. In essi si stabiliva che:

 a)        il popolo di Fermo e quello di Ascoli dovevano formare uno stesso popolo (unus et idem populus);

b)        le due città dovevano inquartare nello stemma quello dell ’ altra città per cui Fermo quello di Ascoli e Ascoli quello di Fermo;

c)         Fermo non doveva accogliere i fuoriusciti di Ascoli e Ascoli fare altrettanto per Fermo. I delinquenti dovevano essere estradati e giudicati dai giudici del luogo di residenza;

d)        in caso di aggressione esterna, le due città dovevano unire le loro forze per respingere l’aggressore;

e)         il tutto, doveva avvenire nel pieno rispetto dei diritti della Chiesa Romana.

Come detto, questi patti furono approvati dall’Autorità Pontificia a S. Severino Marche il 9 giugno 1446. Elemento che sorprende è che il Consiglio dei Trecento fu convocato a Fermo per iniziativa di S. Giacomo della Marca il giorno 28 maggio 1446. Esattamente il 28 maggio 1993, dopo 547 anni, le spoglie di S. Giacomo sono tornate a Fermo. Coincidenze o attuazione della teoria di Giambattista Vico?

Anno 1450 – I Ripani gridarono “Abbasso Fermo”

     Il 9 maggio, si spegneva il poeta tedesco Federico Schiller, autore fra l’altro de

“I Masnadieri”. Ma ieri, 8 maggio, ricorreva l’anniversario della fine, in Europa, della Seconda Guerra Mondiale (1945); della morte di Gustavo Flaubert, scrittore francese (1880) e l’anniversario della morte di Santorre Santarosa “quei che a Sfacteria dorme”, caduto per la libertà della Grecia. Quindi l’8 maggio, rivela una componente di lotte e di guerre per la conquista o riconquista della libertà.

     Anche nella storia di Fermo e del fermano, la data dell’8 maggio è caratterizzata da eventi bellici. Sin dal 1300 si ebbero scontri armati con quei di Ripatransone per il possesso di Sant’Angelo di Trifonzo, località contesa tra Fermo e Ripa. Ogni anno, in tale data, si celebrava la festa in onore di Sant’Angelo, patrono della località, sita in territorio di Acquaviva Picena e quindi dello Stato di Fermo a cui appartenevano Acquaviva Picena, S. Benedetto del Tronto, Grottammare ecc. Ripatransone però contestava il diritto di Fermo sul Trifonzo e, più volte, l’8 maggio, aveva assalito il presidio fermano che per l’occasione garantiva l’ordine pubblico dei festeggiamenti. Ma nel 1450, sin dalla fine di marzo, Acquaviva aveva segnalato l’eventualità di un altro assalto ripano. Fermo non si fece cogliere di sorpresa. Assoldò un forte esercito e spedì ad ogni Comune dipendente della fascia costiera, un ordine di arruolamento. Ogni famiglia doveva mandare un soldato armato di tutto punto, con lo schioppo, balestra, lancia, etc. L’ordine di fornire unum mìlitem prò foculare (ogni famiglia un soldato), era stato inviato ai castelli di Torre di Palme, Altidona, Moresco, Lapedona, Pedaso, Marano (Cupra Marittima), Campofilone, Grottammare, Massignano, S. Benedetto del Tronto, Acquaviva, Guardia (Carassai), Petritoli. Furono arruolati 4 mila soldati, i quali dovevano presidiare la festa di Sant’Angelo in Trifonzo.

     Anni prima i fermani erano stati assaliti al grido di: “Abbasso Fermo. Carne. Carne”. Ora si voleva una rivincita. Le milizie fermane si portarono a Sant’Angelo in Trifonzo; si accamparono sul posto in attesa del “nemico”. La festa si svolse regolarmente e solennemente. La spedizione durò tre giorni durante i quali i fermani fecero azioni di pattugliamento e di perlustrazione. Per tres dies continuos. Ma di quei di Ripa nemmeno l’ombra. In seguito si giunse ad un accordo tra le parti e si delinearono i confini, contrassegnati da querce contraddistinte da una croce crucisignatae e, dopo secoli, grazie anche alla mediazione di S. Giacomo dell Marca, tornò la pace tra Fermo e Ripatransone. Ieri ricorreva il 443mo anniversario della spedizione.

Anno 1450 – Il caviale del Legato pontificio

     Spiagge affollate, spiagge formicolanti di bagnanti di stirpe italica, di stirpe teutonica; costumi multicolori, vele, canottiere, colori del cielo, di sole, di mare (…) misti a qualche avvistamento di squali. Ma l’avvistamento di grossi pesci, non è peculiarità soltanto dei giorni nostri o del mare Tirreno. Anche in Adriatico (anticamente Golfo di Venezia), ogni tanto apparivano squali e storioni.

     Sì gli storioni (in latino acipenser sturio), tipici pesci dal corpo allungato e fusiforme, di notevoli proporzioni, tanto da raggiungere anche vari metri di lunghezza e mille chili di peso. Storioni dalle carni pregiate e squisite; le uova, debitamente preparate, costituiscono il caviale, cibo ghiotto e prelibato. Non so se le prerogative dello storione fossero note ai pescatori fermani dell’anno di grazia 1450. In tale anno, ed esattamente il 9 febbraio, detti pescatori del Porto di Fermo pescarono nello specchio d’acqua antistante, uno storione del peso di 108 libbre che venne pagato 4 (diconsi quattro) ducati. Ovviamente, una preda così insolita non poteva passare sotto silenzio.

     I magnifici priori di Fermo (così ci documentano gli Acta Diversa, da cui traduciamo) con il consenso dei Capitani delle Arti, lo comperarono e lo inviarono in dono al Legato della Marca. Non è certo facile rapportare le libbre del 1450, al sistema metrico decimale di oggi. Ma certo quelle 108 libbre del 1450, costituivano un peso piuttosto rilevante, perché, per l’invio, fu “mobilitato” tale Antonetto da Monterubbiano, mulattiere che portò al Legato la prelibata leccornìa.

     Non credo che le autorità doganali dell’epoca abbiano fermato il citato mulattiere per controllare la relativa bolla di accompagno; fatto sta, che lo storione giunse a destinazione sano e salvo, ma non si salvò dalla gola del Legato che, amiamo sperare, non abbia dovuto esclamare come quel prelato coevo che non poteva digerire le troppe anguille di Comacchio: O quanta mala patimur prò Ecclesia Sancta Dei! (Oh quante tribolazioni dobbiamo soffrire per la Santa Chiesa di Dio!)-

Anno 1456 – Una tempesta provvidenziale

     Nel corso dei secoli il litorale di Fermo fu teatro di eventi storici di portata nazionale. Nel 536 vi sbarcarono Narsete e Belisario, generali famosi, per un summit militare tenuto entro la città di Fermo.

     Nel 1798 fu campo di battaglia fra truppe francesi e napoletane con la vittoria delle prime. Ciò avveniva esattamente il 28 novembre, festa di S. Giacomo della Marca.

      Questo ci induce a narrare un fatto poco conosciuto, verificatosi proprio sul litorale fermano. Protagonisti: il beato Bernardino da Feltre, celebre fautore dei Monti di Pietà e P. Luigi Gonzaga (da non confondere con l’omonimo santo). Essi avevano partecipato a L’Aquila, al Capitolo generale degli Osservanti ed ora, via mare, tornavano nel Veneto. All’altezza della costa fermana, furono colti da una violentissima tempesta e, per scampare alla morte, si gettarono in mare; a nuoto riuscirono, a stento, a mettere piede a terra. Riavutisi dallo shock e preso contatto con gli abitanti della zona, seppero che a Fermo si trovava il loro amico Giacomo della Marca. Figurarsi la gioia dopo tanti pericoli e sofferenze. Detto fatto, si diressero in città per incontrarlo. Padre Bernardino (era nipote del celebre Vittorino da Feltre) nel 1456 era stato accolto da Giacomo nell’ordine. L’incontro fu emozionante. Era stato determinato da una (provvidenziale) tempesta…

     Ma ora che incombono tempeste ben più gravi, perché non effettuare un altro incontro? È noto che le spoglie mortali del Santo, tornate da Napoli nella natia Monteprandone, stanno pellegrinando in varie città dove, in vita soggiornò o vi predicò. Lo hanno accolto con commozio¬ne Matelica, Macerata. Ascoli Piceno, Camerino, Pesaro, Ancona, Fa¬no, Jesi, Urbino. Recanati, Senigallia.

Perché non ‘invitarlo” a Fermo? In questa città operò moltissimo; forse più che nelle altre. Vi soggiornò nel 1442, predicandovi la Quare¬sima; nel 1446, caldeggiando la pace tra Fermo ed Ascoli.

     Poi, successivamente, nel 1459 scrivendone le leggi suntuarie; nel 1462 costruendovi il convento dell’Annunziata, ora purtroppo ridotto a ospedale psichiatrico. Vi soggiornò, ripetutamente, negli anni 1470, 1471, 1472. Vi ritornò nel 1473 e se ne allontanò, corrucciato, il 7 mag¬gio 1474. Infatti i cittadini di Fermo credettero più ad un mistificatore albanese che a lui. Abbandonò città e cittadini “che non foro (furono) maj più digni (di) vedere questo santo homo”. Si vuole che prima di partire esclamasse “Povera Fermo governata da pupi”. Il suo biografo, Fra Venanzio da Fabriano, precisa che dopo la sconsolata partenza di S. Giacomo per Napoli . .venne pestilentia ed una mortalità sì grande… et quella terra (cioè Fermo) fo’ guasta tanto del judicio de Dio et de la pestilentia tanto che mai fo’ quella che era prima”.

     Chi scrive, qualche anno fa da una quotata rivista, auspicava il ritorno di S. Giacomo nella sua Marca: l’auspicio si è avverato. Ora si permette “provocare” una iniziativa di ritorno di S. Giacomo a Fermo. Rivedrà l’icona da lui donata ai Fermani; il convento dell’Annunziata sorto per sua volontà; l’aereo Girfalco; il Duomo; piazza del Popolo dove più volte predicò. Ritorni e con il ritorno sia suggellata la pace. Alcuni sono pronti ad allestire in suo onore una Mostra fotografica dell’antica Marca.

     Egli, santo della Marca per eccellenza, ne sarebbe lieto. È un auspicio, questo, formulato nella settimana santa per il ritorno di un Santo in questa Fermo che (specialmente ora) ne ha tanto bisogno.

Anno 1458 – Per aiutare i poveri fondò il Monte di Pietà

      Il più piccolo di diciotto fratelli, a sei anni fuggi di casa per recarsi da Monteprandone (ove era nato) ad Offida, percorrendo a piedi ben 18 km. Giacomo non voleva sottostare ai maltrattamenti dei fratelli, che lo obbligavano a parare le pecore e per giunta lo picchiavano.

     Era l’anno 1400! Domenico Gangali, cioè il nostro S. Giacomo della Marca era nato a Monteprandone in una domenica di settembre, dell’anno 1394. Dopo essersi rifugiato ad Offida, (lo accolse uno zio sacerdote), iniziò ad Ascoli Piceno gli studi di grammatica; si iscrisse quindi all’università di Perugia e si laureò a Firenze. Il venerdì santo del 1415, mentre meditava la passione del Signore, sentì la divina chiamata. Bussò ad un convento di Certosini; ma per incomprensione col superiore, decise di entrare tra i frati francescani; tornato a Monteprandone, sistemò le sue cose e a 22 anni entrò in convento ad Assisi. Compì gli studi teologici a Firenze e, ordinato sacerdote, il 13 giugno 1419 tenne la prima predica in onore di S. Antonio. Carattere austero e volitivo, pieno di zelo e di ardore, si diede subito all’apostolato cominciando dalla Regione natia. A Macerata, durante la predica, guarì un fanciullo malato; altro miracolo fece ad Ancona, invocando il nome di Gesù. Correvano tempi burrascosi per l’Italia e per la Sede Apostolica. Le fazioni politiche dilaniavano le città, lo scisma di Occidente e la setta dei fraticelli avevano portato conseguenze deleterie nelle Marche, Toscana, Umbria; egli con S. Bernardino da Siena, e S. Giovanni da Capistrano, costituisce la “triade” dei tre campioni cui tanto deve la religione e la stessa civiltà occidentale.

     Infaticabile apostolo, nel 1422 è a Venezia; l’anno dopo a Cascia. A Macerata nel 1426 predica a 60.000 persone. Durante tale predica, un sordomuto riacquista la parola. Eccolo poi in missione a Fabriano, a Todi, all’Aquila dove lo troviamo quasi misteriosamente in tempo per rivedere S. Bernardino da Siena, prima che venisse sepolto; il santo infatti, mentre predicava a Todi, ebbe la visione che S. Bernardino stava morendo e partì immediatamente per l’Aquila appena in tempo per vedere la salma di S. Bernardino. Fu a Rieti, Terni, Spoleto, Foligno, Camerino, Cingoli, Osimo, S. Severino, Ancona, Sirolo (ove stette “parichi misci” = parecchi mesi), Gubbio, S. Ginesio, Sarnano, S. Elpidio, Verona, Pavia, Mantova, Cremona. Fu consigliere del Doge di Venezia, per invito di Paolo III. Predisse il pontificato a Sisto IV che lo nominò presidente del Capitolo degli Osservanti all’Aquila. Fu parecchie volte a Fermo dove predicò con frutto e con molte conversioni e si adoperò a pacificare Fermani ed Ascolani. Nel 1450 è a Roma per la canonizzazione di S. Bernardino da Siena. Torna poi ad Ascoli; si reca poi a predicare a Milano dove converte 36 meretrici ed elude con la fuga le decisioni del duca, del Clero e del popolo milanese, che lo vogliono Arcivescovo della città.

     Infatti, mentre predicava la quaresima, moriva il vescovo di Milano. Si recò a Sirolo, di nuovo a Fermo, Farneto, e Perugia. Svolse delicate missioni in Austria, Ungheria, Bosnia, Prussia, Danimarca, Polonia, Germania, Svizzera e voleva andare persino in Islanda. Se si pensa alle difficolta di trasporto del tempo, si vede subito quale poliedrica attività svolse S. Giacomo. Quando si recò a Napoli, partì da Fermo su di un carretto trainato da cavalli e percorse tutto il tragitto per zone impervie e strade che non erano certamente quelle di oggi, asfaltate e diritte. Fu consigliere e amico di 7 Papi: Martino V (+1431), Eugenio IV (+1447), Nicolò V (+1455), Callisto III (+1458), Pio II (+1464), Paolo II (+1471) e Sisto IV (+1484) a cui aveva predetto l’elezione a Sommo Pontefice. A distanza di cinque secoli dalla sua morte, avvenuta a Napoli (dove è sepolto) nel 1476, la figura di S. Giacomo della Marca torreggia e si impone sempre più. Non fu soltanto un grande santo, ma un dotto umanista ed un valido sociologo.

     In tempi difficili, seppe fondare ed arricchire a Monteprandone una biblioteca cospicua e preziosa. Erano ben 181 codici, ora in parte dispersi e in parte conservati presso il Comune di Monteprandone. Divulgò e fece conoscere la Divina Commedia citandola spesso, quan¬do ciò poteva sembrare volgare e di cattivo gusto. Si pensi che alcuni umanisti del tempo asserivano che con i fogli della Divina Commedia ci si potevano involtare salumi e speziere. Fu uno dei pionieri della socialità. In tempi in cui l’usura (specie degli Ebrei) e lo strozzinaggio paralizzavano l’economia di intere popolazioni e città che per sopravvivere dovevano svendere i loro beni. Istituì i Monti di Pietà, dove si potevano impegnare ad un tasso ragionevole e basso i propri beni. Il Monte di Pietà di Ascoli, fondato nel 1458 fu il primo Monte di Pietà istituito in Italia e sorse per interessamento di S. Giacomo della Marca.

Anno 1464 – Il viaggio di Pio II Enea Piccolomini morì dopo aver visto le galee

     Era partito da Roma il 18 giugno 1464; vi ritornò cadavere nel mese di agosto successivo. Aveva avuto un presentimento nel salutare l’eterna città. “Addio Roma, non mi vedrai più vivo”. In Ancona, cominciavano a radunarsi schiere di “crociati”, provenienti da ogni parte d’Europa. Era però un raduno disordinato, un insieme di volontari dediti all’avventura, senza mezzi, e senza conoscere le conseguenze dell’impresa.

     Pio II, o meglio Enea Silvio Piccolomini (è di lui che si parla ). pur malato e spossato dalle fatiche, aveva intrapreso il viaggio. Gli premeva recarsi in Ancona, per imbarcarsi sulle galee cristiane e partire in crociata contro i Turchi. Dopo un viaggio faticosissimo attraverso Terni. Spoleto, Assisi, Fabriano e Loreto, Enea Silvio Piccolomini giunge in Ancona: è il 19 luglio 1464. Viene alloggiato nel palazzo del Vescovo, vicino alla Cattedrale di S. Ciriaco, dove un.tempo sorgeva il tempio di Venere descritto anche da Giovenale (quam Dorica sustinet Ancon ). La notizia del viaggio si era subito diffusa in tutta la Marca d’Ancona. Nelle delibere consiliari di Fermo relative a tale anno, si legge del fervore di preparativi, di doni da offrire al Pontefice, di commissioni che sarebbero andate ad ossequiarlo, di archi, festoni e festeggiamenti da farsi per una eventuale visita papale nella città del Girfalco. Su tutto e su tutti dominava il desiderio di offrire al Papa il più possibile, per la crociata contro i Turchi.

     Ma Pio II era seriamente ammalato; lo sosteneva sì il suo spirito combattivo ed intraprendente, però alla malattia si aggiungeva la delusione per i mancati aiuti di Firenze, di Milano e soprattutto di Venezia. A quest’ultima interessava più l’espansione del suo dominio, che la lotta per la religione. Alla fine, il 12 agosto vengono nel porto di Ancona le sospirate galee veneziane. Pio II si rincuora: le osserva schierate nel porto dal suo letto. Dopo due giorni muore. Il 15, giorno dell’Assunta, viene esposto nel Duomo di S. Ciriaco il corpo, visitato da folle di fedeli; il 18 la salma riparte per Roma, mentre i precordi restano nella Cattedrale di S. Ciriaco, dove vennero conservati fino alla seconda guerra mondiale. Durante i bombardamenti aereo-navali che semidistrussero tale cattedrale, andarono miseramente dispersi. Il Doge di Venezia con le galee ripartì anch’egli il giorno 18, mentre i Cardinali al seguito di Pio II seguirono la salma a Roma e si riunirono subito per il nuovo conclave. Pio II fu uno dei tre Papi che morirono in terra marchigiana: Clemente II, morto nel 1047 nei pressi di Pesaro poi riportato a Bamberga (Germania); Pio II; mentre nel 1417, a Recanati, era morto il veneziano Gregorio XII, che è tuttora sepolto in tale cittadina.

     In questi giorni ricorrono i 525 anni, cioè cinque secoli ed un quarto, della scomparsa del grande Papa umanista, vindice dei diritti della cattolicità.

Anno 1467- Un’opera di Lattanzio Firmano tra iprimi quattro libri stampati in Italia           

     Ne hanno parlato Tacito e Plinio, ma è conosciuto in tutto il mondo per via di Gina Lollobrigida, che vi è nata nel 1928 e per via del monastero, che Papa Leone IX (1051) definì “capo dei monasteri di tutta Italia”, così come S. Giovanni in Laterano è il “capo e la madre di tutte le chiese del mondo”.

     Subiaco (è di tale località che parliamo) prende il nome da sub Lacum sotto il lago. Al tempo dei romani dimorò nella zona, Nerone, il quale aveva fatto sbarrare il fiume Aniene, costituendo due laghi; sulla riva destra del primo, S. Benedetto da Norcia fondò un monastero e poi altri undici. Mentre questi undici andarono distrutti dalle incursioni saracene (non dei Longobardi come qualcuno ha sostenuto) il primo monastero fiorì e salì in fama. Nel 529 S. Benedetto si trasferì a Montecassino, dove poi morì e vi è sepolto con la sorella Scolastica.

     Ma a Subiaco dove permangono i resti ed i ruderi della sontuosa villa di Nerone, nel 1464, anno in cui moriva in Ancona un grande umanista, Papa Pio II, a Subiaco, dicevamo, nel convento benedettino, vennero stampati i primi libri apparsi in Italia. Due chierici: Arnoldo Pannartz e Corrado Sweynheim, profughi dal saccheggio di Magonza (1463) erano venuti in Italia e, su invito del Cardinale Torquemada, fondarono nel monastero benedettino la prima tipografia. Erano, i loro, i caratteri nobili, eleganti; successivamente belli come quelli qui usati, non se ne videro più. Quattro furono i libri qui stampati: il Donatus, stampato in 300 esemplari; il De Oratore di Cicerone (copie 275); De Civitate Dei di S. Agostino in 275 esemplari stampati il 12-6-1467; De divinis institutionibus di Lattanzio Firmano. Questo volume, è il primo libro apparso in Italia con l’indicazione della data e del luogo di stampa: Subiaco, 29 ottobre 1465.

     Lattanzio, che molti ritengono africano, ha origini fermane. Detto da Pico della Mirandola “il Cicerone cristiano”, scrisse opere apologetiche fra cui il citato De divinis Institutionibus (delle divine istituzioni) dove tratta dell’amore verso il prossimo e della giustizia; De opificio Dei in cui loda la bellezza dell’organismo umano; De ira Dei, apologia della giustizia divina. La componente africana della sua vita (come dottamente è stato documentato nel volume Apparato alla nuova edizione delle opere di Lattanzio, Roma 1751 per i tipi di Botili e Bacchelli e cum permissu Superiorum), è dovuta al fatto che egli si è recato “laggiù” persfuggire alla persecuzione di Diocleziano e per “risciacquare” il suo latino, inquinato dalle invasioni, anche linguistiche, dei barbari.

Nell’opera stampata a Subiaco è detto chiaramente Lactantius firmanus (non firmianus). Basta farsi aprire la cassaforte dove tali libri sono conservati; se per motivi di studio, il bibliotecario, dottissimo frate benedettino, vi mostrerà tale gioiello a stampa e si leggerà chiaramente firmanus. E così tra i primi quattro libri che videro la luce in Italia nel frontespizio a tutta pagina (cm.21,5xl3) il volume del nostro concittadino Lattanzio Firmano ha l’indiscusso pregio di essere il primo libro stampato in Italia con l’indicazione della data e del luogo di edizione,

cioè: Subiaco 29 ottobre 1464.

 (1) Oggi gli esemplari superstiti sono: 3 del De Oratore; 15 De Civitate Dei; 16 De Divinis Institutionibus del nostro Lattanzio.

Anno 1467 – Tangentopoli prima e dopo Cristo     

    L’ibrido neologismo tangentopoli è divenuto famoso ed usatissimo, tanto da superare l’altrettanto ibrido vocabolo burocrazia composto, come è noto, dal greco e dal francese.

     Tangentopoli compare su tutti i giornali e riviste; è il “pasto” dei massmedia e si collega col nome di un giudice doc: il coraggioso Antonio Di Pietro.

     Questi ha avuto a che fare con Fermo, in quanto vi ha studiato all’Istituto Industriale Statale: Montani. Ha avuto pure a che vedere con Porto Sant’Elpidio quando, ancor ragazzo, vi venne fermato e rimandato a Termoli, perché aveva sbagliato treno.

     Il problema o fenomeno delle tangenti è antico quanto il mondo. Ne parla la Bibbia che lo condanna energicamente (Isaia 5,7 – Amos 5,7) e con malinconia afferma: Pecuniae oboediunt omnia: tutto obbedisce al denaro!

     Giovenale, al tempo dei Romani, scriveva che tutto si vende nella Roma dei Cesari (Omnia Romae curri pretìo). A Fermo, negli anni attorno al 1460, tuonò più volte contro il lusso, l’usura e la tangentopoli (anche se allora non si chiamava così), il santo per eccellenza delle Marche: S. Giacomo della Marca.

     Un Papa, il veneziano Pietro Barbo, salito al soglio pontificio col nome di Paolo II (1464-1471), emanò una bolla di scomunica contro coloro che praticavano la tangentopoli: “I doni accecano gli occhi dei savi e pervertono i cuori dei giusti… Non senza nostro travaglio e disgusto, ci è stato riferito che negli anni passati, diversi Rettori e Gover¬natori di Terre e Province soggette alla Santa Romana Chiesa e perfino alcuni Legati a latere…, seguendo un deplorevole abuso, presero da Enti Pubblici e da privati, doni e regali e persino vasi d’oro e di argento, cavalli e viveri, trasgredendo ógni modo e permissione canonica”.

     Così la bolla, che continua: “Tali azioni non solo risultarono dannose a città e Province per le spese sostenute, ma di cattivo esempio e scandalo, poiché quelli, affascinati da questi doni, attendevano più alle grazie private che alla giustizia… Volendo Noi porre fine a tali abusi… con questo perpetuo editto, proibiamo tassativamente che nessun Rettore o Governatore e qualunque officiale della Chiesa Romana, pigli regali o donativi, siano essi di oro o di argento, vestimenti, cavallo od altro, fuorché cibarie o bevande, consumabili nel giro di due giorni. In caso contrario, sia quelli che danno, sia quelli che ricevono, incorreranno ipso facto (= immediatamente) nella scomunica, dalla quale solo il Romano Pontefice potrà assolverli”…

Come si vede, la bolla ammette doni come un paio di capponi, qualche gallina, buon vino; ma non ad esempio il classico prosciutto, in quanto non “consumabile nel giro di due giorni”.

Anno 1473 – L’icona donata da S. Giacomo

     Il vento della perestroika sta abbattendo frontiere e cortine in tutta l’Europa dell’est.     

     Riaffiorano le libertà, tra cui quella religiosa e tornano in auge le icone che, dopo l’ostracismo del periodo staliniano, tornano a sorridere nei luoghi di culto. Le icone (dal grecobizantino, eikòns, immagine sacra) fiorirono in Oriente; nel sec. X vennero importate in Russia. A Roma se ne conservano alcune del IV e VI secolo e celebri sono quella di S. Maria in Trastevere, in Aracoeli, S. Maria del Popolo, etc. Famose anche quelle del Museo di Kiev, del museo del Cairo, di Monte Athos, etc.

    Anche a Fermo nella cattedrale, se ne conserva una donata il 6 maggio 1473 da S. Giacomo della Marca. È una tavola (cm. 46×35) che raffigura la Madonna con la testa inclinata sulla destra; le mani incrociate, tutta chiusa in un manto d’oro, contornata in alto da due lunette sulle quali sono dipinti l’arcangelo Michele e l’arcangelo Gabriele. Una lastra d’argento copre lo spazio libero dalla pittura. Il tutto è racchiuso da una cornice pure d’argento, protetta da prezioso cristallo.

     L’icona, contrariamente a quanto asseriscono le deliberazioni dei Consigli comunali di Fermo che la direbbero dipinta da S. Luca (portavit imam depictam figuram Beatae Mariae Virginis per manus Sancti Lucae) risale al periodo bizantino e venne portata a Roma sottraendola al sacco dell’assedio di Costantinopoli (1453); fu donata al Papa Sisto IV (1471- 1484) che, a sua volta, ne fece dono a Giacomo della Marca, quale attestato di stima per le numerose e valide iniziative a difesa della S. Sede. S. Giacomo della Marca, amicissimo di Fermo (ed altrettanto di Ascoli i fu più volte nella città del Girfalco: nel 1436, nel 1442 (vi predicò la Quaresima con presenze di tre o quattro mila persone ogni giorno); nel 1446. quando compose le liti tra Ascoli e Fermo, etc. Egli donò tale icona sia per ringraziare i Fermani per la raccolta di oltre 6000 ducati per il convento dell’Annunziata (confiscato poi dal Governo di Vittorio Emanuele II) sia per creare un’alternativa ad una pittura di un visionario, Pietro Albanese, che asseriva di vedere la Madonna. Ma i fermani, credettero più al visionario che al santo. Si vuole che, visto l’atteggiamento dei fermani, partisse per Napoli, invitato da quel Re. Malgrado l’invito di Fermo a ritornare, il santo rimase a Napoli dove morì e fu sepolto.

Oggi 6 maggio 1990 ricorrono 517 anni dal dono dell’icona gelosamente conservata e venerata nella Cattedrale di Fermo.

Anno 1480 – Il fondatore di Giulianova eroe italico

     Nell’agosto 1480, i turchi sbarcarono nella penisola salentina con notevoli forze ed assalirono Otranto, espugnandola e trucidando 800 cristiani, rei solo di non voler abiurare alla fede cattolica ed abbracciare quella islamica. Giulio Antonio Acquaviva (è di lui che si parla), al momento del loro sbarco si trovava in Etruria, dove combatteva per il Re d’Aragona. Richiamato in Patria, si recò in Puglia per rintuzzare la tracotanza turca e qui cadde in un combattimento l’8 febbraio 1481. Siamo quindi al “quinto centenario” della morte di questo Grande, che non solo fu prode guerriero, ma è il fondatore di Giulianova!

     Diamo un’occhiata ai documenti ed esattamente ad un diploma del Re di Napoli Ferdinando V d’Aragona!

     Scevro da sovrastrutture, nella sua icastica e lapidaria esposizione, il documento narra, anche se in maniera ampollosa, le gesta di Giulio Antonio (traduciamo dal latino): “Poiché ci vengono in mente i grandi meriti e i servizi di Giulio Acquaviva di Aragona, Duca di Teramo, di Conversano e di S. Flaviano, il quale in ogni tempo, con fedeltà costante, ci ha dato prova di devozione, è doveroso che tributiamo riconoscenza alla memoria sua e della sua famiglia.

Le sue opere, la sua fedeltà, i suoi servizi, sia in pace che in guerra, in patria e fuori, ci furono sempre di grande utilità. Possedeva doti fisiche e morali da superare ogni difficoltà e non vi era impresa che egli, per nostro amore, non intraprendesse e sempre con risultati positivi.

Negli anni passati, avendo noi mandato il nostro figlio Federico come legato all’illustrissimo Carlo, Duca di Borgogna, facendo affidamento nelle peculiari virtù di Giulio, glielo demmo come compagno di viaggio e si comportò così bene in Borgogna, che nostro figlio ne conservò sempre un gratissimo ricordo…”.

Diede prova infatti in quel viaggio, di virtù, modestia, saggezza e integrità morale, e tanto giovò a nostro figlio, che lo giudicammo degno di ogni stima e lode. Scoppiata poi la guerra di Toscana (Etruria), si comportò valorosamente presso Genova e in Etruria. Seguì poi la maledetta e orribile guerra, contro i Turchi, nemici della nostra fede.

     Durante tale guerra, i detti Turchi improvvisamente assaltarono la città di Otranto, non preparata all’aggressione, e la conquistarono. Allora, richiamammo dall’Etruria già pacificata, il predetto Giulio Antonio di Acquaviva.

Egli, grazie alla sua consumata esperienza bellica, prese in mano la situazione, passando al contrattacco, effettuando colpi di mano, elu¬dendo e vanificando i piani strategici dei Turchi, ma soprattutto, com¬battendo valorosamente, impedendo loro molte delle tante rapine e razzie con cui devastavano la zona. Un giorno, mentre i nemici usci¬vano dalla città occupata a scopo di saccheggio, Giulio tolse loro il bottino e li inseguì; ma ad un tratto, i soldati turchi rimasti entro le mura, effettuarono una sortita e malgrado tutto il valore, l’audacia ed il coraggio a difesa della Religione e del Regno, venne sopraffatto ed ucciso” eccetera.

     Il nostro Giulio, venne, come accenna il documento, ucciso anzi decapitato e la sua testa mandata a Costantinopoli e non fu restituita a nessun prezzo ed a nessuna condizione.

     Sembra proprio la rievocazione di quel passo dell’Eneide che racconta la morte di Priamo, il cui corpo decapitato giace sulla spiaggia.

Jacet ingens litore truncus / avulsumque umeris et sine nomine corpus. (Aen. II 556/557).

     E adesso giace / tronco immane sul lido con la testa / staccata dagli omeri e senza nome il corpo.

     Ma riportiamoci alla strage. Era l’alba del 29 luglio 1480 e la flotta ottomana, comandata da Gedik Ahmed Pascià, incrociava al largo, pronta a rovesciare sulla penisola salentina, ma in modo speciale su Otranto, le orde turche.

Non disponendo di navi a difesa, gli Otrantini si asseragliarono entro le mura, pronti a resistere o a morire.

I Turchi sbarcano, circondano la città e a gran voce chiedono agli Otrantini di arrendersi, inneggiando a Maometto e deridendo gli “infedeli”. Gli assediati rispondono di essere pronti ad ogni evento ed a morire, se occorre, per la Fede. Comincia l’assedio; le truppe aragonesi, a presidio, alle prime avvisaglie, se la svignano. Gli Otrantini, impavidi, per 15 giorni sostengono gli assalti turchi. Questi ultimi però, dopo furiosi combattimenti che costarono la vita a molti difensori, hanno il sopravvento e dilagano in città, prendendo di mira la Cattedrale dove si erano rifugiati molti degli abitanti. Urla selvagge salgono al cielo; ne rimbombano le volte della Cattedrale normanna. Eccoli, irrompono nel tempio ed uccidono per primo il vescovo, indi il clero ed i fedeli. La strage dura fino a tarda sera. Dall’inizio dell’assedio al momento attuale dodicimila sono i caduti a difesa di Otranto assediata.

II giorno 12 agosto, Ahmed Pascià ordina che i superstiti fatti schiavi vengano portati al suo cospetto. Sfilano davanti a lui legati a gruppi! Tramite un rinnegato che funge da interprete, si pone loro l’aut aut: o rinunciare alla fede e si ha salva la vita o vi sarà per tutti la decapitazione. La risposta è concorde ed unanime. Nessuna abiura! Allora a gruppi di 50, i prigionieri vengono condotti sul colle chiamato della Minerva ed in ottocento subiscono il martirio, venendo decapitati dalle scimitarre turche. Il Pascià vuole che i loro cadaveri giacciano insepolti sulla collina del Martirio.

     Lì dopo un anno, vennero ritrovati dalle truppe inviate a liberare Otranto. Queste (il cui primo contingente è composto di 1500 uomini) sono comandate da Giulio Antonio Acquaviva, che appunto muore, decapitato mentre combatte contro gli invasori.

     Ma chi è questo Giulio Antonio Acquaviva, comandante delle truppe che accorrono a liberare Otranto? Figlio di Giosia, 5° duca di Atri, amico di Filippo Maria Visconti, successe nel 1452 al padre nei titoli e nei feudi, che ampliò notevolmente dopo il matrimonio con Caterina Orsini del Balzo, figlia del Principe di Taranto, matrimonio celebrato l’11 aprile 1456. Sostenne la politica del suocero; fece parte delle congiure dei baroni, sconfiggendo presso il suo feudo di S. Flaviano (odierna Giulianova) le truppe del re. Era il 22 luglio 1460!

     Ma la sua vittoria venne “mutilata” dai soldati di Giorgio Castriota Scandemberg. Il nostro passò poi all’assedio di Troia (Foggia) e quindi a quello di Andria. Quest’ultima venne conquistata; ma a Troia venne sconfitto. Siamo nel 1462.

     L’anno dopo muore il suocero Giovanni Antonio Orsini del Balzo, animatore della rivolta, ed egli, nel 1464, passa dalla parte del Re Ferrante, al quale si mantenne fedele fino alla morte. Ferrante, in premio, gli restituisce Teramo ed .Atri, già tolte a Giosia e gli conferi¬sce incarichi di fiducia: quello di accompagnatore di Eleonora d’Aragona, che andava sposa in Ferrara ad Ercole d’Este e l’anno dopo, cioè nel 1474, quello di accompagnatore di Federico d’Aragona, che si reca in Borgogna come abbiamo visto, per chiedere in sposa la figlia di Carlo il Temerario, Maria.

     Re Ferrante, conosciuto il valore e la bravura di Giulio Antonio, lo mise a capo di un contingente di truppa inviate dal suddetto Re a Genova, in occasione della rivolta dei Genovesi contro gli Sforza. Discese quindi in Toscana con Roberto Sanseverino, combattendo a Pisa e aiutando i cittadini di Siena, che si erano ribellati a Firenze. Tornato a Napoli, ebbe dal Re il privilegio di unire al suo cognome quello degli Aragona (quod in perpetuum sitis et sint de domo et de prosapia de Aragonia).

     Dopo la strage di Otranto, fu mandato, al comando di 1500 uomini, a recuperare la città e qui, come gli 800 martiri, dopo aver combattuto e resistito a preponderanti forze nemiche, venne ucciso e decapitato. Il suo corpo venne successivamente deposto nel sepolcro costruito per lui a S. Maria dell’Isola non molto distante da Conversano.

     Il sepolcro monumentale è tuttora esistente, anche se con marcati segni di fatiscenza. Alto m. 8,20 largo 4,25, ornato dalle quattro virtù cardinali simboleggiate da cariatidi, ha nel centro una lapide che rievoca la morte gloriosa di Giulio Antonio Acquaviva:

D.O.M.

IULIUS Antonius de Aquaviva

Hadriae Dux et Conversarli Comes

Summam inter milites gloriam

Sudore et sanguine assequutus

Totius demum exercitus

Reg. Neap. Dux

Contra Turcam Christiani

Nominis Hostem Italiae Imperio

Inhiantem apud Hydruntum

Fortiter dimicans occubuit

VI Idus Febr MCCCCLXXXI

Militari coeleste(m) corona(m)

(adeptus)

(A Dio Ottimo e Massimo / Giulio Antonio Acquaviva Duca di Atri e Conte di Conversano / il quale, conseguito il culmine della glo¬ria / militare con sudore e sangue, / fu poi comandante supremo dell’e¬sercito / del Re di Napoli. Combattendo valorosamente presso Otranto contro i turchi, nemici del nome cristiano e avidi del dominio dell’Italia, cadde l’8 Febbraio 1481, conseguendo, con la militare, la corona celeste).

     Al centro giacciono nel sonno della morte Giulio Antonio e Caterina Orsini del Balzo, vestiti nel nero saio dei terziari francescani, protetti da un drappeggio cuspidato.   

     All’intorno, tutti, angeli e statue di S. Antonio da Padova e di S. Francesco. Il mausoleo è opera di Nuzio Barba (non Giulio Barba) come asserisce il Dizionario Biografico degli Italiani, edito dal Ist. Treccani, Roma 1971 voi. I, pag. 181.

     Ma quando Giulio Antonio Acquaviva ha fondato, o meglio, rifondato Giulianova? “La terra di S. Flaviano (narra Nicola Palma nella storia della Città e Diocesi di Teramo, ivi, terza edizione voi. II pag. 270), era quasi disfatta per effetto dei disastri di guerra sofferti e dell’aria malsana. Giulio Antonio Acquaviva che per i suoi titoli pren¬deva quello di Conte di S. Flaviano… si accinse a rifabbricarla in sito migliore. Trascelta una deliziosa eminenza… quasi ad egual distanza tra Salino e Tordino, ivi edificò il nuovo S. Flaviano, appellato con ragione Giulia e Giulia Nuova e vi introdusse gli abitanti della vecchia terra”. La data di tale fondazione è presumibilmente il 1470.

     Re Ferdinando non solo autorizzò il trasloco, ma donò 200 carri di grano e accordò privilegi e franchigie alla città.

     Il Bartolomei ci narra che la nuova città era in un quadrilatero recinto di forti mura a scarpa e di fossati con otto torri rotonde. “Nel centro di tale quadrilatero, basò il Tempio del Signore, e Tempio veramente può dirsi l’ardita e immensa cupola che al Sacro Venerando Culto si addisse… il lanternino della sua Cupola, vista per ogni dove dell’Adriatico, che le serve da specchio, sembra essere destinato pe’ naviganti, siccom’era il tempio della fortuna a Preneste”, così nel volume sulla Nobilissima Famiglia Acquaviva, Ascoli 1849, pag. 47.

     Il fondatore di Giulianova (che Leandro Alberti nella “Descrizione d’Italia” e il S. Nazzaro reputano un semi Dio ponendolo tra gli eroi italici  (Hic age te laudesque tuas fortissime Juli / Non sileam, et valida proelia gesta manu – Quem titulis Aquiviva domus perlustribus omat / Mortalesque Inter Semideos locat / Et jam militiae moles tibi creditur omnis / Omnia sub leges allicis ipse tuas) da cinque secoli (l’8 febbraio 1981 ricorreva il 5° centenario della morte) dorme il sonno dei giusti nella Chiesa di S. Maria dellTsola, con accanto la consorte. È li nel monumento cui abbiamo accennato!

     Che qualche giuliese lo ricordi e ricordi ai cittadini di oggi quel grande di ieri! Un fiore, un ricordo non disdirebbe. Rimarrà la città da Lui fondata sorda all’invito? Nessuno lo commemorerà? “Exoriare ali- quis” (Eneide, IV, 25) e porti colà un fiore, un pensiero, un ricordo! E ricordi al “Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola” Colui che Sannazzaro reputò addirittura un semi-Dio.

Anno 484 – I Fermani buttano dalla finestra il Vescovo Capranica

     “Prima ch’ero Enea / nessuno mi volea / Or che mi chiamo Pio / Tutti mi dicon zio /”.

     Così argutamente Enea Silvio Piccolomini, poi Pio II, Papa dal 1458 al 1464, morto in Ancona il giorno dell’Assunta del 1464 allorché, vecchio e malato, vi si era recato per assistere alla partenza dell’esercito crociato nella guerra contro i Turchi.

     Pio II aveva un nipote, figlio della sorella Laudomia (in tutto aveva avuto 17 fratelli e sorelle). Lo zio gli diede il suo cognome e lo stemma gentilizio e lo creò cardinale. Gli affidò importanti incarichi di curia e nel 1483 ebbe l’incarico di Amministratore Apostolico di Fermo. Doveva sostituire il Vescovo Giovanni Battista Capranica che fu Vescovo di Fermo dal 1478 al 1484. Ma era inviso ai fermani che più volte si recarono dal Papa per farlo rimuovere dalla sede. Capranica a differenza di altri Vescovi dello stesso cognome, non era uno stinco di santo. Durante la Quaresima del 1484 i fermani lo uccisero, buttandolo da una finestra. Francesco Piccolomini subentrò all’ucciso.      Giunse come angelo liberatore; rinverdì la gloria di Papa Giovanni XVII, nativo di Rapa- gnano. Potenziò la Fiera di S. Claudio a Corridonia; ebbe a far fronte al figlio del Papa, Cesare Borgia. Ma improvvisamente nel 1503 il Papa in carica Alessandro VI, muore. I Cardinali si radunano in conclave ed eleggono Papa il nostro Amministratore Apostolico Francesco Piccolomini. Egli in onore ed a ricordo dello zio assume il nome di Pio III. Que¬sti con Sisto V, sono i due Papi espressi dalla sede vescovile di Fermo.

     Abbiamo visto il cognome Capranica. Fermo ebbe una serie di Vescovi Capranica. Uno, il primo della serie, Domenico Capranica fu fondatore dell’Almo Collegio Capranica, da cui uscirono (ed escono) prelati e cardinali. Inizialmente si chiamava la Sapienza Fermana.

Anno 1489 – Un ballo negato

     Tutto si svolse in agosto: la nascita, la battaglia di Gavinana, l’uccisione per mano di Fabrizio Maramaldo. È di Francesco Ferrucci che parliamo, l’eroe fiorentino vigliaccamente ucciso dopo la battaglia di Gavinana del 3 agosto 1530. “Tu uccidi un uomo morto!” risuona nei secoli, anche se accreditati storici sostengono quello della toscana brevità “Tu darai a un morto!”.

     Nato il 14 agosto 1489, da poco si è compiuto il quinto secolo della nascita, senza che nessuno se ne sia ricordato; Francesco Ferrucci in un primo momento abbracciò la carriera militare: vissuto al tempo del Sa-vonarola, ne risentì l’influsso, fece pratica di “mercatura” e fu podestà in diversi luoghi: a Lanciano (1519); a Campi (1523) e Radda (1527), e, l’anno seguente, fu mandato come “pagatore” con le Bande Nere in aiuto di Lautrec, che si recava a combattere nel Regno di Napoli (Lautrec morirà a Napoli di peste il giorno del trentanovesimo compleanno di Ferrucci). L’esercito del Lautrec, anziché passare attraverso il Lazio, attraversò il Tronto, confine tra lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli.

     Fatto prigioniero a Napoli e finita la guerra, Ferrucci tornò a Firenze. Dopo varie vicende che lo vedono sempre acerrimo difensore della sua città, lo troviamo eletto a supremo difensore della libertà di Firenze, contro gli imperiali, fino allo scontro alla Gavinana, dove in un primo momento ebbe la meglio tanto che l’Orange cadde ucciso.     

     Sopravvenute poi nuove truppe, facilitate anche dal tradimento di Malatesta

Bagioni, fu accerchiato e catturato. Condotto alla presenza di Fabrizio Maramaldo, fu da questi ucciso. “Chi dice gli ficcò la spada, chi dice un pugnale, chi dice nel petto, chi nella gola” (B. Varchi, lib. XI Storia fiorentina).

     Nicola Palma (Storia della Città e Diocesi di Teramo, ivi 1832) narra del suo breve soggiorno dalle nostre parti. Giuseppe Fabiani (Ascoli nel ’500, voi. 2) parla di discendenti del Ferrucci “eroe di Gavinana” in Ascoli, dove nella chiesa di S. Pietro Martire, si legge un’iscrizione funebre di Domenico Ferrucci (e nobili Ferruciorum fiorentina Stirpe oriundo). Anche Massimo d’Azeglio accenna alle relazioni tra Francesco Ferrucci ed il Piceno nell’opera: Nicolò de Lapi ovvero Palleschi e Piagnoni.

     Il suo uccisore Maramaldo venne dalle nostre parti; fu in Offida (allora dipendente da Fermo) alla testa di tremila fanti. Con “3000 peditum venturus in territorio offidano” si legge nelle Riformanze del Comune di Fermo. Si dispone del modo et ordine parandi pedites et resistendi ciò del modo di arruolare i fanti e preparare la difesa sia di Fermo (aggiunge la delibera) sia del Comitato per fronteggiare ogni eve¬nienza ed i custodi delle porte dormono vicino ad esse (et custodes dormiunt adportas).

     Si decide pure di proteggere S. Benedetto (del Tronto) allora dello Stato Fermano e munire la rocca con armi e munizioni, (Castrum S. Benedicti. .. subsidio et arcem munitionibus…). Ad Acquaviva vengono alloggiati circa mille fanti.

Nel Piceno, Fabrizio Maramaldo fu accolto con freddezza. Una dama gli negò persino un ballo per il suo vigliacco comportamento contro il Ferrucci, Fermo del resto era pronta ad affrontarlo. A Giacomo Brancadoro che aveva avvisato Fermo dell’approssimarsi dell’uccisore di Francesco Ferrucci, Fermo risponde che ha già preso le opportune misure e per la difesa della città e per quella delle località di confine come Acquaviva, S. Benedetto, Offida, etc.

Quest’anno (come detto, il 14 agosto) si sono compiuti cinque secoli dalla nascita di Ferrucci. Nessuno, a quanto ci consta, si è mosso a commemorare tale data.

Anno 1489 – Un pornografo del quattrocento – Pacifico Massimi autore di Hecatelegium, elegante e forbita opera che fece impazzire di gioia principi, e prelati

     Pacifico Massimi, un umanista ascolano che nel 1489 (sono passati 400 anni e nessuno se ne è ricordato!) pubblicò a Firenze un poema dal titolo Hecatelegium (cento novelle) ora riportato in auge in Francia. Tratta di argomenti eccentrici, talvolta porno, ma in modo speciale si dà alla coprolalia; si scaglia contro le donne, si professa agnostico e, con un anticipo di quattro secoli, tratta argomenti di attualità come la pace, gli invertiti, i soprusi dei potenti, l’amore, l’amante, i gay, gli yuppies, ma il tutto redatto in latino classico, elegante, forbito e polito, che il li¬bro in parola appena uscito, costituì il best-seller del tempo. Principi, cardinali, prelati, fecero a gara per accaparrarselo, anzi – come riporta Machiavelli – l’Autore fu protetto da alti prelati contro zelanti “catoni censori” che altrimenti gli avrebbero fatto fare la fine del concittadino Cecco d’Ascoli.

     Lorenzo de’ Medici e il Vescovo di Troia, Ferdinando Pandolfini portarono il libro alle stelle! Gli argomenti, scurrili, mordaci, spesso osceni, lo fanno assomigliare talvolta a Ovidio (dà infatti precetti sul modo di amare), talvolta a Marziale (è salace e pungente come i suoi Epigrammi), talvolta all’Arte Poetica di Orazio perché dà norme in tal senso. Ma da ogni libro (l’opera è divisa in 5 elegie inedite) traspare e traspira il suo amore per Ascoli. Ripete appena può: “opera di Pacifico Massimi poeta ascolano!”. Pacifici Maximi Poetae Asculani Hecatelegii liber primus etc.

     Quando parte da Ascoli, si rivolge alla città con accenti di “Addio monti sorgenti dalle acque”: “Addio Ascoli, torri, addio! Addio ponti. Addio Tronto dalle acque salutari e tu Campo Parignano, luogo amato della gioventù, divertimento e delizia. Non sono adatto per la guerra, an¬che il mio nome Pacifico lo indica...”.

     Povero Pacifico, anima mite come tutti i poeti!

     L’opera è dedicata al Cardinale Francesco Soderini, com’era costume nel periodo dell’Umanesimo e nonostante quanto trattato, si chiude con l’augurio che il libro lo possa far ricordare nei secoli e con un invocazione alla Madonna… Del resto tratta, come detto, di argomenti non certo per sale parrocchiali, ma non fu un libertino: “Lasciva nobis pagina sed proba vita est” avrebbe commentato Marziale; lasciva è la pagina che ho scritto ma la vita è onesta.

    Più efficacemente. Gioacchino Belli avrebbe commentato: “Scastagnamo a parlà. ma aramo dritto”.

Anno 1490 – Un portolano di cinque secoli or sono

     Quando il 6 novembre 1490 Bernardino Rizo da Novara stampava a Venezia cum diligentia, un portolano divenuto famoso e prezioso, non pensava certo che dopo cinque secoli ed un lustro, qualcuno se ne fosse ancora occupato.

Il “portolano” è un libro che descrive le caratteristiche di una costa sotto l’aspetto idrografico, nautico, meteorologico, idrografico, fornendo notizie sui porti, sugli ancoraggi, sui ridossi, punti pericolosi, etc. A Fermo, nella Biblioteca Comunale si conservano portolani e carte nautiche di valore. Le Marche sono note per geografi e navigatori che hanno compilato portolani famosi che, non dimentichiamolo, sono tanto più attendibili quando sono redatti da gente di mare, che da geografi seduti a tavolino.

     Già nel 1435, quando la stampa non era stata inventata, Grazioso Benincasa, nativo di Ancona (1400 c.), aveva stilato il portolano che cominciava: “Al nome sia deio honipotente iddio (sic!) et dela sua madre madonna santa maria et di tutti li santi ed sante de la cohorte celestiale del paradiso et de messer santo Ciriacho (è il patrono di Ancona ndr)… In questo libro Jo Gracioso beninchasia farò menzione de li porti et luoghi di terre de marina et etiandio de sembianze de ditte terre et memoria de me e ni li quali porti et altri luoghi ne abbia Iddio sempre salui noi tutti altri nauiganti.

Il nostro corregionale precisa poi: “li quali porti et sembianze de terre, non sono tratte niuna de la charta, ma sono tochate chon mano et vegiute cholli ochi..”

     Tale portolano comincia dal “Gholfo di Vinegia” e prosegue lungo la costa adriatica.

     Ma quello che oggi ricordiamo, nell’anniversario plurisecolare, è il portolano di “Bernardino Rizo de Novaria (= Novara) stampator” il quale ha “impresso cum diligentia in la cittade de Venexia” il 6 novembrio 1490 una “analitica descrizione utilissima ai naviganti”. “Questa e (sic! senza accento ndr) una opera necessaria a tutti li naviganti che vano in diverse parte del mondo per la quale tu ti se ammai- strino a cognoscere storie, fundi, colfi, vale, porti, corsi dacqua (sic!) e maree cominciando…”.

     Tale portolano impresso due anni prima della scoperta dell’America quando la stampa in Italia funzionava da appena 26 anni, dice di Fermo: “Fermo e cità e fra terra mia 3 sopra vno monte un chastelo e vedese in mar molto lonzi. Da la cità de Fermo in Anchona mia 40; da Fermo a cità nova, mia 10”.

     Descrivendo la costa a sud di Fermo con inizio da Giulianova (allora S. Fabiano) dice testualmente: “De San Fabian ala fossa del Tron¬to mia 6. Dala fossa del tronto a san benedeto mia 2. Da san benedeto e le grote (= Grottammare) mia (e qui non c’è nessuna indicazione). Poi prosegue “Dale grote a piedaxon (= Pedaso) a marano mia (ed anche qui nulla…).

     Tale portolano, in chiusura, precisa “finito lo libro chiamado portolano composto per uno zentilomo veniciano lo qual ha veduto tute queste parte antiscrite le quali sono utilissime per tuti i nauicanti che voleno sicuramente nauicar con loro auilii in diverse parte del mondo. Laus Deo Amen!…”.

Anno 1491 – Fermo vuole distruggere il Castello di S. Benedetto

     Che S. Benedetto del Tronto sia stato sin dalla sua origine un castello di Fermo, è risaputo. È altrettanto noto che nel 1280 venne salvato dalle truppe fermane e liberato da uno stretto assedio posto dai soldati confederati di Ascoli, Ripatransone e Rizzardo d’Acquaviva. Il castello, già dato alle fiamme, stava per cadere, quando sopraggiunsero i Fermani e gli assedianti se la diedero a gambe. Fermo teneva moltissimo a S.Benedetto; esso faceva parte sin dal secolo VII della sua diocesi; gli Statuti della città editi nel 1507, ma in vigore, manoscritti, sin dal 1380, dedicano rubriche e pagine al Castrum Sancti Benedicti precedentemente chiamato S. Benedetto in Albula, dal nome del torrente che scorre nei pressi. Un memoriale dei primi del sec. XIV, precisa che non essendovi nello Stato Fermano altri castelli omonimi, il nome doveva essere S. Benedetto senza aggettivi e specificazioni.

     Di recente, abbiamo trovato, inediti, nomi di soldati che Fermo nel 1389 vi mandava per difendere la rocca. Numerose pergamene dei secoli XIII, XIV e XV, parlano dei rapporti tra S. Benedetto e Fermo. Una del 1291, ci parla del porto, delle attrezzature, della dogana e dei relativi proventi. Si badi, ciò è riferito a settecento anni or sono.

     Ma un fatto singolare mostra la “sollecitudine” fermana verso il suo castello: il 17 dicembre 1471, Fermo chiede al Papa di distruggere il castello di S. Benedetto e ricostruirlo in luogo più salubre. A causa delle epidemie, si andava infatti spopolando e nonostante che Fermo invitas¬se famiglie di Imola, di Fano, di Torre di Palme a stabilirsi con vantag¬giose condizioni, il numero degli abitanti diminuiva paurosamente. Non si riusciva a spiegare la causa delle epidemie. Si pensò a qualche occulta maledizione, o a qualche segreta scomunica. Si voleva persino ricorrere al Papa, perché con una sua speciale benedizione togliesse il… maleficio. Alla fine, i Priori (cioè i Governanti) di Fermo, pensando che il tutto fosse dovuto alle esalazioni mefitiche degli acquitrini della sotto¬stante spiaggia (allora ben diversa dalla attuale), decisero di abbattere il castello e ricostruirlo, come detto, in luogo più salubre.

     Con mirabile intuizione strategica, decidevano però di lasciare intatta la rocca (relicta tamen arce) a difesa della zona marittima. Ma non era facile distruggere un castello: occorreva il benestare del pontefice che, in quel tempo, era Innocenzo VIII. Fermo si rivolse dunque al Papa, che, ricevuta la richiesta, demandò al Governatore della Marca il disbrigo della faccenda. “Venerabile fratello… I diletti figli della nostra città di Fermo, vorrebbero distruggere il castello di S. Benedetto, posto sul litorale adriatico a motivo dell’aria mefitica, lasciando la rocca a difesa di quella zona marittima e ricostruirlo in luogo più salubre provve¬dendo a trasferire colà le famiglie”. Così il breve di Innocenzo VIII che prosegue: “Noi, non essendo informati sulla natura del luogo, demandiamo a te la cosa e ti preghiamo di esaminare la questione e la località” etc. Il breve chiude con la data: 17 dicembre 1491.

     Non risulta che la progettata distruzione venisse attuata. San Benedetto continuò, con la vicina Acquaviva, ad essere il baluardo di Fermo verso lo Stato di Ascoli e a dipendere in tutto e per tutto dalla città del Girfalco. Nella corrispondenza e nelle istanze, continuò a chiamare i Priori di Férmo “nostri padri e padroni”. Anche per i matrimoni si doveva chiedere il permesso a Fermo, che concedeva ai sambenedettesi di impalmare graziose pulzelle di qualsiasi località dell’orbe terracqueo, purché non fossero di Ascoli e del suo distretto. E tale divieto veniva scrupolosamente osservato, senza le minacce dei bravi di manzoniana memoria.

Anno 1493 – La lettera di Colombo

     Oggi ricorrono 501 anni dalla scoperta dell’America e cinque secoli esatti dalla relazione del viaggio di Colombo, relazione diretta ai reali di Spagna.

Di essa, in tutto il mondo, esistono soltanto sei esemplari. L’originale, scritto da Colombo a bordo della sua caravella, è diretto a Gabriele Sanchis, regio tesoriere. È redatto in lingua spagnola. Datato l2 marzo 1433, fu tradotto in latino da Leandro de Cosco nello stesso anno. La editio princeps avvenne a Roma per opera del tipografo tedesco Stefano Plank, col titolo: Epistola Christofori Colon cui aetas nostra multum debet de insulis Indie supra Gangem nuper inventis, cioè: Lettera di Cristoforo Colombo, cui molto deve la nostra epoca, relativa alle isole dell’India sopra il Gange, da poco scoperte.

      Come si rileva, dopo sei mesi dalla scoperta si pensava ancora alle “Indie” e non al Nuovo Mondo. Un esemplare di questa lettera, è conservata nella Biblioteca Comunale di Fermo (la settima in Italia per importanza). Detto esemplare fu rinvenuto dal bibliotecario del tempo Prof. Raffaelli nel 1877, insieme ad altri due opuscoli stampati nella stessa tipografia di Plank, eguali alla nostra lettera per caratteri, tipo di carta, impaginatura.

     Appena rinvenuta, la lettera fu valutata sui 30 mila franchi del tempo (1877). Più tardi un milionario americano, Lessox, collezionista di memorie su Colombo, offrì, per averla, una somma ingente. Ma senza esito. La lettera fino al 1986 fu conservata gelosamente nella biblioteca fermana, ma in tale anno venne rubata, suscitando enorme scalpore nel mondo dei dotti. Dopo varie peripezie ed a distanza di anni, riapparve presso la Casa di Aste Sotheby di New York, dove era stata messa in vendita per 440.000 dollari, pari a oltre 660 milioni di lire italiane. Ciò comprova il suo grande valore. Ora, grazie all’Arma dei Carabinieri Nucleo Tutela Patrimonio Artistico ed alla Procura della Repubblica del Tribunale di Fermo, è stata ricuperata ed è tornata nella biblioteca di Fermo.

     La lettura di essa costituisce un’affascinante descrizione delle “isole sopra il Gange”.    

     Se ne descrive il panorama, l’orografia, i fiumi, la vegetazione, gli uomini e donne sempre tutti nudi, l’abbondanza di oro scambiato con gli indigeni con pezzetti di vetro, stoviglie rotte e capocchie di spilli; le loro credenze (tutto viene dal cielo, anche gli scopritori), la loro timidezza. Vi si legge che in un’isola chiamata Auau i bambini nascono con la coda (caudati nascuntur). Si parla pure della monogamia dei nativi, a differenza dei loro capi che hanno anche venti mogli; delle spezie, del rame, del cotone, delle varie specie di uccelli etc. Il furto ed il ritorno di tale lettera editio princeps come detto, e primo documento a stampa della relazione di Colombo, ha costituito, anche se indirettamente, motivo di maggior conoscenza di tesori che forse non sappiamo apprezzare adeguatamente.

Anno 1496 – Il promotore del Monte di Pietà di Fermo

Ricorrono nel 1996 testé iniziato, 500 anni dalla morte del Beato Marco da

 Montegallo, un pioniere nella fondazione dei Monti di Pie­tà. Tali Monti avevano

 lo scopo di stroncare l’usura, specie ad opera di ebrei, vizio stigmatizzato anche

da Dantq e creare le premesse per la fondazione dei Monti di Credito su pegno,

antesignani del Monte dei Paschi di Siena e del Banco di Napoli.

L’usura, esistente dall’antichità, sin dall’alto Medioevo, ai giorni nostri è tutt’altro che svanita. Ce lo documentano i mass-media e il’re­cente suicidio: dell’orafo di Pompei.                                                                           

Il giro d’affari dei “cravattari” in Italia, è di 50.000 miliardi annui!

Diffusissima al tempo del Beato Marco, rendeva la vita difficile ai meno abbienti, costretti ad impegnare beni mobili ed immobili per ot­tenere prestiti a tassi di vero strozzinaggio.

Marco da Montegallo ed altri, tra cui Bernardino da Siena, S. Gia­como della Marca, nato a Monteprandone, Bernardino da Feltre (pa­rente di Vittorino) e Domenico da Leonessa,nato da genitori entrambi marchigiani di S. Severino ed altri, decisero allora di fondare i cosid­detti Monti di Pietà, che praticano prestiti ad un tasso irrisorio. Ed ec­co un fiorire di tali istituzioni specie nelle Marche.

Nel 1454 avviene la fondazione di un Monte in Ancona (tasso so­lo 5%) ad opera del Beato Marco.

Tuttavia, tale Monte ebbe vita effimera. Nel 1459 ci è documenta­ta l’erezione del Monte di Pietà di Ascoli (in cui vi è anche l’opera di Marco) che precede di tre anni quello di Perugia, ritenuto a torto il pri­mo sorto in Italia. Sorgono poi Monti un po’ ovunque; Ma il primato del numero e della data di erezione è tutto nostro. Infatti i nostri pre­cedono quelli d’oltralpe: Norimberga 1498; Brouges (1572); Lilla (1601); Parigi (1643); Madrid sec. XVIII. Qui nelle Marche continua­no a nascere quello di Fabriano (1470), quello di Fano (1471), quello di Morrovalle (1475), di Ripatransone (1479), quello di Arcevia (1483), etc. Nel 1478 sorge ufficialmente quello di Fermo, in occasio­ne della venuta in città di frate Marco da Montegallo, qui chiamato dalle autorità comunali per predicare la Quaresima. Egli sollecita il Comune ad attuare l’erezione del Monte, voluto nove anni prima dal Beato Domenico da Leonessa. Marco da Montegallo riordina gli statuti confermati l’8 aprile del 1478 e stabilisce la gratuità del prestito. Ed ora un particolare significativo. Tutti i principali fondatori dei Monti di Pietà furono (anche se taluno per breve tempo) a Fermo; vi fu S. Bernardino da Siena; il Beato Marco da Montegallo, come già visto; più volte vi fu S. Giacomo della Marca; il Beato Domenico da Leo­nessa e il Beato Bernardino da Feltre.

Fermo deve quindi al Beato Marco da Montegallo il suo Monte di Pietà a quel Beato che era medico, umanista, letterato ma soprattutto amante del prossimo e che con Giacomo della Marca e Domenico da  Leonessa costituisce una triade ammirevole.

Speriamo che qualche autorità si ricordi almeno di celebrare e ri­cordare degnamente il mezzo millennio dalla scomparsa del Beato Marco da Montegallo.

Anno 1497 – Ettore Fieramosca combattè nella guerra tra Ascoli e Fermo

     Due sono i colossi di Barletta, quello di bronzo dell’imperatore Eraclio e Ettore Fieramosca, colosso nella storia d’Italia. Veramente Fiera- mosca è nato a Capua ed è concittadino (anche se a distanza di secoli) di Pier delle Vigne le cui chiavi da tempo “serrano e disserrano il cor di Federico”. Pier delle Vigne ebbe a che fare con Fermo che definì la città più importante di tutte le Marche (qui cunctas civitates in Marchia prae- cellebas…) ed a cui indirizzò infuocate lettere perché liberasse il suo amico, il barone Tancredi di Cellino, minacciando, in difetto, l’ira di Federico II. Ma oggi ci interessa il suo concittadino, Ettore Fieramosca (o Ferramosca come si legge in una lettera autografa conservata in Ascoli Piceno). Nome legato alla Disfida di Barletta (ed eternato anche nel romanzo di Massimo D’Azeglio) rinverdì dopo secoli le gesta degli Orazi e Curiazi. Potremmo dire che il tredici fu un numero per lui fortunato. Il giorno 13 febbraio 1503 avviene la disfida; ognuno dei due grup¬pi opposti, italiani e francesi, “l’un contro l’altro armati” è composto di tredici cavalieri. Ecco il gruppo dei nostri: Capitano comandante è il nostro Ettore Fieramosca; gli altri componenti: Fanfulla da Lodi; Giovanni Capaccio di Tagliacozzo; Giovanni Brancaleone e Ettore Giovenale, romani; Francesco Salomone siciliano come Guglielmo Albimonte; Ludovico Annibaie da Terni; Marco Carellario da Napoli; Miele da Troia; Mariano Albignate da Samo; Romanello da Forlì; Riccio da Parma. I tredici francesi sono capitanati da Guy de la Mothe e fra di essi vi è un italiano: Graiano d’Asti. Strano destino che i rinnegati e traditori abbiano il nome che inizia con la “G”: Giuda che tradì Cristo; Gano di Maganza che tradì il paladino Orlando a Roncisvalle; Giunio Bruto traditore di Giulio Cesare, ecc… Abbiamo visto qualche giorno fa che in Offida soggiornò un altro rinnegato, Fabrizio Maramaldo (anche se fa eccezione alla G) Posteggiato ed inviso uccisore di Francesco Ferrucci. Ora registriamo che nel 1497 Offida “ospitò” l’eroe della Disfida, Ettore Fieramosca. Ciò avvenne in uno degli episodi della lotta tra le due rivali Ascoli e Fermo. Astolfo Guiderocchi, con inaudita ferocia si era impadronito di Offida, nota roccaforte di Fermo; si era poi avventato contro Ripatransone e nonostante i ripetuti assalti, non era riuscito ad espugnarla. Scornato, abbandona Offida e cede il comando delle truppe ad Ettore Fieramosca”.

     “… Astolfo Guiderocco era andato a Napoli per aiuto et negozio tanto con quel Re che ottenne, se disse, per soi denari, settanta cavalli e duecento spagnoli e se ne venne volando, e di notte saltò (sic) Ripa, ma essendo avisati ne furono rebuttati e ci lasciò parecchi morti e de feriti gran numero e poi vedendo non far niente ne lasciò Ettore Fieramosca in Offida con cavalli e fanti, e di continuo faceva scaramuccie d’ogni banda”.      

     Così l’anonimo fermano negli Annali. Se vero come è vero che Wellingthon abbia detto che la battaglia di Waterloo fu vinta nei campi di addestramento di Eton (The battle of Waterloo was won in thèplaying fields of Eton) alludendo agli esercizi praticati in esso, chi può negare che le “scaramuccie di Offida” non siano state utili esercitazioni per lo scontro di Barletta? Due, come detto, sono i monumenti importanti di Barletta: quello in bronzo all’imperatore Eraclio e quello che ricorda la battaglia; ma più perenne del bronzo è la fama del nostro Fieramosca che fu in Offida “già piccolo centro dello Stato di Fermo sito a la sinistra del Tronto con mura e bastioni del sec. XIV, noto per S. Maria della Rocca et Palatio comunale et fabrica di merletti et dolciumi appellati funghetti” e, aggiungiamo noi, anche per la presenza nel 1497 dell’eroe Ettore Fieramosca.

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